Tribunale di Lucca, ordinanza 25 giugno 2024
QUESTIONE DI DIRITTO
Il Tribunale di Lucca, visti gli artt. 134 Cost., 1 L. costi 1/1948 e 23 L. 87/1953, ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e dell’art. 250 c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata il 4/11/1950, ratificata e resa esecutiva con L. 848/1955 e come interpretati dalla Corte di Strasburgo, all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7/12/2000, agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo filmata a New York il 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva con L. 176/1991, agli artt. I e 6 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 25/1/1996 e ratificata dall’Italia con L. 77/2003, per quanto esposto in parte motiva, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
Venendo ad affrontare il merito della controversia, occorre premettere che la L. 40/2004 non consente alle coppie omosessuali di ricorrere alle tecniche di P.M.A. eterologa – metodica, per la precisione, fruibile solamente dalle coppie formate da due donne, in quanto per le coppie omosessuali maschili la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la maternità surrogata – cui, infatti, possono ricorrere, dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale n. 162/2014, le sole coppie eterosessuali, in presenza di patologie che determinino una sterilità o una infertilità assolute e irreversibili.
Il divieto è sancito nell’art. 5, secondo cui possono accedere alla P.M.A. esclusivamente le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. L’art. 12, comma 2, punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di P.M.A. “a coppie composte da soggetti dello stesso sesso”, oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi.
La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza dei quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è “disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale”. Il comma IO prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di P.M.A. concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.
L’individuazione dello specifico requisito soggettivo inerente alla diversità di sesso dei componenti della coppia che fanno ricorso alla P.M.A. è stata ritenuta esente da censure di costituzionalità (Corte cost. 221/2019), in un settore tanto delicato, che coinvolge una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e “temi eticamente sensibili” (Corte cost. 162/2014). in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene “primariamente alla valutazione del legislatore” (Corte cost. 347/1998). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse si sia realizzato un bilanciamento non irragionevole (Corte cost. 162/2014).
Con 1a citata decisione del 2019, la Corte costituzionale ha anche chiarito che “in assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all ‘estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva fra le legislazioni estere che regolano la stessa materia”.
Tuttavia, qui non si discorre dei limiti individuati dal legislatore (come integrati dalla Consulta) per fare ricorso alle tecniche di P.M.A., ma dello stato giuridico dei figli nati da una coppia di due donne che abbia fatto ricorso a tali pratiche all’estero, laddove è consentito (e analoga considerazione varrebbe ove la fecondazione avvenisse in Italia, in violazione del divieto di legge).
Va, ancora, precisato che il problema si pone solamente laddove il figlio sia nato in Italia, poiché laddove, invece, la nascita avvenga nello Stato estero che ammette il ricorso alla fecondazione eterologa, la giurisprudenza ha ormai riconosciuto la possibilità di trascrivere nei registri degli atti dello stato civile italiani gli atti di nascita formati all’estero, recanti l’indicazione sia della madre biologica che ha fatto ricorso all’estero alla P.M.A. tramite il gamete donato da un terzo, sia della madre intenzionale, che ha condiviso il relativo progetto genitoriale ed ha prestato il consenso alla fecondazione (Cass., sentt. nn. 19599/2016, 14878/2017, 23319/2021, 32527/2023); ciò sulla scorta della nozione di “ordine pubblico internazionale”, che rappresenta il parametro di valutazione del giudice in queste ipotesi, “da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello straordinario rispetto alla legislazione ordinaria ” e che incontra il limite dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali.
L’art. 8 L. 40/2004, inserito nel Capo III “Disposizioni concernenti la tutela del nascituro” e rubricato “Stato giuridico del nato” prevede che “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”.
Il successivo art. 9 pone il divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre, oltre a sancire l’insussistenza di legami parentali tra il donatore dei gameti e il nato mediante tecniche di fecondazione eterologa.
L’interpretazione degli artt. 8 e 9 L. 40/2004.
Le parti resistenti ritengono che gli artt. 8 e 9 L. 40/2004, se interpretati in modo conforme ai principi costituzionali, debbano condurre al rigetto del ricorso, offrendo una tutela giuridica anche al nato da coppie omosessuali femminili tramite il ricorso a P.M.A. eterologa pari a quella che riceve il nato da coppie eterosessuali che vi si siano sottoposte.
Ad avviso del Tribunale, una simile operazione ermeneutica trova un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo, letto anche in una logica sistematica.
Anzitutto, la disposizione di cui all’art. 8 fa espresso riferimento alla “coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6” e tale ultima disposizione indica chiaramente “i soggetti di cui all’art. 5”, ossia “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
Inoltre, gli artt. 8 e 9 formano il Capo III, dedicato alle “Disposizioni concernenti la tutela del nascituro”, che segue il Capo I “Principi generali” e il Capo II “Accesso alle tecniche”, ed è a sua volta seguito dal Capo IV che regolamenta le strutture autorizzate all’applicazione delle tecniche di P.M.A., fornendo una disciplina organica della materia che non permette di scindere, a livello di previsione normativa, il profilo dei limiti soggettivi del ricorso alle tecniche di P.M.A. da quello della tutela giuridica del nato.
Né, al fine di estendere l’ambito di applicabilità degli artt. 8 e 9 ai nati in seguito all’accesso di una coppia formata da due donne alle pratiche di P.M.A. eterologa, può darsi rilievo a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162/2014 in relazione all’ampiezza e genericità della locuzione utilizzata dall’art. 8 (che si riferisce ai “nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”).
In quell’occasione la Consulta, dando ingresso nell’ordinamento alla fecondazione eterologa con finalità terapeutiche (fino ad allora vietata), ha ritenuto applicabili gli artt. 8 e 9 anche al nato grazie a tale tecnica sulla base degli ordinari canoni ermeneutici, essendo la P.M.A. eterologa una specie del genus considerato dalla disposizione, allo stesso tempo tenendo ben fermi i limiti soggettivi previsti dal legislatore all’accesso alla P.M.A. anche eterologa.
Alla luce delle considerazioni espresse, non convincono gli esiti interpretativi cui è pervenuta una parte della giurisprudenza di merito, anche dopo il monito espresso dalla Corte costituzionale nel 2021 (Corte cost. 32/2021, su cui infra), che fanno leva sul principio di tutela del concepito enunciato dall’art. I L. 40/2004, sulla distinzione tra la questione relativa allo stato di figlio e quella relativa alla tecnica per farlo nascere, sulla necessità e possibilità di fare ricorso a un’interpretazione evolutiva della legge, che eviti disparità di trattamento grazie ad un concetto di famiglia diverso rispetto a quello tenuto presente dal legislatore del codice civile (ex aliis, Corte d’appello di Brescia 30/1 1/2023 e Corte d’appello di Cagliari 28/4/2021), trovando una simile interpretazione un ostacolo insuperabile nel tenore letterale dell’art, 8 e nel dato sistematico, secondo quanto sopra osservato.
Quanto al riferimento, operato da taluni Tribunali e dalla difesa delle parti resistenti, alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 13000/2019, nella parte in cui ha ritenuto che l’art. 8 L. 40/2004 “esprime I ‘assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa”, si osserva che esso non può non leggersi nell’ambito della fattispecie concreta esaminata.
Si trattava di un ‘ipotesi di fecondazione omologa eseguita post mortem, avvenuta mediante l’utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risultasse la successiva revoca, era poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie all’utilizzo suddetto.
Ebbene la Corte, richiamando l’ambito operativo del procedimento ex art. 95 D.P.R. 396/2000, ove rileva esclusivamente la corrispondenza tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e come risulta dall’atto dello stato civile e non la liceità o meno della tecnica di P.M.A. impiegata, osserva che l’art. 5 della legge 40/2004, nel riservare l’accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano entrambi viventi, non precisa in quale momento del procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia e giunge a ritenere possibile l’applicazione dell’art. 8 anche alla “specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui oggi si discute, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (nella specie, peraltro, pacificamente ribadito solo pochi giorni prima del decesso) ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l’utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale”.
E ciò, oltretutto, dando rilievo alla discendenza biologica. Il principio è stato, quindi, affermato in relazione ad una specifica situazione ed in base ad argomentazioni che non sono replicabili nella vicenda che ci riguarda.
D’altronde, le aperture esegetiche, talvolta consentite dalla giurisprudenza di merito, hanno trovato una decisa ed univoca smentita nei giudizi di legittimità, potendo ormai definirsi costante l’orientamento della Corte di Cassazione che nega ogni rilievo agli argomenti menzionati.
Con la pronuncia n. 7668/2020 la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso promosso da due donne avverso il rifiuto dell’Ufficiale dello stato civile di ricevere la dichiarazione congiunta di riconoscimento della bambina, nata da fecondazione assistita praticata all’estero, ha evidenziato che il divieto per le coppie formate da persone dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, imposto dall’art. 5 L. 40/2004 e rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative, è applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.
Con un successivo intervento nello stesso armo (Cass. 8029/2020), la Corte di Cassazione ha affermato che “il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L n 40 del 2004, art. 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto”, escludendo l’operatività, in simili casi, dell’art. 8 della stessa legge.
A tal fine, richiamando la pronuncia della Consulta n. 221/2019, ha sottolineato la “perdurante operatività delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004″, ossia “da un lato la piena vigenza del divieto di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, salvi i casi d’infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, dall ‘altro I ‘esclusione della possibilità di avvalersi delle predette tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro ed i richiedenti”, così escludendo la possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico al consenso da quest’ultimo prestato all’ applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione con le sentenze nn. 23320/2021 e 23321/2021 (anche mediante richiami alle pronunce della Corte costituzionale 230/2020 e 33/2021).
Nel primo caso, la Cassazione ha statuito che l’obiettivo del riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente non è raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità delle predette disposizioni, ma dev’essere perseguito per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all’area degli interventi con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale.
Nel secondo caso, la Suprema Corte ha affermato che l’interesse di un bambino, accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo, è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, e non solo di quello con il genitore biologico, ma ha affermato che tale interesse non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto agli altri interessi in gioco, dovendo essere bilanciato con questi ultimi, alla luce del criterio di proporzionalità; ha quindi escluso l’illegittimità costituzionale delle norme che impediscono l’ indicazione del genitore intenzionale nell’atto di nascita del minore, al contempo evidenziando la necessità di assicurare la tutela dell’interesse del minore attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino.
L’orientamento è stato confermato dalle successive pronunce di legittimità: Cass. 6383/2022 (che ha ritenuto applicabili gli stessi principi anche in un caso in cui tra la donna non partoriente e il nato vi era un legame genetico, avendo questa donato l’ovulo che, fecondato, era stato impiantato nell’utero della compagna, che aveva poi portato a termine la gravidanza), Cass. 7413/2022 (che ha richiamato la sentenza della Corte costituzionale 32/2021), Cass. 10844/2022, Cass. 11078/2022 (secondo cui il legame biologico di un genitore piuttosto che dell’altro con il nato non è il criterio informatore della legge, che ha attribuito rilievo decisivo al consenso informato e, pertanto, non può divenire criterio ermeneutico della stessa, perché l’attuale assetto normativo non consente l’estrapolazione di alcune norme – gli artt. 6, 8 e 9 L. 40/2004 – e l’applicazione frazionata delle stesse, né il dettato dell’art. 5, che costituisce premessa applicativa della complessiva normativa, può essere superato in via interpretativa), Cass. 22179/2022 (che ha richiamato le sentenze della Corte costituzionale nn. 32/2021 e 79/2022), Cass. 23527/2023 (che, riconfermando l’orientamento espresso dalle precedenti ordinanze, ha escluso che l’indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, “atteso che, in tali casi, l’adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022”), Cass.
511/2024, Cass. 4448/2024.
L’adozione in casi particolari e le criticità dell’istituto.
Nelle pronunce di legittimità sopra citate (Cass, nn. 8029/2020, 23321/2021, 22179/2022, 23527/2023), la Suprema Corte ha ritenuto che l’adozione in casi particolari rappresenti un’adeguata forma di tutela, idonea a porre la disciplina dettata dalla L. 40/2004 al riparo da censure di legittimità costituzionale, anche fondate sui principi sovranazionali come interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU ed aventi carattere di norme interposte, in forza dell’art. 117 Cost.
Del resto, la questione della necessità di conferire giuridico riconoscimento al legame di filiazione tra il genitore intenzionale ed i minori, sia che essi siano nati da procreazione medicalmente assistita che da gravidanza per altri, è stata più volte affrontata dalla Corte EDU, che ha sempre affermato che l’impossibilità generale e assoluta, per un periodo di tempo significativo, di ottenere il riconoscimento, nei vari Stati firmatari, del rapporto tra il minore e il genitore intenzionale costituisce un’ingerenza sproporzionata nel diritto del bambino al rispetto della sua vita privata, sancita dall’art. 8 CEDU (v. Mennesson c. Francia, n. 65192/11, del 26/6/2014; Labassee c. Francia, n. 65941/11, del 26/6/2014; D c. Francia n. 11288/18, del 16/7/2020; D.B. e altri c. Svizzera nn. 58817/15 e 58252/15, del 22/1 1/2022 e più di recente C. c. Italia n. 47196/21 del 31/7/2023, su cui più ampiamente infra).
Nello specifico la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie.
Ha al contempo sottolineato che la scelta dei mezzi di cui avvalersi per permettere il riconoscimento del legame esistente tra un figlio e un genitore intenzionale rientra nel margine di apprezzamento degli Stati contraenti (parere consultivo n. P 16-2018-001), ricordando come sul punto non vi sia un consenso unanime tra gli Stati firmatari, che adottano soluzioni diverse.
Nell’ordinamento interno, l’istituto dell’adozione in casi particolari (di cui al titolo IV della L. 184/1983) contempla ipotesi tassative ed eccezionali, rispetto al principio generale sancito all’art. 7 comma 1 della medesima legge, in forza del quale l’adozione è consentita a favore dei minori “dichiarati in stato di adottabilità”.
Infatti, anche quando non ricorre la condizione predetta, il legislatore ha inteso tutelare il rapporto che si instaura laddove il minore sia inserito in un nucleo familiare, con cui abbia conseguentemente sviluppato legami affettivi, stabilendo all’art. 44 L. 184/1983 che i minori possono essere adottati “da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre” (lett. a) e “dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge” (alla lett. b); altresì tutela i minori che si trovino in particolari situazioni di disagio, consentendo l’adozione quando il minore sia persona handicappata (trovandosi nelle condizioni indicate dall’art. 3, comma l , L. 104/1992 e che dunque presenti una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione) e sia orfano di padre e di madre (lett. c) e quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo (lett. d).
L’adozione in casi particolari, comunque prevista anche in presenza di figli è consentita, nei casi di cui alle lett. a, c e d, oltre che ai coniugi anche a chi non sia coniugato.
Il Tribunale per i Minorenni è competente a decidere sul procedimento di adozione, in cui si richiede ai sensi dell’art. 45 L. 184/1983 il consenso dell’adottante e dell’adottando che abbia compiuto il quattordicesimo anno di età o del suo legale rappresentante, se l’adottando non abbia compiuto il quattordicesimo anno di età o si trovi in condizione di minorata capacità.
Una volta pronunciata la sentenza, ai sensi dell’art. 48 L. 184/1983 l’adottante ha l’obbligo di mantenere l’adottato, di istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’art. 147 c.c. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12962/2016, ha ammesso il ricorso all’adozione in casi particolari disciplinata dall’art. 44, comma 1, lett. d) L. 184/1983 da parte del partner omosessuale del genitore del minore.
In particolare, nell’applicare il principio del best interest del minore, ha statuito che l’espressione “impossibilità di affidamento preadottivo”, contenuta nella clausola residuale di cui alla citata disposizione, deve essere interpretata estensivamente. nel senso di ricomprendere oltre all’impossibilità di fatto, anche quella di diritto, nella prospettiva di valorizzare rapporti di fatto già esistenti con il minore.
La Cassazione ha ritenuto tale soluzione coerente con i principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, “dal momento che si sta sempre più affermando, in particolare nei procedimenti adottivi, il principio secondo il quale il rapporto affettivo che si sia consolidato all’interno di un nucleo familiare, in senso stretto o tradizionale o comunque ad esso omologabile per il suo contenuto relazionale, deve essere conservato anche a prescindere dalla corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti, salvo che vi sia un accertamento di fatto contrario a questa soluzione”, con richiamo al caso Moretti e Benedetti contro Italia (n. 163 1 8/()7 del 27/4/2010), al caso Paradiso e Campanelli contro Italia (n. 25358/12 del 24.1.2017) e al caso X ed altri contro Austria (GC n. 19010/07, 19/2/2013), il quale ultimo ha riconosciuto anche in tema di adozione del figlio del partner la violazione del principio di non discriminazione stabilito dall’art. 14 CEDU in presenza di una ingiustificata disparità di regime giuridico tra le coppie eterosessuali e le coppie formate da persone dello stesso sesso, dal momento che nell’ordinamento austriaco tale forma di adozione era consentita soltanto alle coppie di fatto eterosessuali.
La Corte di Strasburgo, al riguardo, ha sottolineato che l’Austria non aveva fornito “motivi particolarmente solidi e convincenti idonei a stabilire che l’esclusione delle coppie omosessuali dall ‘adozione coparentale aperta alle coppie eterosessuali non sposate fosse necessaria per tutelare la famiglia tradizionale” (par. 151 della sentenza).
Pronunciandosi a Sezioni Unite nell’anno 2019 (Cass. S.U. 12193/2019), nello stabilire l’impossibilità di riconoscere efficacia al provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, che trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma 6, L. 40/2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, la Corte ha precisato che “la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983”.
In particolare, le Sezioni Unite hanno ritenuto tale strumento idoneo a tutelare l’interesse del minore a veder riconosciuto a livello giuridico il suo legame affettivo con il genitore intenzionale, in quanto conforme ai principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell’infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione ed a tal fine hanno citato la già richiamata giurisprudenza della Corte EDU (in particolare Mennesson c. Francia, n. 65192/11 del 26/6/2014; Labassee c. Francia, n. 65941/11 del 26/6/2014), in cui la Corte, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando invece una violazione, in relazione alla lesione dell’identità personale eventualmente derivante dalla coincidenza di uno dei genitori d’intenzione con il genitore biologico del minore.
Su queste basi la Suprema Corte ha affermato che “le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né I ‘accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore”, concludendo nel senso di ritenere che “anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell’ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell’adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio”.
Anche con la successiva pronuncia n. 8029/2020, sopra citata, la Corte di cassazione ha ribadito la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, ritenuta conforme ai principi elaborati anche dalla Corte EDU.
Parimenti nella sentenza n. 23321/2021, sopra citata, ha effettuato la medesima valutazione di conformità della soluzione adottata alla giurisprudenza EDU, richiamando la decisione D c. Francia (n. 11288/18, del 16/7/ 2020) che, nell’esaminare un caso riguardante il rifiuto di Imo Stato membro di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione tra un minore procreato mediante il ricorso alla maternità surrogata ed uno dei genitori, non avente alcun legame biologico con lo stesso, ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata del minore richiede che il diritto interno offra 1a possibilità di un riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione, ma non anche che tale riconoscimento abbia luogo attraverso l’iscrizione nell’atto di nascita del minore e ribadito che la scelta degli strumenti per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati, di talché esso può aver luogo anche in altro modo, come attraverso l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della procedura.
In materia è, poi, intervenuta la pronuncia della Corte costituzionale 33/2021, che, nel dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12. comma 6, L. 40/2004, della L. 218/1995 e dell’art. 18 D.P.R. 396/2000, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma l, Cost., nella parte in cui non consentono il riconoscimento e la dichiarazione di esecutività del provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del genitore d’intenzione nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri, ha anzitutto riconosciuto che l’interesse del minore accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è certamente quello di ottenere un riconoscimento giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia e che sono parte integrante della sua stessa identità (“indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso — dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte.
E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 221 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962; sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601)” e preordinati all’affermazione dei doveri derivanti dalla titolarità della responsabilità genitoriale.
Prosegue la Corte osservando che, tuttavia, l’interesse del minore, come ogni altro interesse costituzionalmente rilevante, deve essere bilanciato, alla luce del criterio di proporzionalità. con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità e che, in tale ambito, la Corte EDU ha chiarito che ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento; “ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato 1a scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore. Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione ” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e «a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (ibidem, paragrafo 51)”.
E secondo la Consulta, “il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU— espresso da una giurisprudenza ormai consolidata — appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana”, per cui “non ostano alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla ler loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale.
Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino”,
Andando, allora, ad esaminare le caratteristiche dello strumento dell’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d) L. 184/1983, che erano state censurate dalla sezione rimettente – in quanto ritenute inidonee a creare un vero rapporto di filiazione, atteso che tale forma di adozione porrebbe il genitore non biologico in una situazione di inferiorità rispetto al genitore biologico, non creerebbe legami parentali con i congiunti dell’adottante ed escluderebbe il diritto a succedere nei loro confronti, non garantirebbe quella tempestività del riconoscimento del rapporto di filiazione che è richiesta dalla Corte EDU nell’interesse del minore, sarebbe rimessa alla volontà del genitore d’intenzione, e sarebbe, altresì, condizionata all’assenso all’adozione da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia – la Corte costituzionale ha affermato che esso “costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati
In particolare, le lacune individuate sono le seguenti: l’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante; era ancora controverso se consentisse di stabilire vincoli di parentela con la famiglia dell’adottante; l’adozione in casi particolari richiede il necessario assenso del genitore biologico, che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia.
E così ha ritenuto che “al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983”, muovendo un preciso monito al legislatore di intervenire in subiecta materia.
In tale quadro, occorre considerare che con la successiva sentenza n. 79/2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art, 55 L. 184/1983, nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, comma 2, c.c., prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante e, sulla base di tale intervento e di ulteriori considerazioni, le Sezioni Unite della Cassazione, con la pronuncia n. 38162/2022, resa sempre in tema di maternità surrogata, hanno ritenuto il rimedio idoneo.
In particolare, con riferimento all’impossibilità di costituire il rapporto adottivo in mancanza dell’assenso del genitore biologico, richiesto dall’art, 46 L. 184/1983, la Suprema Corte ha ritenuto possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, in combinato con l’art. 57 della stessa legge, che impone al giudice di valutare se l’adozione realizzi in concreto il preminente interesse del minore, ed ha affermato che l’effetto ostativo del dissenso dell’unico genitore biologico all’adozione del genitore sociale deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore stesso, apparendo ragionevole soltanto quando non si sia realizzato tra quest’ultimo e il genitore d’intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell’adozione; mentre laddove tale relazione sussista, “il rifiuto non sarebbe certamente giustificato dalla crisi della coppia committente né potrebbe essere rimesso alla pura discrezionalità del genitore biologico”.
Le Sezioni Unite hanno esaminato anche l’ulteriore problematica evidenziata dalla sentenza n. 33 del 2021, relativa al fatto che l’iniziativa spetta solo all’adottante, non potendo il minore rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale tramite l’adozione. In proposito hanno affermato che “quella constatazione impone . . ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinché siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore.
Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente L ‘adeguatezza dell’istituto dell’adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerità del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo.
Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 22 novembre 2022, D. B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al più tardi quando, secondo l’apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione si è concretizzato.
La Corte EDU considera cioè l’adozione un rimedio possibile se ed in quanto consegua con celerità il risultato del riconoscimento dei legami tra il minore e il genitore d’intenzione”, concludendo nel senso di ritenere che “per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 e prospettandosi la possibilità di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, I ‘adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilità per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora più aderente alle peculiarità della situazione”.
La Corte di cassazione ha ritenuto adeguato lo strumento dell’adozione in casi particolari per la “tutela dell’interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d’intenzione”, reputandolo conforme ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo, così concludendo: “l ‘ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternità surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato. 11 titolo che giustifica la costituzione dello stato è fondato, non sull’intenzione di essere genitore, ma sulla condivisione del progetto genitoriale seguita dalla cura e dal rapporto affettivo costanti; il provvedimento del giudice presuppone, inoltre, un giudizio sul miglior interesse del bambino e una verifica in concreto dell’idoneità del genitore istante”,
Infine, con una recente sentenza del 31/7/2023 (C c. Italia n. 47196/21) la Corte EDU è intervenuta nuovamente sul tema dell’adozione in casi particolari, in relazione ad un ricorso che riguardava il rifiuto delle autorità italiane di riconoscere il rapporto di filiazione stabilito da un atto di nascita ucraino tra una minore, nata all ‘estero mediante una gestazione per altri (GPA) cui aveva fatto ricorso una coppia eterosessuale, e il suo padre biologico e la sua madre intenzionale. Anche in questo caso la Corte EDU ha ricordato che “il rispetto della vita privata esige che ogni bambino possa stabilire i dettagli della propria identità di essere umano, il che comprende la sua filiazione” e che “quando è in gioco la relazione tra una persona e suo figlio, si impone un dovere di diligenza eccezionale, in quanto il passare del tempo può portare a risolvere la questione con un fatto compiuto”.
Pertanto, spetta a “ciascuno Stato contraente munirsi di strumenti giuridici adeguati e sufficienti per assicurare il rispetto degli obblighi positivi che ad esso incombono ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, tra cui l’obbligo di diligenza eccezionale quando è in gioco la relazione tra una persona e suo figlio”.
Ha aggiunto che la Corte “non è chiamata a esaminare le modalità di accertamento o di riconoscimento di un rapporto di filiazione di un bambino nato ricorrendo a una GPA praticata all’estero (trascrizione dell’atto di nascita straniero parziale o completa, adozione piena o semplice, accertamento ex novo del rapporto nel paese di residenza del minore), ma deve invece verificare se il processo decisionale dello Stato di residenza del minore, considerato complessivamente, abbia assicurato un’adeguata protezione degli interessi in gioco.
Infatti, è fondamentale che le modalità di accertamento della filiazione previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua attuazione (parere consultivo n. PI 6-2018-001 […J), conformemente all’interesse superiore del minore in modo da evitare che quest’ultimo sia mantenuto a lungo nell’incertezza giuridica”.
La Corte ha anche esaminato l’ordinamento interno in relazione al rapporto tra il minore e la madre intenzionale, ed in specie gli artt. 44 e ss. L. 184/1983, sull’adozione in casi particolari, norma che come evidenziato anche dalla richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione (da ultimo Cass. SU 38162/2022) rappresenta “lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.
In tal senso, tale previsione, allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento nazionale e nei limiti della discrezionalità degli Stati di valutare come procedere al riconoscimento del rapporto di filiazione, consente di non ritenere integrata una violazione dell’art. 8 CEDU, poiché “la legge italiana, anche se non permette la trascrizione dell’atto di nascita per quanto riguarda la madre intenzionale, garantisce a quest’ultima la possibilità di riconoscere giuridicamente il bambino attraverso l’adozione. ” E, dunque, elimina il problema della impossibilità generale e assoluta di riconoscere un rapporto di filiazione.
Come ricordato dalla Suprema Corte, tuttavia, la valutazione, nella concretezza della singola vicenda, è in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice, restando sempre ferma 1a possibilità per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora più aderente alle peculiarità delle diverse situazioni concrete che involgono genitori d’intenzione.
Questo collegio ritiene che I ‘adozione in casi particolari, ancorché a seguito dalla sentenza n.
79/2022 dalla Corte costituzionale sia stata riconosciuta -ampliando il portato letterale dell’art. 55 L. 184/1983- l’instaurazione di rapporti civili tra l’adottato ed i parenti dell’adottante e nonostante l’apertura verso la dimensione funzionale del requisito del consenso del genitore biologico inaugurata dalle Sezioni Unite nel 2022, non consente di assicurare al minore una tutela adeguata, in termini di effettività e celerità, non garantite in concreto dal procedimento in questione.
Invero, alla conformità in astratto ai parametri dell’art. 8 CEDU non corrisponde una concreta ed effettiva tutela del minore, laddove il progetto procreativo sia perseguito da una coppia omossessuale ed a differenza di quanto specularmente previsto per le coppie eterosessuali che accedono alla P.M.A. di tipo eterologo, in cui il riconoscimento opera sin dalla nascita (sebbene anche in questo caso uno dei due genitori, o entrambi, non siano biologicamente tali).
Quanto al richiesto presupposto della celerità della tutela (si rammenta che nella sentenza C c. Italia n. 47196/21 del 31/8/2023, la Corte EDU ha censurato l’eccessiva lentezza del processo decisionale dei giudici nazionali, in relazione al mancato sollecito riconoscimento del rapporto con il padre biologico), si condividono le considerazioni espresse dalle resistenti che riferiscono, correttamente, che i tempi medi di definizione dei procedimenti di adozione speciale si attestano su tre anni per ottenere una sentenza definitiva, mentre tribunali più virtuosi registrano tempi più contenuti, ma comunque di circa un anno e mezzo.
Inoltre, il procedimento scandito dagli artt. 44 ss. L. 184/1983, postulando la valutazione e l’accertamento circa l’avvenuta instaurazione di un legame affettivo stabile con il genitore adottante, della cui idoneità genitoriale parimenti il Tribunale deve accertarsi, richiede incombenti istruttori e processuali, ivi compreso il coinvolgimento del Servizio Sociale territorialmente competente e l’audizione del minore se capace di autonomo discernimento, che inevitabilmente dilatano i tempi processuali, ritardando il riconoscimento dello status in capo al minore.
Tanto più considerando che, nell’attuale confusionario quadro normativo e giurisprudenziale, il procedimento potrebbe essere in concreto introdotto solo all’esito del giudizio di impugnazione ai sensi dell’art. 95 D.P.R. 396/2000, da parte della coppia omoaffettiva, del rifiuto dell’iscrizione dell’Ufficiale dello stato civile o, viceversa, da parte del P.M. dell’iscrizione, così dilatando ancor più i tempi del riconoscimento dello status di figlio.
Il caso di specie è emblematico sotto questo profilo, atteso che ha già compiuto un anno di età ed ancora pende. in primo grado, il procedimento ai sensi dell’art. 95 D.P.R. 396/2000, mentre il procedimento per la sua eventuale adozione da parte di potrà essere avviato solo in caso di definitivo accoglimento del presente ricorso, presumibilmente tra diversi anni e comunque all’esito dell’esperimento dei vari gradi di giudizio; di conü•o, l’atto di nascita dell’altra minore non è ancora sub iudice e ciò procrastina l’incertezza della sua situazione giuridica, che resta assoggettata all’iniziativa della Procura della Repubblica per un tempo non preventivabile (come di recente avvenuto nei casi portati all’attenzione del Tribunale di Padova, a seguito dell’impugnazione da parte della Procura della Repubblica di oltre trenta atti di nascita di minori, alcuni dei quali formati già da anni).
Trattasi, inoltre, di una procedura giudiziale, che presuppone un soggetto ricorrente, che avvii la procedura medesima. Anche sotto tale profilo vanno evidenziate le implicazioni concrete della modalità di riconoscimento dello status di figlio in questione, perché potrebbero verificarsi disparità di trattamento in termini di accesso allo strumento: il procedimento comporta comunque dei costi, anche per la difesa tecnica oltre che per le spese vive, che la madre intenzionale dovrebbe accollarsi (e che potrebbe non volere o non potere nei fatti sopportare, salva l’ammissione al patrocinio per i non abbienti).
Ancora, l’adozione è e resta uno strumento rimesso interamente alla volontà e all ‘iniziativa della madre intenzionale, escludendosi ogni autonoma iniziativa della madre biologica, da un lato, e soprattutto del minore, dall’altro, come già evidenziato dalla giurisprudenza che ha affrontato 1a questione.
Nell’attuale assetto normativo dell’istituto, come emerge dagli artt. 44 e ss. L. 184/1983 ed anche a seguito degli interventi della Corte costituzionale, il minore non può imporre alla madre intenzionale di adottarlo, cosicché, in caso di crisi della coppia e conseguente abbandono della famiglia da parte della madre intenzionale, il minore resterebbe privo di tutela in termini sia di esercizio della responsabilità genitoriale da parte della madre intenzionale, con connessi obblighi di cura e mantenimento solo a carico della madre biologica, sia di diritti successori nei confronti della madre intenzionale, nonostante anche costei abbia contribuito al suo progetto procreativo.
La situazione è diametralmente opposta a quella prevista per la speculare ipotesi della coppia eterosessuale che abbia fatto ricorso alla tecnica della procreazione eterologa, che, per espressa previsione di legge, non può mai disconoscere quel figlio, ancorché per uno dei membri della coppia non sia biologicamente proprio, né disinteressarsene e, conseguentemente, venir meno ai connessi obblighi genitoriali.
Neppure 1a madre biologica, la quale con la madre intenzionale abbia condiviso il progetto di far venire al mondo quel minore, può avviare il procedimento che conduce. ai sensi dell’art. 48 L. 184/1983, ad estendere alla madre intenzionale gli obblighi di cui all’art. 147 c.c., potendo solo acconsentire alla decisione della madre intenzionale di avviarlo.
Tale situazione di evidente incertezza delle sorti del minore e della sua effettiva tutela trova ulteriore conferma nell’art. 47 L. 1 84/1983, sotto il duplice profilo della revoca del consenso nel corso del procedimento e della morte dell’adottante.
Infatti, poiché l’adozione produce i suoi effetti dalla data della sentenza che la dispone, finché la sentenza non è emanata, tanto l’adottante, dunque il genitore intenzionale, quanto l’adottando o il suo legale rappresentante, se l’adottando è infraquattordicenne (e dunque di norma il genitore biologico) possono revocare il loro consenso al procedimento adottivo.
Come già detto, sulla questione della mancanza ab origine o sulla revoca dell’assenso all’adozione prestato dal genitore biologico, quale legale rappresentante del minore, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, che hanno ritenuto che l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione del genitore intenzionale deve essere valutato sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, di modo che il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure, pur avendo partecipato al progetto di procreazione, abbia poi abbandonato la famiglia (Cass. S.U. 38162/2022, confermato da Cass. 25436/2023).
Non è invece previsto, né per espressa previsione di legge né in via giurisprudenziale, alcuno strumento avverso la revoca del consenso, prima della sentenza, da parte della madre intenzionale, restando dunque anche sotto tale aspetto la condizione del minore rimessa alle alterne e spesso mutevoli vicende della relazione di coppia ed alla volontà dell’adottante, quantomeno sino a definitiva conclusione del procedimento.
Permane, inoltre, un’ulteriore criticità nell’ambito dell’art. 47 L. 184/1983. Si condivide sul punto quanto evidenziato dalla difesa delle resistenti per il caso, comunque da considerarsi, in cui la madre intenzionale venisse a mancare; infatti, qualora la madre intenzionale si determinasse a chiedere l’adozione, anche eventualmente cercando di superare il dissenso della madre biologica, ma morisse prima della sentenza di adozione, la pronuncia non potrebbe essere adottata, in quanto l’art. 47 L. 184/1983 prevede la possibilità di pronunciare sentenza per il caso di morte dell’adottante nel corso del procedimento, solo se la richiesta di adozione sia congiuntamente formulata da due coniugi, circostanza che non si verifica mai in caso di coppia omosessuale.
ln conclusione, lo strumento dell’adozione in casi particolari consente senz’altro di pervenire, in astratto, al risultato finale di garantire il riconoscimento del legame giuridico tra il minore ed il genitore intenzionale, ma non può ritenersi che, in concreto, ciò avvenga celermente, né che la tutela sia sempre effettiva, ponendosi, nelle peculiari situazioni sopra descritte, il caso di alcuni minori che vengono a trovarsi privi del riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già li uniscono a entrambi i componenti della coppia che ha condiviso la decisione di farli venire al mondo.
Norme che si assumono incostituzionali.
Alla luce di quanto sin qui delineato, tenuto conto della ritenuta impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e dei persistenti limiti dello strumento dell’adozione in casi particolari, viene in rilievo la necessità di vagliare la compatibilità costituzionale degli artt. 8 e 9 L. 40/2004, nonché dell’art. 250 c.c., laddove attribuisce alla madre ed al padre la possibilità di riconoscere il figlio, nella misura in cui impediscono al nato nell’ambito di un progetto di procreazione medicalmente assistita praticata da una coppia di donne l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla C.d. madre intenzionale che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa e comunque laddove impongono la cancellazione dall’atto di nascita del riconoscimento compiuto dalla madre intenzionale.
In punto di rilevanza, richiamando quanto già osservato, si ribadisce che l’applicazione delle norme indicate è evidentemente ineliminabile nell’iter logico-giuridico che il Tribunale deve percorrere per la decisione.
I parametri di costituzionalità che si assumono violati.
Il quadro normativo e giurisprudenziale così delineato determina, infatti, una lesione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti dagli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata il 4/11/1950, ratificata e resa esecutiva con L. 848/1955 e come interpretati dalla Corte di Strasburgo, all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7/12/2000, agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva con L. 176/1991, agli artt. I e 6 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 25/1/1996 e ratificata dall’Italia con L. 77/2003.
In particolare, l’inapplicabilità al caso di specie degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e, di riflesso, dell ‘art. 250 c.c., determina la violazione del diritto del minore all’inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, inteso come formazione sociale tutelata dalla Carta costituzionale e lascia altresì privo di tutela il diritto inviolabile del minore all’identità garantito dall’art. 2 Cost., da cui discende l’azionabilità dei suoi diritti nei confronti di chi si è assunto la responsabilità di procreare nell’ambito di una formazione sociale che, benché non riconducibile alla famiglia tradizionale, è comunque meritevole di tutela.
Risulta, in altre parole, frustrato il diritto del minore di vedersi riconosciuta e di conservare un’identità familiare e sociale corrispondente al progetto di genitorialità realizzato, in una data formazione familiare, mediante procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero.
Risulta, inoltre, violato l’art. 3 della Costituzione, commi I e 2.
Il rispetto del principio di uguaglianza formale impone, infatti, che il nato all’esito del percorso di P.M.A. intrapreso da una coppia di due donne non sia discriminato dalla legge, il che avviene laddove questi non venga tutelato, dal punto di vista morale e materiale, in ragione delle caratteristiche della relazione (omosessuale) tra i genitori.
Come affermato nella precedente ordinanza di rimessione del Tribunale di Padova (n. 79/2019) e sottolineato dalla difesa delle ricorrenti, con argomentazioni che questo Tribunale condivide appieno, consentire il permanere di tale discriminazione significherebbe legittimare nel nostro sistema una nuova (e unica) categoria di nati non riconoscibili, che ricorda tristemente categorie già fortemente discriminate in passato e superate grazie all’evoluzione sociale e giuridica stimolata soprattutto dai principi costituzionali: ci si riferisce alla categoria dei figli adulterini, non riconoscibili prima della riforma del diritto di famiglia di cui alla L. 151/1975, e a quella dei figli incestuosi, che, nonostante la illiceità penale, in presenza di pubblico scandalo, della condotta che ha portato al concepimento (art. 564 c.p.), con l’attuale formulazione dell’art. 251 c.c. possono essere riconosciuti con autorizzazione del giudice “avuto riguardo all ‘interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”.
A ciò si aggiunga che la “nuova” categoria di nati assolutamente non riconoscibili violerebbe anche apertamente il principio di unicità dello status giuridico dei figli che ha connotato tutti gli interventi legislativi più recenti in materia di filiazione (oltre alla L. 219/2012 anche il D.lgs. 154/2013 ed il D.lgs. 149/2022, C.d. riforma Cartabia) e che si estende anche ai figli adottivi di coppia dello stesso sesso.
La violazione dei principi di cui all’art. 3 della Costituzione sussiste, poi, anche con riferimento al diritto alla bigenitorialità, ossia al diritto di ogni bambino nato da P.M.A. ad avere due persone che si assumono sin dalla nascita 1a responsabilità di provvedere al suo mantenimento, alla sua educazione e istruzione, nei confronti delle quali poter vantare diritti successori, ma soprattutto poter agire in caso di inadempimento e di crisi della coppia.
Peraltro, anche dal lato dei genitori, il mancato riconoscimento delle donne omossessuali quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra si risolve in una violazione del secondo comma dell’art 3 della Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale al pieno sviluppo della loro personalità, impedendo loro di assegnare piena tutela ai figli nati tramite le tecniche di P.M.A.
Sempre sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost., deve osservarsi che, come sopra detto, la Corte di Cassazione ritiene ormai, con orientamento costante, trascrivibile l’atto di nascita formato all’estero con l’indicazione delle due madri, l’una biologica, che si è sottoposta alla P.M.A. ed ha partorito il figlio e l’altra intenzionale, che ha prestato il proprio consenso a tutto il percorso seguito dalla partner, ritenendo non ostativo il concetto di ordine pubblico internazionale, mentre, dall’altro lato, con un orientamento ugualmente costante nega la possibilità di iscrivere in Italia un atto di nascita siffatto, dovendo in questo caso aversi riguardo all’ordine pubblico nazionale e alle norme ostative di cui alla L. 40/2004 (artt. 4 e 5).
Sebbene tale differenziazione, proprio in quanto basata sulla diversità dei parametri utilizzati, non possa ritenersi di per sé irragionevole, è evidente che, trattandosi di vicende – quelle della nascita all’estero o in Italia dei figli concepiti da due donne mediante la P.M.A. – che creano situazioni soggettive percepibili come del tutto analoghe, non risulta ragionevole l’esito contrapposto che si determina sul piano dei diritti del nato: in un caso, il nato risulta figlio delle due donne che hanno condiviso il progetto procreativo e, nell’altro, laddove non risultino applicabili gli artt. 8 e 9 L. 40/2004, il nato risulta figlio della sola partoriente, senza il riconoscimento ab origine di alcun legame con l’altra donna.
Anche a prescindere da tali profili, la discriminazione opera anche tra gli stessi nati in Italia, non riconoscibili dalla madre intenzionale – o perché l’Ufficiale dello stato civile ha opposto un rifiuto o perché, inizialmente formato l’atto con l’indicazione anche della madre intenzionale, la Procura della Repubblica ha, come nel caso concreto, impugnato l’atto ai sensi dell’art. 95 D.P.R. con gli esiti sopra esposti – e quelli per i quali è stato, invece, iscritto il relativo atto di nascita e nessun ricorso è stato promosso, come per nata all’interno del medesimo nucleo familiare di 1, con il ricorso alle stesse tecniche di P,M.A. cui si è sottoposta, nell’anno 2022 (quindi un anno prima, essendo quest’ultimo nato nell’anno 2023), l’altra donna della coppia omoaffettiva.
I due nati, nonostante la comunanza di vita all’interno dello stesso nucleo familiare – perché non v’è dubbio che di formazione familiare a tutti gli effetti si tratti, essendo ormai abbandonato il concetto di famiglia come limitato a quella formata da coppie di sesso diverso, astrattamente in grado di procreare naturalmente – nel caso in cui, non applicandosi gli artt. 8 e 9 L. 40/2004, il presente ricorso della Procura venisse accolto, avrebbero due status diversi, essendo l’una riconosciuta come figlia di entrambe le donne e l’altro solo della madre biologica, con esclusione di ogni legame con la madre intenzionale.
Tant’è vero che le resistenti, nel porsi in concreto il problema, hanno chiesto, in denegata ipotesi, la cancellazione del riferimento alla madre intenzionale anche per I ‘altra figlia, previo ricorso della Procura che, ad oggi, non risulta promosso.
Da non sottovalutare, poi, la questione inerente alla creazione del legame tra i fratelli, che non avrebbe alcun riconoscimento nel caso in cui non si potessero ritenere i due figli provenienti dallo stesso stipite.
Da questo punto di vista, il collegio ritiene di evidenziare, anche in punto di non manifesta infondatezza e di rilevanza della questione, la peculiarità del caso concreto, rispetto a molti casi già decisi in precedenti pronunce di merito e legittimità, oltreché già vagliati dalia Corte costituzionale, originati dal rifiuto dell’Ufficiale dello Stato civile di annotazione nell’atto di nascita anche della madre intenzionale ed in cui i minori coinvolti non avevano mai acquisito lo status di figli anche della madre intenzionale, mentre nel caso di specie lo status andrebbe, in caso di accoglimento, rimosso per il minore.
La situazione concreta rivela infatti in termini drammatici la denunciata disparità di trattamento, capace di realizzarsi anche all’interno della stessa famiglia, in assenza di una disciplina della materia e laddove non si consenta l’applicazione delle disposizioni qui censurate.
Risulterebbe, altresì, violato l’art. 30 Cost: non solo in relazione al mancato riconoscimento del diritto/dovere stabilito nel comma l , di cui abbiamo sopra detto con riferimento al parametro dell’eguaglianza, ma anche con riguardo al comma 3, che richiede che sia assicurata anche ai nati dalle pratiche di fecondazione eterologa cui hanno fatto ricorso due donne legate da una relazione sentimentale (riconosciuta dall’ordinamento) ogni tutela giuridica e sociale, che a sua volta passa attraverso il riconoscimento del loro status di figli della coppia che ha espresso il consenso a tali pratiche e ciò al fine di assicurare il diritto all ‘identità personale.
Si rammenta che l’art. 30 Cost. è stato posto dalla Corte costituzionale a presidio del principio che impone che nelle decisioni delle autorità giudiziarie venga riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia del miglior interesse del minore (Corte costa 11/1981), principio ricondotto altresì all’ambito di tutela dell’art. 31 Cost. (Corte cost. nn. 272/2017, 76/2017, 17/2017, 239/2014) e che rappresenta un ulteriore parametro di costituzionalità violato dalla mancata applicazione degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 alla fattispecie.
E poi violato l’art. 117 Cost. in relazione alle seguenti norme sovranazionali interposte, che tutelano e garantiscono il primario interesse del minore:
- l’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo già richiamata (v. Mennesson c. Francia, n. 65192/11 del 26/6/2014; Labassee c. Francia, n. 65941/11 del 26/6/2014; D c. Francia, n. 11288/18 del 16/7/ 2020; D.B. e altri c. Svizzera, nn. 58817/15 e 58252/15 del 22/11/2022; C c. Italia, n. 47196/21 del 31/7/2023, oltre al parere consultivo n. PI 6-2018-001), atteso che l’assenza di riconoscimento di un legame tra il bambino e la madre intenzionale pregiudica il primo, lasciandolo in una situazione di incertezza giuridica quanto alla sua identità nella società;
- l’art. 14 della CEDU, in presenza di un’ingiustificata disparità di trattamento tra i nati, a seconda che siano stati concepiti con fecondazione eterologa praticata da coppia eterosessuale o da coppia omosessuale, essendo solo questi ultimi destinati ad uno status di figli unigenitoriali;
- l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7/12/2000, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6, co. I TUE) e che prevede, al paragrafo 3: “ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”;
- gli artt. 2 e 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva con L. 176/1991, di cui i successivi articoli 4, 5, 7, 8, 9 e 18 costituiscono specificazioni. ln particolare, con la ratifica lo Stato italiano si è impegnato. insieme agli altri Stati firmatari, “a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione ed a garantirli ad ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta ed a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza” e ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, dalle opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali e dei suoi familiari” (art. 2). Si è poi impegnato a tenere in preminente considerazione “l ‘interesse superiore del fanciullo” in tutte le decisioni che lo riguardano (artt. 3 e 4). Inoltre, ai sensi dell’art. 5, “gli Stati Parti rispettano la responsabilità, il diritto ed il dovere dei genitori o, se del caso, dei membri della famiglia allargata o della collettività, come previsto dagli usi locali, dei tutori o altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di dare a quest’ultimo, in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento ed i consigli adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla presente Convenzione” e l’art. 7 prevede che “il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi”. L’art. 8 tutela l’unità familiare imponendo il rispetto del “diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni famigliari” e l’art. 9 specifica che la separazione dai genitori rappresenta una misura di salvaguardia dell’interesse preminente del minore. L’art. 18, infine, indirizza l’impegno degli Stati firmatari a “garantire il riconoscimento del principio comune secondo il quale entrambi i genitori hanno una responsabilità comune per quanto riguarda l’educazione del fanciullo ed il provvedere al suo sviluppo”;
- gli artt. 1 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 25/1/1996 e ratificata dall’Italia con L. 77/2003, che impongono l’assunzione di decisioni giurisdizionali nel superiore interesse dei minori.
Il monito della Corte costituzionale.
Il collegio è ben consapevole che il Tribunale di Padova, con ordinanza n. 79 del 9/12/2019, ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e dell’art. 250 c.c. in riferimento a parametri di costituzionalità speculari a quelli oggi richiamati da questo Tribunale, denunciando il vuoto di tutela che deriva dall’interpretazione sistematica delle predette disposizioni normative, nella misura in cui non consentono al nato da un progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa, l’attribuzione dello status di figlio anche della madre intenzionale, che abbia parimenti prestato il consenso all’uso della tecnica procreativa richiamata.
Il Tribunale patavino rimettente, giudicando non manifestamente infondata la questione rispetto alla decisione da assumere, aveva in particolare sottolineato la necessità di una pronuncia “additiva” della Corte, volta a colmare proprio quel vuoto di tutela riscontrato.
Tuttavia, la Corte costituzionale con la pronuncia n. 32/2021 ha dichiarato la questione inammissibile, “per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario”.
In particolare, la Corte costituzionale richiamando le proprie precedenti decisioni, ha rimarcato che l’elusione del limite stabilito dall’art. 5 L. 40/2004 non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali: pur escludendosi l’esistenza di un diritto alla genitorialità di coppie dello stesso sesso (Corte coste 230/2020), non è infatti configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli e, inoltre, “non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore” (Corte cost. 221/2019).
In tal senso, ha sottolineato che l’esigenza di salvaguardia del primario interesse del minore, in sintonia con la giurisprudenza delle Corti europee, imponeva (ed impone) un urgente ripensamento del quadro normativo vigente, che disvela una “preoccupante lacuna dell’ordinamento”, rendendo impellente un intervento del legislatore volto a colmare il divario tra la realtà fattuale e quella legale nel rapporto del minore con la madre intenzionale, nell’ottica di conferire riconoscimento giuridico ai legami affettivi e familiari esistenti, anche se non biologici, e all’identità personale del minore.
Ha anche evidenziato che “i nati a seguito di P.M.A. eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi”.
Ha concluso la Corte auspicando “una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da P.M.A. praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale”, così rivolgendo un preciso monito al legislatore, in quanto “non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa”,
L’impellenza dell’auspicato intervento normativo era apparsa alla Corte ancor più incisiva, avendo, il caso concreto sollevato dal Tribunale di Padova, in cui difettava l’assenso della madre biologica, rivelato in maniera tangibile l’inadeguatezza dell’adozione in casi particolari a garantire la tutela del minore. Ebbene, tale valutazione deve ritenersi ferma anche a seguito degli interventi ampliativi di cui si è dato conto che, pur offrendo una risposta al caso specifico in precedenza rimesso dal Tribunale di Padova, lasciano residuare gli ampi vuoti di tutela sopra descritti.
Ad oggi, il monito della Corte costituzionale, che aveva definito non “più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa”, è rimasto inascoltato.
Proprio in ragione di tanto, questo collegio reputa necessario rimettere nuovamente alla Corte la questione di costituzionalità già oggetto della richiamata decisione n. 32/2021, volendo porre l’attenzione sul disomogeneo intervento dei Sindaci nella loro qualità di Ufficiali dello stato civile, che hanno adottato, nel silenzio del legislatore, soluzioni distinte per casi speculari, e sui non univoci e non del tutto risolutivi approdi interpretativi della giurisprudenza.
Infatti, anche successivamente alla pronuncia della Corte, i Sindaci quali Ufficiali dello Stato civile hanno, in alcuni casi, rifiutato l’iscrizione anagrafica anche della madre intenzionale nell’atto di nascita dei minori nati in Italia, dando conseguentemente origine ai giudizi di impugnazione del diniego da parte della madre intenzionale; in altri casi, hanno invece ritenuto legittima l’iscrizione, originandosi i giudizi di impugnazione da parte della Procura della Repubblica.
Parimenti, le pronunce di legittimità e di merito, con esiti non uniformi, che si sono susseguite successivamente alla pronuncia di inammissibilità della Corte (alcune delle quali sono sopra richiamate) danno conto di un’evoluzione del tessuto sociale cui, nella perdurante inerzia legislativa, non è stata data una compiuta risposta.
Riassumendo quanto sopra detto, nella giurisprudenza di merito, a tutt’oggi, si registra un orientamento giurisprudenziale maggioritario stabilmente contrario ed uno minoritario favorevole al riconoscimento della C.d. “maternità intenzionale”, che ha ritenuto, successivamente alia pronuncia della Corte costituzionale, praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. 40/2004, per pervenire ad una valutazione di illegittimità del rifiuto dell’iscrizione anagrafica, accogliendo il ricorso spiegato dalle madri (vedasi, ex aliis, Tribunale di Taranto 31/5/2022, Tribunale di Brescia 16/2/2023 e Corte d’appello di Brescia 30/11/2023) o per pervenire ad una valutazione di legittimità dell’iscrizione anagrafica effettuata, respingendo il ricorso spiegato dalla Procura della Repubblica (ex aliis, Tribunale di Bari 9/9/2022, Corte d’appello di Cagliari 19/4/2021), percorso motivazionale che invece questo collegio non ritiene, per quanto sopra osservato, praticabile.
Sempre tra le corti di merito, vi sono state pronunce che non hanno affrontato il merito delle questioni, limitando il proprio vaglio alla preliminare questione di rito (ex aliis, da ultimo, Tribunale di Padova 5/3/2024). Di contro, è da ritenersi consolidata la giurisprudenza della Corte di cassazione che, ferma l’ammissibilità del procedimento ex art. 95 D.P.R. 396/2000, ritiene illegittima la formazione da parte dell’Ufficiale dello stato civile di un atto di nascita (in Italia), recante l’indicazione di due madri e conseguentemente afferma che, nel caso di coppie omogenitoriali femminili che abbiano fatto ricorso all’estero a tecniche di P.M.A. di tipo eterologa l’unica strada per la madre intenzionale sia quella di ricorrere all’adozione in casi particolari.
Tale orientamento, ancorché nel diverso caso di coppia omoaffettiva maschile, che aveva fatto ricorso all’estero alla maternità surrogata, è quello poi sposato anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cassa S.U, 38162/2022) che hanno, come già detto, affrontato il tema della protezione del diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, affermando che “il nato non è mai un disvalore e la sua dignità di persona non può essere strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono” ed hanno ribadito il diritto del minore al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale.
Anche in questo caso, l’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è stata ritenuta, allo stato dell ‘evoluzione del nostro ordinamento, comunque garantita attraverso l’adozione in casi particolari, strumento sulla cui efficacia in concreto questo collegio ha già espresso le sue riserve.
In conclusione, risulta lampante la mutevolezza e disorganicità della tutela garantita ai minori nati da un condiviso progetto di procreazione medicalmente assistita, in ragione della omosessualità della coppia che tale progetto abbia condiviso,
E solo a sostegno dell’istanza rivolta alla Corte di rivalutare la questione di costituzionalità già rimessale, a fronte di un monito rimasto inascoltato, che questo collegio richiama le parole del Presidente della Corte costituzionale, il quale, nella relazione del 18 marzo scorso, ha rammentato la necessità di “leggere la Carta costituzionale non come testo “separato ” bensì come parte irradiante di un più ampio “ordinamento costituzionale “; ordinamento alimentato dalla “base materiale ” su cui il testo poggia e che è in continua evoluzione”.
In un sistema costituzionale fondato sulla separazione dei poteri e nel pieno rispetto delle prerogative costituzionalmente riconosciute al Parlamento, è compito di quest’ultimo “cogliere le pulsioni evolutive della società pluralista, con le quali la Costituzione respira; pulsioni necessarie per adattarsi al continuo divenire della realtà”, in un costante e fruttuoso, oltre che doveroso, dialogo con la Corte costituzionale, che “è chiamata ad essere «custode della Costituzione», ma è tenuta ad essere altrettanto attenta a non costruire, con i soli strumenti dell’interpretazione, una fragile «Costituzione dei custodi»”.
Nella medesima relazione, affrontando la tematica della tipologia delle decisioni della corte (“dai moniti si è passati alle sentenze additive di principio; dalle pronunce di inammissibilità per discrezionalità legislativa si è passati all’incostituzionalità prospettala, ma non dichiarata, o, in modo ancora più penetrante, alle decisioni a incostituzionalità differita”), il Presidente evidenzia che, laddove il legislatore rinunci ad una prerogativa che ad esso compete, di fatto obbliga la Corte a “procedere con una propria e autonoma soluzione, inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione”.
In questo quadro, il giudice comune è investito del compito di portare (o ri-portare) all’attenzione della Corte le questioni che, pur a fronte di un monito chiaro, non siano state prontamente risolte dal legislatore, onde consentire alla Corte medesima di adempiere al ruolo di garante della costituzione e dei diritti fondamentali, in linea con l’evoluzione della coscienza sociale.
Ciò, a parere del collegio, è particolarmente evidente laddove, come nella fattispecie, all’inammissibilità della questione pronunciata allo scopo di dar spazio al legislatore, abbia invece fatto seguito una totale assenza di interventi da parte di questo.
Del resto, non è estranea alla giurisprudenza della Corte costituzionale, laddove l’onere di interpretazione conforme viene meno lasciando il passo all’incidente di costituzionalità e laddove il compito del legislatore di provvedere all’adozione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato non sia stato adempiuto, una pronuncia di illegittimità costituzionale, su una questione inizialmente dichiarata inammissibile (ex aliis Corte cost. 23/2013 e successiva sentenza n. 45/2015); questo perché “«posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011; analogamente sentenza n. 96 del 2015). Occorre, infatti, evitare che I ‘ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale” (Corte cost. 242/2019).
Nel noto caso Cappato (Corte cost. 242/2019 e Corte cost. ord. 207/2018), la Corte costituzionale ha rimarcato che la tecnica decisoria da ultimo richiamata (ordinanza di inammissibilità con contestuale monito al legislatore di intervenire nella materia) “ha I ‘effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione”, proprio perché “la eventuale dichiarazione di incostituzionalità conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare”, in questo modo investendo di un preciso compito anche il giudice di merito, nel rimettere nuovamente alla Corte la questione rimasta priva di intervento normativo.
Peraltro, nel caso richiamato un tale effetto non appariva tollerabile, non essendo consentito, per le peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori coinvolti, di attendere l’incertezza di una riproposizione della questione da parte dei giudici comuni, tanto che è stato prescelto un diverso modulo decisionale, mantenendo pendente il procedimento dinanzi alla Corte.
Nella materia che qui ci occupa, a fronte della dichiarata inammissibilità della questione, è ancora auspicato (sono queste le parole del Presidente della Corte) e quantomai fondamentale un intervento che tenga conto del monito relativo alla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso, cui il collegio rimettente ritiene che, nell’inerzia del legislatore, la Corte possa porre rimedio.
II Tribunale è dunque giunto al convincimento della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e dell’art. 250 c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata il 4/11/1950, ratificata e resa esecutiva con L. 848/1955 e come interpretati dalla Corte EDU, all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7/12/2000, agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva con L. 176/1991, agli artt. I e 6 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 25/1/1996 e ratificata dall’Italia con L. 77/2003, nella misura in cui impediscono l’attribuzione al nato nell’ambito di un progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa praticata da una coppia di donne l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla C.d. madre intenzionale che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa e, comunque, laddove impongono la cancellazione dall’atto di nascita del riconoscimento compiuto dalla madre intenzionale.
Valuterà la Corte ai sensi dell’art. 27 L. 87/1953, qualora ritenesse la questione fondata, se vi sia 1a necessità di estendere la pronuncia anche ad altre disposizioni legislative interessate in via di consequenzialità.
Il procedimento va quindi sospeso, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Tribunale di Lucca, visti gli artt. 134 Cost., 1 L. costi 1/1948 e 23 L. 87/1953, ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 L. 40/2004 e dell’art. 250 c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata il 4/11/1950, ratificata e resa esecutiva con L. 848/1955 e come interpretati dalla Corte di Strasburgo, all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7/12/2000, agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo filmata a New York il 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva con L. 176/1991, agli artt. I e 6 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 25/1/1996 e ratificata dall’Italia con L. 77/2003, per quanto esposto in parte motiva,
DISPONE
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio.