Cass. pen., I, ud. dep. 04.11.2021, n. 39323
MASSIMA
Si esclude che un isolato valore elevato della scala paranoide, risultante dal test di Millon, non confermato né dall’osservazione clinica né da dati obiettivi, rivesta un decisivo significato psicopatologico. Tale dato, poiché integra un mero tratto della personalità e non, per converso, un vero e proprio disturbo di personalità, non essendo sfociato nel caso concreto in un pensiero delirante, fluido e sistematico, non consente di riconoscere il vizio parziale di mente.
Allorché la condotta delittuosa non dipenda da fattori psicopatologici, bensì da un puro stato emotivo e passionale, la possibilità di riconoscere l’aggravante dei futili motivi soggiace alla verifica preliminare della sussistenza di due requisiti (c.d. metodo bifasico): il primo, oggettivo, consiste nella sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, mentre il secondo, soggettivo, è rappresentato dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è basato su motivi vietati dalla legge, in quanto in parte ripetitivi delle censure già vagliate come motivi di gravame, oltre che generici e rivalutativi.
1.1. Preliminarmente si precisa che ci si trova al cospetto della conferma nei medesimi termini della sentenza di condanna pronunciata in primo grado, cioè ad una cosiddetta “doppia conforme“. Tale costruzione postula che il vizio di motivazione deducibile e censurabile in sede di legittimità sia soltanto quello che – a presidio del devolutum – discende dalla pretermissione dell’esame di temi probatori decisivi, ritualmente indicati come motivi di appello e trascurati in quella sede (Sez. 5, n. 1927 del 20/12/2017, dep. 2018, Petrocelli e altri, Rv. 272324; Sez. 2, n. 10758 del 29/01/2015, Giugliano, Rv. 263129; Sez. 5, n. 2916 del 13/12/2013, dep. 2014, Dall’Agnola, Rv. 257967); o anche manifestamente travisati in entrambi i gradi di giudizio (Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, Rv. 272018). Al di fuori di tali binari, resta precluso il rilievo del vizio di motivazione secondo la nuova espressione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) nel caso di adeguata e logica valutazione conforme nei gradi di merito del medesimo compendio probatorio. Deve altresì ribadirsi che nei casi di doppia conforme, le motivazioni delle sentenze di merito convergono in un apparato motivazionale integrato e danno luogo ad un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2 n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218), che in tali termini deve essere assunto anche nella denuncia dei vizi di legittimità, nei limiti della loro rilevanza. Infine, in ordine alle critiche rivolte alla valutazione di elementi probatori, giova ricordare che trattasi di terreno interdetto alla verifica di legittimità, che può riguardare soltanto il corretto e completo apprezzamento del materiale probatorio sotto il profilo indicato e l’assenza di manifesto travisamento delle prove. E, sul punto, le argomentazioni espresse dalla Corte di appello risultano corrette ed esaustive.
- Ciò premesso, iniziando l’analisi dal motivo che denuncia il mancato riconoscimento del vizio parziale di mente, addebitandolo all’acritica valutazione dei risultati dell’indagine peritale, a loro volta viziati dall’assenza di considerazione per la dinamica criminale del fatto e per gli indicatori di grave patologia della personalità, più che di mero disturbo, deve rilevarsi che in tal modo si postula un apprezzamento di merito della perizia medico-legale, che non risulta allegata al ricorso, così come la consulenza di parte ivi citata, dando perciò luogo ad un vizio di autosufficienza.
2.1. Alla stregua dell’impugnata sentenza, unica fonte utile in questa sede, non è dato rilevare alcun vizio di omissione o di travisamento degli esiti peritali, risultando che la Corte territoriale ha debitamente esaminato la dinamica dell’omicidio (pur non qualificandola con il termine di “criminodinamica”, peraltro equivalente), alla pagina 7, desumendo dall’estrema violenza dell’azione – ricavata dal numero dei colpi inferti alla vittima, dai morsi sull’avambraccio e sul gomito, dalle contusioni al volto e dalla frattura del setto nasale – “la lucidità patognomica tipica di chi ha voluto punire con l’eliminazione fisica colei che continuava a rifiutarlo”. La discussione delle contrapposte valutazioni dei periti e dei consulenti di parte è stata analitica ed ha investito anche il tema del picco di punteggio risultante dal test di Millon, che si è rilevato evidenziare un unico tratto paranoide – superiore alla soglia critica – ma non associato a segni clinici o emersi in sede di intervista: pertanto, si è escluso che tale isolato valore elevato della scala paranoide abbia rivestito un decisivo significato psicopatologico, non essendo confermato dall’osservazione clinica e dai dati obiettivi. Si è, quindi, concluso che tale dato non integra un’infermità o una seminfermità di mente, bensì un tratto della personalità che non è sfociato in un pensiero delirante, fluido e sistematico, tale da integrare un disturbo di personalità paranoidea.
2.2. Così riassunti i contenuti della sentenza più direttamente attinti dalle critiche del ricorso, allo scopo di evidenziare la completa disamina delle tematiche ivi evocate, deve però ribadirsi che l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce una questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Sez. 1, n. 11897 del 18/05/2018, dep. 2019, P., Rv. 276170); tanto più che il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d’ufficio, in difformità da quelle del consulente di parte, non può essere gravato dell’obbligo di fornire, in motivazione, autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica delle prime e dell’erroneità, per converso, delle altre, dovendosi al contrario considerare sufficiente la dimostrazione del fatto che le conclusioni peritali siano state valutate in termini di affidabilità e completezza, e che non siano state ignorate le argomentazioni del consulente (Sez. 6, ord. n. 5749 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258630), come per l’appunto è avvenuto nel caso di specie.
- Il motivo che rivendica l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi è manifestamente infondato e trascura di prendere atto delle diffuse argomentazioni dell’impugnata sentenza sul punto. La sua prospettazione nel ricorso tende a recuperare, sotto questo profilo, il disagio psichico del S., corroborato dal tentato suicidio post crimen patratum, per ricavarne che la gelosia delirante era motivo unico ed assorbente dell’omicidio, che non vi era alcuna concezione proprietaria della moglie, ma esorbitante sofferenza all’idea di perdere la donna amata, c
oacervo di pulsioni che aveva scatenato l’impulso aggressivo.
3.1. La descritta impostazione è tuttavia contraddetta dal ragionamento motivazionale – ancorato alle emergenze fattuali e confermato dagli esiti dell’indagine peritale – che ha condotto la Corte territoriale a concludere che l’uxoricidio era stato determinato non tanto dalla gelosia (invero, il messaggio “Ciao gioia” era stato scoperto sul cellulare della vittima un mese prima), ma soprattutto dalla frustrazione per il fallimento dei tentativi di ricomposizione familiare attuati insistentemente dal S., senza alcun esito, ed in definitiva dal mancato rispetto della volontà di autodeterminazione della M., che aveva deciso di porre fine al matrimonio e, nell’immediato, si era rifiutata di prestarsi ad un rapporto sessuale che il S. pretendeva a suggello della vagheggiata intesa coniugale. In questi termini la motivazione della sentenza, lungi dal risultare assertiva ed incoerente, come afferma il ricorrente, si fonda sui risultati della perizia che aveva segnalato che la condotta delittuosa non dipendeva da fattori psicopatologici, bensì da un mero stato emotivo e passionale. Esclusa, dunque, ogni sfumatura patologica nell’azione del S., l’impulso uxoricida va ricondotto nella dimensione delittuosa ordinaria, sicché non è in alcun modo censurabile la valutazione espressa da entrambi i giudici di merito circa la futilità del motivo che induceva l’uomo ad uccidere la moglie a fronte di una spinta delittuosa lieve ed altrimenti componibile, quale quella del disagio coniugale, affrontata invece con puro istinto criminale e con effetti amplificati dall’uso di cocaina, ritenuta senz’altro fattore di eliminazione delle controspinte all’azione. Incidentalmente deve poi segnalarsi che il riferimento alla “premeditazione condizionata”, che è stato ripreso nel ricorso, non è una elaborazione dei giudici di appello, bensì il richiamo ad una osservazione del locale Procuratore generale che aveva riferito tale figura alla preordinazione dei mezzi (coltello a serramanico) per commettere l’omicidio, ma che nell’ambito dell’analisi della sussistenza del futile motivo appare come una sorta di obiter dictum.
3.2. L’esegesi di legittimità formatasi sul tema del motivo abietto o futile, per omicidi o altri gravi delitti originati da violenza di genere ammantata da gelosia, convalida l’impostazione seguita nell’impugnata sentenza. Già in tempi risalenti si era affermato che, “Alla luce del comune sentire nell’attuale momento storico che attribuisce sempre maggiore rilevanza alla libertà di autodeterminazione, deve ravvisarsi la sussistenza dell’aggravante dei motivi abietti nel caso in cui un omicidio sia compiuto non per ragioni di gelosia collegate ad un sia pur abnorme desiderio di vita in comune, ma sia espressione di spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza, della quale pertanto non può tollerarsi l’insubordinazione” (Sez. 1, n. 9590 del 22/09/1997, Pm e Scarola, Rv. 208773; in termini: Sez. 1, n. 49673 del 01/10/2019, P., Rv. 278082). Si è poi ammesso che, “In tema di circostanze, anche la gelosia può integrare l’aggravante prevista dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 1, che giustifica un giudizio di maggiore riprovevolezza dell’azione e di più accentuata pericolosità dell’agente, per la futilità della spinta motivazionale che ha determinato a commettere il reato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva ritenuto tale aggravante in relazione ad un delitto di lesioni commesso con l’investimento della vittima, rilevando che la condotta risultava del tutto sproporzionata rispetto alla spinta criminosa, individuata nella mancata accettazione della fine di una relazione sentimentale e nell’istinto di conservare un controllo sul partner) (Sez. 5, n. 44319 del 21/05/2019, M., Rv. 276962).
3.3. Anche nel caso in esame, come hanno inteso i giudici di merito congruamente motivando il loro convincimento, si è rimarcata l’oggettiva sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, nonché il dato soggettivo, costituito dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale: tale approccio costituisce corretta applicazione del metodo bifasico che la giurisprudenza di legittimità ha indicato come adeguato alla verifica della sussistenza dell’aggravante in questione (Sez. 5, n. 45138 del 27/06/2019, Vetuschi, Rv. 277641).
- Anche il motivo di censura riguardante la negazione delle circostanze attenuanti generiche è inammissibile in quanto generico e confutativo, riproducendo le stesse doglianze avanzate come motivi di gravame, incurante della risposta oltremodo completa già ottenuta dai giudici di appello. Si ripete che sono stati ritenuti recessivi gli elementi favorevoli indicati dall’imputato nella confessione – ritenuta inutile a fronte di un quadro probatorio assolutamente lampante – e nel suo stato di incensuratezza, elemento neutro per espressa previsione di legge (art. 62 bis c.p., comma 3), al cospetto dei seguenti indici di senso negativo: l’estrema aggressività della condotta; l’atteggiamento possessivo acuito dal libero uso della cocaina. In particolare, si è stigmatizzata l’efferatezza della condotta, culminata nell’accoltellamento brutale ed insistito, con quarantasei fendenti, peraltro alla presenza del figlio della coppia di appena cinque anni (il che astrattamente integra l’aggravante ex art. 61 c.p., n. 11 quinquies). Dopo tale rassegna, risulta superfluo evidenziare che il diniego delle attenuanti generiche risulta più che esaustivamente motivato, rammentando altresì che, “In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione.” (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
- In conclusione, il ricorso è inammissibile, da ciò conseguendo la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila alla Cassa delle Ammende, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., non risultando l’assenza di profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, a tenore della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000. L’imputato deve essere altresì condannato alla rifusione delle spese processuali affrontate dalle parti civili costituite, nelle rispettive qualità, come da liquidazione effettuata nel dispositivo.