Massima
Vi sono circostanze nelle quali un negozio, di per sé produttivo di effetti giuridici, può vederseli privare ex post e “in annullamento” su iniziativa di una delle parti che lo hanno posto in essere a cagione di una propria “debolezza” strutturale rilevante al momento della stipulazione, tanto poi che si tratti di incapacità dello stipulante, quanto che la ridetta “debolezza” lambisca il meccanismo di formazione della pertinente volontà, siccome viziato da errore, violenza o inganno doloso.
Un congegno che – oltre a sovente interessare i negozi commutativi – coinvolge anche modelli negoziali (pur solo latamente) “associativi”, nel cui contesto naturaliter campeggia un interesse collettivo, con “approdo inficiante” del pertinente vizio sui relativi atti alla maniera di quanto accade ai provvedimenti della PA (che, non a caso, persegue il più noto tra gli interessi collettivi, quello “pubblico”); necessitando chiarire – in queste ultime evenienze – quando esiste un potere viziato ed un conseguente atto annullabile da quando, all’opposto, un potere neppure esiste, con conseguente atto nullo.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia (c.d. codice Pisanelli), di stampo liberale, che – sulla base del modello francese – annovera come categoria generale di invalidità del negozio la sola nullità, anche – ambiguamente – in relazione a fattispecie (come l’incapacità e i vizi della volontà) che in seguito confluiranno nella (nuova e separata) categoria dell’annullabilità.
Lo dimostra, esemplificativamente, l’art.1300, alla cui stregua (comma 1) le azioni di nullità (oltre che di rescissione) di un contratto durano per 5 anni, in tutti i casi nei quali non siano state ristrette a minor tempo da una legge particolare; si tratta di una nullità non già (come accadrà in futuro) imprescrittibile, ma piuttosto soggetta a prescrizione quinquennale che decorre, nel caso di violenza, dal giorno in cui è cessata; nel caso di errore o di dolo, dal giorno in cui furono scoperti; riguardo agli atti degli interdetti e degli inabilitati, dal giorno in cui è tolta l’interdizione o l’inabilitazione; riguardo agli atti dei minori, dal giorno della loro maggiore età;e riguardo agli atti delle donne maritate, dal giorno dello scioglimento del matrimonio (comma 2).
1882
Il 31 ottobre viene varato il R.D. n.1062, codice di commercio, secondo il cui art.163, in materia di società, le deliberazioni prese dall’assemblea generale entro i limiti dell’atto costitutivo, dello statuto o della legge, sono obbligatorie per tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti, salve le disposizioni dell’art.158 (comma 1); alle deliberazioni manifestamente contrarie all’atto costitutivo, allo statuto od alla legge può essere fatta opposizione da ogni socio, e il presidente del Tribunale di commercio, sentiti gli amministratori ed i sindaci, può sospenderne l’esecuzione mediante provvedimenti da notificarsi agli amministratori.
Si tratta di una disciplina nel cui contesto ancora non affiora la dicotomia tra delibere nulle ed annullabili che in seguito sarà propria delle persone giuridiche e, in particolare, delle società.
1889
Il 31 marzo viene varata la legge n.5992, di modifica della legge sul Consiglio di Stato (c.d. legge Crispi), recante Istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, secondo il cui art.3 spetta alla neo istituita, ridetta sezione IV del Consiglio di Stato decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali (comma 1).
Il ricorso alla IV sezione – che ha natura amministrativa contenziosa, e non già giurisdizionale – non è tuttavia ammesso se si tratta di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico (comma 2).
Ancora, il ricorso che non implichi incompetenza od eccesso di potere non è ammesso contro le decisioni che concernano controversie doganali o questioni sulla leva militare (comma 3): si tratta dunque di decisioni che non possono essere impugnate per mera (e generica) violazione di legge.
A differenza di quanto riscontrabile nel contesto della legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865, laddove campeggiano i “diritti civili e politici” e, dunque, le situazioni giuridiche soggettive fatte oggetto di tutela, qui è in primo piano il “rimedio” dell’annullamento dell’atto amministrativo viziato, sul crinale dell’incompetenza, della violazione di legge o dell’eccesso di potere.
Si tratta di una prospettiva che troverà conferma nei decenni a venire, radicando la tutela di annullamento nell’ambito del processo amministrativo e facendone una sorta di prototipico “ubi consistam”.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che affianca alla categoria tradizionale (e di ascendenza romanistica) della nullità dei negozi, la nuova ed autonoma categoria della annullabilità, nel prisma di una maggior valorizzazione del principio “funzionale” dell’affidamento dell’interlocutore negoziale sulle dichiarazioni impegnative “manifestate” – invalidabili solo, ed in via eventuale, su iniziativa del soggetto nel cui interesse il singolo vizio di invalidità opera – rispetto al più tradizionale canone “strutturale”, imperniantesi sugli elementi (da assumersi, a fini di validità, necessariamente “non viziati”) della dichiarazione stessa.
Secondo l’art.1425 il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrarre (comma 1), ed è parimenti annullabile quando ricorrono le condizioni stabilite dall’articolo 428 (c.d. incapacità naturale), il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere (comma 2).
Sempre in tema di incapacità, ai sensi del successivo art.1426 il contratto non è annullabile se il minore ha con raggiri occultato la sua minore età; ma la semplice dichiarazione da lui fatta di essere maggiorenne non è di ostacolo all’impugnazione del contratto (non potendo di per sé essere dunque considerata un raggiro).
Negli articoli 1427 e seguenti vengono poi disciplinati i c.d. vizi della volontà, onde il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti al ridetto art.1427.
Muovendo dall’errore, esso – ai sensi dell’art.1428 – è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall’altro contraente; ed è essenziale, ex art.1429:
1) quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto;
2) quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso;
3) quando cade sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente, sempre che l’una o le altre siano state determinanti del consenso;
4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stata la ragione unica o principale del contratto.
Particolare il regime dell’errore di calcolo che, ai sensi dell’art.1430, non dà normalmente luogo ad annullamento del contratto, ma solo a pertinente rettifica; ciò tranne che, concretandosi esso in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso prestato dalla parte che vi è incorsa.
Stando poi all’art.1431, l’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo.
La parte in errore, ai sensi dell’art.1432, non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere.
Infine, ai sensi dell’art.1433 le disposizioni degli articoli precedenti si applicano anche al caso in cui l’errore cade sulla dichiarazione, o in cui la dichiarazione sia stata inesattamente trasmessa dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato.
La violenza – recita l’art.1434 – e’ causa di annullamento del contratto, anche se esercitata da un terzo; essa, stando all’art.1435, deve essere di tal natura da fare impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole, avendosi riguardo, in questa materia, all’età, al sesso e alla condizione delle persone.
Stando al successivo art.1436, la violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui (comma 1), mentre se il male minacciato riguarda altre persone, l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice (comma 2).
Peraltro, ai sensi dell’art.1437 il solo timore riverenziale non è causa di annullamento del contratto, mentre la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto – in forza dell’art.1438 – solo quando essa è diretta a conseguire vantaggi ingiusti.
Quanto al dolo esso, ex art.1439, è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato (comma 1); quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (comma 2).
Laddove peraltro i raggiri non siano stati tali da determinare il consenso (c.d. dolo incidente), il contratto ai sensi dell’art.1440 resta valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni.
Sul crinale della legittimazione all’azione di annullamento, stando all’art.1441 esso può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (comma 1), ma l’incapacità del condannato in stato di interdizione legale può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse (c.d. annullabilità assoluta).
Stando all’art.1442, l’azione di annullamento si prescrive in cinque anni (comma 1); quando l’annullabilità dipende da vizio del consenso o da incapacità legale, il relativo termine decorre dal giorno in cui e’ cessata la violenza, e’ stato scoperto l’errore o il dolo, è cessato lo stato d’interdizione o d’inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età (comma 2); negli altri casi il termine decorre dal giorno della conclusione del contratto (comma 3).
L’annullabilità può tuttavia essere opposta in via di eccezione dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per farla valere (comma 4).
Ai sensi dell’art.1443 se il contratto e’ annullato per incapacità di uno dei contraenti, questi non e’ tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui e’ stata rivolta a pertinente vantaggio.
La convalida è disciplinata dall’art.1444 onde il contratto annullabile può per l’appunto essere convalidato dal contraente al quale spetta l’azione di annullamento, mediante un atto che contenga la menzione del contratto e del motivo di annullabilità, e la dichiarazione che s’intende convalidarlo (comma 1); il contratto è pure convalidato, se il contraente al quale spettava l’azione di annullamento vi ha dato volontariamente esecuzione conoscendo il motivo di annullabilità (comma 2).
La convalida non ha tuttavia effetto se chi l’esegue non è in condizione di concludere validamente il contratto (comma 3).
Quanto agli effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi, l’annullamento che non dipende da incapacità legale – ai sensi dell’art.1445 – non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso (non anche, dunque, a titolo gratuito) dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento (su cui si rinvia ultra).
Infine, ai sensi dell’art.1446 c.c. nei contratti indicati dall’articolo 1420 – e, dunque, nei contratti plurilaterali, con più di due parti – l’annullabilità che riguarda il vincolo di una sola delle parti non importa annullamento del contratto, salvo che la partecipazione di questa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.
Al di fuori dell’ambito dei contratti, particolari disposizioni – non prive peraltro di una qualche (residua) ambiguità nei rapporti tra la sanzione dell’annullabilità e quelle della “nullità” – sono dettate dagli articoli 117 e seguenti in tema di matrimonio.
Più nel dettaglio, ai sensi dell’art.117 il matrimonio contratto con violazione degli articoli 86 (in tema di libertà di stato), 87 (in tema di parentela, affinità e adozione dei nubendi) e 88 (delitto consumato o tentato) può essere impugnato dai coniugi, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarlo un interesse legittimo e attuale (comma 1).
Il matrimonio contratto con violazione dell’articolo 84 (età) può poi essere impugnato dai coniugi, da ciascuno dei genitori e dal PM, la relativa azione di annullamento potendo essere proposta personalmente dal minore non oltre un anno dal raggiungimento della maggiore età; la domanda, proposta dal genitore o dal PM, deve essere respinta ove, anche in pendenza del giudizio, il minore abbia raggiunto la maggiore età ovvero vi sia stato concepimento o procreazione e in ogni caso sia accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale (comma 2).
Il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza (comma 3). Nei casi poi in cui si sarebbe potuta accordare l’autorizzazione ai sensi del quarto comma dell’articolo 87, il matrimonio non può essere impugnato dopo un anno dalla celebrazione (comma 4).
La disposizione del primo comma dell’articolo 117 viene dichiarata applicabile (dal comma 5) anche nel caso di nullità del matrimonio previsto dall’articolo 68 (ritorno del morto presunto), con evidente riferimento ad una ipotesi nella quale l’impugnazione del matrimonio avviene per nullità del medesimo, che non può dunque in quel caso assumersi “annullabile”.
Ancora, ai sensi del successivo art.119 il matrimonio di chi e’ stato interdetto per infermità di mente può essere impugnato dal tutore, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo se, al tempo del matrimonio, vi era già sentenza di interdizione passata in giudicato, ovvero se la interdizione e’ stata pronunziata posteriormente ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio; può essere impugnato, dopo revocata l’interdizione, anche dalla persona che era interdetta (comma 1); l’azione non può tuttavia essere proposta se, dopo revocata l’interdizione, vi e’ stata coabitazione per un anno (comma 2).
Sempre in tema di incapacità, ai sensi dell’art.120 il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio (comma 1); l’azione non può tuttavia essere proposta se vi e’ stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle proprie facoltà mentali.
Ai vizi della volontà nel matrimonio è dedicato, ex professo, l’art.122, con particolare riguardo alla violenza e all’errore.
Più nel dettaglio il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso e’ stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo (comma 1); può altresì essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso e’ stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge (comma 2).
L’errore sulle qualità personali e’ essenziale (comma 3) qualora, tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il proprio consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l’errore riguardi:
1) l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale;
2) l’esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non inferiore a 5 anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del matrimonio. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile;
3) la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale;
4) la circostanza che l’altro coniuge sia stato condannato per delitti concernenti la prostituzione a pena non inferiore a due anni. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la condanna sia divenuta irrevocabile;
5) lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’articolo 233, se la gravidanza e’ stata portata a termine.
L’azione non può peraltro essere proposta se vi e’ stata coabitazione per un anno dopo che siano cessate la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore (comma 4).
Su altro crinale, ai sensi dell’art.428, gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore (comma 1).
L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente (comma 2).
Sulla stessa linea l’art.775 in tema di donazione, onde la donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta, può essere annullata su istanza del donante, dei relativi eredi o aventi causa (comma 1); l’azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui la donazione è stata fatta (comma 2).
In tema di testamento, rileva l’art.591 onde possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge (comma 1), essendo incapaci di testare (comma 2):
1) coloro che non hanno compiuto la maggiore età;
2) gli interdetti per infermità di mente;
3) quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.
In tutti i ridetti casi d’incapacità a testare, il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse e l’azione si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie (comma 3).
Particolarmente significativo, su altro crinale, l’art.23 in tema di associazioni onde le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere “annullate” su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero (comma 1); l’annullamento della deliberazione non pregiudica peraltro i diritti acquistati dai terzi di buona fede (tanto a titolo gratuito quanto a titolo oneroso) in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (comma 2).
Il presidente del tribunale o il giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell’associazione, può sospendere, su istanza di colui che ha proposto l’impugnazione, l’esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi, il decreto di sospensione dovendo essere motivato e notificato agli amministratori (comma 3); l’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può peraltro essere sospesa anche dall’autorità governativa.
In tema di comunione, rileva in particolare l’art.1109 alla cui stregua (comma 1) ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza: 1) nel caso previsto dall’art.1105, comma 2, se la deliberazione è gravemente pregiudizievole della cosa comune; 2) se non è stata osservata la disposizione dell’art.1105, comma 3; 3) se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è in contrasto con le norme di cui all’art.1108, comma 1 e 2.
Interessante come in questa fattispecie l’impugnazione debba essere proposta, sotto pena di decadenza, entro 30 giorni dalla deliberazione (comma 2); per gli assenti il termine decorre peraltro dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione e in pendenza di giudizio l’autorità giudiziaria può ordinare la sospensione del provvedimento deliberato.
Una disciplina in parte analoga si rinviene in tema di condominio negli edifici all’art.1137, onde le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini (comma 1) e tuttavia, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare ricorso all’autorità giudiziaria, che non sospende l’esecuzione del provvedimento, salvo che tale sospensione sia ordinata dal giudice stesso (comma 2). Anche in questo caso, il ricorso va proposto, a pena di decadenza, entro 30 giorni decorrenti dalla data della deliberazione per i dissenzienti e da quella della pertinente comunicazione dagli assenti (comma 3).
Venendo alla materia contrattuale, in primo luogo rileva l’art.1337 alla cui stregua le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede; ed il successivo art.1338 onde la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza relativa colpa, nella validità del contratto.
Stando poi all’art.1394, il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato stesso, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo; in forza poi del successivo art.1395, è annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un’altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di un conflitto di interessi (comma 1), con impugnazione che può tuttavia essere proposta dal solo rappresentato (comma 2).
Ancora, ai sensi dell’art.1892 c.c. le dichiarazioni inesatte e le reticenze del contraente, relative a circostanze tali che l’assicuratore non avrebbe dato il proprio consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni se avesse conosciuto il vero stato delle cose, sono causa di annullamento del contratto quando il contraente ha agito con dolo o con colpa grave (comma 1); l’assicuratore, nondimeno, decade dal diritto d’impugnare il contratto se, entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza, non dichiara al contraente di volere esercitare l’impugnazione (comma 2).
L’assicuratore ha diritto ai premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui ha domandato l’annullamento e, in ogni caso, al premio convenuto per il primo anno; se il sinistro si verifica prima che sia decorso il termine indicato dal comma precedente (3 mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza o la reticenza), egli non è tenuto a pagare la somma assicurata (comma 3); se poi l’assicurazione riguarda più persone o più cose, il contratto è valido per quelle persone o per quelle cose alle quali non si riferisce la dichiarazione inesatta o la reticenza (comma 4).
In tema di società per azioni, ai sensi dell’art.2377 le deliberazioni dell’assemblea, prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti (comma 1); quelle tuttavia che non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo possono essere impugnate dagli amministratori, dai sindaci e dai soci assenti o dissenzienti, e quelle dell’assemblea ordinaria altresì dai soci con diritto di voto limitato, entro 3 mesi dalla data della deliberazione ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro 3 mesi dall’iscrizione (comma 2).
L’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto ai tutti i soci ed obbliga gli amministratori a prendere i conseguenti provvedimenti, sotto la propria responsabilità, rimanendo in ogni caso salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione poi annullata (comma 3). L’annullamento della deliberazione non può peraltro avere luogo se la deliberazione impugnata viene sostituita con altra in conformità della legge e dell’atto costitutivo (comma 4).
Il successivo art.2379 detta poi il regime delle deliberazioni societarie nulle per impossibilità o illiceità dell’oggetto, dichiarando applicabili alle pertinenti fattispecie gli articoli 1421, 1422 e 1423.
Sul crinale della trascrizione, fondamentale l’art.2652 alla cui stregua si devono per l’appunto trascrivere, qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’articolo 2643, le domande giudiziali indicate dai numeri seguenti, agli effetti per ciascuna di esse previsti; più nel dettaglio, il punto 6 menziona le domande dirette a far dichiarare la nullità o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette a impugnare la validità della trascrizione.
In questi casi, se la domanda è trascritta dopo 5 anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Se però la domanda è diretta a far pronunziare l’annullamento per una causa diversa dall’incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda, anche se questa è stata trascritta prima che siano decorsi 5 anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, purché in questo caso i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso.
In sostanza, ne esce rafforzata la tutela dei terzi acquirenti di buona fede in base ad un titolo oneroso (e non anche gratuito), quando si tratti di fattispecie diverse dall’incapacità legale (come nel caso dei vizi della volontà).
1944
Il 20 gennaio viene varato il Regio D.L. n.26, secondo il cui art.14, comma 1, per tutti i contratti di alienazione di beni immobili, sia a titolo gratuito che oneroso, pei quali vi sia la prova incontestabile che il cittadino colpito dalle leggi razziali s’indusse all’alienazione per sottrarsi all’applicazione delle leggi stesse con la riduzione della propria quota di disponibilità degli immobili, lo stesso avrà diritto di esercitare, nel termine di un anno dalla conclusione della pace, la relativa azione di annullamento. La prova di cui sopra può risultare da scritture private anche non registrate; la registrazione avverrà con la tassa fissa di L. 20 (venti); il termine suindicato (1 anno) viene stabilito in deroga all’art. 1442 Codice civile.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, secondo il cui art.41 l’iniziativa privata è libera (comma 1), non potendo nondimeno svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (comma 2), con conseguente possibilità di privare di effetti, giusta impugnazione ex post, atti o negozi capaci di compromettere tali valori, come nel caso paradigmatico del contratto stipulato a causa di violenza o di dolo, ovvero traendone vantaggio da un interlocutore incapace.
1954
Il 21 luglio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.2616 alla cui stregua, ai fini dell’art.1426 c.c., non integra raggiro del minore tale da escludere l’annullabilità del contratto l’avere semplicemente taciuto la propria età.
1972
Il 7 marzo esce la sentenza del Tribunale di Palermo che si occupa della c.d. intimidazione morale, distinguendola dal timore reverenziale.
Essa va intesa come minaccia tacita di pregiudicare la vittima in caso si rifiuti di contrarre, nella pertinente nozione dovendosi far rientrare il caso peculiare dell’avvertimento mafioso laddove, pur in assenza di minacce esplicite o solo accennate, tuttavia il contraente riconosce in un certo contegno tenuto dal minacciante, secondo dei codici stratificati, per l’appunto una minaccia a lui rivolta.
Per il Tribunale, a differenza delle ipotesi di timore reverenziale in questo caso il contratto va assunto annullabile (per violenza).
1975
Il 19 maggio viene varata la legge n.151 di riforma del diritto di famiglia, il cui art.63 sostituisce l’art.184 del codice civile, onde gli atti compiuti da un coniuge in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art.2683 cc. (comma 1), l’azione potendo essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro 1 anno dalla data di trascrizione, mentre laddove l’atto non sia stato trascritto e allorché il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione, l’azione va proposta entro 1 anno dallo scioglimento ridetto (comma 2).
Se gli atti riguardano invece beni mobili diversi da quelli di cui al comma 1 (beni mobili non registrati), il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato, su istanza di quegli, a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione (comma 3).
1978
Il 5 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.4456 alla cui stregua non possono rilevare – a fini di annullabilità del contratto per incapacità “naturale” – situazioni di alterazione psichica non patologiche riconducibili a meri stati depressivi cronici.
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Il 6 ottobre esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.4463 alla cui stregua possono rilevare – a fini di annullabilità del contratto per incapacità “naturale” – anche situazioni di alterazione psichica non patologiche, come nel caso di specie dello squilibrio mentale derivante da tracollo economico.
1979
Il 18 gennaio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.363 alla cui stregua la reticenza come dolo-vizio implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e la coscienza che sia possibile determinarne la volontà con artifici specificamente volti all’inganno.
La reticenza dunque per il Collegio rileva come dolo nella misura in cui si inserisce in questo comportamento complessivo, maliziosamente congegnato da una parte ai danni dell’altra.
Il dolo che vizia la volontà e causa l’annullamento del contratto implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima ed il convincimento che sia possibile determinare l’interlocutore negoziale con artifici, menzogne e raggiri, inducendo specificamente in inganno la volontà altrui; pertanto la reticenza ed il silenzio non bastano a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l’errore del deceptus, che devono essere tali da configurarsi quale malizia o astuzia volta a realizzare l’inganno perseguito.
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Il 30 marzo esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.1843 alla cui stregua nell’ipotesi di errore bilaterale, che ricorre quando l’errore ridetto sia comune ad entrambe le parti, il contratto e annullabile a prescindere dall’esistenza del requisito della riconoscibilità, poiché in tal caso non è applicabile il principio dell’affidamento, avendo ciascuno dei contraenti dato causa all’invalidità del negozio pertinente.
1980
Il 08 gennaio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.140 alla cui stregua ai fini dell’annullamento del contratto per dolo, la menzogna, al pari del mendacio, deve essere tale da indurre in errore il contraente e tale errore deve assumere valore decisivo ai fini del consenso, tenendo conto altresì della materia del negozio, delle circostanze e delle condizioni soggettive della persona cui le dichiarazioni menzognere o mendaci sono rivolte.
1981
Il 24 novembre viene varata la nota legge n.689, in tema di sanzioni amministrative e depenalizzazione, il cui art.120 introduce nel codice penale gli articoli 32 ter e 32 quater, in seguito più volte modificati ed emendati.
Stando all’art.32 ter, significativamente rubricato “incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”, quest’ultima importa – quale pena accessoria – il divieto di concludere contratti con la PA, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio (comma 1), e non può avere una durata inferiore ad 1 anno, né superiore a 3 anni (comma 2).
Ai sensi del successivo art.32 quater, ogni condanna per i delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 320, 321, 353, 355, 356, 416, 437, 501, 501 bi, 640, n.1 del capoverso, commessi a causa o in occasione dell’esercizio di una attività imprenditoriale, importa l’incapacità di contrattare con la PA.
Si tratta di una catalogo di fattispecie criminose che verrà via via implementato nel tempo, ed in relazione alla quale si pone il problema della sorte degli atti “a valle” che, ove annullabili tout court e in senso civilistico, sarebbero paradossalmente privabili dei relativi effetti solo, ex post, dal soggetto incapace, che è proprio il condannato che si intende sanzionare in via accessoria.
Muovendo invece da una diversa prospettiva imperniantesi sulla stessa capacità giuridica del condannato, piuttosto che sulla pertinente capacità di agire, affiora la nullità dei contratti stipulati con la PA, che dunque anche quest’ultima, oltre a qualunque altro interessato, potrebbe far valere.
1982
*Il 06 novembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.5858 alla cui stregua ai fini dell’annullamento del contratto per dolo, la menzogna, al pari del mendacio, deve essere tale da indurre in errore il contraente e tale errore deve assumere valore decisivo ai fini del consenso, tenendo conto altresì della materia del negozio, delle circostanze e delle condizioni soggettive della persona cui le dichiarazioni menzognere o mendaci sono rivolte.
1987
Il 28 gennaio esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.835 alla cui stregua al fine della rettifica del contratto, quale prevista dall’art. 1430 c.c., si ha errore di calcolo che non influenza il consenso (e non già un errore in quantitate che viceversa vizia la volontà negoziale) solo quando – definiti in modo chiaro e preciso i termini da computare ed il criterio matematico da seguire – si commette, per inesperienza o per disattenzione, un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale, errore che è rilevabile ictu oculi.
1992
Il 26 febbraio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.2374 onde per l’annullamento del contratto stipulato da incapace naturale ai sensi dell’art.1425, comma 2, c.c. è sufficiente il requisito della sola malafede ex art.428, comma 2, c.c., intesa come stato soggettivo/psicologico di consapevolezza di uno dei contraenti dello stato di menomazione delle facoltà intellettive/volitive dell’altro contraente.
Per il Collegio non occorre dunque anche il requisito del c.d. grave pregiudizio di cui all’art.428, comma 1, c.c. (in relazione agli atti unilaterali), pur essendo il ridetto art.428 c.c. richiamato senza distinzioni – e dunque, apparentemente, nella relativa integralità – dall’art.1425, comma 2, c.c.
1993
Il 01 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1213 che si pone nel solco della giurisprudenza alla cui stregua, riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere:
- quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell’art. 1123 cod. civ. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini;
- quelle con le quali, nell’esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., vengono in concreto ripartite le spese medesime: soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.
1994
*L’11 ottobre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.8295 alla cui stregua la reticenza come dolo-vizio implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e la coscienza che sia possibile determinarne la volontà con artifici specificamente volti all’inganno.
La reticenza dunque per il Collegio rileva come dolo nella misura in cui si inserisce in questo comportamento complessivo, maliziosamente congegnato da una parte ai danni dell’altra.
Il dolo che vizia la volontà e causa l’annullamento del contratto implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima ed il convincimento che sia possibile determinare – con artifici, menzogne e raggiri, inducendola specificamente in inganno – la volontà altrui; pertanto la reticenza ed il silenzio non bastano a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l’errore del deceptus, che devono essere tali da configurarsi quale malizia o astuzia volta a realizzare l’inganno perseguito.
1995
*Il 09 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1455 che si pone nel solco della giurisprudenza alla cui stregua, riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere:
- quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell’art. 1123 cod. civ. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini;
- quelle con le quali, nell’esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., vengono in concreto ripartite le spese medesime: soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ. (Cass., Sez. 2, n. 1455 del 09/02/1995.
* * *
Il 01 marzo esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.2340 alla cui stregua l’annullabilità del contratto per errore di diritto (quando sia stato la ragione unica o principale del contratto stesso) si configura quando il consenso di una parte sia stato determinato da falsa rappresentazione circa l’esistenza, l’applicabilità o la portata di una norma giuridica, imperativa o dispositiva e tale vizio avrebbe potuto essere rilevabile dall’altro contraente con l’uso della normale diligenza.
* * *
Il 15 giugno esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.6756 alla cui stregua la sentenza di annullamento elimina retroattivamente gli effetti del contratto annullato e – con riguardo ai rapporti tra le parti – importa il ripristino della situazione di fatto e di diritto preesistente al negozio annullato.
Il Collegio si occupa di una fattispecie di c.d. incapacità naturale, abbracciando una nozione ampia di incapacità di intendere e di volere, onde non occorre che necessariamente ricorra la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive del soggetto dovendo piuttosto assumersi sufficiente, ai fini della configurabilità della fattispecie in termini di annullabilità, una diminuzione delle facoltà intellettive e/o volitive tale da ostacolare o impedire una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente in capo al soggetto agente.
1996
Il 28 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2842, che si inserisce in un solco giurisprudenziale collaudato alla cui stregua il contratto a valle dell’aggiudicazione caducata è annullabile ed è la sola PA a poter far valere tale annullabilità, ex art.1441 c.c..
Durante la procedura di evidenza pubblica vengono infatti posti in essere degli atti che precedono la stipulazione del contratto a valle con il soggetto alfine risultato aggiudicatario, ed è attraverso questi atti della procedura che affiora per il Collegio la capacità e la volontà della PA di addivenire alla stipula del successivo contratto ridetto, onde – laddove venga meno l’aggiudicazione perché illegittima – è solo la PA a poter invocare l’annullamento del contratto, stante il proprio difetto di capacità o di volontà, tanto in via di azione che di eccezione.
Solo la PA è dunque legittimata a chiedere l’annullamento del contratto, dacché esso si assume inficiato da violazioni delle norme pubblicistiche che il legislatore ha emanato nell’interesse appunto della sola PA; trattandosi poi di far valere incapacità o vizi della volontà contrattuale, la giurisdizione sulla domanda di annullamento spiccata dalla PA non può che essere del GO.
Si tratta di una presa di posizione che sarà in seguito superata, in un’ottica di nullità del contratto “a valle” e, più oltre, di pertinente “inefficacia”.
1997
Il 01 luglio esce l’importante sentenza delle SSUU della Cassazione n.5900 alla cui stregua, se è vero che in generale, al fine di ottenere l’annullamento del contratto, è sufficiente che chi è caduto in errore provi l’astratta riconoscibilità dell’errore medesimo da parte dell’altro contraente, è parimenti vero che la prova della conoscenza effettiva dell’errore ridetto assorbe quella della astratta riconoscibilità.
Per il Collegio dunque, anche l’errore che l’uso della normale diligenza non avrebbe consentito di riconoscere rende comunque annullabile il contratto quando sia stato in concreto conosciuto dalla controparte.
Per le SSUU occorre difatti muovere dalla ratio dell’art. 1431 c.c., compendiantesi nell’esigenza di tutelare l’affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione negoziale viziata da errore nel processo formativo della volontà, onde laddove l’errore ridetto sia stato effettivamente riconosciuto dalla controparte, viene meno ogni esigenza di pertinente tutela.
* * *
L’8 agosto esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.7344 alla cui stregua possono rilevare – a fini di annullabilità del contratto per incapacità “naturale” – anche situazioni di alterazione psichica non patologiche, purché tali da menomare gravemente le capacità intellettive e volitive del soggetto agente.
2003
Il 17 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6, recante riforma organica della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative, in attuazione della legge 366.01.
Di particolare rilievo la nuova formulazione dell’art.2377 c.c. in tema di annullabilità delle delibere societarie, onde le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti o astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale (comma 1).
L’impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per 1000 del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il 5 per 100 nelle altre, ma lo statuto può ridurre o escludere tale requisito; per l’impugnazione delle deliberazioni delle assemblee speciali queste percentuali sono riferite al capitale rappresentato dalle azioni della categoria (comma 2).
I soci che non rappresentano la parte di capitale indicata nel comma precedente e quelli che, in quanto privi di voto, non sono legittimati a proporre l’impugnativa hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto (comma 3).
La deliberazione non può peraltro essere annullata (comma 4): 1) per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea a norma degli articoli 2368 e 2369 c.c.; 2) per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l’errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; 3) per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, salvo che impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione.
L’impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine di 90 giorni dalla data della deliberazione, ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro 90 giorni dall’iscrizione o, se è soggetta solo a deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, entro 90 giorni dalla data del deposito (comma 5).
L’annullamento della deliberazione (comma 6) ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione poi annullata.
Ancora, l’annullamento della deliberazione non può avere luogo se la deliberazione impugnata viene sostituita con altra presa in conformità della legge o dello statuto, evenienza al cospetto della quale il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento del danno (comma 7), restando sempre salvi i diritti acquisiti dai terzi sulla base della deliberazione sostituita (comma 8).
* * *
*Il 12 febbraio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.2104 alla cui stregua la reticenza come dolo-vizio implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e la coscienza che sia possibile determinarne la volontà con artifici specificamente volti all’inganno.
La reticenza dunque per il Collegio rileva come dolo nella misura in cui si inserisce in questo comportamento complessivo, maliziosamente congegnato da una parte ai danni dell’altra.
Il dolo che vizia la volontà e causa l’annullamento del contratto implica la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima ed il convincimento che sia possibile determinare – con artifici, menzogne e raggiri, inducendola specificamente in inganno – la volontà altrui; pertanto la reticenza ed il silenzio non bastano a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l’errore del deceptus, che devono essere tali da configurarsi quale malizia o astuzia volta a realizzare l’inganno perseguito.
2004
Il 24 agosto esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.16679, alla cui stregua l’errore come vizio della volontà assume rilevanza quando incide sul processo formativo del consenso del soggetto agente, dando origine ad una falsa o distorta rappresentazione della realtà a cagione della quale la parte si è indotta a manifestare la propria volontà.
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Il 4 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17902, alla cui stregua il coniuge separato può chiedere che la propria separazione consensuale venga annullata tutte le volte che il proprio consenso sia stato estorto con violenza o carpito con dolo.
Per il Collegio, l’annullamento per i cosiddetti “vizi del consenso” – errore, violenza e dolo – previsto in materia di contratti, può estendersi anche alla separazione consensuale (che e’ un vero e proprio accordo tra i coniugi), anche se omologata dal Tribunale.
Infatti, spiega la Corte, nel procedimento di separazione consensuale assume un “ruolo primario” la volontà concorde dei coniugi di separarsi definendo le condizioni della separazione, mentre il giudice si limita ad una funzione di controllo che non può sostituire la volontà delle parti – fatta eccezione per quanto riguarda i provvedimenti nell’interesse dei figli minori – per cui anche gli accordi di diritto familiare sono soggetti alla disciplina generale prevista per i contratti.
2005
L’11 febbraio viene varata la legge n.15 che introduce nel corpo della legge 241 del 1990, tra gli altri, l’art.21 septies: viene prevista esplicitamente la nullità dell’atto amministrativo, in un quadro più generale che vede di nuovo spostato il baricentro disciplinare dal procedimento al provvedimento amministrativo.
In sostanza, proprio come accade in ambito civilistico ed assecondando uno spostamento del fuoco dell’attenzione legislativa (e pretoria) dall’atto al “rapporto”, sembrano passare in secondo piano i c.d. vizi dell’atto amministrativo (incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere), tradizionalmente orientati al pertinente annullamento, per affiorare piuttosto le sanzioni dei vizi medesimi, capaci di ridondare in annullabilità (o in “non annullabilità”: art.21 octies) del provvedimento o, nei casi più gravi, per l’appunto in “nullità” del provvedimento medesimo.
* * *
Il 7 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4806, alla cui stregua ciascun condomino è tenuto, secondo quanto prescrive l’art. 1137 cod. civ., a far valere l’annullabilità della deliberazione dell’assemblea condominiale, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 30 giorni decorrente, per i condomini assenti, dalla comunicazione della deliberazione e, per i condomini dissenzienti o astenuti, dalla data della sua approvazione, divenendo in mancanza la delibera valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio.
Il Collegio traccia poi il criterio distintivo tra le deliberazione assembleari “nulle” e quelle “annullabili” nei seguenti termini: «debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto» (Cass., Sez. Un., n. 4806 del 07/03/2005).
Per le Sezioni Unite il criterio distintivo tra “nullità” e “annullabilità” va individuato nella contrapposizione tra “vizi di sostanza“, come tali afferenti al contenuto delle deliberazioni, e “vizi di forma“, afferenti invece alle regole procedimentali per la formazione delle deliberazioni assembleari: i “vizi di sostanza” determinanti la nullità delle deliberazioni assembleari – è detto – ricorrerebbero quando queste ultime presentano un oggetto impossibile o illecito; i “vizi di forma“, determinanti invece l’annullabilità, ricorrerebbero quando le deliberazioni sono state assunte dall’assemblea senza l’osservanza delle forme prescritte dall’art. 1136 cod. civ. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 cod. civ.
2009
*Il 01 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.21074, alla cui stregua l’errore come vizio della volontà assume rilevanza quando incide sul processo formativo del consenso del soggetto agente, dando origine ad una falsa o distorta rappresentazione della realtà a cagione della quale la parte si è indotta a manifestare la propria volontà.
2012
L’11 dicembre viene varata la legge n.220, recante modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, il cui art.15 modifica l’art.1137 c.c. nel senso onde le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini (comma 1) e tuttavia contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di 30 giorni, decorrente dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti (comma 2).
L’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria (comma 3); l’istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell’inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell’impugnazione della deliberazione e, per quanto non espressamente previsto, la sospensione viene disciplinata dalle norme del codice di procedura civile sul processo cautelare, con esclusione dell’art.669 octies, comma 6, c.p.c.
Si registra dunque una esplicita presa di posizione del Legislatore per l’annullabilità delle delibere condominiali, a differenza del precedente regime, più anodino in proposito e più genericamente ancorato al concetto di “impugnazione”.
2013
Il 4 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.27233 che, ponendosi in consapevole contrasto con l’opposto, maggioritario orientamento della giurisprudenza, inaugura il filone pretorio alla cui stregua le deliberazioni dell’assemblea (non già “sui criteri” ma, piuttoto) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese condominiali sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione.
Trattasi per il Collegio di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni dell’assemblea condominiale, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto.
Per la Corte le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sono nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea.
D’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessita dell’accordo unanime di tutti i condomini.
2016
*Il 23 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5814 che, ponendosi in consapevole contrasto con l’opposto, maggioritario orientamento della giurisprudenza, ribadisce di voler aderire al filone pretorio alla cui stregua le deliberazioni dell’assemblea (non già “sui criteri” ma, piuttoto) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese condominiali sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione.
Trattasi per il Collegio di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni dell’assemblea condominiale, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto.
Per la Corte le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sono nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea.
D’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessita dell’accordo unanime di tutti i condomini.
2017
*Il 09 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.6128 che, ponendosi in consapevole contrasto con l’opposto, maggioritario orientamento della giurisprudenza, ribadisce di voler aderire al filone pretorio alla cui stregua le deliberazioni dell’assemblea (non già “sui criteri” ma, piuttoto) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese condominiali sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione.
Trattasi per il Collegio di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni dell’assemblea condominiale, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto.
Per la Corte le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sono nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea.
D’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessita dell’accordo unanime di tutti i condomini.
2018
*Il 13 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.29217 che, ponendosi in consapevole contrasto con l’opposto, maggioritario orientamento della giurisprudenza, ribadisce di voler aderire al filone pretorio alla cui stregua le deliberazioni dell’assemblea (non già “sui criteri” ma, piuttoto) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese condominiali sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione.
Trattasi per il Collegio di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni dell’assemblea condominiale, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto.
Per la Corte le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sono nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea.
D’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessita dell’accordo unanime di tutti i condomini.
2019
*Il 10 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.470 che, ponendosi in consapevole contrasto con l’opposto, maggioritario orientamento della giurisprudenza, ribadisce di voler aderire al filone pretorio alla cui stregua le deliberazioni dell’assemblea (non già “sui criteri” ma, piuttoto) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese condominiali sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione.
Trattasi per il Collegio di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni dell’assemblea condominiale, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto.
Per la Corte le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sono nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea.
D’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessita dell’accordo unanime di tutti i condomini.
* * *
Il 01 ottobre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n.24476 che dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Il Collegio rileva in particolare come la questione della nullità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini (oltre che quella, sul crinale più strettamente processuale, della estensione dell’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali) sia stata fatta oggetto di plurime pronunce difformi delle Sezioni semplici; assume pertanto opportuna la decisione del ricorso da parte delle Sezioni Unite al fine di comporre il contrasto di giurisprudenza in atto, evidenziando altresì come le questioni da decidere presentino i caratteri di “questioni di massima di particolare importanza“.
* * *
Il 18 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.29878 che si colloca nel consolidato filone pretorio onde corollario del principio dell’efficacia obbligatoria delle deliberazioni assembleari nei confronti di tutti i condomini è l’ulteriore principio (espressamente previsto, con riferimento alle deliberazioni dell’assemblea delle società, dall’art. 2377, settimo comma, cod. civ.) per cui la sentenza di annullamento della deliberazione dell’assemblea ha efficacia di giudicato, in ordine alla causa di invalidità accertata, nei confronti di tutti i condomini, anche nei confronti di quelli che non abbiano partecipato al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro.
2021
Il 14 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.9839 che – raccogliendo l’invito del 2019 della II sezione – dipana importanti questioni processuali e sostanziali in tema di condominio negli edifici e legittimità delle pertinenti delibere.
Ad un certo punto del relativo, complesso iter motivazionale, il Collegio passa in particolare ad esaminare il terzo e il quarto motivo di ricorso, che assume scrutinabili unitariamente in ragione della loro stretta connessione.
Si tratta – precisano le SSUU – proprio dei motivi in relazione ai quali l’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione Civile ha rimesso il procedimento al Primo Presidente perché valutasse l’opportunità di assegnarlo alle Sezioni Unite medesime.
Con entrambi i motivi, si deduce la violazione degli artt. 1117, 1123 e 1126 cod. civ., in relazione agli artt. 633 cod. proc. civ. e 63 disp. att. cod. civ., per avere la Corte di Appello di Messina ritenuto che la dedotta invalidità della deliberazione di ripartizione delle spese, per violazione dei criteri prescritti dalla legge, non potesse essere delibata nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo – né relativamente alle spese di riparazione del lastrico solare, del quale il P. aveva negato di avere l’uso esclusivo (terzo motivo), né relativamente alle spese di riparazione dei torrini e delle scarpe di piombo dell’edificio condominiale, pacificamente di uso comune tra i condomini (quarto motivo) — trattandosi di questione che avrebbe dovuto essere oggetto di separata impugnativa avverso la pertinente deliberazione assembleare.
La Sezione remittente – precisano a questo punto le SSUU – ha ritenuto che, dall’esame del terzo e del quarto motivo, emergessero tre questioni di massima di particolare importanza, decise in senso difforme dalle Sezioni semplici, meritevoli di esame da parte delle Sezioni Unite. In particolare, l’ordinanza di rimessione ha evidenziato la necessità di risolvere le seguenti questioni:
1) «se le deliberazioni dell’assemblea condominiale, con le quali le spese per la gestione delle cose e dei servizi comuni siano ripartite tra i condomini in violazione dei criteri legali dettati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ. o stabiliti con apposita convenzione, debbano ritenersi sempre affette da nullità (come tali sottratte al regime di cui all’art.1137 cod. civ.) ovvero se le dette deliberazioni possano ritenersi nulle soltanto quando l’assemblea abbia inteso modificare stabilmente (a maggioranza) i criteri di riparto stabiliti dalla legge o dalla unanime convenzione, dovendo invece ritenersi meramente annullabili (come tali soggette alla disciplina dell’art. 1137 cod. civ.) nel caso in cui tali criteri siano soltanto episodicamente disattesi»;
2) «se, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei contributi per le spese condominiali, ai sensi dell’art. 63 disp. att. cod. civ., il giudice possa sindacare le eventuali ragioni di nullità della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese su cui è fondata l’ingiunzione di pagamento ovvero se, invece, la delibazione della nullità della deliberazione debba esse re riservata al giudice davanti al quale la medesima sia stata impugnata in via immediata nelle forme di cui all’art. 1137 cod. civ.»;
3) «se la statuizione di rigetto dell’opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei contributi condominiali, sulla base dello stato di ripartizione approvato dall’assemblea, dia luogo o meno alla formazione di giudicato implicito sull’assenza di cause di nullità della delibera».
Osservano a questo punto le Sezioni Unite come non tutti i quesiti posti dall’ordinanza di rimessione pongano questioni la cui soluzione è necessaria ai fini della decisione del caso sottoposto; essi, pertanto, il Collegio dichiara di voler esaminare nei limiti della loro rilevanza, ossia in quanto rappresentino un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione di principi di diritto utili alla soluzione delle questioni sottoposte con i motivi del ricorso scandagliato.
Questa necessaria delimitazione delle questioni da trattare – precisa il Collegio – è legata alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, compito delle quali non è l’enunciazione di principi generali e astratti o di tesi teoriche su ogni possibile questione di diritto collegata al caso da decidersi, ma l’enunciazione di quei soli principi di diritto che risultano necessari alla decisione del caso della vita da decidersi (in questo senso già Cass., Sez. Un., n. 12564 del 22/05/2018); basti osservare che lo stesso “principio di diritto nell’interesse della legge“, che la Corte di cassazione può essere chiamata ad enunciare ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., deve comunque corrispondere alla regola giuridica alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia.
Ciò premesso, può passarsi per il Collegio all’esame delle questioni sottoposte, nei limiti in cui la soluzione di esse rilevi ai fini della decisione del ricorso, secondo il loro ordine logico.
La prima questione da esaminare – principia la Corte – è quella relativa all’estensione del thema decidendum del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione degli oneri condominiali; si tratta, in particolare, di stabilire se, in tale giudizio, il giudice possa sindacare la validità della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese su cui è fondata l’ingiunzione di pagamento ovvero se tale sindacato gli sia precluso, per essere riservato ad apposito giudizio avente specificamente ad oggetto l’impugnazione in via immediata della deliberazione.
A tale quesito, la giurisprudenza della Corte ha dato, in un primo momento, risposta negativa, affermando il principio secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per le spese condominiali, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale, ma solo questioni riguardanti l’efficacia della medesima (Cass., Sez. 2, n. 22573 del 07/11/2016; Cass., Sez. 2, n. 17486 del 01/08/2006).
In particolare, si è statuito che il giudice dell’opposizione deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia della delibera assembleare, senza poter sindacare, neppure in via incidentale, la pertinente validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale detta delibera sia stata impugnata (Cass., Sez. Un., n. 26629 del 18/12/2009; nel medesimo senso, Cass., Sez. 2, n. 3354 del 19/02/2016; Cass., Sez. 2, n. 4672 del 23/02/2017; in senso conforme, non massimate: Cass., Sez. 2, n. 6436 del 19/03/2014; Cass., Sez. 2, n. 8685 del 28/03/2019; da ultimo Cass., Sez. 2, n. 21240 del 09/08/2019, in motiv.); egli può accogliere l’opposizione solo se la delibera condominiale abbia perduto la propria efficacia, per essere stata annullata o per esserne stata sospesa l’esecuzione dal giudice dell’impugnazione (Cass., Sez. 2, n. 19938 del 14/11/2012; Cass., Sez. 6 – 2, n. 7741 del 24/03/2017).
Queste conclusioni, che relegano l’azione di annullamento della delibera assembleare in un separato giudizio, necessariamente distinto da quello di opposizione al decreto ingiuntivo, sono state – precisa a questo punto il Collegio – recentemente contraddette da un nuovo indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte, che ha affermato il diverso principio secondo cui, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità d’ufficio dell’invalidità della sottostante delibera non opera allorché si tratti di vizi implicanti la pertinente nullità, in quanto la validità della delibera rappresenta un elemento costitutivo della domanda di pagamento (Cass., Sez. 2, n. 305 del 12/01/2016; Cass., Sez. 2, n. 19832 del 23/07/2019; nello stesso senso, non massimate: Cass., Sez. 6-2, n. 22157 del 12/09/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 33039 del 20/12/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 23223 del 27/09/2018).
Le Sezioni Unite ritengono che il primo orientamento debba essere superato, mancando ragioni sufficienti per negare al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di sindacare la validità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione; anzi, diverse fondate ragioni inducono a riconoscere al giudice dell’opposizione il potere di sindacare non solo l’eventuale nullità di tale deliberazione, ma anche la relativa annullabilità, ove dedotta nelle forme e nei tempi prescritti dalla legge.
In primo luogo, va osservato che, secondo i principi generali, l’opposizione a decreto ingiuntivo apre un ordinario giudizio di cognizione sulla domanda proposta dal creditore con il ricorso per ingiunzione, il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all’accertamento dei fatti costitutivi del diritto in contestazione, ossia al merito del diritto fatto valere dal creditore con la domanda di ingiunzione (Cass., Sez. Un., n. 7448 del 07/07/1993; Cass., Sez. 2, n. 9708 del 17/11/1994; Cass., Sez. 3, n. 3984 del 18/03/2003; Cass., Sez. L, n. 21432 del 17/10/2011).
Se il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione, risulta arduo sostenere che il giudice dell’opposizione possa confermare il decreto ingiuntivo senza verificare la validità del titolo (nella specie, la deliberazione assembleare) posto a fondamento dell’ingiunzione, non potendo ritenersi consentito, in assenza di previsione di legge, creare uno ius singulare per la materia condominiale.
Invero, la validità della deliberazione posta a fondamento della ingiunzione costituisce il presupposto necessario per la conferma del decreto ingiuntivo; non può, pertanto, precludersi al giudice dell’opposizione di accertare, ove richiesto o dovuto, la sussistenza del presupposto necessario per la pronuncia di rigetto o di accoglimento della opposizione.
In secondo luogo, prosegue la Corte, va rilevato come ragioni di economia processuale, in linea col principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), impongano di riconoscere al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di sindacare, ove richiesto, l’invalidità della deliberazione posta a fondamento dell’ingiunzione.
Infatti, negare al giudice dell’opposizione la possibilità di sindacare la invalidità della deliberazione posta a base dell’ingiunzione provocherebbe la moltiplicazione dei giudizi, perché costringerebbe il giudice a rigettare l’opposizione e obbligherebbe la parte opponente, che intenda far valere detta invalidità, a promuovere separato giudizio e, successivamente, nel caso in cui la deliberazione fosse annullata, a proporre domanda di accertamento e di ripetizione di indebito ovvero opposizione all’esecuzione, prolungando così il contenzioso tra le parti.
Al contrario, riconoscere al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo la possibilità di sindacare la validità della deliberazione assembleare consente, proseguono le SSUU, di definire nel medesimo giudizio tutte le questioni relative alla delibera su cui si fonda l’ingiunzione e di evitare la proliferazione delle controversie.
Si tratta di una interpretazione che, oltre ad essere in linea col principio costituzionale della ragionevole durata del processo, consente anche di evitare il rischio di contrasti di giudicati.
Quanto detto – chiosa ancora il Collegio – vale innanzitutto con riguardo al caso in cui la deliberazione assembleare sia affetta da “nullità“. È sufficiente, a tal fine, osservare che la nullità, quale vizio radicale del negozio giuridico, impedisce, per propria natura, allo stesso di produrre alcun effetto nel mondo del diritto (“quod nullum est nullum producit effectum“); essa è deducibile da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio (art. 1421 cod. civ.).
Perciò, negare al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di tener conto della eventuale nullità della deliberazione assembleare significa negare la stessa nozione di nullità; significa, al postutto, costringere il giudice a ritenere giuridicamente efficace ciò che tale non è.
Deve dunque riconoscersi – secondo i principi generali – che il giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo ha il potere di sindacare la nullità della deliberazione assembleare posta a fondamento della ingiunzione, che sia stata eventualmente eccepita dalla parte; egli ha altresì il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’eventuale nullità della deliberazione, con l’obbligo – in tal caso – di instaurare sulla questione il contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., n. 26242 del 12/12/2014; Cass., Sez. 2, n. 26495 del 17/10/2019).
Non vi sono poi neppure valide ragioni – prosegue il Collegio – per negare al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di verificare l’esistenza di una causa di “annullabilità” della deliberazione posta a fondamento del decreto, ove dedotta dall’opponente nelle forme di legge, e di provvedere al pertinente annullamento.
Va osservato in proposito, chiosano le SSUU, che la disposizione dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ. (nel testo introdotto dall’art. 15, comma 1, I. 11 dicembre 2012, n. 220) – a tenore della quale «contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti» – non prevede alcuna riserva dell’esercizio dell’azione di annullamento ad un apposito autonomo giudizio a ciò destinato, né fornisce alcuna indicazione che legittimi una tale conclusione.
Vale, pertanto, il principio generale secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente, che assume la posizione sostanziale di convenuto (al contrario dell’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore), nel contestare il diritto azionato con il ricorso, può proporre domanda riconvenzionale, anche deducendo un titolo non strettamente dipendente da quello posto a fondamento della ingiunzione (da ultimo, Cass., Sez. 2, n. 6091 del 04/03/2020; Cass., Sez. 1, n. 16564 del 22/06/2018), e può, con la domanda riconvenzionale, esercitare l’azione di annullamento della deliberazione posta a fondamento del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ.
Piuttosto, soggiunge la Corte, occorre soffermarsi sul pregnante significato che assume la disposizione dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel prescrivere le modalità processuali tramite le quali l’annullabilità della deliberazione dell’assemblea dei condomini può essere fatta valere in giudizio.
Si tratta di una disposizione che descrive il “modello legal-tipico” tramite il quale l’annullabilità della deliberazione assembleare può essere dedotta dinanzi al giudice: tale modello è quello dell’azione di “impugnativa“, da esercitare mediante la proposizione di apposita domanda giudiziale.
Ciò vuol dire che l’annullabilità della deliberazione assembleare può essere fatta valere in giudizio soltanto attraverso l’esercizio dell’azione di annullamento; tale azione deve estrinsecarsi in una domanda che può essere proposta “in via principale“, nell’ambito di autonomo giudizio, oppure “in via riconvenzionale“, anche nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sempreché il termine per l’esercizio dell’azione di annullamento non sia perento (come avviene, ad es., nel caso in cui il condomino assente non abbia ricevuto comunicazione della deliberazione assembleare di riparto delle spese).
Alcune precisazioni tuttavia, chiosa ancora la Corte, in proposito si impongono.
In primo luogo, occorre chiedersi se l’annullabilità della deliberazione assembleare possa essere fatta valere, oltre che in via di azione, anche in via di eccezione, come è consentito per l’annullabilità relativa ai contratti (art. 1442, ultimo comma, cod. civ.).
Per trovare risposta a tale quesito, è necessario muovere dal considerare la ratio della norma di cui all’art. 1137 cod. civ., ratio che va rinvenuta nella esigenza di assicurare certezza e stabilità ai rapporti condominiali, di modo che l’ente condominiale sia in grado di conseguire in concreto la propria istituzionale finalità, che è quella della conservazione e della gestione delle cose comuni nell’interesse della collettività dei partecipanti.
Questa ratio legis spiega perché il legislatore, per un verso, ha stabilito che le deliberazioni adottate dall’assemblea «sono obbligatorie per tutti i condomini» (art. 1137, primo comma, cod. civ.), anche per gli assenti e per i dissenzienti, e, per altro verso, ha sancito il principio dell’esecutività delle deliberazioni dell’assemblea, prevedendo che «l’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria» (art. 1137, terzo comma, cod. civ.).
Corollario del principio dell’efficacia obbligatoria delle deliberazioni assembleari nei confronti di tutti i condomini è l’ulteriore principio (espressamente previsto, con riferimento alle deliberazioni dell’assemblea delle società, dall’art. 2377, settimo comma, cod. civ.) per cui la sentenza di annullamento della deliberazione dell’assemblea ha efficacia di giudicato, in ordine alla causa di invalidità accertata, nei confronti di tutti i condomini, anche nei confronti di quelli che non abbiano partecipato al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro (cfr. Cass., Sez. 2, n. 29878 del 18/11/2019, in motiv.; Cass., Sez. 6 – 2, n. 19608 del 18/09/2020, in motiv.).
In sostanza, nel sistema normativo, come non è possibile che una deliberazione assembleare valida ed efficace vincoli alcuni condomini e non altri, essendo invece obbligatoria per tutti; così va escluso che la deliberazione assembleare possa essere giudizialmente annullata con effetto limitato al solo impugnante e rimanga invece vincolante per gli altri partecipanti.
La natura di ente collettivo del condomino, gestore di beni e di servizi comuni, esige che le deliberazioni assembleari debbano valere o non valere per tutti.
Quanto detto impone di interpretare l’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel senso che l’annullabilità della deliberazione non può essere dedotta in via di eccezione, ma solo “in via di azione“, ossia nella sola forma che consente una pronuncia di annullamento con efficacia nei confronti di tutti i condomini.
Vale la pena di osservare in proposito – chiosa ancora il Collegio – che, mentre l’azione di impugnativa è un’azione costitutiva, che mira alla rimozione della deliberazione con efficacia erga omnes, l’eccezione ha il limitato scopo di paralizzare la domanda altrui ed ottenerne il rigetto, senza sollecitare la cancellazione della deliberazione viziata dal mondo giuridico.
Pertanto, ove fosse consentito dedurre l’annullabilità della deliberazione in via di eccezione, la deliberazione che risultasse viziata sarebbe privata di validità e di efficacia solo nei confronti del condomino eccipiente, restando valida ed efficace nei confronti degli altri condomini. Un risultato di questo genere, però, sarebbe in contrasto con le esigenze di funzionamento del condominio, fatte proprie dal legislatore, e, nel caso di deliberazioni di ripartizione delle spese, renderebbe impossibile la gestione della contabilità condominiale.
Infatti, la quota di contribuzione di ciascun partecipante al condominio è rapportata alla quota di contribuzione degli altri, cosicché la caducazione di una quota non può non travolgere, inevitabilmente, anche le altre.
In conclusione, deve ritenersi che l’art. 1137, secondo comma, cod. civ., prescrive l’azione di annullamento quale “unico modello legale” attraverso il quale è possibile far valere l’annullabilità della deliberazione dell’assemblea condominiale, con esclusione della possibilità di dedurre l’annullabilità in via di eccezione.
Tale disposizione – precisa ancora la Corte – costituisce “norma speciale di ordine pubblico“, posta a tutela dell’interesse pubblico al funzionamento della collettività condominiale, derogatoria rispetto alle ordinarie regole dettate nella materia contrattuale.
Trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, la mancata deduzione della annullabilità nelle forme prescritte dalla legge, ossia con l’azione di annullamento, dà luogo a decadenza per mancato compimento dell’atto previsto dalla legge, che è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (a differenza di quanto vale per la decadenza discendente dalla scadenza del termine di cui all’art. 1137, secondo comma, cod. civ., che è riservata all’eccezione di parte, ai sensi dell’art. 2969 cod. civ.).
Il giudice, perciò, deve dichiarare inammissibile l’eventuale eccezione con cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente deduca l’eventuale annullabilità della deliberazione posta a fondamento dell’ingiunzione.
Come si è detto, riprende a questo punto il Collegio, la domanda di annullamento della deliberazione assembleare può essere proposta “in via principale“, nell’ambito di autonomo giudizio, o “in via riconvenzionale“, anche nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. La domanda in via principale può precedere il giudizio instaurato con l’opposizione al decreto ingiuntivo, ma può anche seguirlo, purché sia osservato il termine di decadenza previsto dall’art. 1137 cod. civ..
Quando invece la domanda di annullamento sia proposta in seno al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, essa assumerà la veste di domanda riconvenzionale, che l’opponente (nella relativa, sostanziale posizione di convenuto) ha l’onere di proporre, a pena di decadenza, con l’atto di citazione in opposizione, che corrisponde alla comparsa di risposta del convenuto di cui all’art. 167 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 3, n. 22528 del 20/10/2006; Cass., Sez. L, n. 13467 del 13/09/2003, in motiv.).
La decadenza che – ai sensi dell’art. 167, secondo comma, cod. proc. civ. – segue all’inosservanza di tale onere, essendo dettata nell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del processo, è rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass., Sez. 2, n. 4901 del 02/03/2007; Cass., Sez. 2, n. 17121 del 13/08/2020).
Da ultimo, va osservato per il Collegio che ciascun condomino è tenuto, secondo quanto prescrive l’art. 1137 cod. civ., a far valere l’annullabilità della deliberazione dell’assemblea condominiale, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di trenta giorni decorrente, per i condomini assenti, dalla comunicazione della deliberazione (e, per i condomini dissenzienti o astenuti, dalla data della sua approvazione), divenendo in mancanza la delibera valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass., Sez. Un., n. 4806 del 07/03/2005).
La decadenza dal diritto di impugnare per l’avvenuta scadenza del termine perentorio, essendo di carattere temporale e relativa ad una materia non sottratta alla disponibilità delle parti, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 2969 cod. civ.), ma è deducibile solo dalla parte a mezzo di eccezione (Cass., Sez. 2, n. 8216 del 20/04/2005; Cass., Sez. 2, n. 15131 del 28/11/2001).
Alla stregua di quanto sopra, vanno per la Corte enunciati, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., i seguenti principi di diritto:
– nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità, dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio, della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via di azione – mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamen- to contenuta nell’atto di citazione in opposizione – ai sensi dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione;
– sempre nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, l’eccezione con la quale l’opponente deduca l’annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, senza chiedere una pronuncia di annullamento di tale deliberazione, è inammissibile e tale inammissibilità va rilevata e dichiarata d’ufficio dal giudice.
La seconda questione da risolvere ai fini della decisione del ricorso, rammenta a questo punto la Corte, riguarda il tipo di invalidità che inficia la deliberazione dell’assemblea condominiale che ripartisca le spese tra i condomini in violazione dei criteri dettati negli artt. 1123 e segg. cod. civ. o dei criteri convenzionalmente stabiliti; si tratta, in particolare, di stabilire se una deliberazione siffatta debba ritenersi affetta da “nullità“, come tale rilevabile d’ufficio e deducibile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, ovvero da mera “annullabilità“, deducibile nei modi e nei tempi previsti dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.
Sul punto, rammenta il Collegio – la giurisprudenza tradizionale della Corte ha affermato il seguente principio: riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell’art. 1123 cod. civ. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell’esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ. (Cass., Sez. 2, n. 1455 del 09/02/1995; Cass., Sez. 2, n. 1213 del 01/02/1993).
Le stesse Sezioni Unite, poi, con la sentenza n. 4806 del 2005, nel ribadire il principio appena richiamato, hanno avuto cura di tracciare il criterio distintivo tra le deliberazione assembleari “nulle” e quelle “annullabili” nei seguenti termini: «debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto» (Cass., Sez. Un., n. 4806 del 07/03/2005).
Nella motivazione della richiamata pronuncia, le Sezioni Unite hanno individuato il criterio distintivo tra “nullità” e “annullabilità” nella contrapposizione tra “vizi di sostanza“, come tali afferenti al contenuto delle deliberazioni, e “vizi di forma“, afferenti invece alle regole procedimentali per la formazione delle deliberazioni assembleari: i “vizi di sostanza” determinanti la nullità delle deliberazioni assembleari – è detto – ricorrerebbero quando queste ultime presentano un oggetto impossibile o illecito; i “vizi di forma“, determinanti invece l’annullabilità, ricorrerebbero quando le deliberazioni sono state assunte dall’assemblea senza l’osservanza delle forme prescritte dall’art. 1136 cod. civ. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 cod. civ.
Il criterio distintivo enunciato dalla menzionata pronuncia, tuttavia, si è rivelato non del tutto adeguato, soprattutto con riferimento alle deliberazioni assembleari aventi ad oggetto la ripartizione, tra i condomini, delle spese afferenti alla gestione delle cose e dei servizi comuni in violazione dei criteri stabiliti dalla legge (artt. 1123 e segg. cod. civ.) o dal regolamento condominiale contrattuale.
È avvenuto così che, proprio nella materia della invalidità delle deliberazioni che ripartiscono le spese condominiali in violazione dei criteri legali o convenzionali, si è delineato un contrasto nella giurisprudenza della Corte.
Un primo indirizzo giurisprudenziale, rimasto fedele alla giurisprudenza tradizionale, ha affermato che sono affette da nullità soltanto le delibere condominiali attraverso le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall’art. 1123 cod. civ. o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo necessario per esse il consenso unanime dei condomini; mentre sono meramente annullabili – e, come tali, impugnabili nel termine di cui all’art. 1137, secondo comma, cod. civ. – le delibere con cui l’assemblea, nell’esercizio delle attribuzioni previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., determina in concreto la ripartizione delle spese medesime in violazione dei criteri dettati dall’art. 1123 cod. civ. o stabiliti convenzionalmente da tutti i condomini (Cass., Sez. 2, n. 16793 del 21/07/2006; Cass., Sez. 2, n. 17101 del 27/07/2006; Cass., Sez. 2, n. 7708 del 29/03/2007; Cass., Sez. 2, n. 6714 del 19/03/2010; nello stesso senso, non massimate: Cass., Sez. 2, n. 3704 del 15/02/2011; Cass., Sez. 6-2, n. 27016 del 15/12/2011; Cass., Sez. 2, n. 11289 del 10/05/2018; Cass., Sez. 2, n. 10586 del 16/04/2019).
Un secondo orientamento, però, ha affermato – in senso diametralmente opposto – che le deliberazioni dell’assemblea adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, trattandosi di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni del collegio, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto (Cass., Sez. 2, n. 5814 del 23/03/2016; Cass., Sez. 2, n. 19651 del 04/08/2017; nello stesso senso, non massimate: Cass., Sez. 2, n. 27233 del 04/12/2013; Cass., Sez. 6-2, n. 6128 del 09/03/2017; Cass., Sez. 6-2, n. 29217 del 13/11/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 29220 del 13/11/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 33039 del 20/12/2018; Cass., Sez. 2, n. 470 del 10/01/2019).
Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale ritiene che le deliberazioni di ripartizione degli oneri condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, sarebbero nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni dell’assemblea; e d’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse necessiterebbe dell’accordo unanime di tutti i condomini.
A fronte di questo rinnovato contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite ritengono di dover ribadire i principi già affermati con la propria sentenza n. 4806 del 2005, nei termini e con le precisazioni che seguono.
È necessario per il Collegio ricordare che la figura giuridica del condominio degli edifici si caratterizza per la coesistenza, accanto alle proprietà individuali, di una comunione forzosa tra tutti i condomini sugli elementi del fabbricato la cui utilizzazione è necessaria ai fini del godimento delle singole proprietà individuali.
Le parti comuni dell’edificio e i servizi comuni sono amministrati dalla volontà del gruppo; tuttavia, affinché sia evitata la paralisi della gestione comune, tale volontà collettiva non si forma mediante il metodo contrattuale del consenso reciproco (nel quale può operare lo ius prohibendi), ma si forma mediante il “metodo collegiale“, che assegna ogni potere decisionale all’assemblea dei condomini, la quale delibera secondo il principio della maggioranza (c.d. “principio maggioritario“). La volontà della maggioranza, formatasi secondo le regole e i criteri previsti dalla legge, è vincolante per tutti i condomini, anche per quelli assenti o dissenzienti (art. 1137, primo comma, cod. civ.).
La preoccupazione del legislatore di assicurare la certezza dei rapporti giuridici di una entità così complessa, come il condominio degli edifici, spiega perché la relativa disciplina normativa sia improntata ad un chiaro favor per la stabilità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini, che sono efficaci ed esecutive finché non vengano rimosse dal giudice (art. 1137, terzo comma, cod. civ.), e perché tale disciplina non contempli alcuna ipotesi di nullità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale, che renderebbe le medesime esposte in perpetuo all’azione di nullità, proponibile senza limiti di tempo da chiunque vi abbia interesse.
Questa mancata previsione di fattispecie di nullità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale è particolarmente significativa, dal momento che la disciplina delle società (le quali pure sono rette dal principio maggioritario) prevede limitate peculiari ipotesi di nullità delle deliberazioni adottate dell’assemblea dei soci (cfr. art. 2379 cod. civ.).
La recente riforma del condominio – prosegue la Corte – ha poi accentuato il disfavore per le figure di nullità delle deliberazioni assembleari.
L’art. 1137 cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 15 I. 11 dicembre 2012, n. 220, configura ora espressamente l’impugnazione delle delibere condominiali come una azione di «annullamento» (il testo originario dell’art. 1137 cod. civ. non parlava espressamente di azione di annullamento), da proporre «contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio».
Il tenore amplissimo della disposizione non lascia dubbi sull’intento del legislatore di ricondurre ogni forma di invalidità delle deliberazioni assembleari, senza distinzioni, alla figura della “annullabilità” e di porre così a carico del singolo condomino l’onere – esigibile sul piano della diligenza – di verificare, una volta ricevuta comunicazione di una deliberazione dell’assemblea, la sussistenza di eventuali vizi della stessa e, in caso positivo, di impugnarla, chiedendone l’annullamento.
Il tenore dell’art. 1137 cod. civ. non deve, tuttavia, ingannare: esso non consente di ritenere che la categoria della nullità sia interamente espunta dalla materia delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini.
Esistono categorie, nel mondo del diritto, che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono spontaneamente dal sistema giuridico, al di fuori e prima della legge. Quanto detto vale per il concetto di “nullità” degli atti giuridici, concetto di teoria generale del diritto – elaborato dalla pandettistica tedesca in contrapposizione a quello di annullabilità – del quale non può essere negato, come sempre la dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto, un limitato ambito applicativo con riferimento alle deliberazioni dell’assemblea condominiale affette dai vizi più gravi.
Storicamente la nozione di nullità è stata collegata alla “deficienza strutturale” dell’atto giuridico, ossia alla mancanza o alla impossibilità di un elemento costitutivo o di un requisito legale di efficacia; ma tale figura di invalidità è divenuta anche strumento di “controllo normativo“, destinato a negare tutela giuridica agli interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema, con i valori preminenti della comunità.
È così che l’art. 1418 cod. civ. pone, tra le cause di nullità del contratto, la mancanza di uno degli elementi essenziali (l’accordo delle parti; la causa; l’oggetto; la forma quando richiesta a pena di nullità), accanto alla relativa illiceità, intesa come contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Si tratta, allora, di verificare in quali termini le fattispecie di nullità, previste dall’art. 1418 cod. civ. per il contratto, possano valere per le deliberazioni dell’assemblea del condominio e in quali termini esse siano compatibili col carattere collegiale dell’assemblea e col principio maggioritario; tenendo presente che l’ambito in cui esse possono operare è comunque circoscritto dalla disciplina posta dall’art. 1137 cod. civ.
In particolare, nel compiere tale verifica, va tenuto presente che, con la disposizione dell’art. 1137 cod. civ., il legislatore – mosso dall’intento di favorire la sanatoria dei vizi e il consolidamento degli effetti delle deliberazioni dell’assemblea condominiale – ha elevato la categoria della annullabilità a “regola generale” della invalidità delle deliberazioni assembleari, confinando così la nullità nell’area della residualità e della eccezionalità (ciò trova conferma nel fatto che, con la citata riforma del 2012, sono state introdotte – agli artt. 1117 ter, terzo comma, e 1129, quattordicesimo comma, cod. civ. – alcune speciali fattispecie di nullità, peraltro non direttamente relative alle deliberazioni assembleari).
Tenendo presente quanto appena detto, può ora ricercarsi per il Collegio lo spazio che, nella disciplina codicistica del condominio, residua per la categoria della “nullità” con riguardo alle deliberazioni dell’assemblea dei condomini.
Innanzitutto, proprio considerando il fatto che la categoria della annullabilità è stata elevata dal legislatore a “regola generale” delle deliberazioni assembleari viziate, è possibile cogliere l’inadeguatezza del criterio distintivo tra nullità e annullabilità fondato sulla contrapposizione tra “vizi di sostanza” e “vizi di forma“.
L’art. 1137 cod. civ. sottopone inequivocabilmente al regime dell’azione di annullamento, senza distinzioni, tutte «le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento condominiale»; ciò vuol dire che, secondo la disposizione in esame, sono annullabili non solo le deliberazioni assembleari che presentano vizi di forma, afferenti cioè alle regole procedimentali dettate per la loro formazione, ma anche quelle che presentano vizi di sostanza, afferenti al contenuto del deliberato.
Afferiscono senz’altro al contenuto delle deliberazioni dell’assemblea condominiale le numerose disposizioni di legge che disciplinano la ripartizione delle spese tra i condomini: così, innanzitutto, l’art. 1123 cod. civ., che detta il criterio generale per cui «le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione»; ma anche le altre disposizioni particolari che dettano specifici criteri di ripartizione con riferimento all’oggetto della spesa (così, l’art. 1124 cod. civ., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la sostituzione delle scale e degli ascensori; l’art. 1125 cod. civ., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai; e lo stesso art. 1126 cod. civ., in tema di ripartizione delle spese per le riparazioni o le ricostruzioni dei lastrici solari di uso esclusivo).
La violazione di tali disposizioni dà luogo a deliberazioni assembleari “contrarie alla legge” con riferimento al loro “contenuto” e, perciò, affette da un vizio di “sostanza“; ma ciò non esclude che tale vizio rientri, in via di principio, tra quelli per i quali l’art. 1137 cod. civ. prevede l’azione di annullamento.
D’altra parte, deve escludersi che le deliberazioni che ripartiscano le spese tra i condomini in contrasto con i criteri legali o convenzionali siano adottate in carenza di potere da parte dell’assemblea. Infatti, il codice civile espressamente riconosce, tra le attribuzioni dell’assemblea condominiale da adottare col metodo maggioritario, l’approvazione e la ripartizione delle spese per la gestione ordinaria e straordinaria delle parti e dei servizi comuni (artt. 1135 nn. 2 e 4, 1120, 1123, 1128 cod. civ.).
Tali attribuzioni non vengono meno quando l’assemblea incorra in un cattivo esercizio del potere ad essa conferito, adottando un errato criterio di ripartizione delle spese, contrastante con la legge o col regolamento condominiale. Invero, l’attinenza di una deliberazione alle attribuzioni assembleari va apprezzata avendo riguardo alla corrispondenza della materia deliberata a quella attribuita dalla legge, ossia avendo riguardo all’esistenza del potere, e non al modo in cui il potere è esercitato.
Neppure le deliberazioni che ripartiscono le spese tra i condomini in violazione dei criteri di legge o convenzionali potrebbero ritenersi nulle per il fatto che esse finiscono per incidere negativamente, pregiudicandola, sulla “sfera patrimoniale” dei singoli condomini. Anche deliberazioni pacificamente annullabili (ad es. una deliberazione adottata in assenza di comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea a taluno dei condomini) possono provocare ricadute negative sul patrimonio di singoli condomini; ciò non vale, tuttavia, a ritenere tali deliberazioni affette da nullità.
Ritiene a questo punto il Collegio che la categoria giuridica della nullità, con riguardo alle deliberazioni dell’assemblea dei condomini, ha una estensione del tutto residuale rispetto alla generale categoria della annullabilità, attenendo essa a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di cittadinanza nel modo giuridico.
In particolare, la deliberazione dell’assemblea dei condomini deve ritenersi affetta da nullità nei seguenti casi:
1) “Mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali” (volontà della maggioranza; oggetto; causa; forma), tale da determinare la deficienza strutturale della deliberazione: è il caso, ad es., della deliberazione adottata senza la votazione dell’assemblea; o della deliberazione priva di oggetto, ossia mancante di un reale decisum ovvero con un oggetto non determinato né determinabile; o della deliberazione priva di causa, carente cioè di una ragione pratica giustificativa della stessa che sia meritevole di tutela giuridica; o della deliberazione non risultante dal verbale dell’assemblea, sprovvista perciò della necessaria forma scritta.
2) “Impossibilità dell’oggetto, in senso materiale o in senso giuridico“, da intendersi riferito al contenuto (c.d. decisum) della deliberazione. L’impossibilità materiale dell’oggetto della deliberazione va valutata con riferimento alla concreta possibilità di dare attuazione a quanto deliberato; l’impossibilità giuridica dell’oggetto, invece, va valutata in relazione alle “attribuzioni” proprie dell’assemblea.
In ordine all’impossibilità giuridica dell’oggetto, chiosa ancora il Collegio, vale la pena di osservare che l’assemblea, quale organo deliberativo della collettività condominiale, può occuparsi solo della gestione dei beni e dei servizi comuni; essa è abilitata ad adottare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio (avendo le attribuzioni indicate dall’art. 1135 cod. civ. carattere meramente esemplificativo), purché destinato alla gestione delle cose e dei servizi comuni.
Perciò, l’assemblea non può perseguire finalità extracondominiali (Cass., Sez. 2, n. 5130 del 06/03/2007); e neppure può occuparsi dei beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini o a terzi, giacché qualsiasi decisione che non attenga alle parti comuni dell’edificio non può essere adottata seguendo il metodo decisionale dell’assemblea, che è il metodo della maggioranza, ma esige il ricorso al metodo contrattuale, fondato sul consenso dei singoli proprietari esclusivi.
E allora, il potere deliberativo dell’assemblea in tanto sussiste in quanto l’assemblea si mantenga all’interno delle proprie attribuzioni; ove l’assemblea straripi dalle attribuzioni ad essa conferite dalla legge, la deliberazione avrà un oggetto giuridicamente impossibile e risulterà viziata da “difetto assoluto di attribuzioni“.
Il “difetto assoluto di attribuzioni” è un vizio che non attiene al quomodo dell’esercizio del potere, ma attiene all’an del potere stesso; esso non dipende dal cattivo esercizio in concreto di un potere esistente, ma dalla carenza assoluta in astratto del potere esercitato: in tali casi, la deliberazione non è idonea a conseguire l’effetto giuridico che si proponeva, risultando affetta da nullità radicale per “impossibilità giuridica” dell’oggetto.
Non così avviene, invece, quando l’assemblea adotti una deliberazione nell’ambito delle proprie attribuzioni, ma eserciti malamente il potere ad essa conferito; quando essa adotti una deliberazione violando la legge, ma senza usurpare i poteri riconosciuti dall’ordinamento ad altri soggetti giuridici: in tali casi, la deliberazione “contraria alla legge” è semplicemente annullabile, secondo la regola generale posta dall’art. 1137 cod. civ.
3) “Illiceità“. Si tratta di quei casi in cui la deliberazione assembleare, pur essendo stata adottata nell’ambito delle attribuzioni dell’assemblea, risulti avere un “contenuto illecito” (art. 1343 cod. civ.), nel senso che il decisum risulta contrario a “norme imperative“, all’ “ordine pubblico” o al “buon costume“.
Sono nulle, innanzitutto, le deliberazioni assembleari che abbiano un contenuto contrario alle norme imperative. Le norme imperative – rammenta la Corte – sono quelle norme non derogabili dalla volontà dei privati, poste a tutela degli interessi generali della collettività sociale o di interessi particolari che l’ordinamento reputa indisponibili, assicurandone comunque la tutela.
Nella disciplina del condominio degli edifici, le norme inderogabili sono specificamente individuate dagli artt. 1138, quarto comma, cod. civ. e 72 disp. att. cod. civ.
Parimenti vanno ritenute nulle le deliberazioni assembleari che abbiano un contenuto contrario all’ordine pubblico, inteso quale complesso dei principi generali dell’ordinamento (tale sarebbe, ad es., una deliberazione che introducesse discriminazioni di sesso o di razza tra i condomini nell’uso delle cose comuni); ovvero che abbiano un contenuto contrario al buon costume, inteso quest’ultimo come il complesso delle regole che costituiscono la morale della collettività sociale in un dato ambiente e in un determinato tempo.
In questi casi, la deliberazione assembleare, nonostante verta su una materia rientrante nelle attribuzioni dell’assemblea, si pone però in tale contrasto con i valori giuridici fondamentali dell’ordinamento da non poter trovare alcuna tutela giuridica, sicché la relativa nullità può essere fatta valere in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse (anche da parte del condomino che abbia votato a favore della pertinente approvazione).
Al di fuori di tali ipotesi, conclude sul punto il Collegio, deve ritenersi che ogni violazione di legge determina la mera annullabilità della deliberazione, che può essere fatta valere solo nei modi e nei tempi di cui all’art. 1137 cod. civ.
Rimane da stabilire per la Corte, alla luce dei criteri appena enunciati, se le deliberazioni assembleari che ripartiscono le spese condominiali in violazione dei criteri stabiliti dalla legge o dal regolamento condominiale contrattuale configurino o meno una delle ipotesi di nullità sopra esaminate.
Ritiene il Collegio – così confermando quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4806 del 2005 – che le delibere in materia di ripartizione delle spese condominiali sono nulle per “impossibilità giuridica” dell’oggetto ove l’assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifichi i criteri di ripartizione delle spese, stabiliti dalla legge o in via convenzionale da tutti i condomini, da valere – oltre che per il caso oggetto della delibera – anche per il futuro; mentre sono semplicemente annullabili nel caso in cui i suddetti criteri vengano soltanto violati o disattesi nel singolo caso deliberato.
In proposito, va osservato per le SSUU che le attribuzioni dell’assemblea in tema di ripartizione delle spese condominiali sono circoscritte, dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., alla verifica ed all’applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge e non comprendono il potere di introdurre modifiche ai criteri legali di riparto delle spese, che l’art.1123 cod. civ. consente solo mediante apposita convenzione tra tutti i partecipanti al condominio; di modo che l’assemblea che deliberi a maggioranza di modificare, in astratto e per il futuro, i criteri previsti dalla legge o quelli convenzionalmente stabiliti (delibere c.d. normative) si troverebbe ad operare in “difetto assoluto di attribuzioni“.
Al contrario, non esorbita dalle attribuzioni dell’assemblea la deliberazione che si limiti a ripartire in concreto le spese condominiali, anche se la ripartizione venga effettuata in violazione dei criteri stabiliti dalla legge o convenzionalmente, in quanto una siffatta deliberazione non ha carattere normativo e non incide sui criteri generali, valevoli per il futuro, dettati dall’art. 1123 e segg. cod. civ. o stabiliti convenzionalmente, né è contraria a norme imperative; pertanto, tale delibera deve ritenersi semplicemente annullabile e, come tale, deve essere impugnata, a pena di decadenza, nel termine (trenta giorni) previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.
Alla stregua di quanto sopra vanno enunciati per il Collegio, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., i seguenti principi di diritto:
– «In tema di condominio negli edifici, sono affette da nullità, deducibile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, le deliberazioni dell’assemblea dei condomini che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in sen- so materiale o in senso giuridico – dando luogo, in questo secondo caso, ad un “difetto assoluto di attribuzioni” – e quelle che hanno un contenuto illecito, ossia contrario a “norme imperative” o all’ordine pubblico” o al “buon costume”; al di fuori di tali ipotesi, le delibera- zioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del rego- lamento condominiale sono semplicemente annullabili e l’azione di annullamento deve essere esercitata nei modi e nel termine di cui all’art. 1137 cod. civ.»;
– «In tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalle legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di mate- ria che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall’art. 1135, numeri 2) e 3), cod. civ. e che è sottratta al metodo maggioritario; sono, invece, meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla ge- stione delle parti e dei servizi comuni adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ma in violazione degli stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio delle dette attribuzioni assembleari, che non sono con- trarie a norme imperative, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.».
A questo punto, alla luce dei principi di diritto sopra enunciati, può passarsi per la Corte alla verifica della fondatezza del terzo e del quarto motivo di ricorso.
È opportuno ricordare – riprende il Collegio – che, con tali motivi, il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello di Messina abbia rigettato l’opposizione a decreto ingiuntivo dal medesimo proposta, sull’assunto che le questioni relative alla nullità o alla annullabilità, per violazione dei criteri legali di cui agli artt. 1123 e 1226 cod. civ., delle deliberazioni di ripartizione delle spese condominiali, relative al rifacimento del lastrico solare (terzo motivo) e alla riparazione dei torrini e delle scarpe di piombo dell’edificio condominiale (quarto motivo), non potessero essere esaminate nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dovendo piuttosto essere esaminate in un separato giudizio di impugnativa avverso le deliberazioni assembleari.
Orbene, ritengono le Sezioni Unite che entrambi i motivi debbano essere rigettati, previa correzione della motivazione in diritto, ai sensi dell’art. 384, quarto comma, cod. proc. civ., nei termini che seguono.
Secondo i principi sopra enunciati, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice non può esimersi dal sindacare la nullità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione e neppure la relativa annullabilità, purché quest’ultima sia dedotta (non in via di eccezione, ma) “in via di azione“, con apposita domanda di annullamento proposta ai sensi dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel termine perentorio ivi previsto.
Ha errato pertanto, soggiungono le SSUU, la Corte territoriale ad affermare che la nullità e l’annullabilità delle deliberazioni assembleari poste a fondamento della ingiunzione non potessero comunque essere da essa sindacate; dovendosi al contrario ritenere che fosse senz’altro sindacabile la nullità delle dette deliberazioni e che fosse sindacabile anche l’annullabilità delle medesime, purché fatta valere mediante l’esercizio di apposita domanda riconvenzionale di annullamento.
Nonostante l’erroneità della motivazione in diritto, la impugnata sentenza della Corte di Appello di Messina non può, tuttavia, essere cassata, perché il pertinente dispositivo risulta conforme a diritto, avuto riguardo alla natura della dedotta invalidità delle deliberazioni assembleari e alla mancata deduzione della stessa nelle forme di legge.
Invero, prosegue la Corte, secondo la prospettazione del ricorrente, le deliberazioni assembleari poste a fondamento dell’ingiunzione sarebbero affette da nullità perché avrebbero ripartito le spese tra i condomini in pretesa violazione dei criteri dettati dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ.
Tuttavia, sulla base dei principi di diritto sopra enunciati, deliberazioni siffatte non possono comunque per la Corte assumersi nulle, potendo invece – in ipotesi – ritenersi semplicemente annullabili. Si tratta, infatti, di deliberazioni che non hanno modificato in astratto e per il futuro i criteri legali di ripartizione delle spese, ma hanno semplicemente disposto la ripartizione tra i condomini di spese particolari, nell’ambito delle attribuzioni riconosciute all’assemblea dei condomini dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., in pretesa violazione dei criteri dettati dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ.
Trattandosi di deliberazioni in ipotesi meramente annullabili, il ricorrente avrebbe dovuto esercitare l’azione di annullamento nei modi e nei tempi previsti dall’art. 1137 cod. civ.
Non avendo il ricorrente esercitato l’azione di annullamento, mediante la proposizione di apposita domanda riconvenzionale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, esattamente i giudici di merito – conclude la Corte – hanno ritenuto non scrutinabile la dedotta invalidità.
* * *
L’11 agosto esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.22700 in tema di rapporti tra separazione consensuale viziata e giudizio di divorzio.
Per il Collegio è utile premettere che, mentre il procedimento avente ad oggetto la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario si svolge secondo il rito speciale descritto dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, il giudizio volto ad ottenere l’annullamento, per vizio del consenso, dell’accordo di separazione consensuale precedentemente sottoscritto tra i coniugi ed omologato dal tribunale, è sottoposto, innegabilmente, alle forme del rito ordinario.
Infatti, nel delineare la natura giuridica del provvedimento di omologazione della separazione personale, la Corte rammenta di avere rimarcato la distinzione fra gli aspetti di natura negoziale sottesi alla separazione consensuale e quelli propri del decreto previsto dall’art. 158 c.c., precisando che la separazione trova la propria unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo (cfr. Cass. n. 26202 del 2013, in motivazione; Cass. n. 17607 del 2003).
È stato invero rilevato che l’accordo tra i coniugi costituisce l’elemento fondante della condizione di coniugi separati e del regolamento dei loro rapporti, mentre il provvedimento di omologazione svolge la funzione di controllare la compatibilità della convenzione rispetto alle norme cogenti ed ai principi di ordine pubblico, nonché di compiere la più pregnante indagine circa la conformità delle condizioni relative all’affidamento ed al mantenimento dei minori al loro interesse, e quindi di imprimere efficacia giuridica all’accordo stesso (cfr. Cass. n. 26202 del 2013, in motivazione; Cass. n. 9287 del 1997).
La sostanziale differenza, di natura ontologica e funzionale, fra l’atto in cui si realizza il consenso prestato dai coniugi in merito all’accordo di separazione, avente, secondo il prevalente orientamento della dottrina e della giurisprudenza, natura negoziale, ancorché non contrattuale, ed il decreto di omologazione, che con il primo non è legato da un rapporto immediato e diretto, non investendo l’accordo in sé e non svolgendo una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti, si riflette pure, comportando diverse soluzioni, sulla loro impugnabilità.
Per quanto qui di interesse, rammenta a questo punto la Corte la Corte, all’accordo di separazione la giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile in via estensiva la normativa sull’annullamento dei contratti per vizi del consenso (cfr. Cass. n. 26202 del 2013; Cass. n. 7450 del 2008; Cass., n. 24321 del 2007; Cass. n. 17902 del 2004. Sulla non assoggettabilità del provvedimento di omologa al ricorso straordinario ex art. 111 Cost., si veda, invece, Cass. n. 26202 del 2013).
La questione posta all’attenzione della Corte è ora se vi possa essere un simultaneus processus tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio introdotta dal R. con il proprio ricorso della L. n. 898 del 1970, ex art. 4, e quella volta ad ottenere l’annullamento, per vizio del consenso, dell’accordo di separazione consensuale precedentemente sottoscritto tra i coniugi ed omologato dal tribunale, proposta in via riconvenzionale, in quel giudizio, dalla M. .
Il cumulo delle domande predette, assoggettate a riti diversi, determinato dalla proposizione della riconvenzionale dell’odierna ricorrente, impone, allora, di fare riferimento all’art. 40 c.p.c., comma 3, il quale, nel testo novellato dalla L. n. 353 del 1990, consente il cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione cd. “per subordinazione” o “forte“.
In questa categoria rientrano, senza dubbio, le figure disciplinate dagli arti. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., cui l’art. 40, comma 3, predetto fa espresso rinvio, vale a dire le forme cd. forti di collegamento fra cause, per le quali l’esigenza di scongiurare conflitti fra accertamenti particolarmente gravi spinge l’ordinamento a favorire la realizzazione del processo simultaneo (le principali figure di subordinazione sono costituite dal nesso di pregiudizialità-dipendenza e dal nesso di incompatibilità fra rapporti sostanziali; peraltro, nella categoria generale della subordinazione, secondo parte della dottrina, possono essere ricondotte tutte le figure di collegamento fra rapporti giuridici che siano in grado di condurre ad episodi di conflitti logici o pratici di giudicati).
Sono da ricondursi, invece, alla diversa categoria della connessione cd. “per coordinazione” tutte le forme “deboli” di collegamento fra cause, rispetto alle quali l’accertamento uniforme risponde essenzialmente ad esigenze di economia processuale; rientrano in questa seconda categoria – rammenta il Collegio – la connessione per identità anche parziale del fatto costitutivo e la connessione per identità di questioni da risolvere. Anche in tali ipotesi, è indubbiamente rinvenibile un interesse dell’ordinamento al coordinamento delle decisioni aventi ad oggetto controversie con elementi comuni, onde evitare “conflitti tra motivazioni“; si tratta, tuttavia, di un’esigenza che può essere derogata, nel caso concreto, nel bilanciamento con altre esigenze, quale, ad esempio, quella di celerità dei procedimenti.
Quanto alle fattispecie di domande caratterizzate da connessione cd. “per subordinazione” o “forte“, l’art. 40 c.p.c., comma 3, stabilisce che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale qualora una di esse riguardi una controversia di lavoro o previdenziale.
La medesima disposizione, dunque, esclude la possibilità di proporre più domande connesse solo soggettivamente ai sensi dell’art. 33 c.p.c. o dell’art. 103 c.p.c., e soggette a riti diversi (cfr. Cass. n. 18870 del 2014; Cass. n. 20638 del 2004).
Nella specie, pertanto, occorre valutare se tra le descritte domande del R. e della M. , pacificamente soggette a riti diversi, sussista soltanto una connessione meramente soggettiva riconducibile alla previsione dell’art. 33 c.p.c. – trattandosi di cause tra le stesse parti ma aventi tra loro causa petendi e petitum del tutto diversi, come opinato dalla corte distrettuale (ed ancor prima dal tribunale) oppure se sia configurabile tra le medesime una connessione “per subordinazione” o “forte“, rendendo così applicabile, diversamente dalla prima ipotesi, l’art. 40 c.p.c., comma 3.
Orbene, chiosa ancora il Collegio, costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che non è consentita la trattazione unitaria, in un unico procedimento, della domanda di divorzio (soggetta a rito camerale) e di scioglimento della comunione e divisione dei beni (soggetta al rito ordinario), trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione ma autonome e distinte l’una dall’altra (cfr. Cass. n. 6424 del 2017; Cass. n. 26158 del 2006; Cass. n. 10356 del 2005).
Questo filone interpretativo si riferisce, evidentemente, all’ipotesi di cumulo di domande delle quali una investe lo status, mentre l’altra riguarda le sole pretese economiche ricollegabili al venir meno dello stesso. Non vi è chi non veda però, chiosa ancora la Corte, come la fattispecie oggi in esame riguardi due domande legate tra loro da un chiaro rapporto di pregiudizialità tecnico giuridica: vale a dire quella pregiudizialità che non riguarda la mera coincidenza del petitum e/o della causa petendi ma è determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo (Dott.. Cass. n. 8174 del 2006. In senso sostanzialmente conforme, peraltro si vedano pure, ex multis, Cass. n. 12999 del 2019, in motivazione; Cass. n. 4183 del 2016).
Infatti, presupposto della declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio è, giusta la L. n. 898 del 1970, art. 3, n. 2), lett. b) (nel testo, qui applicabile ratione temporis, modificato, da ultimo dalla L. n. 55 del 2015, art. 1), che vi sia stata separazione, giudiziale o consensuale omologata, dei coniugi protrattasi per almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile.
Ove, quindi, si tratti, come nell’odierna vicenda, di separazione consensuale, la controversia sulla validità dell’accordo di separazione addirittura pregiudica, in senso tecnico-giuridico, l’esito del giudizio di divorzio, atteso che l’eventuale annullamento di quell’accordo comporterebbe il venir meno, ex tunc, del corrispondente presupposto del divorzio (cfr. Cass. n. 25861 del 2014, benché resa in tema di sospensione del processo di divorzio, ex art. 295 c.p.c., in pendenza di una separata domanda di annullamento dell’accordo separativo per vizi della volontà), sicché deve ritenersi configurabile tra quelle due domande una situazione di connessione “per subordinazione” o “forte” (atteso il palese nesso di pregiudizialità che lega quelle domande), rendendo così certamente applicabile l’art. 40 c.p.c., comma 3, e salva ogni diversa determinazione del giudice di merito in ordine all’adozione di un eventuale provvedimento di sospensione, ex art. 295 c.p.c., della domanda (pregiudicata) di divorzio in attesa della definizione di quella (pregiudicante) sul richiesto annullamento dell’accordo di separazione.
Il ricorso dunque, conclude la Corte, va accolto, e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare dell’annullabilità in generale?
- si tratta di una peculiare forma di invalidità che affetta atti e negozi giuridici, precipuamente con riguardo (in termini statistici, ma non esclusivamente) al contratto; più nel dettaglio, sono (generalmente) annullabili: a.1) i contratti; a.2) i negozi giuridici unilaterali, come nel caso del testamento; a.3) gli atti giuridici in senso stretto, laddove pregiudizievoli per chi li pone in essere o per colui nei confronti del quale sono destinati ad operare;
- quanto al meccanismo operativo, attraverso una pronuncia giurisdizionale è possibile pervenire alla inefficacia del negozio annullabile;
- per ben comprendere la ratio dell’annullabilità, occorre muovere dal concetto di interessi c.d. “disponibili”, dei quali un soggetto giuridico può dunque “disporre”;
- in questi casi, a differenza per quanto accade con riguardo agli interessi c.d. “indisponibili”, a tale soggetto giuridico può essere lasciata la scelta se privare di efficacia o, all’opposto, lasciare efficace un negozio che conculchi un proprio interesse, per l’appunto, disponibile; in caso affermativo, egli può prendere l’iniziativa di chiedere “l’annullamento” del ridetto negozio;
- quest’ultimo, quando annullabile, risulta pertanto affetto da una invalidità che è disposta nel solo interesse di uno o più soggetti giuridici che, come tali, sono legittimati ad invocarne l’annullamento: in difetto, il negozio ridetto resta efficace e, dunque, produce tutti i propri effetti;
- l’annullabilità compendia una forma di invalidità strettamente avvinta al momento di formazione del consenso e, dunque, della volontà del soggetto giuridico – monocratico o collegiale – legittimato ad invocarla: f.1) può trattarsi di un consenso “viziato” da fattori interni e propri del soggetto ridetto, come nel caso dell’incapacità di intendere e di volere e del c.d. “errore” come vizio della volontà; f.2) può trattarsi di consenso “viziato”, all’opposto, da fattore esterni e non propri del soggetto giuridico in parola, come nel caso in cui il consenso ridetto sia stato carpito con dolo od estorto con violenza su iniziativa di terzi;
- legittimato ad invocare l’annullamento è dunque, e per l’appunto, colui nel cui interesse viene prevista l’invalidità del negozio, e dunque l’incapace (e, in caso di incapace legale, il relativo rappresentante legale) ovvero colui che ha visto formarsi la propria volontà in modo viziato per errore, dolo o violenza (anche pro quota, laddove si tratti di un soggetto che partecipa ad un organo collegiale); tale parte “legittimata” ad invocare l’annullamento (o il relativo erede, in caso di decesso) può peraltro decidere di non spiccare l’azione demolitoria, lasciando in vita il negozio che pure potrebbe privare di efficacia, proprio perché la causa di invalidità opera nel relativo, esclusivo interesse; laddove l’annullabilità discenda da incapacità della parte, ed un terzo abbia invece acquisito dall’incapace un diritto in modo conforme al quadro normativo, quest’ultimo (il terzo) è a propria volta assunto legittimato ad impugnare il contratto annullabile che attribuisca (ad altri terzi) diritti in conflitto con quello da lui legittimamente acquistato; si tratta delle ipotesi: g.1) della impugnazione degli atti compiuti dal rappresentante legale dell’incapace senza l’autorizzazione giudiziale, ai sensi degli articoli 322 e 327 c.c.; g.2) della impugnazione degli atti posti in essere dall’interdetto (art.427 c.c.); g.3) dell’impugnazione degli atti posti in essere dall’inabilitato o dal minore emancipato senza assistenza o autorizzazione (articoli 396 e 427 c.c.); g.4) dell’impugnazione degli atti posti in essere tra il minore divenuto maggiorenne ed il relativo tutore prima dell’approvazione del conto della tutela (art.388 c.c.); g.5) dell’impugnazione degli atti e delle donazioni poste in essere dall’incapace naturale (articoli 428 e 775 c.c.);
- eccezionalmente, legittimato a chiedere l’annullamento del negozio (e, in specie, del contratto) può essere, in via “estensiva”, chiunque vi abbia interesse – sul modello dell’impugnazione per nullità – inverando il prototipo della c.d. “annullabilità assoluta”, come nei casi: h.1) del matrimonio del soggetto interdetto per infermità di mente (art.119 c.c.); h.2) del testamento confezionato da chi sia incapace di testare (art.591 c.c.); h.3) di negozio riconducibile ad un condannato in stato di interdizione legale (art.1441 c.c.); h.4) del negozio posto in essere con la PA dal condannato a tutta una serie di delitti siccome previsti agli articoli 32 ter e 32 quaterp. e, come tale, destinatario della specifica sanzione accessoria (penale) compendiantesi nella incapacità di contrarre con la PA; ciò assecondando una ratio non già tanto di tutela dell’incapace, quanto piuttosto di sanzione (accessoria civile) al condannato;
- proprio perché di regola l’annullamento può essere invocato dal solo soggetto che vi abbia interesse (c.d. annullabilità relativa), il corollario è la definitività degli effetti del negozio annullabile una volta prescritta l’azione di annullamento per inerzia del soggetto legittimato ad intentarla, che non si attivi per 5 anni (art.1442 c.c.); esistono tuttavia fattispecie di prescrizione “breve”, come nel caso: i.1) dell’azione di annullamento del matrimonio viziato da violenza o errore (un anno: art.122, comma 4, c.c.); i.2) dell’azione di annullamento degli atti di disposizione di immobili o mobili registrati compiuti dal coniuge in comunione legale senza il necessario consenso dell’altro (art.184 c.c.). Sul crinale della decorrenza, occorre guardare al momento in cui è stato scoperto l’errore o il dolo, o a quello in cui è cessata la violenza, o ancora a quello in cui il minore ha raggiunto la maggiore età ovvero è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione (art.1442, comma 2); in tutti gli altri casi, residualmente, il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il negozio è stato concluso (art.1442, comma 3); occorre tuttavia distinguere la posizione dell’attore in annullamento, soggetta a prescrizione, da quella del convenuto per l’esecuzione di un contratto annullabile, che può eccepire l’annullabilità in ogni tempo, secondo il noto brocardo “temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum” (art.1442, comma 4); vi sono tuttavia casi nei quali l’annullamento può essere intentato solo in via di azione e non anche in via di eccezione, come nel caso – rammentato dalle SSUU del 2021 – dell’annullamento delle delibere condominiali ex art.1137 c.c., peraltro, soggetto a termine di decadenza, e non già di prescrizione;
- menzione a parte meritano proprio le fattispecie nella cui economia campeggi un interesse collettivo e, per converso, un interesse “legittimo” di ciascun partecipante al pertinente “gruppo”, laddove esigenze di stabilità e certezza dei rapporti plurimi e della trama complessiva che li compendia impone che l’accertamento della compatibilità (o incompatibilità) dell’interesse del singolo con quello del gruppo abbia luogo in tempi rapidissimi; sono le fattispecie in cui campeggia (proprio come accade con l’interesse legittimo di diritto amministrativo e tributario, fronteggiante quel particolare interesse collettivo detto “pubblico”) non già tanto la prescrizione, quanto piuttosto la decadenza: j.1) impugnazione delle delibere assembleari nella comunione (art.1109 c.c.); j.2) impugnazione delle delibere assembleari nel condominio negli edifici (art.1137c.c.); j.3) impugnazione – in “annullamento” – delibere assembleari nelle società di capitali (art.2377 c.c.). Si tratta di ipotesi al cui cospetto peraltro, in seguito all’arresto delle SSUU del 2021, si tende conferire valore di “regola” all’annullabilità, con contestuale marginalizzazione della nullità nel campo dell’”eccezione” afferente ai soli casi più gravi di invalidità del pertinente negozio (di norma, una delibera);
- quanto alla sentenza di annullamento, essa produce l’effetto di eliminare retroattivamente gli effetti del contratto (negozio) annullato, con conseguente necessità di ripristino dello status quo ante, e dunque della situazione fattuale e giuridica anteriore al negozio poi annullato; quanto prestato in esecuzione del contratto poi annullato può dunque essere ripetuto, ma qualora l’accipiens sia stato un contraente incapace, questi soffre l’obbligo di restituzione non già integrale, ma entro i limiti in cui abbia tratto vantaggio dalla ricevuta prestazione (art.1443 c.c.); quanto ai terzi, l’annullamento del negozio non pregiudica – come regola generale – i diritti che questi abbiano acquistato in buona fede e a titolo oneroso sulla base del negozio medesimo, escluso il solo caso in cui l’annullamento derivi da incapacità legale, circostanza capace dunque di travolgere anche gli acquisti di diritti a titolo oneroso da parte di terzi in buona fede (art.1445 c.c.); si tratta di una disposizione che va tuttavia coordinata – laddove siano coinvolti beni immobili o beni mobili registrati – con le disposizioni in materia di trascrizione, venendo fatti espressamente salvi proprio dall’art.1445 c.c. gli effetti della “trascrizione della domanda di annullamento” del negozio ridetto, onde schematizzando: k.1) se la domanda di annullamento viene trascritta prima dell’acquisto del terzo, questi soccomberà non potendo opporre il proprio acquisto a chi ha chiesto l’annullamento del negozio sulla cui base tale acquisto si fonda, facendo stato nei relativi confronti la (successiva) sentenza di annullamento ex art.2909 c.c.; k.2) se invece la domanda di annullamento viene trascritta dopo l’acquisto (trascritto) del terzo, scatta il complesso regime di cui all’art.2652, n.6, c.c., onde: k.2.1) se la domanda di annullamento del negozio viene trascritta dopo 5 anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo (oneroso o gratuito) dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda; il decorso dei 5 anni tra le “due trascrizioni” tutela dunque i terzi “a tutto tondo”; k.2.2) se tuttavia la domanda è diretta a far pronunziare l’annullamento per una causa diversa dall’incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (di annullamento), anche se questa è stata trascritta prima che siano decorsi 5 anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, purché in questo caso i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso (e non anche a titolo gratuito); quando dunque l’acquisto del terzo è a titolo gratuito e non si tratta di una fattispecie di annullamento per incapacità legale del contraente “a monte”, il mancato decorso dei 5 anni tra le “due trascrizioni” potrebbe pregiudicarne l’acquisto anche in caso di trascrizione dell’acquisto anteriore alla trascrizione della domanda di annullamento del negozio “a monte”.
Cosa occorre rammentare della c.d. sanabilità del contratto annullabile?
- la parte legittimata a spiccare azione di annullamento può, parallelamente, anche rendere definitivamente efficace il negozio annullabile, sanandolo giusta “convalida” ex art.1444 c.c.;
- si distingue tra: b.1) convalida espressa: la parte legittimata all’azione di annullamento dichiara in un apposito atto di voler convalidare il negozio annullabile, facendo esplicita menzione in tale atto sia del negozio che intende convalidare, sia della pertinente causa di annullabilità (art.1444 c.c.); b.2) convalida tacita: la parte legittimata all’azione di annullamento dà volontaria esecuzione al negozio annullabile, pur essendo a conoscenza del pertinente motivo di annullabilità (art.1443, comma 2, c.c.);
- la parte legittimata a chiedere l’annullamento del negozio, nel momento in cui ne determina la convalida – tanto espressa quanto tacita – deve essere in una situazione di consapevolezza e, dunque, di cosciente volontarietà nel senso appunto della convalida di un negozio che sa demolibile nei pertinenti effetti;
- una fattispecie particolare di convalida del negozio annullabile si registra (espressamente solo) in tema di errore; si tratta della rettifica, ovvero di un negozio unilaterale e ricettizio attraverso il quale la parte non in errore rende definitivamente efficace il pertinente contratto giusta modifica del contenuto di esso in modo conforme all’originario intento effettivo della controparte che è stata vittima dell’errore; ai sensi dell’art.1432 c.c. difattii la parte in errore “non può domandare l’annullamento del contratto” se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra parte offra di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere;
- l’art.1432 c.c. si esprime in termini di “offerta” di rettifica proveniente dalla parte non in errore, circostanza che lascia intendere la necessità di una accettazione da parte di chi sia caduto in errore; la tesi più accreditata è tuttavia quella che vede nell’offerta di rettifica una manifestazione di volontà unilaterale alla quale – sul modello del diritto potestativo – la parte caduta in errore non può comunque opporre un rifiuto; si è dunque al cospetto di una facoltà o comunque di un potere della parte non in errore di “rettificare” il contratto modificandone il contenuto e riportandolo alle intenzioni anche della parte in errore, il cui diritto all’annullamento del negozio risulta eliso o comunque precluso nel pertinente esercizio, salva sempre la possibilità di contestare la regolarità della “subita” rettifica;
- sul crinale del tempus, la parte non in errore può offrire la rettifica fino al giorno in cui si prescriva il diritto dell’altra all’annullamento del negozio (a quel punto, la rettifica non avrebbe più senso); poiché tuttavia l’annullabilità del negozio potrebbe essere opposta in via di eccezione, l’attore che chieda l’esecuzione del negozio annullabile e si veda eccepire, in ogni tempo, la pertinente annullabilità potrà sempre offrire la rettifica allo scopo di conservare al negozio i relativi effetti; in disparte il termine di prescrizione, la parte non in errore non può in ogni caso offrire la rettifica a quella caduta in errore laddove per il tempo trascorso dalla perfezione del negozio, ovvero per circostanze o fatti sopravvenuti, il contratto rettificato si atteggerebbe ad oggettivamente pregiudizievole per la parte caduta in errore e ingiustamente vantaggioso per chi offre la rettifica;
- si contendono in tema di rettifica 2 diverse opzioni ermeneutiche: f.1) essa si applica solo ai casi di annullabilità del negozio per errore, stante l’espresso disposto dell’art.1432 c.c. (dato testuale) ed attesa la difficoltà – nelle diverse ipotesi del dolo e della violenza – di identificare l’originario intento della parte il cui consenso sia stato, per l’appunto, carpito con dolo o estorto con violenza; f.2) essa si applica anche in fattispecie diverse da quella, espressamente prevista, dell’errore, compendiando una epifania dei più generali principi di buona fede e di conservazione del negozio.
Cosa occorre rammentare in particolare della “incapacità” come causa di annullabilità del contratto?
- qualora una delle parti sia stata “legalmente incapace di contrattare”, il contratto è annullabile, ai sensi dell’art.1425 c.c.; si tratta fondamentalmente: a.1) dei minorenni; a.2) degli interdetti; a.3) degli inabilitati, con riguardo agli atti di amministrazione del pertinente patrimonio;
- sono fattispecie a tutela del soggetto incapace, che dunque vanno distinte da quelle nelle quali l’incapacità si atteggia a “pena accessoria” rispetto ad una condanna penale, ai sensi degli articoli 32 ter e 32 quater c.p.;
- in caso di minore età, un caso particolare è quello di cui all’art.1426 c.c.: si tratta delle fattispecie in cui il minore abbia occultato con raggiri la propria minore età, circostanza capace di escludere l’annullabilità del contratto; proprio perché l’annullabilità è posta dal Legislatore a tutela dell’incapace come parte debole, essa viene meno laddove la finalità di protezione ridetta venga scongiurata dalla palesata malizia del minore che abbia occultato, per l’appunto, la propria minore età; deve trattarsi tuttavia di un vero e proprio raggiro, e dunque di una artificiosa macchinazione idonea ad indurre in errore la controparte, sicché viene assunta dalla giurisprudenza non sufficiente la mera omertà, ovvero la semplice dichiarazione di essere maggiorenne;
- particolare menzione va fatta del comma 2 dell’art.1425 c.c., laddove assume annullabile il contratto concluso da chi sia stato incapace di intendere e di volere, e dunque del c.d. incapace “naturale” (per causa permanente o transitoria); nel rinviare all’apposito CRONOPERCORSO, mette conto rammentare come non si sia al cospetto di uno stato “legale” di incapacità (come tale accertato ex lege una volta per tutte, sul modello di una situazione “di diritto”), dacché non si ha perdita né riduzione della capacità di agire “generale” del soggetto agente, quanto piuttosto di uno stato che, in ogni caso e “di fatto”, si connota per incapacità di “consapevolmente volere” capace di rendere il negozio annullabile (art.428 c.c., richiamato dall’art.1425, comma 2, c.c.); un soggetto ex lege capace di agire può dunque, di fatto e magari temporaneamente, essere incapace (o, secondo la giurisprudenza, anche solo “meno capace”) di intendere e di volere, divenendo significativa – a fronte della relativa, ordinaria “capacità naturale” presunta – la (da lui) provata “incapacità naturale” che lo ha investito al momento di porre in essere con volontaria consapevolezza il singolo negozio; all’uopo, per giurisprudenza è sufficiente anche un perturbamento psichico transitorio, senza che occorra provare – a fini di pertinente accertamento da parte del giudice di merito, con riferimento al momento di stipula del negozio – un preciso processo patologico e, dunque, una vera e propria malattia (come nel caso dell’ubriachezza, della alterazione da stupefacenti, di chi si trovi in fase di reinserimento post-coma, e così via); l’esplicito richiamo dell’art.1425, comma 2, c.c. all’art.428 c.c. impone la verifica, in aggiunta alla provata incapacità naturale del soggetto agente, delle condizioni previste dalla ridetta norma, circostanza che ha fatto affiorare due distinte opzioni ermeneutiche: d.1) tesi maggioritaria: si applica il solo comma 2 dell’art.428 c.c., che fa riferimento esplicito ai contratti e che richiede, a fini di annullabilità, la sola mala fede dell’altro contraente (“… quando, per il pregiudizio che sia derivato o che possa derivare alla persona incapace d’intendere e di volere, o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”); d.2) tesi minoritaria: si applica anche il comma 1 dell’art.428 c.c., afferente agli atti unilaterali, essendo quest’ultimo richiamato dall’art.1425 c.c. nella relativa integralità (senza dunque esplicito riferimento al solo comma 2), onde occorre – oltre alla mala fede della controparte – sempre anche il “grave pregiudizio” per l’incapace (“… se ne risulta un grave pregiudizio all’autore”);
- in tema di incapacità, non può non rammentarsi l’orientamento della giurisprudenza (anche amministrativa) che ha a lungo assunto “annullabile” il contratto a valle in caso di intervenuto annullamento dell’aggiudicazione “a monte”, muovendo proprio da una sopravvenuta incapacità a contrattare della PA in forza della intervenuta caducazione dell’aggiudicazione (si rinvia sul punto all’apposito CRONOPERCORSO).
Cosa occorre rammentare in particolare dell’errore quale “vizio della volontà” o “vizio del consenso” e causa di annullabilità del contratto?
- quando un soggetto giuridico decide di dispiegare la propria autonomia privata, deve poterlo fare in modo libero, consapevole e “volontario” nel senso, per l’appunto, di consapevolemente volontario; il problema si pone quando il negozio non è oggetto di una scelta libera e consapevole, ma viene invece posto in essere dal relativo autore versando in errore autonomo, in errore indotto da altrui dolo, ovvero a seguito di una subita violenza; si è al cospetto di c.d. “vizi del consenso” perché il soggetto finisce con il volere il negozio, ma sulla base di una volontà che si è formata in modo errato, indotto o costretto;
- muovendo dall’errore, la parte si induce a porre in essere il negozio sulla base di una falsa rappresentazione “a monte” del negozio stesso; in sostanza, si è al cospetto di una doppia alternativa: b.1) la volontà si forma in modo alterato, parlandosi in questa circostanza di errore-vizio o errore motivo; qui la volontà “a valle” c’è, ma si è formata male “a monte”; b.2) la volontà si è formata in modo corretto, ma la pertinente dichiarazione (da parte dello stesso soggetto agente, ovvero di un proprio incaricato, persona fisica o ufficio) diverge rispetto a quanto consapevolmente voluto, onde l’errore cade fondamentalmente proprio sulla dichiarazione, parlandosi in queste fattispecie di c.d. errore ostativo; qui la volontà si è formata correttamente “a monte”, ma quella dichiarata “a valle” non è (per errore) la reale volontà di chi dichiara, e dunque una volontà a rigore neppure si configura;
- chi vuole ottenere l’annullamento di un negozio stipulato per errore deve provare in primo luogo che esiste un preciso nesso di causalità psichica tra l’errore medesimo e la volontà siccome alfine manifestata a fini negoziali;
- l’errore, per potere essere causa di annullamento del negozio (normalmente, del contratto, ma non solo: basti pensare al richiamo che per gli atti unilaterali a contenuto patrimoniale spiega l’art.1324 c.c.), deve poi essere: d.1) essenziale: una falsa e distorta rappresentazione della realtà ha indotto il soggetto agente a volere un negozio che, in difetto dell’errore, non avrebbe voluto; è sempre essenziale, ex art. 1429 c.c., l’errore che cade sulla natura del contratto, sull’oggetto del contratto, nonché sull’identità del ridetto oggetto del contratto; l’errore sulla qualità della cosa è essenziale quando debba ritenersi determinante del consenso secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze (disciplina che intercetta quella dei vizi della cosa venduta, in ordine alla quale si rinvia all’apposito CRONOPERCORSO); del pari, l’errore sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente non è ex se essenziale, palesandosi tale solo quando ancora una volta sia stato determinante del prestato consenso; l’errore di diritto (falsa rappresentazione circa l’esistenza, l’applicabilità o la portata di una norma giuridica, imperativa o dispositiva), è essenziale solo quando costituisca la ragione unica o principale del contratto, ai sensi dell’art.1429 c.c.; d.2) riconoscibile dalla “controparte” nei negozi bilaterali o con più parti; il requisito della riconoscibilità, ai sensi dell’art.1431 c.c., si appunta sul concetto di persona di normale diligenza che, qualora l’errore sia stato riconoscibile, avrebbe potuto rilevarlo in relazione al contenuto del contratto, alle circostanze del contratto stesso ovvero alla qualità dei contraenti; un errore che resti occulto non può valere ad annullare il negozio, dovendosi tutelare il ragionevole affidamento (e, dunque, la buona fede) della controparte che, in presenza di riconoscibilità dell’errore, non manca chi addita ad imputabile financo di una vera e propria culpa in contrahendo. Quando l’errore è bilaterale (o plurilaterale), coinvolgendo dunque tutte le parti del negozio, il requisito della riconoscibilità non opera, assistendosi ad una falsa rappresentazione della realtà “collettiva” unita alla comune ignoranza di tale falsità della rappresentazione; non manca in dottrina chi distingue tra: d.2.1) errore “comune”: è l’ipotesi in cui, in effetti, il requisito della riconoscibilità non opera, palesandosi la falsa rappresentazione della realtà determinante in concreto per entrambe le parti; d.2.2) errore “bilaterale”: è l’ipotesi in cui, tecnicamente, la falsa rappresentazione della realtà sarebbe determinante per una sola delle parti, onde sarebbe in questo caso necessaria la riconoscibilità da parte del non errante;
- un discorso a parte merita l’errore sui motivi, al cui cospetto si fronteggiano due opposte tesi: e.1) tesi affermativa: poiché ai sensi dell’art.1329 c.c. l’errore di diritto è essenziale, conducendo dunque all’annullabilità del contratto, quando sia stato la “ragione” unica e principale del contratto, se ne deduce la rilevanza proprio dell’errore sui motivi; 2) tesi negativa: in realtà, nell’art.1329 la rilevanza dei “motivi” viene mediata da ragioni giuridiche, e non di fatto, trattandosi in sostanza di un errore interpretativo della parte che chiede di avvalersene a fini caducatori del pertinente negozio; discorso diverso è il vero errore sui “motivi”, tanto di fatto (ho deciso di porre in essere il negozio per motivi miei, sulla base dei fatti che avevo dinanzi) quanto di diritto (ho deciso di porre in essere il negozio per motivi miei, sulla base delle norme che disciplinano una data fattispecie), laddove occorre muovere dalla normale irrilevanza degli elementi interni e psicologici della parte negoziale, ovvero di quei presupposti e di quelle finalità personali che lo spingono a negoziare restando tuttavia fuori dal contenuto del contratto (e dalla pertinente “causa”), stante la necessità in questi casi di tutelare l’affidamento della parte che non versa in errore che, proprio in quanto “controparte”, non è in grado di cogliere gli elementi psichici di chi gli sta davanti e men che meno di apprezzare se tali elementi, viziati da errore, siano stati determinanti ai fini del pertinente consenso; una freccia nell’arco di questa opzione ermeneutica si ritrae dalla disciplina dei negozi unilaterali gratuiti, laddove l’esigenza di tutelare l’affidamento del relativo beneficiario si attenua grandemente, con pieno riaffiorare ex lege della rilevanza (eccezionale) proprio dell’errore sui motivi: così, l’errore sui motivi è causa di annullamento di una disposizione testamentaria laddove risulti dal testamento e sia il solo che ha determinato il testatore a disporre (art.624 c.c.); ancora, l’errore sui motivi è causa di impugnazione della donazione quando esso risulti dall’atto di donazione medesimo e sia stato determinante della pertinente disposizione a titolo gratuito (art.787 c.c.); chi è caduto in errore è onerato dal provare l’astratta riconoscibilità dell’errore in cui è caduto da parte della controparte; a partire peraltro dalle SSUU del 1997, anche in presenza di un errore non astrattamente riconoscibile il contratto può essere annullato davanti alla prova, portata da chi è caduto in errore, che esso è stato comunque concretamente (ri)conosciuto dalla controparte;
- l’errore di calcolo è disciplinato all’art.1430 c.c., onde esso non dà luogo (normalmente) ad annullamento del contratto, ma solo a pertinente rettifica, a meno che – concretandosi in un errore sulla quantità – sia stato determinante del consenso prestato; sull’errore di calcolo si registrano posizioni divaricate, quanto a pertinente natura giuridica, in dottrina e giurisprudenza: f.1) per la dottrina, anche quando si tratti di mero errore di calcolo, si è comunque al cospetto di una erronea determinazione del contenuto del negozio, con conseguente natura di errore vizio (recante seco una erronea indicazione della quantità della prestazione) che, tuttavia, va assunto non essenziale e proprio perché tale semplicemente rettificabile; f.2) per la giurisprudenza l’errore di calcolo concreta una vera e propria svista nelle operazioni matematiche, come tale immediatamente riscontrabile ed emendabile con la semplice ripetizione, corretta, del calcolo, onde si è al cospetto di qualcosa che resta al di fuori del processo di formazione della volontà contrattuale, senza influenzarlo punto, con il precipitato onde il negozio risulta meramente rettificabile, e non già annullabile;
- infine, e come in parte già osservato, quando si è al cospetto di negozi a titolo gratuito tanto il requisito della essenzialità dell’errore quanto, massime, quello della pertinente riconoscibilità subiscono una consistente mitigazione, con la conseguenza di rendere comunque (o, in ogni caso) più facilmente demolibile giusta annullamento il pertinente negozio.
Cosa occorre rammentare in particolare della violenza quale “vizio della volontà” o “vizio del consenso” e causa di annullabilità del contratto?
- venendo alla violenza quale ulteriore vizio del consenso e causa di annullabilità del negozio (art.1427 c.c.), essa in prima approssimazione compendia una minaccia tale da costringere un soggetto a stipulare un contratto che non avrebbe stipulato, ovvero a subire – del contratto che avrebbe comunque stipulato – un determinato contenuto da lui ab origine non voluto;
- in sostanza, il soggetto che subisce la violenza presta il proprio consenso al fine di sottrarsi al male minacciatogli attraverso una coazione morale o psichica, sentendosi dunque costretto a farlo e “volendo” dunque perché all’uopo coartato; nel percorso di formazione della volontà, viziato, è la violenza a fare in modo che il soggetto in parola voglia quanto non avrebbe voluto in difetto della corrispondente minaccia;
- si tende a distinguere nella dottrina tradizionale il fenomeno della violenza fisica, allorché la controparte o un terzo provochino – “fisicamente” appunto – la dichiarazione non voluta della vittima, come nel classico caso di chi sottoscriva un contratto vergandolo con mano forzatamente guidata dal soggetto agente; in simili fattispecie, si dichiara quanto non si vuole, onde il negozio viene additato come nullo per mancanza di consenso o, secondo altri, inesistente perché non imputabile al soggetto al quale parrebbe doversi ricondurre; non manca tuttavia chi, in senso critico, fa notare come sia ben possibile che il soggetto stipulante “fisicamente costretto” sottoscriva il negozio con una volontà non del tutto assente (o comunque non totalmente obliterata), allorché l’atto di violenza fisica si accompagni ad altro, coevo, di violenza morale, tale da minacciare un immediato male fisico in difetto di “sottoscrizione guidata”: qui, in effetti, chi sottoscrive “forzosamente” in realtà è possibile che in qualche modo “voglia” il negozio stipulato al fine di sottrarsi al male fisico minacciato psichicamente; proprio per questo, la più moderna dottrina tende a distinguere non già tra violenza “fisica” e violenza “psichica”, quanto piuttosto tra: c.1) violenza assoluta: il consenso va assunto escluso ed il negozio radicalmente nullo; c.2) violenza relativa: il consenso c’è, ma il relativo percorso formativo è viziato dalla coartazione perpetrata da terzi, onde il negozio è annullabile, e non già radicalmente nullo;
- ai sensi dell’art.1435 c.c., a fini di annullabilità del negozio non è sufficiente una violenza quale che sia, occorrendo piuttosto una violenza “oggettiva”, di tal natura da fare impressione ad una persona sensata e da farle temere di esporre sé (come persona) ed i relativi beni (come patrimonio) ad un male ingiusto e notevole; ancora una volta dunque – come già notato in tema di riconoscibilità dell’errore – il Legislatore del codice si affida ad una nozione di “uomo medio”, onde rileva – in ottica oggettivizzante del pertinente giudizio – una minaccia che sappia far leva su di un uomo di media impressionabilità; la ponderazione del giudizio sulla consistenza della violenza si soggettivizza poi laddove l’art.1435 c.c. fa riferimento all’età, al sesso e alla condizione delle persone, onde la gravità della minaccia, dopo un primo passaggio valutativo in astratto (siccome parametrato sull’uomo medio) deve poi superare un successivo scandaglio in concreto, tarato su persone e circostanze del singolo caso di specie;
- il male minacciato deve essere in primo luogo “ingiusto”, compendiandosi in una lesione contra ius avente ad oggetto i beni o la persona del contraente che subisce la minaccia; ai sensi dell’art.1436 c.c., rilevano peraltro anche la persona o i beni del coniuge del contraente (la norma non risulta dunque ancora coordinata con la disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto) o di un ascendente o discendente di lui; con riguardo a queste persone (contraente, relativo coniuge, relativo ascendente o relativo discendente) opera in “astratto” (comma 1) una presunzione assoluta di efficacia della minaccia, in ottica di parificazione dei relativi effetti “persuasivi” sul soggetto che fa luogo al negozio sotto violenza; con riguardo invece a persone diverse, il contratto può comunque essere annullabile con valutazione rimessa al prudente apprezzamento, “in concreto”, del giudice nella singola fattispecie (comma 2);
- la minaccia deve tradursi in un metus ab extrinseco, e dunque in una coazione riconoscibile come comportamento oggettivo, come tale epifanicamente riconducibile in modo indiscusso alla controparte negoziale o ad un terzo, sì da incidere con efficienza causale (c.d. causalità psichica) sulla formazione della volontà del soggetto passivo, che si determina a volere perché all’uopo costretto dal minacciante; non è sufficiente dunque che chi pone in essere il negozio viva la mera rappresentazione interna (e totalmente soggettiva) di un pericolo – c.d. metus ab intrinseco – quantunque in qualche modo avvinta a qualche circostanza oggettiva, che non è dunque tale da provocare l’annullabilità del pertinente negozio;
- in proposito, viene esplicitamente escluso dall’art.1437 c.c. che possa essere (generale) causa di annullamento del negozio il semplice timore reverenziale, quale soggezione psicologica nei confronti di una persona particolarmente carismatica o autorevole, ovvero nei confronti di colui al quale si è legati da una particolare relazione, come nel classico caso del datore di lavoro; non va tuttavia confuso il ridetto timore reverenziale con la c.d. intimidazione morale, quale minaccia capace di far paventare un pregiudizio alla vittima che si rifiuti di accondiscendere ad un dato negozio, come nel tipico caso dell’avvertimento mafioso, che trasferisce all’interlocutore – alla tregua di codici territorialmente stratificati – una vera e propria minaccia capace di far luogo, secondo la giurisprudenza di merito, ad un contratto annullabile; ancora, diverso dal timore reverenziale (ab interno) è – in tema di matrimonio annullabile – il timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo (art.122, comma 1, c.c.), rilevante proprio perché “eccezionale” e proveniente ab externo;
- interessante la figura della c.d. minaccia di far valere un diritto, quale minaccia di un male non contra ius, che può essere causa di annullamento del negozio solo si rivolga a realizzare vantaggi ingiusti in capo a chi la dispiega (art.1438 c.c.); si tratta di fattispecie da collegarsi, oltre che all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni in ambito penalistico, alla scriminante dell’esercizio del diritto (si rinvia in proposito all’apposito CRONO PERCORSO di Diritto Penale) e al concetto di “abuso del diritto” ( si rinvia in proposito all’apposito CRONO PERCORSO di Diritto Civile);
- sui rapporti della violenza negoziale con l’estorsione in ambito penalistico, si rinvia agli appositi CRONO PERCORSI, rispettivamente, sui reati-contratto e i reati in contratto (Diritto Penale) e sulla rescissione (Diritto Civile).
Cosa occorre rammentare in particolare del dolo quale “vizio della volontà” o “vizio del consenso” e causa di annullabilità del contratto?
- venendo infine al dolo quale ulteriore vizio del consenso e causa di annullabilità del negozio, con esso si fa riferimento ad un raggiro, in qualsiasi forma perpetrato, che sia capace di alterare la volontà della vittima, inducendola in un errore nel quale essa non sarebbe caduta senza il contegno decettivo della controparte;
- occorre in proposito distinguere tra: b.1) dolo determinante: l’errore indotto dal dolo di una delle parti del negozio ha avviato l’altra a stipulare tout court, onde in assenza del raggiro non si sarebbe addivenuti al negozio medesimo; si tratta di una fattispecie al cui cospetto il negozio è annullabile (art.1439 c.c.), configurandosi un dolo “vizio” (o causam dans); b.2) dolo incidente: l’errore indotto dal dolo di una delle parti del negozio non ha avviato l’altra a stipulare tout court, dacché al negozio si sarebbe addivenuti in ogni caso per non essere il raggiro di X (decipiens) determinante del consenso di Y (deceptus), e tuttavia in assenza del dolo ridetto il negozio pertinente sarebbe stato stipulato a condizioni diverse, onde il negozio medesimo resta valido (e, dunque, non annullabile) ma il contraente in mala fede è tenuto al risarcimento del danno (art.1440 c.c.); si tratta di una fattispecie assai rilevante sul crinale sistematico, affiorando dalla medesima quella distinzione tra regole di validità (struttura) e regole di comportamento (funzione) dalla cui violazione, secondo una nota elaborazione giurisprudenziale, discendono sanzioni di diverso effetto, connotate da una “forma specifica” nel primo caso (annullamento o declaratoria di nullità del negozio), e da una “forma per equivalente” nel secondo (obbligo risarcitorio di una parte nei confronti dell’altra);
- dal punto di vista soggettivo, il dolo come induzione in errore capace di viziare la volontà della controparte può essere perpetrato: c.1) dall’altro contraente, o comunque dalla controparte negoziale del deceptus; c.2) da un soggetto terzo rispetto tanto al deceptus quanto al decipiens, ma in questo caso il negozio è annullabile solo quando il dolo proveniente dal terzo sia stato noto al contraente che ne ha tratto vantaggio (art.1439, comma 2, c.c.), onde laddove la macchinazione riconducibile al terzo decipiens non sia stata conosciuta dal contraente che dal dolo ha tratto vantaggio, dovendosi di costui tutelare l’affidamento ragionevole il negozio resta valido e non attaccabile con azione di annullamento da parte del deceptus;
- tutto l’impianto del dolo come vizio della volontà si impernia sul “raggiro”, ovvero sulla macchinazione capace di trarre in errore l’altra parte del negozio; si tratta normalmente di un contegno di natura commissiva, e dunque di un’”azione”; la dottrina riconduce al dolo “commissivo” anche il semplice mendacio, avendo riguardo al relativo effetto di “immutatio veri”; deve trattarsi di uno stratagemma capace di indurre in errore la controparte negoziale, come mendacio o come menzogna, dovendosi all’uopo tenere conto della materia del negozio che si vuole concludere, delle circostanze nel cui contesto la negoziazione ha luogo e delle condizioni soggettive della persona alla quale le dichiarazioni mendaci o menzognere vengono rivolte;
- particolare menzione va fatta della rilevanza, a fini di annullamento del negozio per dolo, delle condotte puramente omissive, come il silenzio e la reticenza, laddove capaci di indurre in errore la controparte negoziale; un dibattito in dottrina e giurisprudenza coinvolge in specie la reticenza, onde: e.1) secondo un primo orientamento, che invoca l’applicazione analogica dell’art.1892 in tema di assicurazione laddove la reticenza dell’assicurato è causa di annullamento del ridetto contratto di assicurazione (come nel classico caso di chi sia gravemente ammalato e stipuli una polizza sulla vita tacendo tale sua rilevante circostanza), affiora proprio dalla disciplina del contratto di assicurazione un principio di carattere generale in materia contrattuale onde la reticenza va assunta per l’appunto quale (del pari, generale) causa di annullabilità del negozio in forza della relativa capacità di indurre in errore l’altra parte; e.2) stando ad una seconda opzione ermeneutica, anche lasciando sullo sfondo il contratto assicurativo campeggia, in materia negoziale e, segnatamente, contrattuale, il principio di buona fede oggettiva, che concerne anche la fase delle trattative (art.1337 c.c.) e che lascia affiorare un obbligo di reciproca informazione in capo ai contraenti capace, ove violato, di impegnarne la responsabilità c.d. precontrattuale (per la quale si rinvia all’apposito CRONO PERCORSO); proprio sull’obbligo di informare la controparte al fine di evitarne la caduta in errore si appunterebbe dunque, secondo questa diversa prospettiva, la rilevanza della reticenza nel singolo caso concreto, laddove cioè chi ha l’obbligo di informare tace addivenendo ad un contratto annullabile su istanza dell’“errante indotto”, nella relativa veste di deceptus (c.d. dolo omissivo); in questa prospettiva, è la natura del singolo contratto da concludere o la particolare condizione dei contraenti a forgiare il diverso atteggiarsi, di volta in volta, dei singoli obblighi di informazione precontrattuale dal cui inadempimento, giusta silenzio malizioso e, appunto, reticenza, discende l’annullabilità del singolo contratto; ne affiora la necessità di una concretizzazione caso per caso del generale obbligo di informazione precontrattuale nei singoli obblighi informativi afferenti a ciascun caso di specie, dovendosi conciliare il diritto al riserbo di una parte, il pertinente e specifico obbligo informativo e l’onere di auto-informazione della controparte; va registrato nondimeno come in giurisprudenza si abbia dolo omissivo sub specie di reticenza non già semplicemente in presenza di un comportamento passivo che non contrasta l’errata percezione della realtà da parte dell’interlocutore, quanto piuttosto in presenza di un contegno, nel complesso, ingannatorio, laddove chi tace si rappresenta consapevolmente l’errore dell’interlocutore ed è cosciente che può orientarne la volontà in modo ingannatorio e decettivo;
- esiste infine una forma di dolo astrattamente innocuo (c.d. dolus bonus) che, pur compendiando una pratica o comunque un mezzo in qualche modo orientato alla immutatio veri, non è comunque idoneo a trarre in inganno la vittima, come tradizionalmente accade nel caso in cui, durante le trattative, una delle parti esageri le qualità di un bene che vuole alienare al potenziale acquirente: muovendo dal presupposto che l’uomo medio è pienamente capace di accorgersi che le ridette qualità vantate sono frutto di esagerazione, la pratica dei traffici commerciali tollera questo genere di dolo inidoneo come tale, in astratto (ma non sempre in concreto), ad alterare il consenso del c.d. uomo medio;
- sui rapporti del dolo negoziale con la truffa in ambito penalistico, si rinvia agli appositi CRONO PERCORSI, rispettivamente, sui reati-contratto e i reati in contratto (Diritto Penale) e sulla rescissione (Diritto Civile).