Testo rilevante della decisione:
«Con l’ordinanza n. 11097 del 10 giugno 2020, questa Suprema Corte ha avuto occasione di chiarire che “L’illecito endofamiliare di protratto abbandono della prole da parte del genitore è una forma di illecito rispetto al quale la concreta capacità della persona danneggiata di esercitare il diritto risarcitorio – id est, la concreta percepibilità completa del danno – assume un peculiare rilievo, derivante dalla natura parimenti peculiare, del danno. Tale illecito infatti produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa“. E, richiamando Cass. 22/11/2013 n. 26205, ha confermato che “la natura del diritto azionato ne rende del tutto giustificabile, in mancanza di limitazioni legali, l’esercizio in una fase di maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”. In particolare, ebbe ad escludere che la parte attrice, agendo quando già da tempo era divenuta maggiorenne, avesse con tale condotta dato luogo ad una concausa del danno patito per tarda reazione “difensiva”. Non solo, ritenne che la natura della condotta illecita, quanto meno nel caso in cui il disinteresse completo inizi dalla nascita del figlio, ha la peculiarità di ledere la formazione della personalità del figlio stesso, e quindi incidere sull’acquisizione della capacità di percepire correttamente e reagire conseguentemente. Occorre, infatti, per acquisirla che la vittima dell’abbandono si svincoli dall’incidenza percettiva e comportamentale del notorio istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo con il genitore, per raggiungere una “maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”, per “maturità personale compatibile” dovendosi intendere – è ovvio – pienamente autonoma, e quindi capace di percepire la reale situazione a sé pregiudizievole e di assumere reattive decisioni di contrasto con la persona “desiderata”. Ovvero, accettare psicologicamente la illiceità della condotta del genitore e chiedere il risarcimento dei danni subiti quale figlio rifiutato del genitore che l’ha posta in essere. La natura dell’illecito quale fonte di danno, in ultima analisi, incide sul dies a quo prescrizionale attraverso le caratteristiche, in esso insite, della sua conoscibilità/percepibilità da parte del danneggiato, come si evince dal più volte richiamato insegnamento di S.U. 576/2008 e dagli arresti che ne hanno dato applicazione: il parametro della tradizionale “ordinaria diligenza”, invero, si concretizza nella capacità di percepirne (in senso pieno, cioè includente la effettiva possibilità di esercitare il correlato diritto) la conseguenza dannosa di un soggetto “ordinario”, cioè di un soggetto che tiene una condotta non anomala nell’ambito della vicenda che gli è giuridicamente pregiudizievole. Soltanto quando si è raggiunto, dunque, tale dies a quo, nel caso di illecito permanente può scattare la progressività del de die in diem».
Cassazione civile, sez. VI, sentenza n. 40335/2021