Corte di Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 16 luglio 2024, n. 28594
PRINCIPIO DI DIRITTO
Integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita
Il contrasto giurisprudenziale di tipo sincronico – due o più interpretazioni difformi della medesima norma che coesistono nel medesimo intervallo temporale – incide sul principio di determinatezza e di prevedibilità delle decisioni, impedendo ai consociati di calcolare le conseguenze giuridico-penali della propria condotta, mentre il c.d. contrasto di tipo diacronico – cioè l’esistenza di linea interpretativa “affermata” in un determinato lasso temporale che, tuttavia, viene smentita da una decisione successiva e che origina una “svolta” giurisprudenziale in senso sfavorevole all’imputato – incide sul principio di prevedibilità ed evoca in senso lato il tema della irretroattività della “norma” penale sfavorevole – corollario fondamentale del principio di legalità -, potendosi in astratto venire a determinare – qualora non intervengano opportuni meccanismi di “neutralizzazione” – un fenomeno di c.d. “retroattività occulta”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato quanto al secondo motivo.
- Il primo motivo è inammissibile.
La Corte di appello, anche richiamando la sentenza del Tribunale, ha con motivazione priva di illogicità evidenti, ricostruito i fatti e spiegato che: a) l’imputato, nel corso di un servizio di polizia durante il quale erano stati controllati alcuni giovani – tra cui B.B. – si era appropriato di alcune banconote da 50 Euro che il B.B. stesso – temendo che il denaro potesse essergli sequestrato all’esito del controllo – aveva nascosto all’interno di una intercapedine di un muretto sulla pubblica via; b) B.B., poco dopo, si era presentato in Commissariato e aveva accusato gli agenti di essersi appropriati dei suoi soldi; c) l’imputato, preoccupato delle possibili conseguenze del suo gesto, si era disfatto del denaro e aveva contattato il collega D.D., dicendogli di aver fatto “una stupidaggine”, ammettendo l’accaduto; d) D.D. aveva rassicurato il ricorrente dicendogli di aver recuperato e restituito il denaro all’avente diritto. In tale contesto si è chiarito come, diversamente dagli assunti difensivi, il denaro non potrebbe essere considerato res nullius e neppure res derelicta, atteso che, nella specie, non vi era affatto la volontà da parte del legittimo titolare di spogliarsi del bene, di disfarsene in modo definitivo, di dismettere di esercitare su di essa un potere di controllo; su quel denaro il legittimo detentore avrebbe potuto ricostituire l’originario potere di fatto (Sez. 4, n. 3910 del 17/12/2020, – dep. 2021, Degli Innocenti, Rv. 280380; Sez. 5, n. 11107 del 26/02/2015, Di Benedetto, Rv. 263105 secondo cui affinché una cosa possa considerarsi abbandonata dal proprietario è necessario che, per le condizioni o per il luogo in cui essa si trovi, risulti chiaramente la volontà dell’avente diritto di disfarsene definitivamente, in cui, in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito, condannando gli imputati per il reato di furto aggravato, aveva escluso che costituissero “res derelicta”, ovvero cosa abbandonata con l’intenzione di disfarsene, quattro condotti ondulati in acciaio, del valore complessivo di Euro cinquantamila, ordinatamente collocati su un terreno privato, non recintato e ben tenuto).
È stata inoltre evidenziata la consapevolezza da parte dell’imputato che il denaro fosse proprio di B.B., il quale ha riferito di avere appreso che il denaro fosse stato raccolto nei pressi di un muretto da uno dei poliziotti che, dunque, si era accorto del gesto del giovane.
Il quadro probatorio è stato ulteriormente precisato dalla Corte di appello facendo riferimento: a) alle dichiarazioni di D.D., cioè del collega dell’imputato, il quale ebbe a riferire che durante il controllo l’imputato si spostò proprio per controllare se i giovani si fossero disfatti di qualcosa; b) alle stesse dichiarazioni dell’imputato che riferì al suo superiore di avere fatto una “sciocchezza”.
Dunque, l’imputato si appropriò di denaro di cui, in ragione del suo ufficio e del suo servizio, ebbe la disponibilità a seguito del controllo compiuto e nella piena consapevolezza che quelle banconote appartenevano ad uno dei ragazzi fermati.
Rispetto a tale articolato quadro di riferimento, il motivo rivela la sua strutturale inammissibilità perché, da una parte, manifestamente infondato, e, dall’altra, perché aspecifico, non essendosi confrontato il ricorrente con la motivazione del provvedimento impugnato.
- È invece fondato il secondo motivo di ricorso, relativo al reato di cui all’art. 615 ter cod. pen. I Giudici dì merito hanno spiegato in punto di fatto come, in un dato momento, si fosse manifestata l’esigenza investigativa di verificare la regolarità degli accessi alle banche dati da parte degli appartenenti al Commissariato di P., essendo emerso che il sostituto commissario D.D. aveva fornito a tale C.C. Salvatore informazioni sui procedimenti penali che interessavano questi.
Nel corso delle indagini era emerso che anche l’odierno imputato aveva interrogato il 15 novembre 2016 tre volte, in rapida successione, la banca dati in ordine alla posizione di C.C., figlio di Salvatore.
Sulla base di tale quadro di riferimento è stato formulato il giudizio di responsabilità.
- Si tratta di un ragionamento viziato.
Al momento in cui i fatti furono commessi il principio di diritto, stabilizzatosi con la sentenza delle Sezioni unite n. 4694 del 27/10/2011 – dep. 2012, Casani, Rv. 251269 era quello per cui il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen. era configurabile solo per colui che, pur essendo abilitato, avesse avuto accesso o si fosse mantenuto in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che avessero soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema.
In particolare, le Sezioni unite, a cui era stata rimessa la questione del se integrasse la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita, chiarirono che: – ai fini della integrazione del reato, assumeva rilievo solo il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che, sostanzialmente, non fosse autorizzato ad accedervi ed a permanervi, ovvero che avesse violato i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro); il reato era configurabile anche nel caso in cui l’agente avesse posto in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle rispetto alle quali era incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito;
– dovevano considerarsi irrilevanti gli eventuali fatti successivi;
– nei casi in cui l’agente – come nel caso di specie – avesse compiuto sul sistema un’operazione assentita dall’autorizzazione ricevuta ed avesse agito nei limiti di questa, il reato di cui all’art. 615 ter cod, pen. non poteva configurarsi, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito;
– qualora l’attività autorizzata fosse consistita anche nella acquisizione di dati informatici, e l’operazione fosse stata eseguita nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare dello ius excludendi, il delitto in esame non avrebbe potuto essere individuato, anche se degli stessi dati egli si fosse servito per finalità illecite (così, testualmente, le Sezioni unite).
- Rispetto a tale quadro di riferimento, non è in contestazione in punto di fatto che nella specie: a) l’imputato avesse il potere di accedere alla banca dati; b) l’operazione fosse tra quelle a lui consentite; c) non vi fossero prassi o direttive specifiche interne che limitassero il potere dell’imputato di accedere e trattenersi nel sistema; d) non furono violati i limiti oggettivi che consentivano l’accesso al ricorrente. La responsabilità penale è stata fatta discendere solo in ragione dello scopo e delle finalità illecite per le quali l’accesso fu eseguito.
Al momento in cui furono commessi, nel novembre del 2016, i fatti per cui si procede non solo non erano vietati espressamente dalla norma incriminatrice, ma erano penalmente irrilevanti in virtù della regola stabilizzatrice posta dalle Sezioni unite nel 2011, cioè cinque anni prima.
Il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Casani” è stato successivamente rivisto con la sentenza delle Sezioni unite n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061, secondo cui, invece, integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’ incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita (nella specie, la Corte aveva ritenuto immune da censure la condanna di un funzionario di cancelleria, il quale, sebbene legittimato ad accedere al Registro informatizzato delle notizie di reato – c.d. Re.Ge. -conformemente alle disposizioni organizzative della Procura della Repubblica presso cui prestava servizio, aveva preso visione dei dati relativi ad un procedimento penale per ragioni estranee allo svolgimento delle proprie funzioni, in tal modo realizzando un’ipotesi di sviamento di potere).
In tale contesto, è utile indicare quale fosse stata l’evoluzione della giurisprudenza nel periodo intercorrente tra le due sentenze pronunciate dalla Sezioni unite sulla questione.
È sufficiente al riguardo richiamare testualmente la sentenza delle Sezioni unite “Savarese” che, nella ricostruzione della questione rimessa, ha spiegato: ” La Sezione rimettente ha dato atto dello svilupparsi nella giurisprudenza successiva alla sentenza (Omissis) di diverse posizioni, dettate dalla ritenuta necessità di precisazioni e specificazioni, in funzione eminentemente estensiva, della portata del principio di diritto espresso dalla citata sentenza, tanto da considerare idonea ad integrare la tipicità della fattispecie incriminatrice la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si traduca in un abuso o sviamento dei poteri conferitigli.
È stato, in particolare, evidenziato il contrasto manifestatosi con le sentenze, entrambe della Quinta Sezione, n. 22024 del 24/04/2013, Carnevale, Rv. 255387, e n. 44390 del 20/06/2014, Mecca, Rv. 260763, che, seppure fondate sulla espressa adesione all’identica premessa costituita dal decisum delle Sezioni Unite Casani, avevano fornito risposte antitetiche circa la possibilità di ravvisare l’abusività dell’accesso nella violazione dei principi che presiedono allo svolgimento dell’attività amministrativa, quali sinteticamente enunciate dall’art. 1 legge 7 agosto 1990, n. 241.
Secondo la prima decisione, nel caso in cui l’agente sia un pubblico dipendente “non può non trovare applicazione il principio di cui alla L. 7 agosto 1990 n. 241, art. 1, in base al quale l’attività amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. Di qui deriverebbe la “ontologica incompatibilità” di un utilizzo del sistema informatico senza il rispetto di tali principi, in quanto “fuoriuscente dalla ratio del conferimento del relativo potere”.
Con la seconda delle citate decisioni era stata, all’opposto, esclusa la possibilità di identificare il carattere di abusività della condotta di accesso al sistema, o di mantenimento al suo interno, nella violazione delle predette regole di imparzialità e trasparenza enunciate dall’art. 1 legge, n. 241 del 1990, se non a prezzo di frustrare la ratio della stessa norma incriminatrice come interpretata dalle Sezioni Unite, dilatando inammissibilmente la nozione di “accesso abusivo” oltre i limiti imposti dalla necessità di tutelare i diritti del titolare del sistema”.
Dunque, nel periodo di tempo intercorso tra le due pronunce delle Sezioni unite si era registrata una tendenza a precisare, a specificare in senso estensivo la portata del principio affermato dalle Sezioni unite Casani, ma detto principio, fissato nel 2011, aveva sostanzialmente “tenuto”, ad eccezione di quanto affermato con la sentenza della Quinta sezione, n. 22024 del 24/04/2013, Carnevale, Rv. 255387, di cui si è detto.
Un principio, quello affermato dalle Sezioni unite “Casani”, stabilizzato nella sua portata dal 2011 e fino al 2017, seppur con una tendenza ad una interpretazione estensiva in ragione di esigenze di specificazioni e precisazioni.
Vi era stata una sola sentenza – quella del 2013 – che espressamente si era collocata in una prospettiva di superamento di detto principio e che aveva indotto, a distanza di anni, le Sezioni semplici della Corte a rimettere la questione nuovamente alle Sezioni unite, che, nel 2017, avevano appunto modificato in senso sfavorevole all’imputato il principio in precedenza affermato, allargando di fatto l’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice.
Nel 2017 le Sezioni unite ritennero che la norma incriminatrice sia riferibile anche ai casi in cui i soggetti accedono al sistema e vi si trattengono abusando della propria qualità soggettiva, cioè anche in relazione a quelle situazioni in cui l’accesso o il mantenimento nel sistema informatico dell’ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, seppur avvenuto a seguito dell’utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati, si connoti, tuttavia, come nel caso di specie, dall’abuso delle proprie funzioni e rappresenti uno sviamento di potere, cioè un uso del potere in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati (in tal senso, testualmente, le Sezioni unite).
- Il fatto contestato all’imputato che, al momento in cui fu commesso, non costituiva reato in ragione della regola fissata dalle Sezioni unite “Casani” nel 2011- cinque anni prima- ha assunto invece rilievo penale nel maggio del 2017, a seguito di un mutamento della giurisprudenza.
In particolare, al momento in cui i fatti furono commessi – il 15.11.2016 -, esisteva una regola rispetto alla quale non vi era un effettivo, concreto, contrasto giurisprudenziale, nè sincronico e neppure diacronico.
È noto come il contrasto giurisprudenziale di tipo sincronico – due o più interpretazioni difformi della medesima norma coesistono nel medesimo intervallo temporale – incida sul principio di determinatezza e di prevedibilità delle decisioni, impedendo ai consociati di calcolare le conseguenze giuridico-penali della propria condotta, mentre il c.d. contrasto di tipo diacronico – cioè l’esistenza di linea interpretativa “affermata” in un determinato lasso temporale che, tuttavia, viene smentita da una decisione successiva e che origina una “svolta” giurisprudenziale in senso sfavorevole all’imputato – incida sul principio di prevedibilità ed evoca in senso lato il tema della irretroattività della “norma” penale sfavorevole – corollario fondamentale del principio di legalità -, potendosi in astratto venire a determinare – qualora non intervengano opportuni meccanismi di “neutralizzazione” – un fenomeno di c.d. “retroattività occulta“.
Un mutamento giurisprudenziale, quello sopravvenuto nel 2017, che, in astratto – come sempre – era possibile, non privo di ragionevolezza, che aveva avuto vaghi prodromi, ma che, al momento in cui fu commesso il fatto, non era esattamente “nell’aria”.
Una ‘correzione di rotta’, quella affermata nel 2017, con effetto in malam partem rispetto alle letture precedenti della norma incriminatrice (sul tema specifico oggetto del ricorso in esame, e, in particolare, sulla prevedibilità del mutamento di giurisprudenza, cfr., Sez. 5, n. 25944 del 09/07/2020, Paciletti, Rv. 279496, in fattispecie cui la Corte ha escluso, perché prevedibile, la rilevanza del mutamento giurisprudenziale realizzatosi proprio con la sentenza delle Sezioni unite “Savarese”, in relazione ad una fattispecie in cui, tuttavia, gli accessi abusivi erano stati compiuti prima della pronuncia della sentenza delle Sezioni unite “Casani”, in un momento in cui, cioè, vi era sulla questione un contrasto giurisprudenziale sincronico; nello stesso senso, Sez. 6, n. 10659 del 20/02/2020, Najim, non massimata in relazione a fattispecie relativa al decorso del temine per impugnare in tema di giudizio abbreviato per l’imputatoassente, ai sensi dell’art. 442, comma 3, cod. proc. pen., in relazione ad una condotta posta in essere – prima dell’interventodelle Sezioni unite sulla questione – in un momento in cui esisteva contrasto sincronico).
- Se le interpretazioni estensive, di adattamento, di specificazione, che rispettano i requisiti di ragionevolezza e di conformità al “precedente” rappresentano un’evoluzione fisiologica del dato legale e, quindi, sono prevedibili, gli esiti interpretativi che l’agente non è in grado di rappresentarsi al momento del fatto, devono ritenersi imprevedibili.
Il riferimento è a quelle situazioni in cui il mutamento giurisprudenziale è sostanzialmente motivato dalla necessità di sopperire ad una situazione di inerzia legislativa ovvero, come nel caso di specie, di correggere, di modificare, di “prendere le distanze” formalmente da una precedente opzione interpretativa considerata -successivamente – insoddisfacente, non più condivisibile, o, addirittura, errata.
Un mutamento che, tuttavia, rende penalmente rilevante ciò che prima era lecito.
Un mutamento di giurisprudenza non tanto evolutivo, quanto, piuttosto, sostanzialmente innovativo.
Si è chiarito in dottrina come il c.d. mutamento evolutivo si realizzi quando, nella pressoché assenza di precedenti, si estende la portata applicativa della fattispecie incriminatrice attraverso una interpretazione che arricchisce, specifica, integra ovvero adegua il significato precedentemente attribuito all’enunciato legislativo, permettendo alla norma, cristallizzata nella disposizione, di adattarsi ad un nuovo contesto storico-normativo.
Il mutamento innovativo si realizza, invece, quando vi è, secondo la stessa giurisprudenza, la necessità di “porre rimedio” – nell’immutato contesto di riferimento – a quello che viene di fatto ritenuto dall’interprete come un vuoto di tutela derivante da una precedente interpretazione che viene considerata non più condivisibile.
- In tale contesto, sia che si voglia attribuire al mutamento giurisprudenziale una valenza sempre più assimilabile a quella che si realizza con una modifica normativa in malam partem (cfr., Sez, U, n. 18288 del 21/01/2010, Beschi, Rv. 246651), sia che, invece, si voglia attribuire al “diritto vivente” la tradizionale valenza meramente “dichiarativa” della reale portata della norma di legge (Corte cost., n. 230 del 2012, in tema di mutamento giurisprudenziale favorevole al reo; cfr., anche Corte cost. n. 24 del 2017; Corte n. 115 del 2018; Corte cost. n. 9 del 2021), il mutamento giurisprudenziale sfavorevole pone “questioni” perché è destinato a “colpire” anche chi ha commesso il fatto anteriormente ad esso, quando cioè predominava l’orientamento “favorevole”, generatore di affidamento.
- Il tema inerisce anche al ruolo delle sentenze delle Sezioni unite della Corte, del principio di prevedibilità delle decisioni e del diritto penale.
Si è recentemente chiarito come la portata del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite abbia un obiettivo rilievo in relazione alla prevedibilità delle decisioni future e all’affidamento dei consociati. ” Una regola di stabilizzazione, quella enunciata dalle Sezioni unite, a cui va attribuita una valenza non solo “di tipo essenzialmente persuasivo”, disvelando la potenzialità semantica del testo della disposizione normativa (Corte cost., sent. n. 230 del 2012), ma che, dopo l’intervento della legge 23 giugno 2017, n. 103, ha avuto anche una valenza di precedente relativamente vincolante”. È noto come, con l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 618 cod. proc. pen. si preveda che la Sezione semplice della Corte di cassazione, qualora ritenga di non condividere il principio di diritto formulato in una sentenza delle Sezioni Unite, “rimette” a queste ultime la decisione del ricorso; è stato dunque introdotto, con riguardo alle sole sentenze delle Sezioni Unite, il vincolo del precedente: un vincolo relativo, in quanto limitato all’interno della sola Corte di cassazione e non operante nei confronti dei giudici di merito. Un precedente che, ancorché fluido e superabile, produce un vincolo ed esprime una regola di stabilizzazione rispetto alla quale viene procedimentalizzato l’eventuale dissenso della Sezione semplice. (Sez. U, n. 8052 del 26/10/2023- dep. 2024, Rizzi, Rv. 285852).
È stato peraltro già spiegato che la portata vincolante del precedente deve essere riconosciuta, come nel caso di specie, anche alle decisioni delle Sezioni Unite intervenute precedentemente all’entrata in vigore della nuova disposizione, posto che il valore di “precedente” è identificabile con la peculiare fonte di provenienza della decisione, indipendentemente dalla collocazione temporale di quest’ultima (Sez. U, n. 36072, del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273549-01).
Se si ritiene, come correttamente si è fatto osservare, che, con l’introduzione dell’art. 618, comma 1- bis, cod. proc. pen. siano state poste le basi per la creazione di un sistema del “precedente” – seppure inteso in senso relativo -, deve riconoscersi allora maggiore rilievo al tema del c.d. mutamento giurisprudenziale.
In presenza infatti di pronunce delle Sezioni unite sempre più rilevanti per effetto del “vincolo” da esse derivante, emerge chiara sullo sfondo la questione di cosa accada ogni qual volta la sentenza delle Sezioni unite attuino una “svolta” giurisprudenziale, in senso peggiorativo per l’imputato.
In altri termini, più un sistema tende ad assicurare maggiore uniformità alla giurisprudenza, più il mutamento giurisprudenziale finisce per “avvicinarsi” ad una modifica legislativa, senza tuttavia avere gli effetti di questa.
Non paiono esservi dubbi sul fatto che ” il sistema del precedente vincolante, attribuendo alla regola enunciata dalle Sezioni Unite una valenza di tendenziale stabilizzazione dei rapporti, è funzionale ad assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, quindi, ad offrire al cittadino la possibilità di conoscere le conseguenze delle libere scelte di azione e di fare affidamento su un assetto normativo stabile. Il rispetto dei requisiti qualitativi di accessibilità e conoscibilità della norma, della prevedibilità della decisione giudiziale, della conoscibilità delle conseguenze delle proprie azioni, è conseguente al grado di precisione non solo del testo di legge, ma anche alla stabilizzazione dell’orientamento ermeneutico interno che quella disposizione scolpisce nella sua portata. Non si tratta di equiparare il diritto vivente alla legge, quanto, piuttosto, di riconoscere al primo un ruolo, una funzione che interferisce con la ragionevole prevedibilità delle decisioni future (in tal senso, anche testualmente, Sez. U, Rizzi, cit.).
Dunque, la disposizione e la sua interpretazione “stanno e cadono insieme”, in un contesto unitario tra diritto e processo, tra legalità sostanziale e processuale, tra esigenza di certezza e tutela dell’affidamento incolpevole, tra responsabilità e colpevolezza.
- È evidente che, ove si assimili il c.d. mutamento giurisprudenziale imprevedibile ad una norma penale sfavorevole sopravvenuta, il tema della tutela dell’affidamento incolpevole e della prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, troverebbe il suo riferimento nell’applicazione dell’art. 2 cod. pen. e, dunque, nella irretroattività della applicazione della “norma” sopravvenuta ai fatti in precedenza commessi.
Ove si ritenga, invece, di non equiparare il mutamento giurisprudenziale sfavorevole ad una norma penale sopravvenuta che allarga la tipicità della fattispecie, il tema “passa” e si interseca con quello della colpevolezza e, sotto il profilo soggettivo, della calcolabilità delle conseguenze giuridiche e della prevedibilità delle decisioni.
Si è consapevoli che, sul tema della prevedibilità, costituiscono nodi ancora irrisolti quelli relativi alla portata dell’interpretazione giurisprudenziale, alla struttura del giudizio di prevedibilità, al parametro al quale esso deve essere ancorato – cioè se si debba fare riferimento ad un criterio soggettivo, ritagliato sull’agente concreto, ovvero ad un criterio oggettivo -, all’oggetto del giudizio di prevedibilità, al “quantum di prevedibilità” – necessario per assurgere a salvaguardia delle esigenze garantistiche della rimproverabilità soggettiva e della colpevolezza; al di là delle questioni indicate, tuttavia, è stato acutamente osservato in dottrina, il principio di prevedibilità opera “come un indicatore di direzione, come una fondamentale esigenza del sistema”, come espressione “di una forte esigenza di stabilità ed uniformità del prodotto normativo risultante dall’integrazione tra fonte legislativa e fonte giurisprudenziale nella norma “vivente”.
Ciò che deve essere verificato, dal punto di vista della garanzia di cui all’art. 7 CEDU, è “se l’individuo potesse concretamente prevedere l’estensione interpretativa “sulla base delle indicazioni della giurisprudenza – giuste o sbagliate che fossero – nello stato in cui si trovava al momento della commissione del fatto”.
Il tema della prevedibilità non è distante da quello della conoscibilità del precetto, della prevedibilità del diritto penale – cioè della norma penale destinata ad operare nel caso concreto – e della colpevolezza, intesa come rimproverabilità soggettiva; il tema incide sul presupposto principale di ogni istanza di responsabilizzazione penale.
- In tale contesto, non possono essere trascurati, in tema di colpevolezza, i principali passaggi argomentativi della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1998 che ha pronunciato sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 cod. pen. affermandone l’illegittimità nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, l’ignoranza inevitabile.
Ci si deve riferire alle fondamentali affermazioni della pronuncia che ha segnato l’affermazione del moderno principio costituzionale di colpevolezza, declinandone il fondamento per come delineato dalle disposizioni di cui agli artt. 2, 3, 25, comma secondo, 27, commi primo e terzo e 73, comma terzo, Cost.
Così la Corte costituzionale: “a che vale richiedere come essenziale requisito subiettivo (minimo) d’imputazione uno specifico rapporto tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni “preliminare” esame delle relazioni tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e fatto considerato nel suo ” integrale” disvalore antigiuridico viene eluso? E come è possibile risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve le osservazioni che, in proposito, saranno prospettate in seguito) dei principio di colpevolezza, intesa quest’ultima come relazione tra soggetto e fatto, quando, non “rimuovendo” il principio d’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, sancito dall’art. 5 c.p., vengono “stroncate”, in radice, le indagini sulle metodiche d’incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonché sulle “certezze” che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto, sulle garanzie che, in materia, di libertà d’azione, il soggetto attende dallo Stato?”
Secondo la Corte costituzionale, ” il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto”.
Nel contesto dell’affermata necessità, quale presupposto della responsabilità penale, della “rimproverabilità” della condotta (siccome giustificativa della necessità di rieducazione alla quale è volta la pena a norma del terzo comma dell’art. 27 Cost.), è stata affermata l’indispensabilità della “conoscibilità” del precetto penale.
Sul punto, la Corte ha affermato che l’art. 27, commi primo e terzo, Cost., “statuendo la necessità di considerare qualche relazione psicologica del soggetto con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti ai principi di fondo della convivenza democratica a termini dei quali, cosi come il cittadino è tenuto a rispettare l’ordinamento democratico, quest’ultimo, è tale in quanto sappia porre i privati in grado di comprenderlo senza comprimere la loro sfera giuridica con divieti non riconoscibili ed interventi sanzionatori non prevedibili”, concludendo che “l’art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a questa l’importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge penale e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto”.
Fra gli innumerevoli passaggi che costituiscono il fondamento del volto costituzionale della colpevolezza penale, va anche segnalato quello conclusivo con il quale è stato precisato che l’art. 5 cod. pen,, se interpretato in termini di irrilevanza totale dell’ignoranza della legge penale viola “lo spirito stesso dell’intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori.
Far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati“.
Poiché infatti il soggetto ha posto in essere il fatto quando esso veniva nella sostanza qualificato come lecito, una sua eventuale punizione non significherebbe altro che far retroagire l’incriminazione”. Il tema dell’errore sul precetto presenta profili di connessione con il tema della “incertezza interpretativa”, atteso che in entrambi i casi l’agente versa in una situazione di errore in ordine alla rilevanza penale della propria condotta.
In particolare, nei casi come quello in esame, l’agente, al momento della condotta, fa affidamento sul perdurare della interpretazione più favorevole, che, invece, successivamente, anche a distanza di anni, viene disattesa dal giudice.
Ciò che deve essere verificato è se l’errore sulla rilevanza penale della propria condotta sia dipeso o meno da negligenza, se sia possibile o meno muovere un addebito di responsabilità anche sulla base del parametro dell’homo ejusdem condicionis et professionis – già utilizzato in tema di error iuris.
- Il diritto “di cambiare idea” e il mutamento dell’interpretazione passano attraverso la necessità di considerare il diritto individuale dell’imputato alla prevedibilità della decisione, e, in tal senso, soccorre l’art. 5 cod. pen. che, si è fatto acutamente notare, consente “di adeguare l’interpretazione del diritto ai mutamenti del contesto sociale e dello stesso sistema normativo, senza però sacrificare il diritto soggettivo del destinatario dei precetti alla libertà e sicurezza delle proprie scelte d’azione”; in tal senso, “la colpevolezza è capace di tutelare l’individuo contro le incertezze e i difetti della produzione giuridica, legislativa e giurisprudenziale perché essa si modella alle effettive capacità conoscitive del soggetto concreto, realizzando il principio di responsabilità“.
- Nel caso di specie, l’imputato, al momento in cui i fatti furono commessi, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata che escludeva la rilevanza penale della propria condotta e non vi erano concreti, specifici, “segnali” che inducessero a prevedere che, dopo cinque anni dalla sentenza “Casani”, le Sezioni unite della Corte avrebbero in seguito attribuito a quella condotta rilievo penale, rivedendo in senso “peggiorativo” il precedente orientamento.
L’imputato poteva ragionevolmente confidare di porre in essere un fatto lecito in ragione di una norma “vivente”, che operava in concreto e che impedisce di formulare un giudizio di colpevolezza rimproverabilità soggettiva.
Il consociato, un sovraintendente di Polizia, non era tenuto – nemmeno in astratto – in quel momento a rappresentarsi l’eventualità della condanna.
- Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’art. 615 ter cod. pen. perché il fatto non costituisce reato.
Per l’effetto, deve essere eliminata la porzione di pena di giorni venti di reclusione inflitta per detto reato.