<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 25 giugno 2020 n. 127</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in quanto volte a ottenere una pronuncia additiva che, sostituendosi alla discrezionalità del legislatore, attribuisca rilevanza allo stato soggettivo di mala fede dell’autore del riconoscimento e ne escluda la legittimazione ad impugnare. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa eccezione è priva di fondamento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il petitum del rimettente mira a precludere l’impugnazione del riconoscimento a chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità. L’obiettivo perseguito dal giudice a quo è volto a delimitare l’ambito dei soggetti legittimati a proporre l’azione, escludendone chi abbia consapevolmente effettuato un riconoscimento falso. L’intervento richiesto è, dunque, limitato alla verifica del fondamento costituzionale di questa legittimazione, che, ove risultasse manifestamente irragionevole e contraria all’art. 2 Cost., così come ipotizzato dal rimettente, sarebbe per ciò stesso estranea alle scelte discrezionali rimesse al legislatore. Del resto, sono rinvenibili nell’ordinamento altre fattispecie di preclusione dell’azione ex art. 263 cod. civ., in considerazione di interessi ritenuti meritevoli di tutela. Nessuna manipolazione creativa deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento delle questioni (in questo senso, ex plurimis, sentenze n. 212 e n. 113 del 2019).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.1.– Non è fondata neppure l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’insufficiente ricostruzione del quadro normativo, per l’omessa considerazione delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, ad avviso dell’interveniente, il giudice a quo non avrebbe spiegato perché la previsione di rigorosi limiti temporali per l’impugnazione del riconoscimento, proposta dal suo autore, non valga a realizzare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di accertamento della verità e l’interesse alla stabilità degli status personali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tuttavia, il giudice rimettente, dopo avere dato atto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013, ha evidenziato che nel giudizio a quo l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. è stata proposta prima dell’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013. Pertanto, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 14 febbraio 2017, n. 3834), a questo giudizio non era applicabile la disciplina dell’art. 263, secondo e quarto comma, cod. civ., come novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013, in vigore dal 7 febbraio 2014 e, in particolare, non erano applicabili i nuovi termini per la proposizione dell’azione. In quanto proposta nella vigenza della disciplina precedente, l’impugnazione proposta dall’autore del riconoscimento non era soggetta a termini. Pertanto, nel caso oggetto del giudizio a quo, l’impugnazione – ancorché proposta a distanza di otto anni dal riconoscimento – era tempestiva.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è dunque scalfita dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 154 del 2013, né la motivazione del rimettente denota lacune nella ricostruzione del quadro normativo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va, inoltre, rilevato che le modifiche introdotte dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013 sono intervenute sulle disposizioni dei commi secondo e quarto dell’art. 263 cod. civ. e non su quella oggetto di censura. Infatti, mentre la previsione dei soggetti legittimati ad impugnare è contenuta nel primo comma dell’art. 263 cod. civ., le condizioni e i termini per la proposizione dell’azione, invece, sono disciplinate nei successivi commi e sono proprio questi ad essere stati profondamente modificati dal disegno riformatore del 2013. È vero che tali modifiche non possono non incidere sul significato attuale dello stesso primo comma, rimasto per parte sua immutato, ma ciò attiene al merito della questione, non alla sua ammissibilità.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Nel merito, non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e alla denunciata disparità di trattamento con l’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.– La prospettazione del giudice a quo fa leva sulla ritenuta affinità della situazione dell’autore del riconoscimento consapevolmente falso rispetto a quella di chi abbia prestato il consenso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. L’art. 9 della legge n. 40 del 2004 preclude espressamente l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. – oltre che l’azione di disconoscimento della paternità, nei casi previsti dall’art. 235, primo comma, numeri 1) e 2), cod. civ. – al coniuge o al convivente che abbia prestato il proprio consenso a tecniche di procreazione medicalmente assistita. È siffatta preclusione ad essere indicata dal rimettente come tertium comparationis, al fine di evidenziare la disparità di trattamento rispetto alla disposizione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il giudice a quo richiama l’ordinanza n. 7 del 2012, in cui questa Corte ha ritenuto che la previsione dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 configura «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» e ravvisa delle significative analogie tra la dichiarazione di riconoscimento consapevolmente falsa e il consenso prestato alla procreazione medicalmente assistita. L’elemento unificante delle due situazioni è individuato nella volontaria e consapevole instaurazione del rapporto di filiazione, con conseguente assunzione della responsabilità genitoriale. La ratio della preclusione di cui al suddetto art. 9, comma 1, sarebbe pertanto estensibile all’impugnazione del riconoscimento per compiacenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.2.– Tuttavia, nel caso del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il divieto d’impugnare il riconoscimento è riferito a particolari situazioni, specificamente qualificate dal legislatore, e riveste carattere eccezionale. Esso è volto a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo concepimento. È per questo stesso motivo che la legge speciale nega – sempre in via d’eccezione – il diritto di anonimato della madre (art. 9, comma 2, della legge n. 40 del 2004). Si tratta, dunque, di eccezioni rispetto al regime generale della filiazione e il carattere derogatorio si accentua nell’àmbito di una disciplina che connette effetti giuridicamente rilevanti a tecniche altrimenti espressamente vietate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Né possono essere equiparate la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di riconoscere un figlio altrui: nel primo caso, la volontà porta alla nascita una persona che altrimenti non sarebbe nata; nel secondo caso, la volontà del dichiarante si esprime rispetto a una persona già nata. Invero, anche la condizione giuridica del soggetto riconosciuto risulta differente: mentre per la persona nata attraverso procreazione medicalmente assistita eterologa un eventuale accertamento negativo della paternità non potrebbe essere la premessa di un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante l’anonimato del donatore di gameti e l’esclusione di qualsiasi relazione giuridica parentale con quest’ultimo (art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004). Viceversa, nel caso del falso riconoscimento esiste un genitore “biologico”, la cui responsabilità può venire in gioco.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>D’altra parte, il divieto di impugnazione del riconoscimento, previsto dall’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, si riferisce a un contesto in cui operano alcune garanzie associate alla figura e all’intervento del medico. Viceversa, la fattispecie del riconoscimento per compiacenza è destinata a realizzarsi in situazioni “opache”, al di fuori del circuito medico-sanitario disegnato dalla legge speciale, talora addirittura per aggirare la disciplina dell’adozione, come dimostra la previsione di cui all’art. 74 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che prevede, infatti, l’attivazione di poteri ufficiosi di segnalazione, accertamento e di impugnazione, ove ricorrano indici del carattere fraudolento del riconoscimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso non è, dunque, desumibile un principio generale in base al quale, ai fini dell’instaurazione del rapporto di filiazione, è sufficiente il solo elemento volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione, ovvero dall’adesione a un comune progetto genitoriale. È pur vero che lo sviluppo scientifico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dal legame genetico e che l’ordinamento ne ha preso atto. Tuttavia, la disciplina del rapporto di filiazione rimane tuttora strettamente connessa all’esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è possibile, pertanto, fondare la valutazione di irragionevolezza postulata dal giudice a quo sulla disparità di trattamento con la disciplina di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. La differente natura delle fattispecie impedisce, infatti, di considerare la scelta normativa dell’indicato art. 9 come un idoneo tertium comparationis ai fini della valutazione della ragionevolezza estrinseca della disposizione dell’art. 263 cod. civ. Si tratta di fattispecie differenti e la diversità delle rispettive discipline si sottrae ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati in nome del principio d’eguaglianza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata neppure in riferimento alla violazione dell’art. 2 Cost., nonché all’irragionevolezza intrinseca della disposizione in esame.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.1.– Occorre premettere che, per quanto le argomentazioni del giudice a quo ruotino principalmente attorno all’art. 3 Cost., sussiste un’intima connessione tra le censure che evocano il canone di ragionevolezza e quelle relative alla violazione del diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella prospettiva del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i richiamati principi costituzionali nella parte in cui essa consente l’impugnazione per difetto di veridicità anche a chi abbia effettuato il riconoscimento, pur essendo consapevole della sua falsità. L’irragionevolezza consisterebbe, quindi, nel consentire a chi abbia instaurato un rapporto di filiazione, nella consapevolezza della sua falsità, di vanificare il riconoscimento, sacrificando gli interessi del soggetto riconosciuto sulla base di una esclusiva riconsiderazione dei propri.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’assunto del rimettente riflette la tradizionale interpretazione dell’art. 263 cod. civ. offerta dalla giurisprudenza di legittimità nei casi di riconoscimento consapevolmente falso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 14 febbraio 2017, n. 3834, e 24 maggio 1991, n. 5886; ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5242). Essa si fonda sulla assoluta prevalenza da attribuire all’interesse, di natura pubblicistica, all’accertamento della verità, rispetto a qualsiasi altro interesse che con esso venga in conflitto e quindi anche rispetto al diritto, anch’esso dotato di copertura costituzionale, all’identità sociale del soggetto riconosciuto, nonché alla necessità di far valere le responsabilità, inerenti alla qualità di genitore, assunte con il riconoscimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.– Si tratta, tuttavia, di un’impostazione ormai superata dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale, anche di questa Corte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sul rilievo che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l’assoluta preminenza del favor veritatis e ad affermare la necessità della sua ragionevole comparazione con altri valori costituzionali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In più occasioni, infatti, il legislatore, cui l’art. 30, quarto comma, Cost. demanda il potere di fissare limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica nei confronti di quella legale, ha attribuito prevalenza al consenso alla genitorialità e all’assunzione della conseguente responsabilità rispetto al favor veritatis.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.1.– È certo un significativo passaggio di questa evoluzione il richiamato art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 che, in un caso di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità giuridica, tanto specifico e peculiare da non valere, come si è detto, come tertium comparationis, fa comunque prevalere l’interesse alla conservazione dello status, così riconoscendo che la corrispondenza tra lo stato di figlio e la verità biologica, pur auspicabile, non è elemento indispensabile dello status filiationis.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Anche le novità apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013 si pongono nella direzione indicata. Se, da un lato, è stato garantito senza limiti di tempo l’interesse primario ed inviolabile del figlio a ottenere l’accertamento della mancata corrispondenza tra genitorialità legale e genitorialità biologica, dall’altro lato sono stati introdotti rigorosi termini per la proposizione dell’azione da parte degli altri legittimati, assicurando così tutela al diritto alla stabilità dello status acquisito, in particolare laddove ad impugnare il riconoscimento sia il suo stesso autore. Il nuovo testo dell’art. 263 cod. civ. prevede, infatti, che il termine per proporre l’azione di impugnazione – originariamente imprescrittibile – è di un anno, se ad agire è l’autore del riconoscimento, e di cinque anni per gli altri legittimati.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, evitando il protrarsi di un’incertezza potenzialmente lesiva della solidità degli affetti e dei rapporti familiari. È stata così riconosciuta e garantita la tendenziale stabilità dello stato di filiazione, in connessione con il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In questa prospettiva, va anche notata la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione: non dalla nascita, ma da un momento successivo, quello dell’annotazione del riconoscimento nell’atto di nascita. In questo modo è stato attribuito rilievo, ai fini della proponibilità dell’azione e del consolidamento del diritto all’identità personale che essa ha di fronte, non all’età del figlio – in genere, ma non necessariamente, un minore – bensì alla durata del rapporto di filiazione, anche se iniziato in un momento successivo alla nascita.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.2.– D’altra parte, l’assolutezza del principio di prevalenza dell’interesse all’accertamento della verità biologica della procreazione è stata superata anche dalla giurisprudenza di legittimità che, da tempo, ha riconosciuto come l’equazione tra “verità naturale” e “interesse del minore” non sia predicabile in termini assoluti, essendo viceversa necessario bilanciare la verità del concepimento con l’interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4791; sentenze 3 aprile 2017, n. 8617, 15 febbraio 2017, n. 4020, 22 dicembre 2016, n. 26767, 8 novembre 2103, n. 25213 e 19 ottobre 2011, n. 21651; sezione sesta civile, sentenza 23 settembre 2015, n. 18817).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.3.– Anche la giurisprudenza di questa Corte ha preso atto di questa evoluzione, non solo con il riconoscimento che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia» (sentenza n. 162 del 2014), ma anche con l’affermazione dell’immanenza dell’interesse del figlio, specie se minore, nell’ambito delle azioni volte alla rimozione dello status (sentenze n. 272 del 2017, n. 494 del 2002, n. 170 del 1999 e ordinanza n. 7 del 2012).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, proprio con riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., questa Corte ha sottolineato che «[l]’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale […]. Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo […]; se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica […] ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità» (sentenza n. 272 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In definitiva, la necessità di valutare l’interesse alla conservazione della condizione identitaria acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel giudizio di cui all’art. 263 cod. civ. ed è immanente a esso. Si tratta, infatti, di una valutazione comparativa che attiene ai presupposti per l’accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. e non alla legittimazione dell’autore del riconoscimento inveridico.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.3.– Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso» (sentenza n. 272 del 2017). Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento (in particolare nelle azioni, come quella oggetto del giudizio a quo, esercitate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013), sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore.</em></p>