Corte Costituzionale, sentenza 04 novembre 2020 n. 230
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, dal Tribunale ordinario di Venezia.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.‒ Preliminarmente, va confermata l’allegata ordinanza, con la quale è stata esclusa l’ammissibilità dell’intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, poiché titolare di meri interessi indiretti e generali correlati ai suoi scopi statutari e non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale.
4.‒ Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalle parti costituite, per adombrata carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata motivazione in ordine alla esclusa possibilità di addivenire ad una interpretazione delle norme denunciate conforme a Costituzione.
4.1.‒ L’eccezione non è fondata.
Il rimettente non ha mancato, infatti, di prendere in considerazione la praticabilità di una «via ermeneutica alla tutela» richiesta dalle ricorrenti. Ma è poi pervenuto ad escluderla per l’ostacolo, a suo avviso non superabile, rinvenibile nella lettera (in particolare nell’incipit) dell’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016, oltre che nella preclusione normativa all’accesso delle coppie dello stesso sesso alla procreazione medicalmente assistita. E tanto basta, poiché attiene al merito, e non più all’ammissibilità della questione, la condivisione o meno del presupposto interpretativo della normativa censurata (da ultimo, sentenze n. 32 e n. 11 del 2020, n. 189, n. 187 e n. 179 del 2019).
5.‒ Nel merito è, in primo luogo, comunque esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo.
5.1.‒ È pur vero che, come sostengono le due ricorrenti, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa.
Ciò, infatti, si desume sia dall’art. 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) – per cui, appunto, i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato – sia dal successivo art. 9 che, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, coerentemente stabilisce che il «coniuge o il convivente» (della madre naturale), pur in assenza di un suo apporto biologico, non possa, comunque, poi esercitare l’azione di disconoscimento della paternità né l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
Ma occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
5.2.‒ Tanto è espressamente disposto dall’art. 5 della citata legge n. 40 del 2004: norma della quale non è possibile l’interpretazione adeguatrice pretesa dalle ricorrenti medesime.
Con la recente sentenza n. 221 del 2019, questa Corte – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché agli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e con altre disposizioni sovranazionali – ha, tra l’altro, affermato che «[l]’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale». Ha, inoltre, ricordato come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Con la successiva sentenza n. 237 del 2019, questa Corte ha altresì affermato che ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto «[d]al rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante».
E ancor più di recente, la Corte di legittimità, in una fattispecie analoga a quella oggetto del procedimento a quo, ha, a sua volta, ribadito che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 3 aprile 2020, n. 7668).
5.3.‒ Resiste, dunque, a censura l’affermazione assunta in premessa dal rimettente, che lo induce a chiedere a questa Corte se «l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia» violi o meno, «sia per gli adulti che per il nato», i parametri evocati.
6.‒ In realtà, i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. e i parametri europei e convenzionali, congiuntamente richiamati attraverso l’intermediazione dell’art. 117, primo comma, Cost., così come non consentono l’interpretazione adeguatrice della normativa censurata – alla quale lo stesso rimettente esclude di poter pervenire – allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano la reductio ad legitimitatem, nel senso dell’auspicato «riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra».
Ed invero, la scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» – sottende l’idea, «non […] arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato» (sentenza n. 221 del 2019). E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost., per i profili evidenziati dal giudice a quo, perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.
A sua volta, l’art. 30 Cost. «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, «con altri interessi costituzionalmente protetti: […] particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico» (sentenza n. 221 del 2019).
Quanto poi al prospettato vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 15 giugno 2017, n. 14878 e 30 settembre 2016, n. 19599), ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, «[l]a circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia» (sentenza n. 221 del 2019).
Né diversamente rilevano, infine, le richiamate fonti europee, poiché sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati. E, in particolare, la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che, nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; grande camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).
Nello stesso senso la Corte EDU ha recentemente chiarito che gli Stati non sono tenuti a registrare i dettagli del certificato di nascita di un bambino nato attraverso la maternità surrogata all’estero per stabilire la relazione legale genitore-figlio con la madre designata: l’adozione può anche servire come mezzo per riconoscere tale relazione, purché la procedura stabilita dalla legislazione nazionale ne garantisca l’attuazione tempestiva ed efficace, nel rispetto dell’interesse superiore del minore (grande camera, parere 10 aprile 2019).
A medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo al diritto alla genitorialità di cui alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, diritto che è riconosciuto non già in termini assoluti, ma solo ove corrisponda al migliore interesse per il minore (best interest of the child).
7.– Se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali» (sentenza n. 221 del 2019).
Non privo di rilievo, in questa prospettiva, è poi il fatto che, ai fini della (ammessa) trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero, l’annotazione sugli stessi di una duplice genitorialità femminile è stata riconosciuta, dalla ricordata giurisprudenza, non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; oltre alle già citate sentenze n. 14878 del 2017 e n. 19599 del 2016).
8.– L’obiettivo auspicato dal Tribunale di Venezia, quanto al riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex lege n. 76 del 2016, non è, pertanto, come detto, raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto, recata dalla legge stessa e da quella del collegato d.P.R. n. 396 del 2000.
Esso è, viceversa, perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente «attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre […] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016).
Da qui l’inammissibilità, per tal profilo, della questione in esame.
9.– La questione è posta, peraltro, anche sotto un altro, connesso e parallelo profilo, che è quello relativo al vulnus che si assume arrecato all’interesse del minore, nel caso concreto in cui una delle due donne civilmente unite abbia (sia pur in violazione del divieto sub art. 5 della legge n. 40 del 2004), con il consenso dell’altra, portato a termine, all’estero, un percorso di fecondazione eterologa, da cui sia poi nato, in Italia, quel minore.
9.1.– Per questo secondo aspetto, la giurisprudenza ha già preso in considerazione l’interesse in questione, ammettendo l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, «si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)» (sentenza n. 221 del 2019).
Una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore.