Corte Costituzionale, sentenza 28 gennaio 2022 n. 25
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12-bis, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Salerno, sezione civile.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
5.1.– In rito, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene le questioni di legittimità costituzionale in esame inammissibili «sia sotto il profilo della rilevanza che della esatta individuazione delle norme rilevanti per la soluzione della causa».
In particolare, la Corte d’appello rimettente ometterebbe «di analizzare il fatto che la normativa vigente e in particolare le norme censurate non precludono la possibilità di conseguire, anche in caso di morte dell’ex coniuge durante il giudizio, l’accertamento con sentenza del diritto all’assegno di divorzio».
Di conseguenza, la questione sarebbe irrilevante poiché, «pure essendo vero che il giudice deve applicare le norme censurate per statuire sulla domanda della reclamante, è pure vero che il mancato conseguimento della statuizione definitiva sull’assegno non deriva dalle norme della cui legittimità si dubita».
6.– In via preliminare, al fine di esaminare le eccezioni di inammissibilità, occorre rievocare il quadro normativo e giurisprudenziale, nel quale si colloca la vicenda oggetto del giudizio a quo.
6.1.– Secondo l’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 (come modificato dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74, recante «Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio»), il diritto alla pensione di reversibilità scaturisce, insieme con altri presupposti, dalla titolarità del diritto all’assegno di divorzio. Quest’ultimo, a sua volta, è giustificato da ragioni assistenziali e compensativo-perequative, che coniugano, nei rapporti orizzontali, la solidarietà con l’esigenza di riequilibrare gli effetti delle scelte condivise nello svolgimento della vita coniugale. In virtù di tale presupposto, anche il diritto alla pensione di reversibilità rispecchia, sul piano assiologico, una funzione solidaristica (sentenze n. 419 del 1999, n. 286 del 1987 e n. 7 del 1980), che sottende, al contempo, istanze perequativo-compensative.
Analogamente, ai sensi dell’art. 12-bis, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (introdotto con l’art. 16 della legge n. 74 del 1987), la pretesa di una quota dell’indennità di fine rapporto dipende, fra l’altro, dalla titolarità dell’assegno di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970 ed è giustificata dalla prevalente funzione perequativo-compensativa.
I diritti alla pensione di reversibilità e ad una quota di indennità di fine rapporto svolgono, in sostanza, funzioni che, nei rapporti orizzontali tra ex coniugi, riflettono istanze di rilievo costituzionale, che attengono alla solidarietà e all’effettività del principio di eguaglianza.
6.2.– Deve, poi, precisarsi che tali diritti, pur traendo giustificazione e origine dai rapporti fra gli ex coniugi, producono effetti che si riverberano anche nei confronti di terzi.
Al fine, dunque, di evitare che, nell’ambito di processi relativi a pretese previdenziali, coinvolgenti gli enti obbligati a tali prestazioni, possano porsi, tramite accertamenti incidenter tantum, questioni inerenti alla spettanza in astratto del diritto all’assegno di divorzio, l’art. 5 della legge n. 263 del 2005, disposizione di interpretazione autentica, ha previsto che «per titolarità dell’assegno […] deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del[l’] art. 5 della […] legge n. 898 del 1970». Resta salva l’equiparazione al provvedimento giudiziale della convenzione di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162.
In particolare, l’esclusione dell’accertamento incidenter tantum si è posta in linea di continuità con la scelta effettuata dalla legge n. 74 del 1987 di rendere automatico il riconoscimento del diritto di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 (nonché di aggiungere la previsione di cui all’art. 12-bis). La novella del 1987 ha, infatti, disegnato con l’art. 9, comma 2, «un nuovo istituto […], che il legislatore ha prescelto allo scopo di eliminare le occasioni di litigiosità di cui la norma abrogata si era dimostrata gravida» (sentenza n. 777 del 1988).
6.3.– Escluso, dunque, dal legislatore l’accertamento incidenter tantum, si pone il problema delle ipotesi in cui l’ex coniuge muoia in pendenza del giudizio che deve ancora definire il diritto all’assegno di divorzio.
In tali casi, la prosecuzione del processo serve a far valere il diritto alle prestazioni inerenti all’assegno di divorzio, che sono in concreto maturate dall’ex coniuge sopravvissuto nei confronti dell’altro ex coniuge, nel periodo che intercorre fra la sentenza parziale di divorzio e la morte di quest’ultimo, prestazioni patrimoniali trasmissibili iure hereditario. Al contempo, l’accertamento del diritto all’assegno, nell’ambito di un giudizio in via principale e a cognizione piena, consente, facendo applicazione dei criteri fissati dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, di dare fondamento ai diritti alla pensione di reversibilità e a una quota dell’indennità di fine rapporto.
Senza la prosecuzione del processo, resterebbe la sola sentenza parziale di divorzio, passata in giudicato, che, per un verso, scioglie il vincolo matrimoniale, non offrendo le garanzie che spetterebbero all’ex coniuge in conseguenza del divorzio, e, per un altro verso, essendo la modificazione dello status correlata al divorzio antecedente alla morte, priva l’ex coniuge delle tutele che, viceversa, avrebbe se lo scioglimento fosse stato causato dal decesso.
6.4.– Orbene, in merito alla prosecuzione del processo di divorzio, nelle ipotesi sopra richiamate, si registra un contrasto nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
Secondo una prima ricostruzione, il procedimento di divorzio deve poter proseguire, permanendo l’interesse dell’altra parte alla pronuncia (così Corte di cassazione, sezione sesta civile, sentenza 24 luglio 2014, n. 16951; sezione sesta civile, ordinanza 11 aprile 2013, n. 8874; sezione prima civile, sentenza 3 agosto 2007, n. 17041).
Secondo una diversa impostazione, la morte di una delle parti del processo determinerebbe la cessazione della materia del contendere in ordine alle domande accessorie ancora sub iudice, anche ove avvenisse dopo l’eventuale sentenza parziale di scioglimento per divorzio dello status coniugale, a nulla rilevando il suo passaggio in giudicato (in questo senso Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 20 febbraio 2018, n. 4092; sezione sesta civile, ordinanza 8 novembre 2017, n. 26489; sezione prima civile, sentenza 26 luglio 2013, n. 18130).
Da ultimo, i divergenti indirizzi giurisprudenziali hanno indotto la prima sezione della Corte di cassazione, con l’ordinanza interlocutoria 29 ottobre 2021, n. 30750, a inviare gli atti al primo presidente perché valuti l’opportunità di rimettere l’esame della questione alle Sezioni unite civili. In particolare, l’ordinanza richiama l’attenzione sul contrasto giurisprudenziale relativo alle «sorti del giudizio di separazione o divorzio quando intervenga, nel corso del loro svolgimento (come nel caso in esame), la morte di una parte e se, dunque, un evento simile determini la cessazione della materia del contendere, sia con riferimento al rapporto di coniugio, sia a tutti i profili economici connessi e, per quel che rileva in questa sede, in presenza del passaggio in giudicato della sentenza non definitiva che ha pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, riguardo alla determinazione della quota della pensione di reversibilità in astratto spettante al coniuge divorziato e al coniuge superstite».
6.5.– Tanto premesso, questa Corte non può esimersi dal sottolineare che dalla soluzione del citato contrasto interpretativo dipendono tutele sostanziali, che – come sopra evidenziato – riflettono, nei rapporti orizzontali fra ex coniugi, istanze di rango costituzionale.
7.– Al contempo, proprio alla luce del descritto quadro normativo e giurisprudenziale, le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato risultano fondate.
Il rimettente, a fronte della richiesta applicazione di norme che presuppongono l’avvenuto accertamento del diritto all’assegno di divorzio, afferma lapidariamente che «l’accertamento giudiziale [di tale diritto] non [poteva] compiersi dopo il decesso dell’obbligato, vigendo [il] principio della cessazione della materia del contendere con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi».
Per converso, il quadro normativo e giurisprudenziale, sopra riportato, dimostra che non sussiste – e non sussisteva neppure prima dell’ordinanza interlocutoria n. 30750 del 2021 – il citato principio, bensì un contrasto interpretativo, di cui il rimettente avrebbe dovuto dare conto.
A fronte di tale contrasto, il giudice a quo, senza adeguatamente confrontarsi con la giurisprudenza sul punto, ha assunto che la parte reclamante non avrebbe potuto impugnare la sentenza di cessazione della materia del contendere, relativa al giudizio avente ad oggetto l’accertamento del presupposto costitutivo dei diritti previsti dalle norme censurate.
Il rimettente non dà, pertanto, una spiegazione adeguata del perché debba applicare tali norme. Non fornisce, cioè, una congrua motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate in merito a disposizioni, che in tanto si trova ad applicare, dubitando della loro legittimità costituzionale, in quanto cerca di ovviare alla pregressa scelta di fatto della parte reclamante di non impugnare, nel precedente giudizio di divorzio, la sentenza di cessazione della materia del contendere.
Per costante orientamento di questa Corte, ove l’ordinanza di rimessione risulti «carente […] nella motivazione sulla rilevanza» e impedisca di procedere allo «scrutinio in ordine alla sussistenza del necessario nesso di pregiudizialità tra la questione proposta e la definizione del giudizio principale», si deve ritenere «inammissibile la questione medesima (ordinanza n. 314 del 2012)» (sentenza n. 50 del 2014).