Corte di Cassazione, II Sezione Penale, sentenza 28 febbraio 2022, n. 6961
PRINCIPIO DI DIRITTO
La violenza, come requisito necessario per la sussistenza del reato di rapina di cui all’art. 628 cod. pen., è integrata da ogni energia fisica adoperata dall’agente verso la persona offesa.
In tale accezione, anche il divincolarsi o il semplice strattone nei confronti dell’addetto alla vigilanza di un negozio costituiscono violenza in quanto implicano l’impiego di un’energia fisica tesa a vincere la resistenza opposta dalla p.o. alla fuga del ladro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate o non consentite in questa sede.
Rileva innanzitutto la S.C. come la natura delle censure articolate con il ricorso impone un sia pur sintetico accenno alla vicenda come ricostruita sulla scorta di un conforme apprezzamento, nei due gradi di merito, delle medesime emergenze istruttorie quali, in particolare, le parole del teste S.D., ovvero del vigilante che aveva sorpreso l’A. nell’atto di tentare di guadagnare la fuga dopo essersi impossessato ed avere occultato sulla propria persona una felpa “…” di cui aveva rimosso la placca antitaccheggio; il vigilante aveva raggiunto l’A. il quale aveva cercato, riuscendoci, di divincolarsi dalla sua presa tanto che entrambi erano caduti a terra ragion per cui l’odierno ricorrente era stato in grado di darsi alla fuga sin quando, raggiunto dai c.c. nel frattempo intervenuti, aveva desistito da ogni ulteriore iniziativa.
La questione sottoposta al vaglio della Corte di Appello e qui riproposta in entrambi i motivi di ricorso è quella della sussumibilità della vicenda nel paradigma del delitto di tentata rapina (impropria) con particolare riferimento alla qualificazione, in termini di “violenza”, del tentativo dell’A. di sfuggire alla presa dello S.D.
Prescindendo da ogni considerazione circa la reale riconducibilità delle censure articolate dalla difesa nel catalogo declinato dall’art. 606 c.p.p., è sufficiente, invero, prendere atto della (incontestata) ricostruzione dei fatti per concludere nel senso della manifesta infondatezza, in diritto, della tesi articolata nel ricorso.
Ed in effetti, proprio considerando che l’A. cercò di svincolarsi dalla presa del vigilante e che, in questo tentativo, entrambi caddero a terra, non v’è dubbio alcuno che il fatto sia stato correttamente qualificato in termini di (tentata) rapina (impropria).
Questa Corte, infatti ha avuto modo in più occasioni di chiarire che la violenza necessaria ad integrare il reato di cui all’art. 628 c.p., è integrata da ogni energia fisica adoperata dall’agente verso la persona offesa al fine di annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione, potendo consistere in una “vis corporis corpori data“, ossia in una condotta posta in essere esclusivamente con la forza fisica dell’agente e senza l’aiuto di strumenti materiali, o in una energia esercitata con uno strumento atto allo scopo, ma anche in qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque in una coartazione della libertà fisica, o anche solo psichica, della persona offesa, conseguentemente indotta, contro la sua volontà, a fare, tollerare od omettere qualche cosa (cfr., tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 14901 del 19/03/2015, D’Agostino, Rv. 263307; Sez. 2, Sentenza n. 3366 del 18/12/2012, Fadda Mereu, Rv. 255199; Sez. 2 -, Sentenza n. 23888 del 06/07/2020, Checcarini Massimo, Rv. 279587; Sez. 2 -, Sentenza n. 29215 del 08/09/2020, Borrelli Giovanni, Rv. 279813).
Alla luce di tali principi, deve perciò essere ribadito che ai fini della configurabilità del reato di rapina impropria il divincolarsi ed anche il semplice strattone costituiscono violenza in quanto implicano l’impiego di un’energia fisica al fine di vincere la resistenza opposta dalla persona alla fuga del ladro, restando irrilevanti il grado di resistenza e l’intensità della violenza (cfr., tra le non massimate, Sez. 4, Sentenza n. 40026 del 27.10.2021, PG in proc. Abbaghan Said; Sez. 7, ordinanza n. 34276 del 18.6.2021, Jabir Otmane; Sez. 7, ordinanza n. 43041 del 27.6.2017, Martini).
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., della somma – che si stima equa – di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.