La Suprema Corte, con la presente pronuncia, conferma la sentenza della Corte di Appello di Catania, secondo cui non può configurarsi il reato di appropriazione indebita di oggetti di pregio appartenenti all’ex coniuge, dei quali l’imputata aveva il possesso in quanto costituenti parte dell’arredamento di quella che era stata la loro casa coniugale, fino a che non vi sia un’effettiva volontà di appropriarsi di quegli oggetti, mediante lo spossessamento e l’alienazione.
Corte di Cassazione, Sez. II Penale, sentenza 20 dicembre 2024 n. 47057
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va esclusa la sussistenza del reato di appropriazione indebita fra ex coniugi fino a quando non si manifesta un’intenzione chiara e inequivocabile di non restituzione, caratterizzata da atti concreti di spossessamento o alienazione, successivamente alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Per cui la natura del possesso dei beni mobili di proprietà comune in costanza di matrimonio non si trasforma automaticamente in appropriazione indebita.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- lI ricorso è inammissibile perché proposto per motivi manifestamente infondati.
Non è contestata dalla ricorrente la proprietà, in capo alla parte civile C.C., dei beni che formano oggetto del reato.
- La sentenza alla quale si fa riferimento nel ricorso e che è ad esso allegata, è di cessazione degli effetti civili del matrimonio ed attesta che l’imputata ed il coniuge divorziarono nel 2015.
Da quel provvedimento risulta che neanche nel giudizio civile si era mai fatta questione in ordine alla proprietà dei beni mobili, pacificamente riconducibili alla persona offesa ma il cui possesso, all’esito del giudizio civile, era stato attribuito alla ricorrente in quanto si trattava di oggetti facenti parte della casa coniugale a lei in un primo momento assegnata.
Emerge, altresì, dalla lettura di quella stessa sentenza, sollecitata dal ricorso, che la persona offesa non aveva mai rivolto alla ricorrente una espressa e specifica diffida alla restituzione dei beni in discorso, venendo rigettata dal Tribunale civile di Ragusa la domanda restitutoria, tenuto conto della sua genericità e del fatto che i beni erano a corredo della casa coniugale.
Ne consegue che, come ha correttamente evidenziato la sentenza impugnata, la linea difensiva adottata dalla ricorrente durante il corso del giudizio civile ed al suo interno, non aveva avuto lo scopo di appropriarsi di cose di proprietà altrui, bensì di mantenerne il possesso in attesa dell’esito del giudizio, comportamento fino a quel momento penalmente irrilevante che, in quanto tale, non poteva generare alcuna velleità di punizione in capo alla parte civile da veicolare attraverso una querela.
Al contrario, dopo due anni dal divorzio, nell’estate del 2017 – in significativa concomitanza con un provvedimento del Tribunale civile, emesso il 6 luglio 2017, che, modificando le precedenti statuizioni, aveva assegnato la casa coniugale alla parte civile, come risulta a fg. 4 della sentenza di primo grado – la ricorrente aveva compiuto il primo e decisivo atto di appropriazione indebita dei beni mobili di proprietà dell’ex marito, asportandoli dalla casa coniugale ed affidandoli per la vendita ad un antiquario.
Di tale circostanza, la persona offesa aveva avuto contezza solo nel mese di agosto del 2017 (come ha precisato la Corte di appello), sicché la querela, sporta il 16 agosto 2017, era tempestiva.
- Le considerazioni che precedono assorbono le restanti questioni, anche con riferimento alla invocata applicazione dell’art. 649 cod.pen., deduzione manifestamente infondata in quanto la condotta illecita era stata posta in essere dall’imputata dopo il divorzio dal marito.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa della stessa ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.