Corte Costituzionale, sentenza 09 marzo 2021 n. 33
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – dalla Corte di cassazione, sezione prima civile.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Devono essere vagliate preliminarmente le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
3.1.– Non è fondata, anzitutto, l’eccezione che fa leva sul carattere non vincolante del parere consultivo reso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 10 aprile 2019, ampiamente citato nell’ordinanza di rimessione.
Il giudice rimettente, pur richiamando tale parere, invoca infatti correttamente – quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale fondato, tra l’altro, sull’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 8 CEDU, che riconosce il diritto alla vita privata e familiare del minore: diritto sul quale si imperniano le argomentazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione.
D’altra parte, non v’è dubbio che il parere consultivo reso dalla Corte EDU su richiesta della Corte di cassazione francese non sia vincolante, come espressamente stabilisce l’art. 5 del Protocollo n. 16 alla CEDU: né per lo Stato cui appartiene la giurisdizione richiedente, né a fortiori per gli altri Stati, tanto meno per quelli – come l’Italia – che non hanno ratificato il protocollo in questione. Cionondimeno, tale parere è confluito in pronunce successive, adottate in sede contenziosa dalla Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia; decisione 19 novembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia).
3.2.– Infondata è altresì l’ulteriore eccezione di inammissibilità imperniata sull’omessa sperimentazione da parte del Collegio rimettente di un’interpretazione conforme alla CEDU alla luce del citato parere consultivo; interpretazione, peraltro, che secondo l’Avvocatura generale dello Stato avrebbe dovuto essere rimessa nuovamente alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, dal momento che la richiamata sentenza n. 12193 del 2019 non avrebbe potuto tenere conto di tale parere, sopravvenuto alla decisione.
La Sezione rimettente ha plausibilmente motivato nel senso dell’impraticabilità di una interpretazione conforme, proprio in ragione dell’intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, che ha formato il diritto vivente che il giudice a quo sospetta di contrarietà alla Costituzione. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale (ex plurimis, da ultime, sentenze n. 75 del 2019, n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017).
D’altra parte, l’obbligo per una sezione semplice della Corte di cassazione di astenersi dal decidere in contrasto con il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite attiene al piano dell’interpretazione della legge, non a quello della verifica della compatibilità della legge (così come interpretata dalle Sezioni unite) con la Costituzione; verifica, questa, che l’ordinamento italiano affida a ogni autorità giurisdizionale durante qualsiasi giudizio, consentendo a tale autorità di promuovere direttamente questione di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte, senza dover sollecitare allo scopo altra istanza superiore di giudizio (art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, recante «Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale»; art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»).
4.– Deve invece essere dichiarata, d’ufficio, l’inammissibilità della questione formulata dal giudice a quo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 24 CDFUE, non avendo la Sezione rimettente motivato sulla sua riconducibilità all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che condiziona la stessa applicabilità delle norme della Carta (ex multis, sentenze n. 190 del 2020, n. 279 del 2019, n. 37 del 2019). Il che non esclude, naturalmente, che le norme della Carta possano essere comunque tenute in considerazione come criteri interpretativi degli altri parametri, costituzionali e internazionali, invocati dal giudice rimettente (come è accaduto, ad esempio, nelle sentenze n. 102 del 2020 e 272 del 2017 per l’appunto in relazione all’art. 24 CDFUE).
5.– Quanto alle restanti questioni sottoposte alla Corte, anche esse debbono essere dichiarate inammissibili, per le ragioni di seguito esposte.
5.1.– Il diritto vivente censurato dal giudice a quo si impernia sulla qualificazione, operata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come «principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali», tra cui segnatamente la dignità umana della gestante.
Questa Corte si è recentemente espressa in termini analoghi, osservando che la pratica della maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272 del 2017). A tale prospettiva si affianca l’ulteriore considerazione – su cui pongono l’accento anche l’Avvocatura generale dello Stato e una parte degli amici curiae – che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita.
Tali preoccupazioni stanno verosimilmente alla base della condanna di «qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali» espressa dal Parlamento europeo nella propria Risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea nel 2015 (2016/2009-INI) (paragrafo 82).
5.2.– Le questioni ora sottoposte a questa Corte sono però focalizzate sugli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata, nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale, come nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, ovvero eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge; e che ha quindi portato in Italia il bambino, per poi qui prendersene quotidianamente cura.
Più precisamente, si tratta di fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili, alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo.
5.3.– Questa Corte ha recentemente avuto modo di rammentare (sentenza n. 102 del 2020) che il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese, fu espresso anzitutto nella Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959. Di qui tale principio è confluito – tra l’altro – nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE. Tale principio è stato altresì considerato dalla giurisprudenza della Corte EDU come specifica declinazione del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU (ex multis, Grande camera, sentenza 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 96).
Il principio in parola è stato felicemente riformulato da una risalente sentenza di questa Corte, con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”» (sentenza n. 11 del 1981); ed è stato ricondotto da plurime pronunce di questa Corte altresì all’ambito di tutela dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014).
5.4.– I parametri costituzionali e sovranazionali (questi ultimi rilevanti nell’ordinamento italiano per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.) invocati dall’ordinanza di rimessione convergono, dunque, attorno al principio della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore. Principio che deve essere ora declinato in relazione alle peculiarità delle situazioni all’esame.
Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata.
E ciò, quanto meno, da una duplice prospettiva.
Anzitutto, questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino (Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96), che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 221 del 2019). Sicché indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso – dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari –; ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte.
E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 221 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962; sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).
Sotto un secondo e non meno importante profilo, non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino. Ciò che è qui in discussione è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi (per una analoga sottolineatura, si veda la sentenza n. 347 del 1998, che – seppur nel diverso contesto della fecondazione eterologa – già evocava i diritti del minore «nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità»).
Proprio per queste ragioni, del resto, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64).
Né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”, come è accaduto nel caso dal quale è scaturito il giudizio a quo, in cui l’originario atto di nascita canadese, che designava come genitore il solo P. F., era stato trascritto nei registri di stato civile italiani. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata.
5.5.– È peraltro vero che l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco.
La frequente sottolineatura della “preminenza” di tale interesse ne segnala bensì l’importanza, e lo speciale “peso” in qualsiasi bilanciamento; ma anche rispetto all’interesse del minore non può non rammentarsi che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013).
Gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le sezioni unite civili della Corte di cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti.
5.6.– Di tale bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale – bilanciamento alla cui necessità alludeva anche la già menzionata sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte – si è, del resto, fatta carico anche la giurisprudenza della Corte EDU, poc’anzi citata.
Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
La Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi.
Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore.
Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e «a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (ibidem, paragrafo 51).
5.7.– Il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU – espresso da una giurisprudenza ormai consolidata – appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana, parimenti invocati dal giudice a quo.
Essi per un verso non ostano alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale.
Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino.
Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata.
Proprio questo rischio, d’altronde, questa Corte ha inteso evitare allorché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che vietava il riconoscimento dei figli nati da incesto, precludendo loro l’acquisizione di un pieno status filiationis in ragione soltanto della condotta penalmente illecita dei loro genitori (sentenza n. 494 del 2002), e allorché – più recentemente – ha dichiarato pure costituzionalmente illegittima l’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave delitto commesso a danno del figlio, in ragione della possibilità che tale automatismo – finalizzato anche a lanciare un messaggio di deterrenza nei confronti dei potenziali autori di reati – finisse per risolversi in un pregiudizio per gli stessi interessi del minore (sentenza n. 102 del 2020).
5.8.– Come correttamente sottolinea l’ordinanza di rimessione, il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), ritenuto esperibile nei casi all’esame dalla stessa sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati.
L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.
Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983.
5.9.– Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.