Corte di Cassazione Penale, Sezione VI, 9 agosto 2024, n. 32470
PRINCIPIO DI DIRITTO
Ai fini della sussistenza del dolo specifico dell’art. 375 cod. pen., occorre che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia agito con l’intenzione di deviare l’indagine o il processo rispetto al corso in origine da essi assunto, non essendo invece sufficiente il fine di corroborare o consolidare indagini o elementi probatori già acquisiti, in presenza del quale configurandosi eventualmente diverse (e meno gravi) ipotesi di reato.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Ai fini di una migliore comprensione delle deduzioni del ricorso e della presente motivazione, si impone preliminarmente una breve ricostruzione dei fatti per come accertati dalle sentenze di merito (che, trattandosi di c.d. “doppia conforme”, formano un unico corpo motivazionale. Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218).
Il Sovrintendente Be. dell’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico della Polizia di Stato (giudicato separatamente), insieme ad altri due agenti tra cui l’assistente capo Pu.Gi., descritto dai Giudici di merito come il più anziano ed esperto, ritenendo di aver individuato in due persone di etnia gambiana gli autori di alcune rapine commesse a R, falsificarono variamente le prove al fine di rendere sostenibile l’ipotesi accusatoria nei confronti di due indiziati.
Nella sentenza di primo grado si precisa che le indagini consentirono “di acclarare che le ragioni della commissione dei delitti di falso e di frode in processo penale e depistaggio hanno trovato terreno fertile proprio nella pressione emotiva correlata alla volontà di assicurare al più presto i colpevoli alla giustizia, nonché una certa vena agonistica, correlata alla volontà di mostrare la propria bravura investigativa, anche in termini di quantità di arresti e fermi effettuati”.
In particolare, quanto alle condotte di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.), risulta accertato che:
– il Be. formò un verbale precompilato e un poliziotto le cui fattezze furono ritenute corrispondenti a quelle del Pu.Gi. raggiunse la teste Mo. (vittima di una delle rapine) presso l’abitazione del suo compagno per farglielo firmare (capo a, punto 1). La teste affermò, successivamente, che il Pu.Gi. le indicò una foto affermando “noi crediamo che sia lui” (dichiarazioni avvalorate anche dal Be.);
– il Pu.Gi. e una collega (Ci.) raggiunsero un’altra teste (anch’ella) vittima di rapina in ospedale dove era ricoverata per le lesioni, sottoponendole anche in questo caso un verbale precompilato (capo a), punto 2);
– in entrambi i casi, la falsità riguardò sia il luogo in cui il verbale risultava compilato (Questura), sia il fatto che il Be. risultasse presente, il che non corrispondeva al vero;
– il Pu.Gi., inoltre, compilò e sottoscrisse due distinti verbali di sequestro probatorio a carico rispettivamente dei gambiani Ta. e Di. (questi, erroneamente in origine individuato in altra persona, e cioè nel Ni.; da tale errore prese l’avvio l’indagine nei confronti dei poliziotti) in cui si riportava che costoro, in occasione del fermo, indossassero abiti – descritti dalle vittime delle rapine e ripresi dalle telecamere – diversi da quelli realmente indossati al momento del fermo e che uno dei due (il Ni., poi identificato nel Di.) consegnò spontaneamente i suoi pantaloni – corrispondenti alla descrizione che ne aveva fatto una teste – prima di essere condotto agli uffici della Questura (capo a, punti 3 e 6), mentre gli indumenti in oggetto erano stati rinvenuti dai poliziotti in una sorta di discarica di vestiti dismessi nei pressi dell’area (“ex officine r”) dove i due gambiani dormivano.
A tali ultime condotte si riferisce altresì la condanna per il delitto di depistaggio di cui all’art. 375 cod. pen., di cui al capo b) di imputazione.
- Si prescinde qui da ogni considerazione sulla tecnica di redazione del ricorso, che rasenta l’inammissibilità poiché accomuna sotto un unico motivo – concernente in modo confuso sia la violazione di legge, sia il vizio di motivazione (quest’ultimo indifferenziatamente sotto il profilo dell’assenza/parzialità come anche dell’illogicità/contraddittorietà) – una pluralità eterogenea di deduzioni, il che impedisce di sviluppare una risposta organica su ogni singolo punto.
2.1. D’altronde, appare assorbente la considerazione che la massima parte di tali deduzioni (ad eccezione di quelle che richiamano i motivi di appello nel ricorso numerati come 5, 6, 11 e 12) sub specie di violazione di legge e vizio motivazionale (talvolta anche travisamento della prova) mira, invece, a sollecitare un apprezzamento del compendio probatorio non consentito in sede di legittimità, essendo stato già valutato dai Giudici di merito con argomentazione completa e tutt’altro che illogica.
Né – è il caso di precisare – si ravvisa l’eccepito travisamento della prova.
Infatti, secondo il pacifico orientamento di questa Corte, il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece:
- a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento;
- b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza;
- c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda;
- d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085).
Viceversa, nel caso di specie, le deduzioni difensive relative all’accertamento del fatto non sono in grado di decostruire il solido impianto argomentativo delle sentenze di merito.
Invero, quanto all’identificazione dell’imputato nell’agente che sottopose e fece firmare alle testi Mo. e Gi. (vittime delle rapine) il verbale precompilato (capo a, punti 1 e 2) – classica questione “di fatto” – la sentenza impugnata ha valorizzato le dichiarazioni del Sovrintendente Be. – la cui attendibilità è stata ampiamente indagata soprattutto in primo grado -, riscontrate dalle testi citate.
Per il resto, è indubbio che, essendo stati i verbali firmati il primo a casa del compagno della Mo., il secondo nell’ospedale dove la Gi. era ricoverata per curare le ferite cagionate dal rapinatore, e in assenza del Be., l’imputato dovesse essere a conoscenza di tali circostanze.
Analogamente, quanto ai verbali di sequestro degli indumenti dei gambiani (capo a, punti 3 e 6), in disparte la discordanza rilevata dai Giudici di merito tra le dichiarazioni del Pu.Gi. e quelle della collega Ci., resta il fatto che nei verbali di sequestro era attestato che gli indumenti (una felpa arancione nel caso del Ta. e calzoni verdi per il Di.) erano indossati dai sospettati al momento del fermo, mentre alcuni testi (tra cui il collega Ri.Ed., agente con funzioni di autista del Be.) riferirono che, tempo prima, i poliziotti si erano recati presso le “ex Officine R”.
Che qui fossero stati recuperati gli abiti in una specie di discarica è stato ammesso dal Be. e inconfutabilmente dimostrato – precisa la sentenza del Tribunale – dall’invio da parte del Pu.Gi. al Be., di una foto, almeno mezz’ora prima dell’intervento sfociato nel fermo a carico di Ta. Tale immagine, infatti, riproduceva la felpa in oggetto appoggiata stesa sul pavimento e, pertanto, ne provava la disponibilità presso gli agenti, verosimilmente all’interno dei locali della Questura dove il Ta., a quell’ora, ancora non era giunto (d’altronde, una foto successiva mostra lo stesso Ta. con la canottiera – e quindi senza la felpa – indosso al momento del fermo).
Del pari significativi sono ritenuti dai Giudici di merito i messaggi che Pu.Gi. scambiò via Whatsapp con il Be., mediante i quali i due confermarono la diversa versione da fornire in via ufficiale e da cui si desume la convinta adesione del ricorrente al “piano” concordato (il Pu.Gi., nel rispondere ad un messaggio vocale del Sovrintendente, con il quale questi mirava a concordare la versione da offrire negli atti di polizia giudiziaria, rispondeva inequivocabilmente dapprima “sì” e poi “m piac”).
2.2. Sicché è impossibile dubitare, in punto di diritto, della sussistenza del dolo in capo al Pu.Gi.
Analogamente, è inequivocabile che l’imputato – peraltro, come rilevato dalle sentenze di merito e ricordato in questa sede, assistente-capo, anziano in servizio e dotato di esperienza – non abbia agito perché assoggettato al ruolo del suo superiore (o perché riponesse affidamento nelle sue direttive): assoggettamento che, quand’anche configurabile in fatto, sarebbe stato irrilevante dal punto di vista giuridico, non potendo trovare, nel caso di specie, applicazione l’art. 51 cod. pen., inerente ai soli ordinamenti verticistici militari (tale non è quello della Polizia di Stato) e che comunque nega la propria efficacia esimente ove gli ordini impartiti dal superiore gerarchico siano – come sarebbe accaduto nel caso in oggetto – illegittimi (mentre, l’affidamento nell’altrui operato è tout court irrilevante nei delitti dolosi).
Prima ancora, da tali elementi s’inferisce in termini netti il contributo causale (addirittura materiale) offerto dall’imputato alla realizzazione dei fatti e la essenzialità dello stesso, nessuno spazio residuando, dunque, per la configurabilità dell’art. 114 cod. pen., e cioè del “contributo causale di minima importanza”.
Peraltro, la Corte di Appello – sebbene con riferimento all’elemento soggettivo – valorizza il fatto che il Pu.Gi. non soltanto avesse realizzato i falsi nei verbali d’identificazione fotografica ad opera delle vittime dei delitti di rapina, ma – di più – non avesse esitato a porre in essere un pesante condizionamento nei confronti di una di esse, suggerendole il soggetto da riconoscere in quanto sospettato del reato.
Con la conseguenza che l’asserita omessa risposta alle deduzioni in tema di contributo causale nel concorso di persone comunque non vizierebbe, per la sua manifesta irrilevanza, la motivazione del procedimento impugnato.
Così come nessun rilievo avrebbe – è il caso di precisare in conclusione sul punto – quanto deciso dai Giudici di merito in rapporto alla posizione dei colleghi del ricorrente, trattandosi, anche in questo caso, di valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità in assenza di evidenti illogicità.
- Da approfondire, invece, il tema della configurabilità del delitto di frode in processo penale e depistaggio di cui all’art. 375 cod. pen., contestato come immutazione artificiosa dello stato delle cose connesse al reato e fatto segnatamente consistere nella formazione di falsi verbali di sequestro di cui al capo a) nn. 3) e 6), nonché delle annotazioni di polizia giudiziaria ad esse susseguenti, al fine di sviare le indagini.
3.1. Sul punto, va innanzitutto precisato che, per espressa indicazione legislativa, il c.d. depistaggio può avere ad oggetto, oltre al processo penale, anche “un’indagine”, come nel caso in esame, e che – contrariamente a quanto parrebbe affermato, in modo invero poco chiaro, in un passaggio del ricorso – pochi dubbi residuano altresì sulla configurabilità, sempre nella vicenda in oggetto, del necessario nesso funzionale tra la condotta e la qualifica pubblicistica dell’agente, essendo il Pu.Gi. proprio uno degli agenti incaricati dell’indagine sulle rapine per la quale si stava procedendo (nonostante l’apparente silenzio sul punto dal legislatore, tale nesso funzionale è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte almeno quando – come appunto nel caso di specie – le investigazioni siano già iniziate. Sez. 6, n. 7572 del 27/01/2023, Caraccio; Rv. 284269; in termini generali, Sez. 6, Sez. 6, n. 34271 del 27/04/2022, Paccione, Rv. 283727).
3.2. Tanto specificato, e premesso altresì che l’art. 375 cod. pen. contempla sia l’ipotesi di c.d. depistaggio materiale (art. 375, comma 1, lett. a, cod. pen.), sia quella di c.d. depistaggio dichiarativo (art. 375, comma 1, lett. b, cod. pen.), la sentenza di primo grado aveva inquadrato le condotte di falsità nella redazione dei verbali di sequestro sia nel falso ideologico di cui all’art. 479 cod. pen., sia nel depistaggio c.d. materiale, ricostruito come ipotesi speciale rispetto all’art. 374 cod. pen. e che, argomentando dalla circostanza aggravante di cui all’art. 375, comma 2, cod. pen. (a mente della quale “se il fatto è commesso mediante … la formazione o artificiosa alterazione, in tutto in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta delle reato o al suo accertamento”), riteneva potesse avere ad oggetto un documento rappresentante cose non vere.
Il Tribunale aveva, in particolare, inferito che la “artificiosa immutazione” potesse concernere anche “solo” la documentazione di un determinato stato, in modo da poterla impiegare come “elemento di prova” (purché idonea – come nel caso di specie – ad influire sulla formazione di convincimento giudiziale) e che, a differenza che nei falsi del capo a), nella vicenda in oggetto l’alterazione avesse riguardato l’esposizione dello “stato” della cosa sottoposta a sequestro (felpa o pantalone verde) nei profili che la correlavano al reato “elemento di prova”, mentre l’elemento soggettivo sarebbe consistito nel precostituire prove false “al precipuo fine di aggravare sensibilmente il compendio altrimenti disponibile nei confronti (degli indagati) e ottenere così provvedimenti restrittivi della libertà personale a carico dei medesimi o comunque offrire un più solido e strutturato compendio probatorio”.
Il Tribunale, dunque, esauriva il fatto di depistaggio c.d. materiale nella formazione dei documenti/verbali ideologicamente falsi.
Dal canto suo, la Corte d’Appello ha ravvisato il reato in oggetto nella “formazione di un documento ideologicamente falso, perché attestante che il bene non è stato rinvenuto in un certo luogo, ma è stato trovato indosso ai sospettati” (dal che, ancora, la configurabilità dell’ipotesi aggravata, il fatto essendo stato realizzato “mediante la formazione del documento che attesta un fatto non vero basato su una immutazione materiale”).
I Giudici di secondo grado hanno però anche valorizzato la simulazione o dissimulazione della realtà effettiva realizzata mediante un diretto intervento sulla stessa, così da sostituirvi una realtà artificiosa, non coincidente con quella che costituisce l’esatta riproduzione delle tracce e delle conseguenze del delitto commesso.
Hanno, in particolare, espressamente individuato la condotta tipica dell’art. 375 cod. pen. altresì nell’aver prelevato da un mucchio i vestiti abbandonati in un’area dismessa (felpa e pantaloni) ed averli portati via, ritenendo sufficiente, ai fini del dolo, la possibile incidenza della condotta di immutazione sulla indagine in corso.
3.3. Nessuna delle due costruzioni può essere condivisa.
Non certamente quella del Giudice di primo grado, per parte sposata in secondo grado, che integra una non consentita interpretazione analogica in malam partem.
Infatti, come emerge sin dalla contraddizione terminologica, il depistaggio “materiale” non può consistere in un falso “ideologico”, dovendosi ritenere che l’immutazione dei documenti, presa in considerazione nella circostanza aggravante dell’art. 375, comma 2, cod. pen. (in rapporto di specialità con l’ipotesi base di reato e quindi sicuramente in essa rientrante), si sostanzi, appunto, di una contraffazione o alterazione del documento (oltre che nella sua distruzione, soppressione, occultamento ecc.), e non della dichiarazione difforme dalla realtà in esso contenuta.
D’altronde, la falsità ideologica rileva ai fini del depistaggio, ma ai sensi dell’art. 375, comma 1, lett. b), ovvero come c.d. depistaggio dichiarativo. Si tratta, tuttavia, di fattispecie differente, modulata, mutatis mutandis, sulla falsariga degli altri, limitrofi falsi dichiarativi.
Il testo della disposizione impone, infatti, che il soggetto attivo (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) sia stato “richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale”; presuppone, quindi, una sollecitazione esterna cui il soggetto deve rispondere; descrive, con parole ancora diverse, un contesto situazionale per nulla sovrapponibile a quello in cui si sono inverate le condotte oggetto del presente giudizio (falso nella verbalizzazione), che invece rientravano nei poteri/doveri del Pu.Gi. e nella normalità dei compiti di polizia giudiziaria.
In conclusione, e salvo quanto di seguito rilevato in punto di dolo (specifico), la redazione di un verbale in cui si rappresenti una realtà difforme da vero non è riconducibile né al depistaggio materiale né al depistaggio dichiarativo, integrando, piuttosto, diverse ipotesi di reato (nel caso di specie, l’art. 479 cod. pen., come peraltro riconosciuto dai Giudici di merito).
Non a caso, i Giudici di secondo grado, come ricordato, hanno modificato la rotta interpretativa, configurando il depistaggio c.d. materiale: in parte, sulla falsariga di quanto argomentato dal Tribunale, per effetto della falsa verbalizzazione (così confermando la circostanza aggravante, invero di dubbia configurabilità astratta); in parte, come immutazione “diretta” della realtà, ravvisata nello spostamento degli abiti degli indagati da un luogo (la “discarica di indumenti” delle “ex officine r”) ad un altro (la Questura).
In relazione a tale secondo segmento fattuale, la Corte d’Appello ha assunto una nozione lasca del riferimento legislativo all’immutazione artificiosa dello “stato dei luoghi” o delle “cose … connessi al reato” – tale di comprendervi elementi sprovvisti di stretta attinenza con l’ipotesi probatoria, ma comunque suscettibili di corroborarla – ed ha proposto, quindi, un’interpretazione forse estensiva della fattispecie, che però non esonda dal perimetro della tipicità del reato e che pertanto, sotto questo specifico aspetto, non risulta censurabile.
Il difetto di tipicità è altrove.
Al di là dei rilievi poc’anzi svolti sulla dubbia sussumibilità della verbalizzazione falsa nel depistaggio c.d. materiale, anche in relazione alla restante condotta di “inquinamento” valorizzata dalla sentenza impugnata, nel caso di specie manca, infatti, l’elemento della fattispecie dell’art. 375 cod. pen. rappresentato dal dolo specifico di “impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale”.
3.4. Su tale locuzione – sulla quale non si è finora espressa la giurisprudenza di legittimità né, per quanto consta, la dottrina – occorre, dunque, concentrare l’attenzione.
Le sentenze di merito assumono che la finalità in oggetto sia integrata anche per il caso in cui l’immutazione tenda a rafforzare il compendio probatorio disponibile e cioè quando il pubblico ufficiale agisca per corroborare o consolidare il corso delle indagini – come nel caso di specie – o il quadro dibattimentale, facendo coincidere lo stato (delle cose, delle persone o dei luoghi) apparente con quello reale.
Una siffatta lettura non è esclusa dal dato letterale (“sviamento”) e colpirebbe condotte anche gravi e meritevoli di pena, essendo noto che la tutela della verità della prova si estende alla tutela dei diritti che tale prova mira a tutelare.
Essa, però, non è l’unica possibile, il concetto di “sviamento” potendo essere declinato anche secondo un’accezione – fermo il carattere solo indicativo della distinzione – più “sostanziale” che “processuale”.
In tale prospettiva, assurgerebbero a rilevanza penale le sole condotte volte a indirizzare verso un esito giudiziario diverso da quello corrispondente alla realtà fattuale per come fotografata allo stato delle indagini o del dibattimento.
La finalità dell’art. 375 cod. pen. sarebbe, cioè, integrata soltanto là dove l’agente, attraverso il comportamento decettivo, miri a mutare il corso delle indagini o il quadro probatorio, contraddicendo l’ipotesi investigativa o gli elementi già raccolti.
3.5. A questa seconda e più “restrittiva” lettura del dato testuale aderisce il Collegio, per le ragioni di seguito brevemente esposte, tra loro connesse.
L’interpretazione proposta, innanzitutto, risponde meglio alle intenzioni storiche (ancora abbastanza recenti) del legislatore che, quando introdusse (L. 11 luglio 2016, n. 133) la fattispecie, aveva di mira uno scenario criminologico particolare, intendendo fornire risposta a comportamenti volti ad occultare la responsabilità di uomini di Stato in relazione a condotte che mettevano a repentaglio l’ordine pubblico, se non l’assetto democratico. Guardava, cioè, a ipotesi ben diverse – sul piano empirico – rispetto a quelle considerate dai Giudici di merito.
Peraltro, se è vero che, rispetto alle intenzioni legislative originarie, l’area della tipicità della fattispecie dell’art. 375 cod. pen. si ampliò considerevolmente, va anche considerato – e questa è la seconda ragione che milita a sostegno dell’impostazione qui sposata – che si tratta di fattispecie comunque gravemente punita, sicché ad essa vanno riferite condotte che manifestino una correlata gravità.
Gli editti di pena predisposti dal legislatore per la fattispecie di depistaggio, da tre a otto anni di reclusione, sono infatti ben più severi di quelli comminati dalle finitime fattispecie di falso (artt. 371-bis, 372,373,374-bis, 378 cod. pen.) e di frode processuale (art. 374 cod. pen.), il che non può che orientare verso una lettura costituzionalmente conforme rispettosa del principio di proporzione e attenta alla valorizzazione del principio di offensività.
In terzo luogo, tale lettura salvaguarda la caratterizzazione della fattispecie in chiave di dolo specifico (la cui cifra consiste nel fatto di essere “extrafattuale”, e cioè di proiettarsi su un elemento non richiesto ai fini dell’integrazione della tipicità oggettiva), che è probabilmente il tratto specializzante di maggior rilievo rispetto alle altre ipotesi di reato confinanti.
Diversamente, infatti, la costruzione in chiave di dolo specifico dell’art. 375 cod. pen. verrebbe meno, atteso che la consapevolezza della falsità dichiarativa o della immutazione “artificiosa”, vieppiù se realizzata da un soggetto che riveste una qualifica soggettiva pubblicistica (il delitto è un reato proprio), e pertanto presumibilmente dotato di conoscenze particolari, recherebbe naturalmente con sé anche la coscienza di alterare il quadro della verità processuale.
Infine – si tratta di considerazione riassuntiva delle precedenti -, l’opzione interpretativa proposta in questa sede appare più rispettosa della sussidiarietà della tutela penale e, quindi, più perspicua nel contesto della definizione dei rapporti tra la fattispecie in oggetto e altri delitti a tutela dell’autorità giudiziaria o della fede pubblica: in particolare, del rapporto tra l’art. 375 cod. pen. e il meno grave art. 374 cod. pen.
- Va, in conclusione, affermato il principio di diritto secondo cui, ai fini della sussistenza del dolo specifico dell’art. 375 cod. pen., occorre che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia agito con l’intenzione di deviare l’indagine o il processo rispetto al corso in origine da essi assunto, non essendo invece sufficiente il fine di corroborare o consolidare indagini o elementi probatori già acquisiti, in presenza del quale configurandosi eventualmente diverse (e meno gravi) ipotesi di reato.
- Nel caso di specie, le sentenze di merito in più punti insistono sul fatto che l’agente Pu.Gi. non volle impedire, ostacolare o sviare un’indagine, bensì corroborare elementi di cui la polizia giudiziaria già disponeva e che deponevano nel senso della responsabilità dei cittadini gambiani, allo scopo di dimostrare la propria abilità investigativa e per un distorto senso di competizione.
Al di là delle denunciate difficoltà relative all’inquadramento della falsa verbalizzazione nella tipicità oggettiva dell’art. 375 cod. pen., difetta, quindi, nel caso di specie, la tipicità soggettiva, avendo il ricorrente agito non con il dolo specifico di sviare le indagini dal corso già intrapreso ma, esattamente al contrario, per confermare/consolidare tale corso.
- La sentenza va, dunque, annullata perché il reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 cod. pen.), di cui alla lett. b) del capo di imputazione, non sussiste.
Tale formula s’impone perché, sul piano della teoria del reato, il dolo specifico, pur indicando le finalità per cui il soggetto agisce (e, quindi elementi afferenti alla sfera soggettiva), rappresenta, come detto, un elemento specializzante (in particolare: di ulteriore tipizzazione) che compare nella descrizione della fattispecie astratta. Esso è, pertanto, costitutivo della tipicità – già sul piano oggettivo – del reato. Di conseguenza, il suo mancato inveramento non consente di ritenere tale tipicità integrata, al pari di quanto accadrebbe per l’assenza di qualunque altro suo elemento.
- Essendo stato il ricorso, per il resto, rigettato, da ciò consegue la declaratoria di irrevocabilità della responsabilità penale in ordine alle ipotesi di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.).
- L’annullamento va disposto con rinvio ai fini della rideterminazione della pena, ogni ulteriore deduzione difensiva risultando assorbita.