Corte costituzionale, sentenza 23 ottobre 2019, n. 221
GUIDA ALLA LETTURA
Si tratta di una pronuncia della Corte che, richiamando la propria precedente giurisprudenza, in “combinato disposto” peraltro con quella Europea, assume costituzionalmente legittimo il divieto per le coppie omosessuali di accedere alla PMA, “procreazione medicalmente assistita”.
Tra i passaggi più rilevanti, si segnala quello onde “… l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, …, di per sé arbitraria o irrazionale. Ciò “… a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali”.
La Corte soggiunge che “… nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto”. Per la Corte dunque, che fa perno sull’art.29 Cost., la disciplina costituzionale della famiglia presuppone “chiaramente”, quale “condizione”, la “diversità di sesso dei componenti della coppia”.
Soffermandosi poi sulle differenze di regime rispetto all’adozione, che la giurisprudenza ormai ammette anche su iniziativa di coppie omosessuali, la Corte rappresenta come nel diverso caso della PMA il bambino debba “ancora nascere”, assumendo pertanto non irragionevole che il legislatore si preoccupi di garantirgli – ex ante, si direbbe – “quelle che, secondo la relativa valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.
(gb)
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone; vanno del pari dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano.
Per costante giurisprudenza della Corte, che va ribadita, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018).
Per costante giurisprudenza della Corte, che va ribadita, la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n. 150 del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016 e n. 96 del 2015).
Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo. L’affermazione appare corretta. Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione. Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato dalla Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018).
La Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005). La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato. Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.
La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito» – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2). Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore “esterno”). L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi. La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.
La Corte è intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte. Con le pronunce considerate la Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima. La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali «sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis». Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica». La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)».
Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella relativa globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.
Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso. L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata). Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.
Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazione dell’art. 2 Cost. La Corte ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». La stessa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico. In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte della Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza. Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata. Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali. Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto.
La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite. La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del relativo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962). La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).
Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte. Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale). La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.
Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto). Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della relativa conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.
Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore. Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia. La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.
Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al relativo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio. Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA. Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza “terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche. L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una “resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale. Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.
L’art. 11 Cost. – richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007).
Va esclusa, infine, la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus. Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della relativa tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria). E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto 9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H. contro Austria). In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto). Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26). Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto). È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili».
Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non fondate