Massima
Acquistare un bene è giocoforza connesso – quanto a pertinente “causa” – alla intrinseca capacità di detto bene di soddisfare un interesse dell’acquirente che, in caso contrario, non si determinerebbe nel senso di acquistarlo; tale interesse risulta alfine conculcato tanto allorché il bene acquistato sia rivendicato da terzi (che se ne assumano veri proprietari), quanto nel caso in cui esso sia viziato o privo delle qualità essenziali (o promesse) quanto, ancora, se appartenga ad un genere tutt’affatto diverso rispetto a quello oggetto di compravendita.
In tutte queste fattispecie, non integralmente sovrapponibili quanto a tutela concretamente esperibile dal compratore, ad affiorare è un sostanziale inadempimento del venditore: che fa tuttavia i conti con il c.d. “consenso traslativo”, onde il compratore si avvede di tale inadempimento ex latere venditoris (ordinariamente, ed esclusi i casi di vendita c.d. “obbligatoria”) quando egli è già proprietario della cosa oggetto di scambio; ragione che giustifica – sul crinale terminologico – quel discorrere di “garanzie” che è tipico di questo segmento di disciplina della vendita, laddove ad una “pretesa” riguardata ex ante si sovrappone, ex post, per l’appunto una “garanzia” avente ad oggetto la concreta capacità della res acquistata di soddisfare l’interesse del compratore; il quale ultimo deve – nondimeno – sovente celermente attivarsi nei confronti del venditore, salvo dover individuare il preciso strumento di “esercizio” della ridetta “garanzia” ed il pertinente dies a quo.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1810
Viene varato il Code Penal francese, nel quale campeggia (art. 423) la trompeterie: vengono punite forme decettive (e, dunque, di inganno) non qualificate, ovvero non punibili come fattispecie di truffa, concernenti la difformità della merce venduta rispetto a quanto dichiarato, quale presidio generale alla lealtà commerciale assai più che per scongiurare forme di lesione del patrimonio, quale bene giuridico protetto dalla fattispecie di truffa.
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia, di stampo liberale, il cui art.1481 esordisce rappresentando che la “garantia” che il venditore deve al compratore ha due oggetti: il primo riguarda il pacifico possesso della cosa venduta, mentre il secondo riguarda i vizi o i difetti occulti della medesima.
Alla prima “garantia” sono dedicati gli articoli da 1482 a 1497, con una disciplina molto articolata alla cui stregua, in primis, quantunque nel contratto di vendita non siasi stipulata la ridetta “garantia”, il venditore è tenuto di diritto a garantire il compratore dall’evizione che lo priva di tutto o di parte della cosa venduta, ed altresì dai pesi che si pretendono gravarla e che non furono dichiarati nel contratto (art.1482). I contraenti possono poi, con patti particolari, accrescere o diminuire l’effetto di questa obbligazione di diritto, e pattuire altresì che il venditore non sarà soggetto ad alcuna “garantia” (art.1483); e tuttavia – quantunque siasi pattuito che il venditore non sarà soggetto ad alcun “garantia”, ciononostante egli resterà obbligato a quella che risulta da un fatto suo proprio, qualunque convenzione in senso contrario dovendo assumersi nulla (art.1484). In caso di esclusione della garanzia in parola, il venditore, accadendo l’evizione, è poi tenuto alla restituzione del prezzo al compratore, eccetto il caso in cui questi fosse consapevole del pericolo dell’evizione all’atto della vendita o avesse comprato a suo rischio e pericolo (art.1485).
Se la garanzia sia stata solo promessa o nulla sia stato stipulato su tale oggetto, il compratore che abbia sofferta l’evizione ha diritto di domandare al venditore (art.1486): 1) la restituzione del prezzo pagato; 2) la restituzione dei frutti, quando sia obbligato a restituirli al proprietario che ha rivendicato la cosa; 3) le spese fatte in conseguenza della denunzia della lite al relativo autore, e quelle fatte dall’autore principale; 4) “finalmente”, il risarcimento dei danni, come pure le spese ed i legittimi pagamenti fatti pel contratto. Peraltro, se quando si verifica l’evizione la cosa venduta si trova diminuita di valore o notabilmente deteriorata, tanto per negligenza del compratore che per forza maggiore, il venditore è ugualmente tenuto a restituire l’intero prezzo (art.1487); se però il compratore ha ricavato un utile dai deterioramenti da esso fatti, il venditore ha diritto di ritenere sul prezzo una somma corrispondente all’utile anzidetto (art.1488). Se la cosa venduta fosse aumentata di prezzo al tempo dell’evizione, anche indipendentemente dal fatto del compratore, il venditore è tenuto a pagargli ciò che supera il prezzo di vendita (art.1489). Il venditore è poi tenuto a rimborsare il compratore o a farlo rimborsare da chi ha rivendicato il fondo di tutte le riparazioni e di tutti i miglioramenti utili che vi avrà fatti (art.1490). Il venditore, se ha venduto in mala fede il fondo altrui, è tenuto a rimborsare il compratore di tutte le spese, anche voluttuarie, che questi avesse fatte sul fondo (art.1491)
Ancora il compratore, se ha sofferta l’evizione di una parte della cosa, e questa parte è relativamente al tutto di tale entità che non avrebbe comprato il tutto senza la parte colpita dall’evizione, può far sciogliere il contratto di vendita (art.1492); se poi, nel caso di evizione di una parte del fondo venduto, non si è sciolta la vendita, il compratore sarà rimborsato dal venditore del valore della parte colpita dall’evizione secondo la stima al tempo dell’evizione, e non in proporzione del prezzo totale della vendita, tanto se la cosa venduta sia aumentata, quanto se sia diminuita di valore (art.1493).
Se il fondo venduto è gravato da servitù non apparenti, senza che se ne sia fatta dichiarazione, e queste sono di tale entità da far presumere che il compratore, ove ne fosse stato avvertito, non lo avrebbe comprato, egli può domandare lo scioglimento del contratto, quando non prescelga di contentarsi di una indennità (art.1494).
Alla stregua dell’art.1495, le altre questioni che possono nascere per il risarcimento dei danni dovuti al compratore per l’inesecuzione della vendita debbono essere decise secondo le regole generali stabilite nel titolo del codice dedicato alle obbligazioni ed ai contratti in genere.
Quando poi il compratore ha evitato l’evizione del fondo mediante il pagamento di una somma di denaro, il venditore può liberarsi da tutte le conseguenze della “garantia” rimborsandolo della somma pagata, degli interessi e di tutte le spese (art.1496). La garanzia per causa di evizione cessa tuttavia quando il compratore si è lasciato condannare con una sentenza passata in giudicato senza chiamare in giudizio il venditore, se questi prova che vi erano sufficienti motivi per fare respingere la domanda (art.1497).
Esaurita la disciplina dell’evizione, il codice passa a regolamentare i vizi della cosa venduta, onde il venditore è in primis tenuto a garantire la cosa venduta di vizi o difetti occulti che la rendono non atta all’uso cui è destinata, o che ne diminuiscono l’uso in modo che se il compratore li avesse conosciuti, o non l’avrebbe comprata o avrebbe offerto un prezzo minore (art.1498); il venditore non è invece obbligato pei vizi apparenti, e che il compratore avrebbe potuto da se stesso conoscere (art.1499); è obbligato per i vizi occulti, quantunque non gli fossero noti, eccetto che avesse stipulato di non essere in questo caso tenuto ad alcuna “garantia” (art.1500). Il compratore, nei casi indicati negli articoli 1498 e 1500, ha la scelta di rendere la cosa e farsi restituire il prezzo, o di ritenerla e di farsi restituire quella parte di prezzo che sarà determinata dall’autorità giudiziaria (art.1501).
Se poi il venditore conosceva i vizi della cosa venduta, è tenuto, oltre alla restituzione del prezzo ricevuto, al risarcimento dei danni verso il compratore (art.1502); se invece il venditore ignorava i vizi della cosa, non è tenuto che alla restituzione del prezzo e a rimborsare al compratore le spese fatte per causa della vendita (art.1503).
Se la cosa che era difettosa è perita in conseguenza dei suoi difetti, il perimento sta a carico del venditore, il quale è tenuto verso il compratore alla restituzione del prezzo ed alle altre indennità indicate nei due articoli precedenti (art.1504), rimanendo tuttavia a carico del compratore il perimento derivante da caso fortuito.
L’art.1505 disciplina poi l’azione redibitoria che “proviene dai vizi della cosa”, la quale deve proporsi dal compratore, se si tratta di immobili, entro 1 anno dalla consegna; se si tratta di animali, deve proporsi entro 40 giorni, mentre se si tratta di altri beni mobili, entro 3 mesi dalla consegna, salvo che da usi particolari siano stabiliti maggiori o minori termini. Nelle vendite di animali l’azione redibitoria non ha peraltro luogo che per vizi determinati dalla legge o da usi locali. L’azione redibitoria non ha invece luogo (art.1506) nelle vendite giudiziali.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, alla cui stregua, oltre in via generale ad essere punita la truffa ai sensi dell’art.640, viene prevista una fattispecie peculiare di frode nell’esercizio del commercio all’art.515, onde va punito con la reclusione o con la multa chiunque (qualora il fatto non costituisca un più grave delitto), nell’esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita. La pena viene peraltro aggravata se si tratta di oggetti preziosi.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile) che – nell’ambito della compravendita – disciplina in primo luogo la garanzia per evizione agli articoli 1483 e seguenti.
Più nel dettaglio, ai sensi dell’art.1483 se il compratore subisce l’evizione totale della cosa per effetto di diritti che un terzo ha fatti valere su di essa, il venditore e’ tenuto a risarcirlo del danno a norma dell’art. 1479 (comma 1), dovendo inoltre corrispondere al compratore il valore dei frutti che questi sia tenuto a restituire a colui dal quale e’ evitto, le spese che egli abbia fatte per la denunzia della lite e quelle che abbia dovuto rimborsare all’attore (comma 2).
Stando all’art.1479 in tema di buona fede del compratore sull’altruità della cosa venduta, questi può chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l’ha concluso, ignorava per l’appunto che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà medesima (comma 1); salvo poi il disposto dell’art. 1223 – che disciplina appunto il risarcimento del danno in caso di inadempimento, e che viene dunque espressamente richiamato – il venditore e’ tenuto a restituire all’acquirente il prezzo pagato, anche se la cosa e’ diminuita di valore o e’ deteriorata; deve inoltre rimborsargli le spese e i pagamenti legittimamente fatti per il contratto; se la diminuzione di valore o il deterioramento derivano da un fatto del compratore, dall’ammontare suddetto si deve detrarre l’utile che il compratore ne ha ricavato (comma 2); il venditore e’ inoltre tenuto a rimborsare al compratore le spese necessarie e utili fatte per la cosa, e, se era in mala fede, anche quelle voluttuarie (comma 3).
Quanto all’evizione parziale, ai sensi dell’art.1484, si osservano le disposizioni dell’art. 1480 e quella del secondo comma del precedente articolo 1483 sull’evizione totale (in tema di frutti e spese); per l’articolo 1480, che disciplina la vendita di cosa parzialmente di altri, se la cosa che il compratore riteneva di proprietà del venditore era solo in parte di proprietà altrui, il compratore può chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno a norma dell’articolo precedente (1479), quando deve ritenersi, secondo le circostanze, che non avrebbe acquistato la cosa senza quella parte di cui non e’ divenuto proprietario; altrimenti può solo ottenere una riduzione del prezzo, oltre al risarcimento del danno.
Sul crinale processuale, ai sensi dell’art.1485 il compratore convenuto da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta, deve chiamare in causa il venditore; qualora non lo faccia e sia condannato con sentenza passata in giudicato, perde il diritto alla garanzia, se il venditore prova che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda. Anche il compratore che abbia spontaneamente riconosciuto il diritto del terzo perde il diritto alla garanzia, se non prova che non esistevano ragioni sufficienti per impedire l’evizione.
Ai sensi dell’art.1486 in tema di “responsabilità limitata del venditore”, se il compratore ha evitato l’evizione della cosa mediante il pagamento di una somma di danaro, il venditore può liberarsi da tutte le conseguenze della garanzia col rimborso della somma pagata, degli interessi e di tutte le spese. Stando poi al successivo art.1487 i contraenti possono aumentare o diminuire gli effetti della garanzia e possono altresì pattuire che il venditore non sia soggetto a garanzia alcuna; nondimeno, quantunque sia pattuita l’esclusione della garanzia, il venditore e’ sempre tenuto per l’evizione derivante da un fatto suo proprio, dovendosi assumere nullo ogni patto contrario. Gli effetti dell’esclusione della garanzia sono disciplinati dall’art.1488, onde quando e’ esclusa la garanzia, non si applicano le disposizioni degli articoli 1479 e 1480; se si verifica l’evizione, il compratore può pretendere dal venditore soltanto la restituzione del prezzo pagato e il rimborso delle spese, ed il venditore va esente anche da quest’obbligo quando la vendita e’ stata convenuta a rischio e pericolo del compratore.
Se poi la cosa venduta e’ gravata da oneri o da diritti reali o personali non apparenti che ne diminuiscono il libero godimento e non sono stati dichiarati nel contratto, il compratore che non ne abbia avuto conoscenza può domandare la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo secondo la disposizione dell’art. 1480 (osservandosi inoltre, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 1481, 1485, 1486, 1487 e 1488).
Venendo ai vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art.1490 il venditore e’ tenuto – per l’appunto – a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui e’ destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (comma 1); il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto, se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa (comma 2). Lo stato di consapevolezza del compratore è valorizzato anche dal successivo art.1491, onde non e’ dovuta la garanzia se al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa; parimenti non e’ dovuta, se i vizi erano facilmente riconoscibili, salvo, in questo caso, che il venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi.
Gli effetti della garanzia trovano disciplina all’art.1492, onde nei casi indicati dall’art. 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione (comma 1); tale scelta e’ irrevocabile quando e’ fatta con la domanda giudiziale (comma 2); se la cosa consegnata e’ perita in conseguenza dei vizi, il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece e’ perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l’ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo (comma 3).
In caso di risoluzione del contratto (art.1493) il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita; il compratore deve invece restituire la cosa, se questa non e’ perita in conseguenza dei vizi.
Ai sensi del successivo art.1494, “in ogni caso” il venditore e’ tenuto verso il compratore al risarcimento del danno, se non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa, dovendo altresì risarcire al compratore i danni derivati dai vizi della cosa medesima.
Importante quanto disposto dall’art.1495, onde il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge; la denunzia non e’ tuttavia necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha occultato. L’azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna; ma il compratore, che sia convenuto per l’esecuzione del contratto, può sempre far valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro 8 giorni dalla scoperta e prima del decorso dell’anno dalla consegna.
Nella vendita di animali – precisa l’art.1496 – la garanzia per i vizi e’ regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali; se neppure questi dispongono, si osservano le norme generali di cui agli articoli precedenti.
Infine, l’art.1497 disciplina la mancanza di qualità della cosa venduta, onde quando la cosa venduta non ha – per l’appunto – le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui e’ destinata, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, purché il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi; tuttavia il predetto diritto di ottenere la risoluzione e’ soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite dall’art. 1495.
Limitatamente alla vendita di beni mobili, ai sensi dell’art.1512 c.c. se il venditore ha garantito per un tempo determinato il buon funzionamento della cosa venduta, il compratore, salvo patto contrario, deve denunziare al venditore il difetto di funzionamento entro 30 giorni dalla scoperta, sotto pena di decadenza, con azione che si prescrive in 6 mesi dalla scoperta (comma 1); il giudice, secondo le circostanze, può assegnare al venditore un termine per sostituire o riparare la cosa in modo da assicurarne il buon funzionamento, salvo il risarcimento dei danni (comma 2); sono salvi gli usi i quali stabiliscono che la garanzia di buon funzionamento è dovuta anche in mancanza di patto espresso (comma 3).
Su di un piano generale, sono poi rilevanti l’art.1376 in tema di c.d. consenso traslativo nei contratti ad effetti reali, onde nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato; nonché, specificamente nell’orbita della compravendita, l’art.1476 alla cui stregua le “obbligazioni” principali del venditore sono: 1) quella di consegnare la cosa al compratore; 2) quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l’acquisto non è effetto immediato del contratto; 3) quella di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa.
Significative altresì le norme in tema di novazione quale mezzo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, di cui agli articoli 1230 e seguenti.
1948
La Costituzione repubblicana, sul crinale dei rapporti economici, annovera il fondamentale art.41, comma 1 e 2, alla cui stregua se da un lato l’iniziativa economica privata è libera, dall’altro essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; ancora, stando all’art.42, comma 2, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (oltre che di renderla accessibile a tutti).
Ne discende da un lato che non si può, di regola, disporre di beni altrui, e dall’altro che occorre comportarsi, nel dispiego dell’autonomia privata, secondo buona fede, scongiurando inganni per la controparte come nel caso in cui ad essa si venda una cosa che in realtà è di terzi, ovvero che presenti vizi o difetti occulti, stante il dovere di solidarietà, massime nella relativa declinazione economica, scolpito all’art.2 della Carta.
1968
Il 01 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.338 alla cui stregua le parti di un contratto di compravendita possono pattuire un termine diverso da quello previsto dalla legge per la denuncia devi vizi della cosa venduta (8 giorni, ex art.1495 c.c.), ma tale convenzione incorre nella nullità ai sensi dell’art. 2965 c.c. laddove sia tale da rendere eccessivamente gravoso ad una delle parti l’esercizio del proprio diritto.
* * *
Il 17 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4007 alla cui stregua, in tema di esclusione della garanzia per evizione (vendita “a rischio e pericolo del compratore”), dalla formulazione letterale dell’art. 1488, comma 2, c.c. affiora come l’intento di addossare il rischio sul compratore debba risultare da una pattuizione espressa, palesandosi non sufficiente la mera conoscenza dell’altruità della cosa da parte del compratore medesimo.
1981
Il 10 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.247 alla cui stregua, al cospetto del disaccordo in dottrina e giurisprudenza circa l’applicabilità alla fattispecie della mancanza di qualità della cosa venduta (art.1497 c.c.) dell’azione quanti minoris e, dunque, di riduzione del prezzo, non può porsi in dubbio come il medesimo risultato pratico possa essere raggiunto attraverso il rimedio risarcitorio, atteggiantesi nella forma appunto della riduzione del prezzo dovuto dal compratore.
1985
Il 5 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4382 onde, inserendosi in un consolidato filone giurisprudenziale, l’acquirente (nel caso di specie) di un immobile non può ottenere la condanna all’eliminazione dei vizi della cosa venduta, dato che l’obbligazione principale del venditore non ha per oggetto, neppure in via sussidiaria, un facere relativo alla materiale struttura della cosa venduta, potendo solo essere reso destinatario di un’azione orientata alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo, fatto sempre salvo il diritto del compratore al risarcimento del danno.
1986
Il 27 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.539 alla cui stregua la denuncia dei vizi della cosa venduta ex art.1495 c.c. non è soggetta a particolari formalità.
1990
L’11 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8226 alla cui stregua – se si ha riconoscimento del vizio redibitorio agli effetti di cui all’art. 1495, comma 2, c.c. allorché il venditore riconosca un certo fenomeno denunciatogli, e comunque contestatogli, costituire difetto della cosa venduta, anche se non ne indichi la causa o la attribuisca a fatto diverso da quello poi individuato come determinante il difetto – all’opposto non si ha riconoscimento del vizio della merce quando il fenomeno, cui l’acquirente attribuisce natura di vizio, venga sì riconosciuto dal venditore ma venga ad un tempo da lui riferito non già ad intrinseco difetto della cosa venduta, bensì a difetto imputabile all’acquirente o a terzi che, per incuria od altro fatto, dopo la vendita o la consegna della merce, ha determinato il fenomeno viziante stesso.
1993
Il 25 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5878 alla cui stregua la denuncia dei vizi della cosa venduta ex art.1495 c.c. è sufficiente in termini generici e sommari, al fine di avvisare il venditore, senza che occorra specificare la causa o la natura dei vizi riscontrati.
1994
Il 12 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2394 onde, quantunque la denuncia dei vizi della cosa venduta ex art.1495 c.c. non sia soggetta a particolari formalità, è comunque onere del compratore precostituirsi la prova di averla regolarmente effettuata e di averlo fatto con la necessaria tempestività.
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Il 17 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2541 onde, in tema di pericolo di evizione ex art.1481 c.c., il diritto del compratore previsto da tale norma (legittima sospensione del pagamento del prezzo) presuppone che il pericolo di evizione sia effettivo e dunque non meramente presuntivo o putativo, non potendosi dunque risolvere in un mero timore soggettivo che l’evizione possa verificarsi.
Per la Corte piuttosto, financo quando si abbia conoscenza che la cosa appartenga ad altri, per l’esercizio del diritto di sospensione legittima del pagamento del prezzo da parte del compratore occorre che emerga da elementi oggettivi o comunque da indizi concreti che il vero proprietario ha intenzione di rivendicare, in modo non apparentemente infondato, la cosa compravenduta.
Onde, esemplificativamente, il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere teoricamente oggetto di una futura azione di riduzione per lesione di legittima non può assumersi costituire, di per sé, un pericolo effettivo di rivendica e si deve pertanto escludere che il compratore possa sospendere il pagamento o comunque pretendere la prestazione di una idonea garanzia.
* * *
Il 29 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11281 alla cui stregua il riconoscimento dei vizi della cosa venduta ed il contestuale impegno del venditore ad eliminarli in sede di esecuzione del contratto non è che uno dei modi con cui il venditore, che ha l’obbligo di consegnare una cosa immune da vizi di cui all’art. 1490 c.c., assicura ed attua l’esatto adempimento della relativa prestazione, e, di per sé, non dà luogo, pertanto, ad un accordo novativo se non sia in concreto provata la volontà delle parti di sostituire al rapporto originario un nuovo rapporto con diverso oggetto o titolo, così come richiesto per la novazione dall’art. 1230 c.c. e dall’art. 1231 c.c, che estesamente chiarisce come non si abbia novazione nel caso di mera modifica degli elementi accessori della obbligazione.
Conseguentemente, in mancanza della predetta prova (della novazione), per il Collegio il riconoscimento dei vizi della cosa venduta e l’impegno a ripararla determina solo l’interruzione del termine di prescrizione annuale di cui all’art. 1495 c.c, e non la sostituzione di tale termine con il nuovo e diverso termine di prescrizione ordinaria.
1995
Il 26 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.945 alla cui stregua – nel solco della dottrina e della giurisprudenza prevalente – affinché possa configurarsi propriamente un fenomeno evittivo è necessario che l’evento che lo ha determinato sia riconducibile ad una causa preesistente alla conclusione del pertinente contratto di compravendita.
1997
Il 20 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4464 alla cui stregua l’azione risarcitoria che il compratore può spiccare nei confronti del venditore in caso di riscontrati vizi della cosa venduta è fondata sui principi generali che disciplinano la responsabilità del debitore (nel caso di specie, il venditore) per inadempimento, tanto sul piano dell’onere della prova quanto su quello della colpa, dacché spetta al compratore provare la sussistenza dei vizi, mentre grava sul venditore l’onere di fornire la prova liberatoria di avere ignorato senza colpa i vizi medesimi, superando la presunzione di conoscenza posta a relativo carico dall’art. 1494 c.c.
1998
L’8 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4657 alla cui stregua ai fini della risoluzione di un contratto di compravendita per mancanza di qualità promesse (art.1497 c.c.), non è necessario accertare se esse fossero o meno essenziali per l’uso tipico o normale a cui la cosa è destinata, perché la volontà delle parti, nel prevederle, ha già attribuito loro tale carattere, per un uso o finalità particolari, e pertanto, se è dimostrato che le dimensioni di un veicolo sono state pattuite per consentirne il passaggio nell’autorimessa dell’acquirente, è superfluo accertarne l’idoneità alla circolazione.
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Il 17 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11571 alla cui stregua – in tema di doppia alienazione immobiliare – la vendita successiva ad un terzo, debitamente trascritta, del medesimo bene immobile già anteriormente venduto all’acquirente, ma con atto non trascritto, costituisce inadempimento (art.1218 c.c.) all’obbligo contrattuale che il venditore implicitamente assume nei confronti del primo compratore allorché esprime la volontà di trasferirgli la piena ed esclusiva disponibilità della cosa – impedita invece dalla seconda alienazione della medesima (primariamente trascritta) – che pertanto legittima la domanda di risoluzione del primo contratto, nel termine prescrizionale ordinario decorrente dal secondo trasferimento.
1999
Il 23 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2712 alla cui stregua va assunto configurabile il c.d. aliud pro alio non già solo quando la res consegnata appartenga ad un genere radicalmente diverso da quello pattuito, ma anche laddove la res medesima sia priva delle particolari qualità necessarie affinché assolva alla propria, naturale funzione economico-sociale, ovvero a quella funzione che le parti abbiano assunto come essenziale; si tratta di un atteggiamento della giurisprudenza che rende particolarmente complesso – nei singoli casi pratici – prevedere quando si è al cospetto di un vero e proprio aliud pro alio e quando di una (meno presidiata, nell’ottica della tutela del compratore) mancanza di qualità della cosa venduta
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Il 18 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.14277, che si occupa della riconoscibilità dei vizi della cosa da parte del compratore e del pertinente sforzo di diligenza a lui all’uopo richiesto. Per il Collegio, va assunto in proposito “riconoscibile” il solo vizio che affiori ictu oculi alla vista della cosa compravenduta.
2000
Il 21 gennaio esce la sentenza II sezione della Cassazione n.639 alla cui stregua, con riguardo alla c.d. mancanza di qualità della cosa venduta, ed in modo sul punto dissonante rispetto alla prevalente dottrina, pur assistendosi ad una sostanziale parificazione delle tutele del compratore rispetto alla diversa fattispecie dei vizi della res, nondimeno con riguardo all’azione di risoluzione – ferma l’applicabilità dei termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art.1495 c.c., stante l’espresso richiamo a tale norma operato dall’art.1497, comma 3, c.c. – se nel caso dei vizi non rileva, ex art. 1492, la colpa dell’alienante, nel caso di difetti di qualità della cosa venduta la configurabilità di una colpa dell’alienante è imprescindibile a fini risolutivi (e, dunque, demolitori del contratto), dacché l’art.1497 c.c. richiama (a differenza appunto dell’art.1492 c.c.) le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento e, con esse, il principio della responsabilità colposa del contraente inadempiente (nel caso di specie, per l’appunto il venditore).
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Il 22 gennaio esce la sentenza II sezione della Cassazione n.695, che si occupa della riconoscibilità dei vizi della cosa da parte del compratore e del pertinente sforzo di diligenza a lui all’uopo richiesto. Per il Collegio, va assunto in proposito “riconoscibile” non già solo vizio che affiori ictu oculi alla vista della cosa compravenduta, ma anche quello che – pur non affiorando in tal modo – richieda comunque da parte del compratore una diligenza minima nell’avvedersi della relativa esistenza.
2003
Il 2 aprile esce la sentenza II sezione della Cassazione n.5313 alla cui stregua – pur muovendo dalla differenza dei rispettivi presupposti di esperibilità – deve assumersi ammissibile l’esercizio in via alternativa nel medesimo processo delle due azioni, rispettivamente, di risoluzione del contratto per mancanza di qualità della cosa venduta ex art.1497 c.c. e di annullamento del medesimo contratto per errore sulle qualità della cosa venduta.
2004
L’11 marzo esce la sentenza II sezione della Cassazione n.4968 alla cui stregua il riconoscimento da parte del venditore del vizio redibitorio ex art.1495, comma 2, c.c. costituisce una dichiarazione di scienza relativa alla sussistenza della situazione obbiettiva lamentata dall’acquirente e non una dichiarazione negoziale. Per il Collegio, tale dichiarazione ricognitiva può essere fatta in qualsiasi forma, anche tacita, e dunque giusta comportamenti incompatibili con l’intenzione di contestare la pretesa avversaria.
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Il 15 marzo esce la sentenza II sezione della Cassazione n.5251 onde l’occultamento da parte del venditore del vizio redibitorio ex art.1495, comma 2, c.c., per assumere rilevanza, deve consistere non nel semplice silenzio serbato dal venditore, quanto piuttosto in una particolare attività illecita funzionale, con adeguati accorgimenti, a nascondere il vizio della cosa venduta.
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Il 26 marzo esce la sentenza II sezione della Cassazione n.6044 alla cui stregua l’azione di risarcimento danni di cui all’art. 1494 cod. civ. può essere proposta in ogni caso di vizi della cosa venduta e, quindi, è cumulabile sia con la domanda di risoluzione del contratto che con quella di riduzione del prezzo e può essere esercitata financo da sola, essendo autonoma rispetto alle azioni di cui all’art. 1492 cod. civ. în ragione della diversità di presupposti e di finalità che la connotano.
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Il 3 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.14586 alla cui stregua, nel solco di una collaudata giurisprudenza, allorché oggetto della compravendita sia un c.d. aliud pro alio, viene consegnato all’acquirente, da parte del venditore, un bene tutt’affatto diverso rispetto a quello oggetto di pattuizione traslativa: in simili fattispecie si applica integralmente la normativa generale in tema di risoluzione per inadempimento ex art.1453 e seguenti c.c., onde, massime, non si applicano i brevi termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art.1495 c.c. (che si applicano invece sia in caso di vizi che in caso di mancanza di qualità della cosa venduta), trovando piuttosto cittadinanza l’ordinario termine di prescrizione pari a 10 anni.
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*Il 17 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18757 alla cui stregua va assunto configurabile il c.d. aliud pro alio non già solo quando la res consegnata appartenga ad un genere radicalmente diverso da quello pattuito, ma anche laddove la res medesima sia priva delle particolari qualità necessarie affinché assolva alla propria, naturale funzione economico-sociale, ovvero a quella funzione che le parti abbiano assunto come essenziale; si tratta di un atteggiamento della giurisprudenza che rende particolarmente complesso – nei singoli casi pratici – prevedere quando si è al cospetto di un vero e proprio aliud pro alio e quando di una (meno presidiata, nell’ottica della tutela del compratore) mancanza di qualità della cosa venduta
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Il 4 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.19812 che, con peculiare riferimento ai vincoli pubblici di inedificabilità che coinvolgono il bene compravenduto e la garanzia per evizione, distingue tra vincoli ex lege e vincoli derivanti da provvedimenti amministrativi, onde la presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha efficacia “erga omnes” quando esso sia stato imposto dalla legge o da un atto avente portata normativa, come ad esempio il piano regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito; quando invece il vincolo ridetto risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell’atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario (venditore) del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l’ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l’obbligo di garanzia derivante dall’art. 1489 cod. civ. (c.d. evizione “limitativa”).
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Il 29 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.22415 alla cui stregua – sul piano processuale – è inammissibile la domanda di riduzione (estimatoria o “quanti minoris”) esperita dal compratore in subordine rispetto alla proposizione a titolo principale dell’azione di risoluzione (redibitoria).
Ciò in quanto entrambe le azioni si ricollegano ai medesimi presupposti, ovvero la sussistenza di vizi con le caratteristiche fissate dall’art. 1490 c.c., il quale stabilisce una disciplina della materia completa e come tale non integrabile con le regole dell’art. 1455 c.c., sull’importanza dell’inadempimento, restando esclusa la configurabilità di un rapporto di subordinazione fra le succitate domande
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Il 21 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.23657 onde la risoluzione parziale del contratto – espressamente prevista dall’art. 1458 c.c. nelle ipotesi di contratti ad esecuzione continuata o periodica – deve ritenersi ammissibile anche quando l’oggetto del contratto sia rappresentato non già da una sola cosa, caratterizzata da una relativa unicità non frazionabile, ma da più cose che, pur se separate dal tutto, possano mantenere una propria individualità economico – funzionale, onde in simili fattispecie può essere chiesta, con azione redibitoria, la risoluzione “parziale” del contratto di vendita, limitatamente dunque a quella tra le res compravendute affetta da vizio.
2005
Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.206, recante codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229 (legge delega). Particolarmente importanti gli articoli 128-135, che disciplinano in modo tutt’affatto peculiare la garanzia legale di conformità e le garanzie commerciali per i beni di consumo, con applicazione del pertinente regime – in tema massime di vizi della cosa venduta – a tutte le fattispecie in cui il venditore sia un “professionista” e il compratore un “consumatore”. In queste evenienze, il regime del codice civile ha valenza suppletiva, come si evince dall’art.135 la cui norma di chiusura dispone da un lato che le disposizioni ridette non escludono ne’ limitano i diritti che sono attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico (comma 1) e dall’altro che, per quanto non previsto dalle medesime, si applicano le disposizioni del codice civile in tema di contratto di vendita.
Stando all’art. 128 (ambito di applicazione e definizioni) le norme di che trattasi disciplinano taluni aspetti dei contratti di vendita e delle garanzie concernenti i beni di consumo; a tali fini ai contratti di vendita sono equiparati i contratti di permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre (comma 1). Ai fini di tali norme (comma 2) si intende per: a) beni di consumo: qualsiasi bene mobile, anche da assemblare, tranne: 1) i beni oggetto di vendita forzata o comunque venduti secondo altre modalità dalle autorità giudiziarie, anche mediante delega ai notai; 2) l’acqua e il gas, quando non confezionati per la vendita in un volume delimitato o in quantità determinata; 3) l’energia elettrica; b) venditore: qualsiasi persona fisica o giuridica pubblica o privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1; c) garanzia convenzionale ulteriore: qualsiasi impegno di un venditore o di un produttore, assunto nei confronti del consumatore senza costi supplementari, di rimborsare il prezzo pagato, sostituire, riparare, o intervenire altrimenti sul bene di consumo, qualora esso non corrisponda alle condizioni enunciate nella dichiarazione di garanzia o nella relativa pubblicità; d) riparazione: nel caso di difetto di conformità, il ripristino del bene di consumo per renderlo conforme al contratto di vendita. Le disposizioni in parola poi (comma 3) si applicano alla vendita di beni di consumo usati, tenuto conto del tempo del pregresso utilizzo, limitatamente ai difetti non derivanti dall’uso normale della cosa.
Alla stregua del successivo art.129 (conformità al contratto), il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita (comma 1); si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto se, ove pertinenti, coesistono le seguenti circostanze: a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo; b) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello; c) presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal relativo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura; d) sono altresì idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti (comma 2).
Non vi e’ poi difetto di conformità se, al momento della conclusione del contratto, il consumatore era a conoscenza del difetto, non poteva ignorarlo con l’ordinaria diligenza o se il difetto di conformità deriva da istruzioni o materiali forniti dal consumatore (comma 3); il venditore non e’ peraltro vincolato dalle dichiarazioni pubbliche di cui al comma 2, lettera c), quando, in via anche alternativa, dimostra che: a) non era a conoscenza della dichiarazione e non poteva conoscerla con l’ordinaria diligenza; b) la dichiarazione e’ stata adeguatamente corretta entro il momento della conclusione del contratto in modo da essere conoscibile al consumatore; c) la decisione di acquistare il bene di consumo non e’ stata influenzata dalla dichiarazione (comma 4); il difetto di conformità che deriva dall’imperfetta installazione del bene di consumo e’ equiparato al difetto di conformità del bene quando l’installazione e’ compresa nel contratto di vendita ed e’ stata effettuata dal venditore o sotto la relativa responsabilità; tale equiparazione si applica anche nel caso in cui il prodotto, concepito per essere installato dal consumatore, sia da questo installato in modo non corretto a causa di una carenza delle istruzioni di installazione (comma 5).
L’art. 130 elenca poi i diritti del consumatore, onde il venditore e’ innanzi tutto responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene (comma 1), ed in tal caso (difetto di conformità) il consumatore medesimo ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei successivi comma 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai successivi comma 7, 8 e 9 (comma 2).
Più nel dettaglio, il consumatore può chiedere, a propria scelta, al venditore di riparare il bene o di sostituirlo, senza spese in entrambi i casi, salvo che il rimedio richiesto sia oggettivamente impossibile o eccessivamente oneroso rispetto all’altro (comma 3); ai relativi fini, e’ da considerare eccessivamente oneroso uno dei due rimedi se impone al venditore spese irragionevoli in confronto all’altro, tenendo conto: a) del valore che il bene avrebbe se non vi fosse difetto di conformità; b) dell’entità del difetto di conformità; c) dell’eventualità che il rimedio alternativo possa essere esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore (comma 4). Le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate dal venditore entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha acquistato il bene (comma 5); le spese di cui ai comma 2 e 3 si riferiscono ai costi indispensabili per rendere conformi i beni, in particolare modo con riferimento alle spese effettuate per la spedizione, per la mano d’opera e per i materiali (comma 6).
Il consumatore può poi richiedere, a propria scelta, una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto ove ricorra una delle seguenti situazioni: a) la riparazione e la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose; b) il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione del bene entro un termine congruo; c) la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore (comma 7). Nel determinare l’importo della riduzione o la somma da restituire si tiene conto dell’uso del bene (comma 8). Dopo la denuncia del difetto di conformità, il venditore (comma 9) può offrire al consumatore qualsiasi altro rimedio disponibile, con i seguenti effetti: a) qualora il consumatore abbia già richiesto uno specifico rimedio, il venditore resta obbligato ad attuarlo, con le necessarie conseguenze in ordine alla decorrenza di un termine congruo, salvo accettazione da parte del consumatore del rimedio alternativo proposto; b) qualora il consumatore non abbia già richiesto uno specifico rimedio, il consumatore deve accettare la proposta o respingerla scegliendo un altro rimedio. Un difetto di conformità di lieve entità per il quale non e’ stato possibile o e’ eccessivamente oneroso esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, non da’ diritto alla risoluzione del contratto (comma 10).
Alla stregua dell’art. 131 (diritto di regresso) il venditore finale, quando e’ responsabile nei confronti del consumatore a causa di un difetto di conformità imputabile ad un’azione o ad un’omissione del produttore, di un precedente venditore della medesima catena contrattuale distributiva o di qualsiasi altro intermediario, ha diritto di regresso, salvo patto contrario o rinuncia, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva (comma 1). Il venditore finale che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore, può agire, entro 1 anno dall’esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato (comma 2).
Stando all’art. 132, dedicato ai termini, il venditore e’ responsabile, a norma dell’articolo 130, quando il difetto di conformità si manifesta entro il termine di 2 anni dalla consegna del bene (comma 1), mentre il consumatore decade dai diritti previsti dall’articolo 130, comma 2, se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di 2 mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto; la denuncia non e’ tuttavia necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del difetto o lo ha occultato (comma 2). Salvo prova contraria, si presume che i difetti di conformità che si manifestano entro 6 mesi dalla consegna del bene esistessero già a tale data, a meno che tale ipotesi sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità (comma 3). L’azione diretta a far valere i difetti non dolosamente occultati dal venditore si prescrive, in ogni caso, nel termine di 26 mesi dalla consegna del bene; il consumatore, che sia convenuto per l’esecuzione del contratto, può tuttavia far valere sempre i diritti di cui all’articolo 130, comma 2, purché il difetto di conformità sia stato denunciato entro 2 mesi dalla scoperta e prima della scadenza del ridetto termine di 26 mesi.
In forza dell’art. 133 (garanzia convenzionale) la garanzia convenzionale vincola chi la offre secondo le modalità’ indicate nella dichiarazione di garanzia medesima o nella relativa pubblicità (comma 1); tale garanzia (comma 2) deve, a cura di chi la offre, almeno indicare: a) la specificazione che il consumatore e’ titolare dei diritti previsti dal decreto in parola, e che la garanzia medesima lascia impregiudicati tali diritti; b) in modo chiaro e comprensibile l’oggetto della garanzia e gli elementi essenziali necessari per farla valere, compresi la durata e l’estensione territoriale della garanzia, nonché il nome o la ditta e il domicilio o la sede di chi la offre. A richiesta del consumatore, la garanzia deve poi essere disponibile per iscritto o su altro supporto duraturo a lui accessibile (comma 3), e deve essere redatta in lingua italiana con caratteri non meno evidenti di quelli di eventuali altre lingue (comma 4); una garanzia non rispondente ai requisiti di cui ai commi 2, 3 e 4, rimane comunque valida e il consumatore può continuare ad avvalersene ed esigerne l’applicazione (comma 5).
Infine, alla stregua dell’art.134 (carattere imperativo delle disposizioni) è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al venditore del difetto di conformità, volto ad escludere o limitare, anche in modo indiretto, i diritti riconosciuti dalle norme in parola; si tratta di una nullità (di protezione) che può essere fatta valere solo dal consumatore e che può essere rilevata d’ufficio dal giudice (comma 1); nel caso di beni usati, le parti possono limitare la durata della responsabilità ad un periodo di tempo in ogni caso non inferiore ad un anno (comma 2). E’ poi esplicitamente nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di di compravendita una legislazione di un Paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dalle norme ridette, laddove il contratto presenti uno stretto collegamento con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea.
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Il 18 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.20165, alla cui stregua l’evizione nel contratto di compravendita si verifica allorché l’acquisto del diritto sul bene ad opera dell’acquirente è impedito e reso inefficace dal diritto che il terzo vanti sullo stesso bene, senza che occorra anche, quale elemento necessario, che il compratore sia privato dell’effettivo possesso che si trovi eventualmente ad esercitare sulla cosa, tenuto conto che la causa del contratto sta nel trasferimento del diritto sul bene, mentre la consegna dello stesso è solo una relativa conseguenza logica e giuridica.
Per il Collegio, sotto altro profilo, gli effetti della garanzia per evizione a favore del compratore conseguono al mero fatto obiettivo della perdita del diritto da lui a suo tempo acquistato e, quindi, indipendentemente dalla colpa del venditore e dalla stessa conoscenza da parte del compratore della possibile causa della futura evizione, e ciò in quanto la ridetta perdita comporta l’alterazione del sinallagma contrattuale e la conseguente necessità di porvi rimedio con il ripristino della situazione economica del compratore quale era prima dell’acquisto.
2008
Il 3 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.14665 alla cui stregua l’azione redibitoria, conformemente sul punto alle posizioni della dottrina prevalente, deve essere inquadrata nell’ambito dell’azione di risoluzione per inadempimento della quale condivide la natura, differenziandosi tuttavia sul crinale dell’irrilevanza della colpa del venditore, che dunque può anche difettare senza che venga meno, per l’appunto, la legittimazione dell’acquirente a spiccare azione di risoluzione.
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Il 25 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.24055 che, in linea con collaudata giurisprudenza sul punto, distingue l’evizione solo “parziale” (art.1484 c.c.), che ricorre allorché il compratore subisce la revindica o l’espropriazione con effetti limitati ad una parte del bene a suo tempo acquistato, dall’evizione “limitativa”, ex art.1489 c.c., laddove la cosa venduta resta integralmente in proprietà dell’acquirente, risultando tuttavia gravata da oneri o da diritti reali o personali – di natura non apparente – che ne diminuiscano da parte sua il libero godimento
2012
Il 13 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.19702 che si occupa della particolare fattispecie in cui il venditore si sia assunto l’impegno di eliminare i vizi della cosa venduta, affrontando il tema se tale contegno del venditore comporti soltanto un’interruzione della prescrizione destinata a decorrere ex novo secondo lo speciale regime annuale delle azioni c.d. edilizie, ovvero determini piuttosto l’applicazione dell’ordinario regime decennale di prescrizione.
Il Collegio precisa sul punto come l’impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa venduta, siccome accettato dal compratore, fa sorgere in capo a quest’ultimo un diritto soggetto alla prescrizione decennale, mentre i diritti alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto restano soggetti alla prescrizione annuale, stante come il contenuto dell’obbligazione “di garantire il compratore da vizi di cosa”, che nell’art. 1476 n. 3 c.c. è inserita tra quelle “principali del venditore”, è poi precisato dagli articoli 1492, 1493 e 1494, i quali attribuiscono al compratore medesimo – fatte salve le esclusioni stabilite dagli articoli 1490 e 1491 c.c. – tanto la facoltà di “domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione”, quanto le restituzioni e i rimborsi conseguenti alla risoluzione, quanto ancora il “risarcimento del danno”, se il venditore “non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa”, e comunque per i “danni derivati dai vizi” stessi.
In queste disposizioni – prosegue il Collegio – si esaurisce la disciplina dell’istituto, che pone quindi il venditore in una situazione non tanto di “obbligazione”, quanto piuttosto di “soggezione”, esponendolo all’iniziativa del compratore intesa alla modificazione del contratto di vendita, ovvero alla relativa caducazione, mediante l’esperimento, rispettivamente, dell’actio quanti minoris (manutentiva) o dell’actio redibitoria (risolutva). Il venditore deve giocoforza subire tali effetti, che si verificano nella relativa sfera giuridica ope iudicis, senza essere tenuto ad eseguire alcuna prestazione, a parte il dare e il solvere derivanti dai doveri di restituzione e di risarcimento.
La diversa obbligazione di facere, che il venditore medesimo eventualmente assuma impegnandosi a eliminare i vizi della cosa venduta non dà luogo all’estinzione per novazione della garanzia apprestata dagli artt. 1490 ss. c.c., sicché non vi è spazio per ritenere che possa influire sulla relativa disciplina, in particolare trasformando da annuale in decennale il termine di prescrizione previsto dall’art. 1495 c.c., che è insuscettibile di modificazioni per volontà delle parti, stante il divieto sancito dall’arr. 2936 c.c.. Dunque, l’ulteriore diritto, che il compratore (eventualmente) acquisisce è per il Collegio soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, in quanto è estraneo alla previsione degli artt. 1490 s. c.c., ma proprio per questa stessa ragione – precisa ancora la Corte – resta applicabile alle azioni edilizie, che al compratore stesso già spettavano, la prescrizione breve di 1 anno che è per esse specificamente stabilita, e non già quella decennale prevista per tale nuova, autonoma ed eventuale pretesa ad un facere ripristinatorio.
Del resto, chiosa ancora la Corte, il pericolo che in tal modo le azioni di riduzione del prezzo e di risoluzione del contratto si prescrivano durante il periodo (normalmente superiore all’anno) in cui il compratore si astiene dall’esercitarle per essere in corso gli interventi del venditore finalizzati all’eliminazione dei vizi è agevolmente evitabile ponendo in essere, ad iniziativa del compratore stesso, atti interruttivi all’uopo.
Non può neppure condividersi l’assunto secondo cui il momento attuativo/correttivo, originato dall’accordo raggiunto tra le parti per la riparazione del bene, possa avere effetto su quello risarcitorio/caducatorio, rappresentato dalle azioni edilizie, tanto da far assimilare il termine di prescrizione previsto per il secondo (annuale) a quello operante per il primo, trattandosi di assunto che non ha riscontro nella disciplina della garanzia per vizi, la quale non prevede l’obbligo di eliminarli.
Ancora, per la Corte non è abbracciabile neppure l’opzione ermeneutica (in passato affacciata dalla II sezione) onde il riconoscimento dei vizi della cosa venduta ed il contestuale impegno del venditore ad eliminarli in sede di esecuzione del contratto non sarebbero che uno dei modi con cui il venditore – che ha l’obbligo di consegnare una cosa immune da vizi di cui all’art. 1490 c.c. – assicura ed attua l’esatto adempimento della relativa prestazione; essi, di per sé, non darebbero luogo pertanto ad un accordo novativo, a meno che non sia in concreto provata la volontà delle parti di sostituire al rapporto originario un nuovo rapporto con diverso oggetto o titolo, così come richiesto per la novazione dell’art. 1230 c.c. e dell’art. 1231 c.c, che estesamente chiarisce come non si abbia novazione nel caso di mera modifica degli elementi accessori della obbligazione; conseguentemente, in mancanza della predetta prova (della novazione), il riconoscimento da parte del venditore dei vizi della cosa venduta e l’impegno a ripararla determinerebbe secondo tale impostazione solo l’interruzione del termine di prescrizione annuale di cui all’art. 1495 c.c, e non la sostituzione di tale termine con il nuovo e diverso termine di prescrizione ordinaria.
Si tratta di una tesi per le SSUU non condivisibile dalle Sezioni Unite, il presupposto di essa compendiandosi nel fatto che il compratore disporrebbe di una azione “di esatto adempimento” per ottenere dal venditore l’eliminazione dei vizi della cosa: azione compresa tra quelle edilizie e quindi soggetta anch’essa al termine di prescrizione annuale stabilito dall’art. 1495 c.c.
Tale rimedio non è invece apprestato dalla disciplina della garanzia per i vizi della cosa venduta, che attribuisce al compratore la scelta soltanto tra la riduzione del prezzo e la risoluzione del contratto, onde il diritto di ottenere, in alternativa, la riparazione del bene è riconosciuto soltanto in particolari ipotesi: limitatamente ai beni mobili, quando “il venditore ha garantito per un tempo determinato il buon funzionamento della cosa venduta”, oppure “gli usi … stabiliscono che la garanzia di buon funzionamento è dovuta anche in mancanza di patto espresso” (art. 1512 c.c., che fissa in 6 mesi dalla scoperta il termine di prescrizione); sempre limitatamente ai mobili, “per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene”, se il venditore è un “professionista” e il compratore un “consumatore” (artt. 128 ss. del codice del consumo, adottato con il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che fissano in 26 mesi dalla consegna il termine di prescrizione).
Che il compratore possa chiedere, indipendentemente da un impegno in tal senso del venditore, la condanna di costui all’eliminazione dei vizi, è stato talora ipotizzato in dottrina anche sotto il profilo del risarcimento del danno in forma specifica: si tratterebbe quindi di un’azione insita nel diritto di garanzia e in quanto tale soggetta anch’essa alla prescrizione annuale. L’assunto appare tuttavia alle SSUU incompatibile con il disposto dell’art. 1494 c.c., che configura come risarcimento “per equivalente” quello che compete al compratore, poiché lo collega alla riduzione del prezzo o alla risoluzione del contratto, che presuppongono la mancata riparazione del bene.
Per tali ragioni occorre per il Collegio concludere nel senso che l’impegno del venditore all’eliminazione dei vizi, accettato dal compratore, fa sorgere in capo al medesimo un corrispondente diritto “nuovo”, che è autonomo e soggetto alla ordinaria prescrizione decennale, mentre i diritti alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto restano soggetti alla prescrizione annuale.
2013
Il 20 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.20110 che, inaugurando un orientamento giurisprudenziale in dissonanza con la tesi dominante nella giurisprudenza della Corte in tema di onere nella prova con riguardo ai vizi della cosa venduta, posto sostanzialmente a carico del compratore, assume tale resi maggioritaria non più sostenibile dopo che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13533 del 2001, hanno unificato la disciplina dell’onere della prova dell’inadempimento dell’obbligazione nelle azioni di adempimento contrattuale, di risoluzione contrattuale e di risarcimento dei danni da inadempimento.
Tale sentenza SSUU n. 13533/01, ha stabilito che il creditore – sia che agisca per l’adempimento, sia che agisca per la risoluzione contrattuale, sia che agisca per il risarcimento del danno – deve provare soltanto la fonte (negoziale o legale) del proprio diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte; mentre grava sul debitore convenuto l’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; nella stessa sentenza, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che, anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il relativo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando, ancora una volta, sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto, adempimento.
Da tali principi per il Collegio – premesso «che in tema di compravendita, l’obbligazione (di dare) posta a carico del venditore è di risultato, in quanto l’interesse perseguito dall’acquirente è soddisfatto con la consegna di un bene in grado di realizzare le utilità alle quali, secondo quanto pattuito, la prestazione sia preordinata» — va tratta la conclusione onde «all’acquirente (creditore) sarà sufficiente allegare l’inesatto adempimento ovvero denunciare la presenza di vizi o di difetti che rendano la cosa inidonea all’uso alla quale è destinata o che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, essendo a carico del venditore (debitore), in virtù del principio della riferibilità o vicinanza della prova, l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni, di avere consegnato una cosa che sia conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene; ove sia stata fornita tale prova, sarà allora onere del compratore dimostrare l’esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa, ascrivibile al venditore».
2015
Il 4 giugno esce la sentenza della I sezione della Corte di Giustizia UE in causa C-497/13,alla cui stregua, preliminarmente, la Direttiva 1999/44 in tema di vendita e garanzia dei beni di consumo deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale adito nel contesto di una controversia vertente su un contratto che può rientrare nell’ambito di applicazione della citata direttiva è tenuto – a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti – a verificare se l’acquirente possa essere qualificato come “consumatore”, anche se quest’ultimo non ha espressamente rivendicato questa qualità.
Tanto premesso, per la Corte nel sistema di responsabilità predisposto dalla direttiva 1999/44, mentre l’articolo 2, paragrafo 2, di quest’ultima sancisce una presunzione iuris tantum di conformità al contratto del bene compravenduto, l’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva precisa che il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del ridetto bene. Dall’applicazione del combinato disposto di tali disposizioni si evince che, in linea di principio, è compito del consumatore produrre la prova che esiste un difetto di conformità e che quest’ultimo esisteva alla data di consegna del bene.
L’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 istituisce una norma che deroga a tale principio per il caso in cui il difetto di conformità si sia manifestato entro 6 mesi dalla consegna del bene. In tale ipotesi, infatti, si presume che il difetto esistesse al momento della consegna. Questo alleggerimento dell’onere della prova a favore del consumatore è fondato per la Corte sulla constatazione che, qualora il difetto di conformità emerga solo successivamente alla data di consegna del bene, fornire la prova che tale difetto esisteva già a tale data può rivelarsi «un ostacolo insormontabile per il consumatore», mentre di solito è molto più facile per il professionista dimostrare che il difetto di conformità non era presente al momento della consegna e che esso risulta, per esempio, da un cattivo uso del bene fatto dal consumatore [la Corte richiama l’esposizione della motivazione della proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla vendita e le garanzie dei beni al consumo, COM (95) 520 def., pag. 13]. La ripartizione dell’onere della prova stabilita dall’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 presenta, conformemente all’articolo 7 di tale direttiva, un carattere vincolante sia per le parti, che non possono derogarvi in via convenzionale, sia per gli Stati membri, che devono adoperarsi affinché essa sia rispettata. Ne consegue che tale regola relativa all’onere della prova deve essere applicata anche qualora non sia stata espressamente invocata dal consumatore che può usufruirne.
Date la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si fonda la tutela che l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 garantisce ai consumatori, si deve considerare tale disposizione una norma equivalente a una norma nazionale che occupi, nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, il rango di norma di ordine pubblico. Se ne evince che, quando il giudice nazionale dispone, nel contesto del relativo sistema giurisdizionale interno, della facoltà di applicare d’ufficio una norma siffatta, egli è tenuto ad applicare d’ufficio qualsiasi disposizione del relativo diritto interno che trasponga il citato articolo 5, paragrafo 3 (v., in tal senso, sentenza Asturcom Telecomunicaciones, C40/08, EU:C:2009:615, punti da 52 a 54 e giurisprudenza citata).
A questo punto la Corte passa ad esaminare la diversa questione se il principio di effettività osti a una norma nazionale che obblighi il consumatore a dimostrare di avere tempestivamente informato il venditore del difetto di conformità. Dalla decisione di rinvio – rappresenta la Corte – risulta che il legislatore olandese prevede un siffatto obbligo all’articolo 7:23 del BW e che, in conformità alla giurisprudenza dello Hoge Raad, è compito del consumatore, in caso di contestazione da parte del venditore, produrre la prova di avere denunciato a quest’ultimo la non conformità del bene consegnato. Dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio emerge altresì che nel regime predisposto dal legislatore olandese si presume che tale informazione sia stata fornita tempestivamente se essa è stata comunicata entro 2 mesi dal momento in cui è stata constatata la non conformità. Inoltre, secondo la giurisprudenza dello Hoge Raad, la questione della tempestività di un’informazione fornita dopo la scadenza di tale termine dipende dalle circostanze specifiche di ciascun caso di specie.
A tale proposito giova per il Collegio rammentare che l’articolo 5, paragrafo 2 della direttiva 1999/44 consente agli Stati membri di prevedere che il consumatore, per fruire dei relativi diritti, debba denunciare al venditore il difetto di conformità entro il termine di 2 mesi dalla data in cui lo ha constatato. Secondo i lavori preparatori della citata direttiva, tale possibilità mira a soddisfare l’esigenza di rafforzare la certezza del diritto, incoraggiando l’acquirente ad adoperare una «certa diligenza, tenendo conto [de]gli interessi del [venditore]», «senza istituire un obbligo rigoroso di effettuare un’ispezione meticolosa del bene» [v. motivazione della proposta di direttiva COM (95) 520 def., pag. 14]. Pertanto, come emerge dalla formulazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44, letto in combinato disposto con il relativo considerando 19, e dalla finalità perseguita da tale disposizione, l’onere fatto gravare in tal modo sul consumatore non può spingersi oltre quello consistente nel denunciare al venditore l’esistenza di un difetto di conformità.
Quanto al contenuto di tale informazione, in questa fase non si può esigere che il consumatore produca la prova che effettivamente un difetto di conformità colpisce il bene che ha acquistato. Tenuto conto dell’inferiorità in cui egli versa rispetto al venditore per quanto riguarda le informazioni sulle qualità di tale bene e sullo stato in cui esso è stato venduto, il consumatore non può neppure essere obbligato ad indicare la causa precisa di detto difetto di conformità. Per contro, affinché l’informazione possa essere utile per il venditore, essa dovrebbe contenere una serie di indicazioni, il cui grado di precisione varierà inevitabilmente in funzione delle circostanze specifiche di ciascun caso di specie, vertenti sulla natura del bene in oggetto, sul tenore del corrispondente contratto di vendita e sulle concrete manifestazioni del difetto di conformità lamentato.
Per quanto riguarda la prova che al venditore è stata fatta tale denuncia, essa segue, in linea di principio, le norme nazionali in materia, le quali, tuttavia, devono rispettare il principio di effettività. Se ne evince che uno Stato membro non può istituire obblighi tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile per il consumatore esercitare i diritti che attinge dalla direttiva 1999/44.
Infine, la Corte affronta la questione concernente le modalità di funzionamento della ripartizione dell’onere della prova operata dall’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 e, segnatamente, quali siano gli elementi che devono essere dimostrati dal consumatore.
Come già supra constatato, tale disposizione prevede per la Corte una norma di deroga al principio secondo cui è compito del consumatore rovesciare la presunzione di conformità del bene venduto, sancito all’articolo 2, paragrafo 2, di tale direttiva, e fornire la prova del difetto di conformità che egli lamenta. Qualora il difetto di conformità si sia manifestato entro 6 mesi dalla consegna del bene, l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 alleggerisce l’onere della prova che grava sul consumatore prevedendo che si presuma che il difetto esistesse al momento della consegna. Per poter usufruire di tale alleggerimento dell’onere probatorio, il consumatore deve tuttavia produrre la prova di determinati fatti.
In primo luogo, il consumatore deve far valere e fornire la prova che il bene venduto non è conforme al corrispondente contratto in quanto, ad esempio, non presenta le qualità convenute in quest’ultimo o, ancora, è inidoneo all’uso che ci si attende abitualmente per questo genere di bene. Il consumatore è tenuto a dimostrare solamente l’esistenza del difetto. Egli non è tenuto a provare la causa di quest’ultimo né a dimostrare che la sua origine è imputabile al venditore. In secondo luogo, il consumatore deve provare che il difetto di conformità in questione si è manifestato, ossia si è palesato concretamente, entro il termine di 6 mesi dalla consegna del bene.
Una volta dimostrati tali fatti, il consumatore è dispensato dall’obbligo di provare che il difetto di conformità esisteva alla data della consegna del bene. Il manifestarsi di tale difetto nel breve periodo di 6 mesi consente di supporre che, per quanto esso si sia rivelato solo successivamente alla consegna del bene, fosse già presente, «allo stato embrionale», in tale bene al momento della consegna [v. la motivazione della proposta di direttiva COM (95) 520 def., pag. 12]. Grava allora sul professionista l’obbligo di produrre, se del caso, la prova che il difetto di conformità non era presente al momento della consegna del bene, dimostrando che tale difetto trova la propria origine o la sua causa in un atto o in un’omissione successiva a tale consegna. Qualora il venditore non sia in grado di provare in maniera giuridicamente sufficiente che la causa o l’origine del difetto di conformità risiede in una circostanza sopravvenuta dopo la consegna del bene, la presunzione sancita all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 1999/44 consente al consumatore di avvalersi dei diritti che attinge da tale direttiva.
2018
Il 29 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.10045 in tema di c.d. aliud pro alio, alla cui stregua, in tema di vendita, è appunto configurabile la consegna di “aliud pro alio” non solo quando la cosa consegnata è completamente difforme da quella contrattata, appartenendo ad un genere del tutto diverso, ma anche quando è assolutamente priva delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente, o abbia difetti che la rendano inservibile; in tale ultimo caso, è necessario che la particolare utilizzazione della cosa sia stata espressamente contemplata, da entrambe le parti, nella negoziazione (cfr. Cass.18.1.2007, n. 1092; Cass. 5.2.2016, n. 2313, secondo cui, in tema di compravendita, i vizi redibitori e la mancanza di qualità, le cui azioni sono soggette ai termini di prescrizione e decadenza ex art. 1495 cod. civ., si distinguono dall’ipotesi di consegna di “aliud pro alio“, che dà luogo ad una ordinaria azione di risoluzione contrattuale svincolata dai termini predetti, e che ricorre quando il bene consegnato sia completamente diverso da quello venduto, perché appartenente ad un genere differente da quello posto a base della decisione del compratore di effettuare l’acquisto, oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla relativa funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti, facendola degradare in una sottospecie affatto dissimile da quella dedotta in contratto).
In questi termini – prosegue la Corte – è innegabile nella fattispecie che sia stata parte integrante della pattuizione che X e la Y s.r.l. ebbero a siglare l’idoneità dell’automobile compravenduta a soddisfare l’esigenza di circolazione motorizzata del ricorrente mercé l’installazione nella parte anteriore, lato passeggero, di un sedile girevole a novanta gradi. Del resto la “Y”, onde dar seguito alla pattuizione siglata con X, ha addotto di essersi rivolta alla terza chiamata, “Z” s.r.I., che, a propria volta, ha sin dalle prime cure declinato “ogni responsabilità per aver …”. Ebbene, dai premessi rilievi ne discendono per la Corte i seguenti corollari. Per un verso, che nel caso di specie si configura l’ipotesi di “aliud pro alio“, esplicitamente prefigurata dall’elaborazione giurisprudenziale, sostanziantesi nella consegna di un bene avente difetti tali che gli impediscono di assolvere alla funzione concreta assunta come essenziale dalle parti. Per altro verso, che – evidentemente – non può essere recepita la prospettazione della corte d’appello secondo cui “l’applicazione al caso de quo dei principi (…) in materia di aliud pro alio (…) appare (…) di difficile sostenibilità (…), considerato il carattere accessorio – per definizione non essenziale né necessario – della riscontrata qualità mancante (…)”
Per altro verso ancora, va condivisa la prospettazione del ricorrente secondo cui “il sedile girevole a 90 gradi (…) non è un elemento accessorio del contratto di acquisto perché (…) [si era] determinato ad acquistare una automobile così accessoriata proprio a ragione del fatto che il concessionario gli aveva garantito la fattibilità dell’installazione di quel dispositivo (…), altrimenti avrebbe scelto un altro modello di autovettura“. Né, contrariamente all’assunto della corte di merito, rileva che vi sia stato un pregresso prolungato – quadriennale – utilizzo del veicolo. E’ fuor di dubbio che l’ipotesi di consegna di “aliud pro alio” dà luogo ad una ordinaria azione di risoluzione contrattuale (cfr. Cass. 5.2.2016, n. 2313). In tal guisa non può che reiterarsi l’insegnamento, seppur risalente, della Corte secondo cui la risoluzione è impedita soltanto dalla trasformazione, dall’alienazione o dal perimento per caso fortuito o forza maggiore del bene venduto e non anche dal relativo uso anche prolungato da parte del compratore, salvo che da tale uso – e non è il caso di specie – possa desumersi una tacita rinunzia all’azione (cfr. Cass. 9.10.1976, n. 3362).
2019
Il 3 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.11748 in tema di compravendita, imperfetta attuazione del risultato traslativo promesso, azioni edilizie e onere della prova circa l’esistenza dei vizi della cosa in capo all’acquirente.
Per il Collegio, fino al 2013 non si registravano incertezze giurisprudenziali sul principio che, nelle azioni di garanzia per i vizi della cosa venduta, l’onere della prova dei difetti e delle eventuali conseguenze dannose, nonché dell’esistenza del nesso causale fra i primi e le seconde, fosse a carico al compratore che facesse valere la pertinente garanzia (Cass. 1035/68, Cass. 2841/74, Cass.7986/91, Cass. 8533/94, Cass. 8963/98, Cass. 13695/07, Cass.18125/13); detto indirizzo è stato tuttavia sovvertito da una pronuncia della Seconda Sezione, la sentenza 20.9.13 n. 20110, che ha ritenuto il medesimo non più sostenibile dopo che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13533 del 2001, avevano unificato la disciplina dell’onere della prova dell’inadempimento dell’obbligazione nelle azioni di adempimento contrattuale, di risoluzione contrattuale e di risarcimento dei danni da inadempimento.
Tale sentenza SSUU n. 13533/01, come è noto, ha stabilito che il creditore – sia che agisca per l’adempimento, sia che agisca per la risoluzione contrattuale, sia che agisca per il risarcimento del danno – deve provare soltanto la fonte (negoziale o legale) del proprio diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte; mentre grava sul debitore convenuto l’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; nella stessa sentenza, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che, anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il relativo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando, ancora una volta, sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto, adempimento.
Da tali principi, Cass. 20110/13 – premesso «che in tema di compravendita, l’obbligazione (di dare) posta a carico del venditore è di risultato, in quanto l’interesse perseguito dall’acquirente è soddisfatto con la consegna di un bene in grado di realizzare le utilità alle quali, secondo quanto pattuito, la prestazione sia preordinata» (pag. 7) — ha tratto la conclusione che «all’acquirente (creditore) sarà sufficiente allegare l’inesatto adempimento ovvero denunciare la presenza di vizi o di difetti che rendano la cosa inidonea all’uso alla quale è destinata o che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, essendo a carico del venditore (debitore), in virtù del principio della riferibilità o vicinanza della prova, l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni, di avere consegnato una cosa che sia conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene; ove sia stata fornita tale prova, sarà allora onere del compratore dimostrare l’esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa, ascrivibile al venditore».
L’indirizzo espresso da Cass. 20110/13 – proseguono le SSUU – non è stato seguito da Cass. 21949/13, né da Cass. 3042/15, né da Cass. 18497/17, nelle quali si è continuato ad affermare che nelle azioni edilizie grava sul compratore l’onere di provare i vizi della cosa venduta; esso, tuttavia, è stato ripreso, nella Seconda Sezione, dalla sentenza 2.12.16 n. 24731/16 e, nella Terza Sezione, dall’ordinanza 21.9.17 n. 21927; quest’ultima ha espressamente motivato la propria adesione alla sentenza n. 20110/13 proprio sulla ritenuta necessità di muoversi «nel solco dell’insegnamento» di SSUU n. 13533/01 (pag. 9).
Per la risoluzione del segnalato contrasto risulta necessario a questo punto per il Collegio verificare la correttezza del presupposto su cui si fonda il ragionamento sviluppato nella sentenze n. 20110/13 e ripreso nella ordinanza n. 21927/17, ossia che la consegna di una cosa viziata costituisca inesatto adempimento ad una obbligazione del venditore, palesandosi infatti evidente che, se tale presupposto fosse smentito, non vi sarebbe ragione di assoggettare la disciplina dell’onere della prova nelle azioni edilizie ai principi elaborati da SSUU n. 13533/01 con riferimento all’onere della prova dell’inadempimento delle obbligazioni.
Ai fini della suddetta verifica appare opportuno prendere le mosse dal testo dell’articolo 1476 c.c., che elenca le obbligazioni principali del venditore in: 1) quella di consegnare la cosa al compratore; 2) quella di far acquistare al compratore la proprietà della cosa o il diritto, se l’acquisto non è effetto immediato del contratto; 3) quella di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa. In disparte la disposizione di cui al suddetto n. 2) e il riferimento all’evizione contenuto nel suddetto n. 3), va qui sottolineato che l’obbligazione di consegna di cui al n. 1 ha ad oggetto un bene che, al momento dell’adempimento di tale obbligazione, è, di regola, già in proprietà del compratore (eccettuata l’ipotesi di vendita di cose determinate solo nel genere in cui l’individuazione debba avvenire mediante la consegna al compratore): infatti l’effetto traslativo della proprietà della cosa compravenduta dal patrimonio del venditore a quello del compratore si produce, quando si tratti di cosa determinata, con la conclusione del contratto (art. 1376 c.c.) e, quando si tratti di cose determinate solo nel genere, con l’ individuazione di cui all’articolo 1378 c.c. (prima ancora ed indipendentemente dalla consegna delle stesse, ove i relativi tempi non coincidano, cfr. Cass. n. 4611/82); ai sensi del suddetto articolo 1378 c.c., infatti, l’individuazione avviene, «d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti» e può essere precedente o contestuale alla consegna al compratore, secondo le intese tra le parti (Cass. n. 3559/95) e, quando si tratti di cose che devono essere trasportate da un luogo ad un altro, può identificarsi con la consegna al vettore (o allo spedizioniere). Quest’ultima, salvo patto contrario, libera il venditore (art. 1510, secondo comma, c.c.); il compratore, infatti, diventa proprietario e possessore della merce quando la stessa viene consegnata al vettore ed ha facoltà di agire contro quest’ultimo in caso di perdita della merce stessa durante il viaggio (cfr. Cass. n. 4344/01).
L’obbligazione menzionata nell’articolo 1476, n. 1), c.c. risulta normativamente descritta come obbligazione di consegna della cosa dedotta in contratto (vale dire, a mente dell’articolo 1470 c.c., la cosa il trasferimento della cui proprietà costituisce l’oggetto del contratto). La disciplina dell’obbligazione di consegna prevede che la cosa venga consegnata «nello stato in cui si trovava al momento della vendita» (art. 1477, primo comma, c.c.), senza alcun riferimento alla immunità della cosa da vizi. Va sottolineato che il primo comma dell’articolo 1477 c.c. appare riferibile specificamente alla vendita di una cosa determinata, ma che esso va tuttavia interpretato estensivamente (attribuendo alla parola “vendita” il più lato significato di “trasferimento della proprietà“), traendone la regola, idonea a disciplinare l’obbligazione di consegna nei contratti di vendita di cose determinate solo nel genere, che le stesse – quando il momento dell’individuazione sia precedente, e non contestuale, a quello della consegna – vanno consegnate nello stato in cui si trovavano al momento della individuazione, che, come già evidenziato, coincide con quello del trasferimento della proprietà, ai sensi dell’articolo 1378 c.c.; la giurisprudenza della Corte ha infatti chiarito che, nella vendita di cose determinate solo nel genere, l’individuazione, ove non avvenga con la consegna al compratore (o allo spedizioniere o al vettore), né avvenga, come di regola, in presenza delle parti, ma, per specifica intesa contrattuale, debba avvenire con modalità diverse, deve essere effettuata in modo idoneo ad assicurare la non sostituibilità, da parte del venditore, delle cose che siano state individuate mediante la separazione dal genus (cfr. sentt. nn. 5768/81, 8861/96, 9466/11).
L’obbligazione menzionata nell’articolo 1476, n. 3) c.c. – prosegue la Corte – risulta normativamente descritta, per quanto qui interessa, come l’obbligazione di «garantire il compratore … dai vizi della cosa»: questa formulazione ha indotto parte della dottrina ad attribuire alla nozione di garanzia richiamata dalla disposizione, mediante l’uso della parola “garantire“, un significato genericamente assicurativo, di accollo di un rischio in ordine al verificarsi di eventi che non si è obbligati ad evitare: la garanzia per vizi, secondo tale prospettiva, andrebbe inquadrata come prestazione contrattuale indennitaria di tipo restitutorio, finalizzata – secondo uno schema di tipo, appunto, assicurativo – a realizzare in forma sostitutiva l’interesse deluso del compratore ad una res immune da vizi; la consegna di una cosa viziata, in definitiva, non darebbe luogo ad alcun inadempimento, ma determinerebbe l’operare della garanzia, con la correlativa pretesa indennitaria di tipo restitutorio a tutela dell’interesse deluso dell’acquirente.
L’inquadramento della garanzia di cui all’articolo 1476 n. 3 in uno schema di tipo assicurativo, cui sopra si è fatto cenno, non è condiviso dal Collegio, perché, per un verso, non appare sormontabile la difficoltà di ricondurre ad uno schema di tipo indennitario i rimedi (che pure prescindono dalla colpa del venditore) della risoluzione del contratto e della riduzione del prezzo previsti dall’articolo 1492 c.c.; per altro verso, il risarcimento del danno di cui all’articolo 1494 c.c. presuppone la colpa del venditore, mentre l’assicurazione contrattuale (l’assunzione del rischio) postula che l’evento che rende attuale l’obbligazione indennitaria esuli da qualunque giudizio di imputabilità e di illiceità. La suddetta opinione dottrinale – che, come è noto, costituisce solo una delle molteplici teorizzazioni che si registrano sul controverso tema della natura della garanzia per i vizi della cosa venduta – è stata, tuttavia, richiamata per evidenziare quanto distante sia il meccanismo di operatività della garanzia per vizi della cosa venduta dallo schema dell’obbligo di prestazione, tipico del rapporto obbligatorio, dovendo essere infatti evidenziato che l’immunità da vizi non può assurgere a contenuto del precetto negoziale, perché l’obbligazione può avere ad oggetto una prestazione futura, ma non il modo di essere attuale della cosa dedotta in contratto; poiché la proprietà di quest’ultima si trasferisce, nella compravendita di cosa determinata, nel momento del perfezionamento dell’accordo tra i contraenti, e, nella compravendita di cose determinate solo nel genere, nel momento dell’individuazione effettuata ai termini dell’articolo 1378 c.c. (necessaria perché all’effetto obbligatorio segua quello reale del trasferimento della proprietà dal venditore al compratore), l’obbligazione di consegna di cui all’articolo 1476 n. 1 c.c. ha ad oggetto esattamente quella cosa o quelle cose – ancorché, eventualmente, viziate – che hanno formato oggetto dell’accordo traslativo o della individuazione effettuata dopo la conclusione di tale accordo, nello stato in cui esse si trovavano al momento del contratto o della loro successiva individuazione.
Del resto, può aggiungersi, le obbligazioni di individuazione e di consegna restano concettualmente distinte anche quando il loro adempimento avvenga uno actu, ossia quando la individuazione sia contestuale alla consegna (al compratore o allo spedizioniere o al vettore): la vendita di cosa appartenente ad un genere, infatti, fa sorgere a carico del venditore una obbligazione duplice, ossia, in primo luogo, l’obbligazione di individuazione della cosa la cui proprietà viene trasferita (la quale, ai sensi dell’articolo 1178 c.c., deve essere «di qualità non inferiore alla media») e, in secondo luogo, l’obbligazione di consegna della cosa (precedentemente o contestualmente) individuata (cfr. Cass, 14025/14, dove, appunto, si sottolinea che la vendita di cose determinate solo nel genere «fa sorgere a carico del venditore il duplice obbligo di individuare la res e di consegnarla nel luogo pattuito», pag. 4).
La disciplina della compravendita non pone a carico del venditore nessun obbligo di prestazione relativa alla immunità della cosa da vizi; in altri termini, all’obbligo di garantire il compratore dai vizi della cosa, previsto dall’articolo 1476 n. 3, c.c., non corrisponde – a differenza di quanto ordinariamente accade nello schema proprio delle obbligazioni – alcun dovere di comportamento del venditore in funzione del soddisfacimento dell’interesse del compratore. Le obbligazioni del venditore, ai fini che qui interessano, si risolvono infatti nell’ obbligazione di consegnare la cosa oggetto del contratto e, nella vendita di cose determinate solo nel genere, nella duplice obbligazione di individuare, separandole dal genere, cose di qualità non inferiore alla media e di consegnare le cose individuate: in entrambi i casi, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligazione di consegna, il venditore non deve fare altro che consegnare la cosa o le cose determinate in contratto o individuate successivamente, indipendentemente dalla eventuale presenza di vizi nelle stesse.
Per quanto poi riguarda l’obbligazione di individuazione, è da sottolineare che l’eventuale presenza di un vizio nelle cose individuate non costituisce violazione dell’obbligo di individuare cose di qualità non inferiore alla media, giacché, come reiteratamente affermato dalla Corte, il vizio riguarda le imperfezioni e i difetti inerenti il processo di produzione, fabbricazione, formazione e conservazione della cosa, mentre la qualità inerisce alla natura della merce e concerne tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono, nell’ambito di un medesimo genere, sull’appartenenza ad una specie piuttosto che a un’altra (cfr. sentt. nn. 28419/13, 6596/16).
Anche nel caso, assai diffuso negli ordinari rapporti commerciali tra imprese, della vendita di cose future che devono essere prodotte dallo stesso venditore (la quale si distingue dall’appalto, secondo il costante orientamento della Corte, perché nella vendita il lavoro è recessivo rispetto alla materia, rappresentando soltanto il mezzo per la trasformazione della materia in conformità alla attività produttiva ordinaria del venditore, cfr., tra le tante, Cass. 3069/71, Cass. 3944/82, Cass. 12011/97, Cass.20391/08, Cass. 5935/18), la tutela del compratore è affidata alla garanzia per i vizi (cfr. Cass. 5075/83, Cass. 5202/07), risultando quindi irrilevanti le modalità con cui il venditore ha realizzato il processo di produzione delle cose.
Non è dunque possibile – chiosano allora le SSUU – concepire la garanzia per vizi come oggetto di un dovere di prestazione. Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve piuttosto concludersi per il Collegio che il disposto dell’articolo 1476 c.c., là dove qualifica la garanzia per vizi come oggetto di una obbligazione, va inteso non nel senso che il venditore assuma una obbligazione circa i modi di essere attuali della cosa, bensì nel senso che egli è legalmente assoggettato all’applicazione dei rimedi in cui si sostanzia la garanzia stessa: va dunque ribadito quanto già nel 2012, con la sentenza n. 19702/12, le Sezioni Unite ebbero modo di sottolineare, ossia che l’obbligo di garanzia per i vizi della cosa pone «il venditore in una situazione non tanto di “obbligazione“, quanto piuttosto di “soggezione“, esponendolo all’iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto di vendita, o alla sua caducazione, mediante l’esperimento rispettivamente dell’actio quanti minoris o dell’actio redibitoria» (pag. 10, ultimo capoverso).
Se la garanzia per i vizi pone il venditore in una condizione non di “obbligazione” (dovere di prestazione) ma di “soggezione“, lo schema concettuale a cui ricondurre l’ipotesi che la cosa venduta risulti viziata non può essere quello dell’inadempimento di una obbligazione; la conclusione che precede, tuttavia, non impone di collocare detta ipotesi fuori dal campo dell’inadempimento (più precisamente, dell’inesatto adempimento) del contratto, nel quale tradizionalmente essa è stata collocata, con il conforto della prevalente dottrina, dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sentt. nn. 5686/85, 7561/06, 14431/06, 20557/12): la consegna di una cosa viziata integra un inadempimento contrattuale, ossia una violazione della lex contractus; ma, come è stato persuasivamente osservato in dottrina, non tutte le violazioni della lex contractus realizzano ipotesi di inadempimento di obbligazioni.
Con specifico riguardo ai contratti traslativi, la spiegazione delle peculiarità delle patologie dell’effetto traslativo e del funzionamento dei rimedi che la legge ad esse ricollega richiede un superamento del concetto classico di inadempimento – inteso come inattuazione dell’obbligazione contrattuale – e il riconoscimento della possibilità di configurare vere e proprie anomalie dell’attribuzione traslativa: la consegna della cosa viziata costituisce non inadempimento di una obbligazione (di consegna o di individuazione), ma la imperfetta attuazione del risultato traslativo promesso. La garanzia per vizi non va, dunque, collocata nella prospettiva obbligatoria e la responsabilità che essa pone in capo al venditore va qualificata come una responsabilità contrattuale speciale, interamente disciplinata dalle norme dettate sulla vendita. Il presupposto di tale responsabilità è, come già accennato, l’imperfetta attuazione del risultato traslativo (e quindi la violazione della lex contractus) per la presenza, nella cosa venduta, di vizi che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore; si tratta di una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza del venditore e si fonda soltanto sul dato obiettivo dell’esistenza dei vizi; essa si traduce nella soggezione del venditore all’esercizio dei due rimedi edilizi di cui può avvalersi il compratore, al quale è anche riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni, salvo che il venditore provi di aver senza colpa ignorato i vizi.
Stante l’accentuata specialità delle azioni edilizie rispetto ai rimedi generali all’inadempimento costituiti dalla risoluzione e dal risarcimento del danno e, conseguentemente, sottratta la disciplina di tali azioni all’ambito concettuale dell’inadempimento delle obbligazioni, risulta agevole concludere che il presupposto su cui si basa l’orientamento espresso nelle menzionate pronunce della Seconda Sezione nn. 20110/13 e 24731/16 e della Terza Sezione n. 21927/17, secondo cui la consegna di una cosa viziata costituirebbe inesatto adempimento di una obbligazione del venditore, non può essere tenuto fermo. Dalla suddetta conclusione discende che la disciplina del riparto dell’onere della prova tra venditore e compratore, nelle azioni edilizie, non può ritenersi compresa nell’ambito applicativo dei principi fissati dalla sentenza SSUU n. 13533/01 in materia di prova dell’inesatto adempimento delle obbligazioni nelle ordinarie azioni contrattuali di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno.
I principi fissati nella sentenza n. 13533/01, proseguono le SSUU, discendono infatti dalla presunzione di persistenza del diritto, desumibile dall’art. 2697, in virtù della quale – una volta che il creditore abbia dimostrato l’esistenza di un diritto, provandone il titolo (contrattuale o legale) e la scadenza del termine di esigibilità – grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo costituito dall’adempimento; principi che le Sezioni Unite hanno ritenuto operanti sia nel caso in cui il creditore agisca per l’adempimento, sia nel caso in cui, sul comune presupposto dell’inadempimento della controparte, egli agisca per il risarcimento del danno o per la risoluzione per inadempimento o per inesatto adempimento. E’ dunque evidente come tali principi non possano essere riferiti alle azioni edilizie; la presunzione di permanenza del diritto è specularmente declinabile come presunzione di permanenza dell’obbligazione, ma la disciplina della compravendita non pone a carico del venditore nessun obbligo di prestazione relativo alla immunità della cosa da vizi.
La questione del riparto dell’onere della prova tra venditore e compratore, nelle azioni edilizie, si presenta di agevole soluzione, alla stregua del principio, fissato nell’articolo 2967 c.c., che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; il diritto alla risoluzione o alla modificazione (quanto al prezzo) del contratto di compravendita, che vuol far valere il compratore che esperisca le azioni di cui all’articolo 1492 c.c. per essere garantito dal venditore per i vizi della cosa venduta – vale a dire, per l’imperfetta attuazione del risultato traslativo, anche in assenza di colpa del venditore – si fonda sul fatto della esistenza dei vizi; la prova di tale esistenza grava, pertanto, sul compratore. Può aggiungersi che tale conclusione risulta idonea a soddisfare anche le esigenze di carattere pratico – espresse dal principio di vicinanza della prova e dal tradizionale canone negativa non sunt probanda – che le Sezioni Unite hanno indicato, nella sentenza n. 13533/01, a sostegno della opzione ermeneutica che pone sull’obbligato l’onere di provare di avere (esattamente) adempiuto non solo quando il creditore chieda l’adempimento, ma anche quando il creditore chieda la risoluzione del contratto o il risarcimento del danno.
Quanto al principio di vicinanza della prova, il Collegio osserva che esso ha trovato la sua prima compiuta enunciazione proprio nella sentenza SSUU n. 13533/01, dove viene declinato nel senso che l’onere della prova deve essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione» (§ 1.2.1, pag. 12). L’ancoraggio di tale principio all’articolo 24 della Costituzione, implicito in SSUU n. 13533/01 (dove si afferma che esso «muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione», loc. cit.), è stato poi reso esplicito nelle pronunce successive (tra le varie, Cass. SSUU 141/06, in materia di lavoro, e Cass. 19146/13, in materia di appalto, proprio con riferimento all’onere della prova dei vizi della cosa realizzata dall’appaItatore).
In SSUU n. 13533/01 il principio della vicinanza della prova viene ritenuto «coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi» (loc. cit.) e il criterio della vicinanza/distanza della prova viene in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova risulta scollegato dal disposto dell’articolo 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a detta partizione (cfr. Cass. 20484/08 «l’onere della prova deve essere ripartito, oltreché secondo la descrizione legislativa della fattispecie sostanziale controversa, con l’indicazione dei fatti costitutivi e di quelli estintivi o impeditivi del diritto, anche secondo il principio della riferibilità o vicinanza, o disponibilità del mezzo»).
Ai fini della soluzione della questione odiernamente all’esame delle Sezioni Unite non vi è necessità di affrontare il tema del rapporto tra il principio della vicinanza della prova e la regola di giudizio dettata dall’articolo 2697 c.c., giacché tanto l’applicazione di tale principio, quanto l’applicazione di detta regola di giudizio conducono alla stessa conclusione, ossia che il compratore che esercita le azioni edilizie è gravato (lui) dell’onere di provare il vizio della cosa venduta: l’esistenza del vizio, infatti, è il fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o alla modificazione (quanto al prezzo) del contratto di compravendita, e, allo stesso tempo, è il fatto la cui prova è più vicina al compratore; è proprio il compratore infatti, dopo che la cosa venduta gli è stata consegnata dal venditore, ad averne la disponibilità, necessaria per lo svolgimento degli esami funzionali all’accertamento del vizio lamentato.
Quanto al canone negativa non sunt probanda, la sentenza n. 13533/01 sottolinea «la difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo» e rileva come la tecnica probatoria di dimostrare i fatti negativi mediante la prova dei fatti positivi contrari non sia agevolmente praticabile (§ 2.2.3, pagg. 16 e 17). In proposito il Collegio reputa necessario distinguere, ai fini del ragionamento che si sta conducendo, il caso dell’inadempimento da quello dell’inesatto adempimento; la prova dell’inadempimento si risolve, di regola, nella prova di un fatto negativo (il mancato adempimento) ed essa è, per il creditore, certamente meno agevole rispetto alla prova dell’adempimento che grava sul debitore; la prova dell’inesatto adempimento, al contrario, consiste nella prova di un fatto positivo diverso da quello atteso dal creditore; si tratta di una situazione più articolata e più difficilmente inquadrabile in schemi rigidamente predeterminati, potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta, nelle diverse tipologie di controversie, su quale sia la fonte di prova che meglio può offrire la dimostrazione dell’inesattezza dell’adempimento e su quale sia la parte che più agevolmente può accedere a tale fonte. L’esame della questione oggi all’esame delle Sezioni Unite – concernente la garanzia per i vizi della cosa venduta, la quale esula dall’area dell’inadempimento delle obbligazioni – non richiede, in ragione della relativa specificità, di affrontare in termini generali la questione dell’onere della prova dell’inesatto adempimento di una obbligazione; per la risoluzione del denunciato contrasto di giurisprudenza è, infatti, sufficiente evidenziare che la prova dell’esistenza del vizio della cosa è una prova positiva (di un fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o modificazione del contratto) e pertanto, proprio alla stregua del canone negativa non sunt probanda, va giudicata più agevole di quella (negativa) della inesistenza del vizio medesimo.
L’opzione ermeneutica che pone a carico del compratore che esperisce le azioni edilizie l’onere di provare i vizi della cosa appare preferibile anche perché risulta armonica rispetto alle analoghe soluzioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in materia di prova dei vizi della cosa nel contratto di appalto e nel contratto di locazione: quanto all’appalto, la sentenza della Seconda Sezione n. 19146/13 ha stabilito, in lineare applicazione del principio di vicinanza della prova, che, in tema di garanzia per difformità e vizi, l’accettazione dell’opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, fino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente (non accettante) è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte, mentre, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, anche per facta concludentia, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate.
Quanto alla locazione, prosegue il Collegio, la sentenza della Terza Sezione n. 3548/17 ha stabilito, pur essa in esplicita applicazione del principio di vicinanza della prova, che, in caso di domanda di risoluzione ex art. 1578 c.c., grava sul conduttore l’onere di individuare e dimostrare l’esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l’idoneità del bene all’uso pattuito, spettando, invece, al locatore convenuto di provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa. Il quadro che complessivamente emerge da tali convergenti pronunce appare dunque nel senso che, ove venga in questione la esistenza di vizi di una cosa consegnata da una parte ad un’altra in base ad un titolo contrattuale, il principio di vicinanza della prova induce a porre l’onere della prova dei vizi stessi a carico della parte che, avendo accettato la consegna della cosa, ne abbia la materiale disponibilità.
La soluzione che addossa al compratore l’onere di provare i vizi della cosa, ai fini dell’esperimento delle azioni edilizie, risulta armonica rispetto all’ analogo meccanismo di riparto dell’onere probatorio previsto, con riferimento alla difformità della cosa venduta, dalla disciplina dei contratti del consumatore dettata dall’Unione Europea: nonostante che la garanzia di conformità al contratto prevista dalla disciplina consumeristica di matrice europea presenti importanti differenze, per i relativi contenuti e per rimedi che offre al consumatore, rispetto alla garanzia per i vizi della cosa venduta regolata dal codice civile, anche il diritto dell’Unione Europea addossa all’acquirente l’onere di provare la difformità della cosa dalla relativa descrizione contrattuale.
La Direttiva 1999/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, rammentano le SSUU, prevede infatti (all’articolo 2, paragrafo 2) una presunzione iuris tantum di conformità al contratto dei beni venduti, qualora ricorrano le condizioni ivi elencate; essa inoltre – all’articolo 3, paragrafo 1 – pone in capo al venditore la responsabilità per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. Tali disposizioni – che trovano corrispondenza nell’articolo 129, secondo comma, e rispettivamente, nell’articolo 130, primo comma, del codice del consumo (decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206) – sono state interpretate nella sentenza CGUE 4.6.15 C-497/13 nel senso che dal loro combinato disposto «si evince che, in linea di principio, è compito del consumatore produrre la prova che esiste un difetto di conformità e che quest’ultimo esisteva alla data di consegna del bene» (§ 52).
La Corte di Giustizia ha, peraltro, precisato che il suddetto principio viene derogato, per il caso in cui il difetto di conformità si sia manifestato entro sei mesi dalla consegna del bene, dalla presunzione di esistenza del difetto di conformità al momento della consegna prevista dall’articolo 5, paragrafo 3, della medesima direttiva 1999/44 (a cui corrisponde l’articolo 132, terzo comma, del codice del consumo) e non è privo di rilievo che detta deroga sia stata spiegata dalla Corte di Lussemburgo proprio con riferimento al principio di vicinanza della prova (cfr. § 54: «questo alleggerimento dell’onere della prova a favore del consumatore è fondato sulla constatazione che, qualora il difetto di conformità emerga solo successivamente alla data di consegna del bene, fornire la prova che tale difetto esisteva già a tale data può rivelarsi “un ostacolo insormontabile per il consumatore“, mentre di solito è molto più facile per il professionista dimostrare che il difetto di conformità non era presente al momento della consegna e che esso risulta, per esempio, da un cattivo uso del bene fatto dal consumatore»).
Il pertinente contrasto segnalato nell’ordinanza di rimessione va dunque risolto per il Collegio confermando l’orientamento tradizionale, con l’enunciazione del seguente principio di diritto: in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’articolo 1490 c.c., il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui all’articolo 1492 c.c. è gravato dell’onere di offrire la prova dell’esistenza dei vizi sui quali tali azioni si fondano.
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L’11 luglio esce la sentenza delle SSUU n.18672 onde in primis, secondo pacifica giurisprudenza della Corte, che va ribadita, in tema di compravendita, il termine di decadenza dalla garanzia per vizi occulti decorre solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva dell’esistenza e della consistenza del vizio lamentato, non essendo sufficiente il semplice sospetto (cfr., ad es., Cass. n. 8183/2002, relativa ad una fattispecie simile in tema di acquisto di piantine di vite rivelatesi inidonee all’uso dopo alcuni mesi dall’acquisto; v., anche, Cass. n. 5732/2011).
E’ importante puntualizzare per il Collegio come sia anche stato condivisibilmente affermato il principio secondo cui il termine di decadenza per la denunzia dei vizi della cosa venduta ai sensi dell’art. 1495 c.c., pur dovendo essere riferito alla semplice manifestazione del vizio e non già alla relativa individuazione causale, decorre tuttavia solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la piena cognizione sul piano oggettivo dell’esistenza del vizio, con la conseguenza che ove la scoperta avvenga in via graduale ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sull’entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al momento in cui sia effettivamente e compiutamente emersa la relativa scoperta (v. Cass.n. 1458/1994 e Cass. n. 12011/1997).
Ancora, per il Collegio nel contratto di compravendita, costituiscono – ai sensi dell’art. 2943, comma 4, c.c. – idonei atti interruttivi della prescrizione dell’azione di garanzia per vizi, prevista dall’art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all’art. 1219, comma 1, c.c., con la produzione dell’effetto generale contemplato dall’art. 2945, comma 1, c.c.
La Seconda sezione – nell’affrontare, con la ordinanza interlocutoria di rimessione, la questione implicata dal secondo motivo di ricorso, con il quale si contestava che le comunicazioni con cui l’acquirente aveva manifestato alla venditrice l’esistenza di vizi dei beni venduti, prospettando, mediante tali atti, il ricorso alla tutela giudiziaria, poi effettivamente esperito, costituissero atti idonei ad interrompere, la prescrizione della garanzia del venditore, di cui all’art. 1490 c.c. e delle azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo che da essa derivano ex art. 1492 c.c. – ha osservato come su tale questione si siano essenzialmente formati due orientamenti contrastanti nella giurisprudenza della Corte. Secondo un primo indirizzo, la prescrizione della garanzia, stabilita dall’art. 1495, comma 3, c.c. in un anno, è interrotta dalla manifestazione stragiudiziale al venditore della volontà – del compratore – di volerla esercitare, anche se il medesimo riservi ad un momento successivo la scelta tra la tutela alternativa di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto.
Ai fini interruttivi, peraltro, non sarebbe necessaria la precisazione del tipo di tutela giudiziaria che il compratore intende richiedere né risulterebbe rilevante che egli riservi ad un momento successivo tale scelta. In tal senso si è espressa Cass., sez. 2, 10 settembre 1999, n. 9630 e, ancor prima, si era pronunciata nello stesso senso Cass., sez. 2, 6 giugno 1977, n. 2322. Tale orientamento è stato poi ripreso da Cass., Sez. 2, 8 luglio 2010, n. 18035 e da Cass., Sez. 2, 10 novembre 2015, n. 22903. L’interpretazione accolta da tali pronunce – osserva la Seconda Sezione – postula la distinzione tra la garanzia, intesa quale situazione giuridica autonoma suscettibile di distinti atti interruttivi della prescrizione, e le azioni edilizie di cui all’art. 1492 c.c. che da essa derivano. Tale distinzione sarebbe alla base della sentenza delle Sezioni unite n. 13294 del 2005, la quale ha affermato che l’impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa venduta non costituisce una nuova obbligazione estintivo- satisfattiva dell’originaria obbligazione di garanzia, ma consente al compratore di essere svincolato dai termini di decadenza e dalle condizioni di cui all’art.1495 c.c. ai fini dell’esercizio delle azioni di cui al citato art. 1492 c.c., costituendo riconoscimento del debito interruttivo della prescrizione.
Secondo un diverso orientamento, invece, la facoltà riconosciuta al compratore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo ha natura di diritto potestativo a fronte del quale la posizione del venditore è di mera soggezione. Conseguentemente, si è ritenuto che il termine di prescrizione per l’esercizio di tali azioni possa essere interrotto unicamente attraverso la domanda giudiziale e non anche mediante atti di costituzione in mora ex art. 1219, comma 1, c.c. i quali si attagliano ai diritti di credito ma non ai diritti potestativi. Quale espressione di questo orientamento sono richiamate le pronunce della Seconda sezione n. 18477 del 2003, n. 20332 del 2007 e n. 20705 del 2017. Tale ricostruzione – osserva l’ordinanza interlocutoria – non distingue tra prescrizione della garanzia e prescrizione delle azioni edilizie e condurrebbe a ritenere inidoneo ai fini interruttivi l’impegno del venditore di eliminare i vizi, «e ciò senza indagare se detto atto, in quanto idoneo a interrompere la prescrizione della garanzia impedisca pure la prescrizione delle azioni edilizie “a valle”». Si pone pertanto, ad avviso della Seconda Sezione, la questione di stabilire quali atti siano idonei ad interrompere il breve termine prescrizionale previsto dall’art. 1495 c.c. e cioè se, a tal fine, valga solo l’azione giudiziale ovvero siano idonei anche altri atti e quale debba essere il loro contenuto, nonché il rapporto tra la garanzia, intesa quale autonoma posizione sostanziale e processuale, e quali i diritti e le azioni che da essa hanno origine. Tale questione postula a monte la risoluzione di altra controversa problematica relativa alla natura giuridica della garanzia per vizi e del rapporto tra le categorie generali della “garanzia” da una parte e delle situazioni giuridiche passive dall’altra.
Da quanto riportato si evince, dunque, che la questione centrale – qualificata come di massima di particolare importanza – prospettata dalla Seconda Sezione, previa qualificazione dell’istituto della garanzia per vizi nella compravendita (con esclusione, stante la loro peculiare disciplina, delle fattispecie di compravendita disciplinate dal c.d. codice del consumo), concerne l’individuazione degli atti idonei a interrompere la prescrizione di cui all’art. 1495, comma 3, c.c., ai sensi degli artt. 2943 e segg. c.c., ed in particolare se possa riconoscersi tale effetto anche ad atti diversi dalla proposizione dell’azione giudiziale, e se, ed in quale misura, detti atti interruttivi inibiscano il decorso della prescrizione in relazione alle azioni edilizie di cui all’art. 1492, comma 1, c.c. .
Si rileva, in primo luogo, l’opportunità di esporre una sintesi di massima sugli aspetti generali maggiormente precipui della regolamentazione che presiede alla tutela della garanzia per i vizi dell’oggetto della compravendita. Una parte rilevante delle disposizioni codicistiche in tema di vendita concerne le garanzie cui il venditore è tenuto nei confronti del compratore e, in particolare, la garanzia per evizione, la garanzia per vizi (artt. 1490-1496 c.c.), la mancanza di qualità (art. 1497 c.c.) e la garanzia di buon funzionamento (art. 1512 c.c.). La riconducibilità di tutte tali ipotesi ad un medesimo fondamento è tuttora discussa in dottrina e giurisprudenza, così come non è del tutto pacifica la natura giuridica delle stesse, anche in ragione della disciplina articolata e non univoca predisposta dal legislatore. Le questioni prospettate attengono alla garanzia per il c.d. vizio redibitorio, cioè il vizio che rende la cosa venduta inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuisce in modo apprezzabile il valore (art. 1490 c.c.). Tale garanzia è espressamente contemplata dall’art. 1476, n. 3, c.c. che la include tra le obbligazioni principali del venditore. Gli effetti della garanzia sono delineati dal comma 1 dell’art. 1492 c.c. il quale prevede che, nei casi di cui all’art. 1490 c.c., il compratore può domandare a propria scelta la risoluzione del contratto (azione redibitoria), ovvero la riduzione del prezzo (azione estimatoria, o quanti minoris), salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. La scelta tra le due forme di tutela può avvenire fino al momento della proposizione della domanda giudiziale e da tale momento è irrevocabile. Alla risoluzione del contratto conseguono effetti restitutori in quanto il venditore è tenuto a restituire il prezzo e a rimborsare al compratore le spese e i pagamenti sostenuti per la vendita, mentre il compratore deve restituire la cosa, a meno che questa non sia perita a causa dei vizi (art. 1493 c.c.). L’art. 1494 c.c. riconosce, inoltre, al compratore il diritto al risarcimento del danno, a meno che il venditore non dimostri di aver ignorato senza propria colpa l’esistenza dei vizi. Il venditore è, altresì, tenuto a risarcire i danni derivanti dai vizi (art. 1494, comma 2 c.c.). Si ritiene che, mentre la responsabilità risarcitoria del venditore presuppone che egli versi in una situazione di colpa, i rimedi di cui all’art. 1492 c.c., invece, prescindono da questa e sono azionabili per il fatto oggettivo della esistenza dei vizi. La garanzia resta esclusa se, al momento della conclusione del contratto, il compratore era a conoscenza dei vizi o questi erano facilmente riconoscibili secondo l’ordinaria diligenza, a meno che il venditore abbia dichiarato che la cosa ne era esente (art. 1491 c.c.). La garanzia può anche essere esclusa o limitata pattiziamente ma tale patto non vale se il venditore abbia in malafede taciuto al compratore i vizi da cui era affetta la cosa (art. 1490, comma 2 c.c.). L’esercizio delle azioni previste dall’art. 1492 c.c. (cc.dd. azioni edilizie) è circoscritto temporalmente attraverso la previsione di un duplice termine, di decadenza e di prescrizione. Infatti, ai sensi dell’art. 1495, comma 1, c.c., il compratore decade dal diritto di garanzia se non denuncia i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta, ma le parti possono stabilire convenzionalmente un termine diverso. Nel caso in cui il venditore abbia riconosciuto l’esistenza del vizio o lo abbia occultato, la denuncia non è necessaria. L’art. 1495, comma 3, c.c. — che rappresenta la norma intorno alla quale ruota la questione rimessa a queste Sezioni unite – prevede, inoltre, un breve termine di prescrizione disponendo che l’azione si prescrive in ogni caso in 1 anno dalla consegna. Tuttavia, convenuto in giudizio per l’esecuzione del contratto, il compratore può sempre far valere la garanzia, purché il vizio sia stato denunciato entro il termine di decadenza e prima che sia decorso 1 anno dalla consegna. Agli stessi termini si ritiene soggetta anche l’azione di risarcimento del danno. L’art. 1497 c.c. contempla, altresì, in favore del compratore un rimedio per la mancanza di qualità promesse o essenziali per l’uso cui è destinata, soggetto anch’esso ai termini di decadenza e prescrizione di cui all’art. 1495. Proprio al fine di svincolare l’acquirente dai limiti imposti dall’art. 1495 c.c. ed assicurargli una tutela più ampia, la giurisprudenza ha elaborato la figura dell’aliud pro alio datum, la quale ricorre quando vi è diversità qualitativa tra la cosa consegnata e quella pattuita, ovvero anche in ipotesi di vizi di particolare gravità. In tal caso la tutela del compratore è assicurata attraverso i rimedi ordinari dell’azione di risoluzione e di esatto adempimento secondo il termine di prescrizione ordinario, oltre che con il risarcimento del danno. Parte della dottrina (seguita pure da un circoscritto filone giurisprudenziale), sempre al fine di garantire una tutela più ampia al compratore e ispirandosi alla normativa comunitaria relativa ai beni di consumo, si era anche orientata a riconoscere al compratore l’azione di esatto adempimento, cioè la possibilità di agire in giudizio per ottenere la riparazione o sostituzione del bene. Tale possibilità è stata, tuttavia, espressamente esclusa dalle Sezioni unite con la sentenza n. 19702 del 2012, secondo cui il compratore, per l’appunto, non dispone – neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica – di un’azione “di esatto adempimento” per ottenere dal venditore l’eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene.
Così sinteticamente delineata la disciplina positiva codicistica, si rileva come la configurazione dogmatica della garanzia per vizi non sia del tutto pacifica. Essa ha costituito oggetto di ampie e diversificate tesi, che hanno spaziato tra quella che individua nella garanzia una vera e propria assicurazione contrattuale a quella che la colloca nell’ambito della teoria dell’errore, quale vizio del consenso, ovvero da quella che ha posto riferimento all’istituto della presupposizione a quella che ha ravvisato un caso particolare di applicazione delle regole sulla responsabilità precontrattuale. All’interno della dottrina – considerata prevalente – che riconduce le garanzie edilizie ad una ipotesi di responsabilità per inadempimento (intesa nel senso di inesecuzione od inesatta esecuzione del contratto), risultano, poi, diversificate le opinioni in ordine all’identificazione dell’obbligazione da ritenere inadempiuta nel caso di vizi della cosa oggetto di compravendita. E’ indubbio che il fondamento della responsabilità per vizi e difetti rinviene la propria causa nel fatto che il bene consegnato non corrisponde all’oggetto dovuto alla luce di quanto previsto nell’atto di autonomia privata. Orbene, il collegio, con riferimento a questa problematica (presupposta nella individuazione della questione di massima di particolare importanza sollevata dalla Seconda sezione) che concerne specificamente l’individuazione della natura giuridica di tale forma di responsabilità, si richiama al risolutivo inquadramento operato dalle stesse Sezioni unite con la recente sentenza n. 11748 del 3 maggio 2019. Con essa – pur dovendosi risolvere la diversa questione sul riparto dell’onere probatorio tra venditore e compratore con riferimento all’esercizio di siffatta tutela della garanzia per vizi – è stata ricondotta ad un tipo di responsabilità (contrattuale ma non corrispondente del tutto a quella ordinaria, atteggiandosi come peculiare in virtù della specifica disciplina della vendita) per inadempimento che deriva dall’inesatta esecuzione del contratto sul piano dell’efficacia traslativa per effetto delle anomalie che inficiano il bene oggetto dell’alienazione, ovvero che lo rendano inidoneo all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, e sempre che i vizi – ovviamente – siano preesistenti alla conclusione del contratto, tenuto anche conto che – ai sensi dell’art. 1477, comma 1, c.c. – il bene deve essere consegnato dal venditore nello stato in cui si trovava al momento della vendita. E’, in altri termini, solo l’inesistenza di tali tipi di vizi che consente di realizzare oltre che il sinallagma genetico anche quello funzionale, puntualizzandosi, però, che la responsabilità relativa alla loro garanzia prescinde da ogni giudizio di colpevolezza basandosi sul dato oggettivo dell’esistenza dei vizi stessi e traducendosi nella conseguente assunzione del rischio – di origine contrattuale – da parte del venditore di esporsi all’esercizio dei due rimedi edilizi di cui può avvalersi, a propria scelta, il compratore, al quale è riconosciuto anche il diritto al risarcimento dei danni, salvo che il venditore provi di aver senza colpa ignorato i vizi.
Esposte le varie posizioni sul fondamento e sulla natura giuridica della garanzia per vizi, bisogna, tuttavia, osservare che la dottrina si è pure occupata – anche se in modo non del tutto approfondito – della collegata problematica relativa agli strumenti rimediali in favore dell’acquirente discendenti dalle richiamate ricostruzioni. La ratio della previsione di un ristretto termine di prescrizione viene prevalentemente rinvenuta nella esigenza di evitare che il decorso del tempo renda eccessivamente gravoso l’accertamento delle cause dei difetti e di salvaguardare la certezza delle sorti del contratto. Tuttavia, proprio la brevità di un tale termine ha posto la questione della individuazione degli atti idonei ad interrompere la prescrizione. In dottrina il dibattito è stato particolarmente intenso allorquando si è messa in evidenza la circostanza – a cui attiene propriamente la questione di massima di particolare importanza da risolvere in questa sede – che l’art. 1495, comma 3, c.c. riferisce i termini di prescrizione all’azione, a differenza dell’art. 2934 c.c. il quale rivolge la prescrizione ai diritti. Da ciò si è ritenuto, per un verso, che ad evitare la perdita della garanzia varrebbe soltanto l’esercizio dei mezzi processuali e, per altro verso ed in senso contrario, altri orientamenti hanno obiettato che il dato letterale del riferimento della prescrizione all’azione anziché al diritto sarebbe irrilevante posto che la terminologia legislativa non può ritenersi decisiva in quanto anche altre volte esprime la pretesa sostanzialmente in termine di azione (nell’art. 2947, comma 3, c.c. si parla con formule equivalenti di prescrizione dell’azione e di prescrizione del danno). Ma, soprattutto, si rileva come i rimedi edilizi siano rimedi sostanziali in quanto attraverso di essi il compratore fa valere un diritto contrattuale. Conseguentemente, benché i rimedi previsti a vantaggio dell’acquirente siano indicati come azioni (di risoluzione ed estimatoria), in realtà essi non coinvolgerebbero tematiche processuali ma avrebbero contenuto sostanziale di tutela del diritto. Per tale ragione sarebbero idonei a interrompere la prescrizione non solo il riconoscimento, da parte del venditore, (non del vizio ma) del diritto del compratore alla garanzia, ma anche, in virtù dell’art. 2943 c.c., gli atti di costituzione in mora del venditore e pure l’impegno assunto da quest’ultimo di eliminare i vizi. Merita menzione anche un ulteriore peculiare indirizzo il quale ritiene, invece, che il compratore possa valersi soltanto dell’interruzione della prescrizione derivante o dalla proposizione della domanda giudiziale, cui si equipara l’esperimento del procedimento preventivo ex art. 1513 c.c., o dal riconoscimento da parte del venditore del suo diritto alla garanzia.
Come rilevato nell’ordinanza di rimessione della Seconda sezione, si rinvengono nella giurisprudenza della Corte sostanzialmente due distinti orientamenti circa la qualificazione giuridica della garanzia per vizi e, conseguentemente, sulla individuazione degli atti interruttivi della prescrizione. Un primo orientamento configura la garanzia per vizi come un autonomo diritto in forza del quale il compratore può, a propria scelta, domandare la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo. Ne consegue che quando il compratore comunica al venditore che intende far valere il diritto alla garanzia, egli interrompe la prescrizione inerente a tale diritto. A tal fine si ritiene che non sia necessaria la precisazione del tipo di tutela che andrà a chiedere in via giudiziaria ed è altresì irrilevante, ai fini della idoneità della interruzione, la riserva di scelta del tipo di tutela, in quanto – si afferma – non rappresenterebbe comunque riserva di far valere un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione (così Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9630 del 1999). Più di recente, Cass., Sez. 2, n. 22903 del 2015, richiamando il precedente del 1999, ha affermato che costituisce atto interruttivo della prescrizione della garanzia per vizi della cosa la manifestazione al venditore della volontà – del compratore – di volerla esercitare, benché lo stesso differisca ad un momento successivo l’opzione per il tipo di strumento rimediale da esercitare. A tal fine, la Corte ha valutato come idonea l’espressione “con più ampia riserva di azione”, contenuta nel telegramma inviato al venditore, con cui il compratore contestava i vizi dell’immobile acquistato, ritenendo sufficiente la comunicazione della volontà di avvalersi della garanzia suddetta e dovendosi escludere che la riserva di scelta del tipo di tutela sia diretta a far valere un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione (nella pronuncia qui richiamata del 2015, si è anche aggiunto che, ai fini di una valida costituzione in mora e del verificarsi dell’effetto interruttivo della prescrizione, non è necessario che il compratore, insieme con la contestazione dei vizi, eserciti la scelta dell’azione, la quale è procrastinabile fino alla proposizione della domanda giudiziale). Un secondo orientamento (cfr. Cass., Sez. 2, nn. 18477/2003, 20332/2007, 8417/2016 e n. 20705/2017) ha affermato che, siccome l’esercizio delle azioni edilizie in favore del compratore di una cosa affetta da vizi implica la configurazione di una posizione del venditore di mera soggezione, dovrebbe conseguire che la prescrizione dell’azione, fissata in un anno dall’art. 1495, comma 3, c.c., può essere utilmente interrotta soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale e non anche mediante atti di costituzione in mora. Ciò sul presupposto che gli atti al quale l’art. 2943, comma 4, c.c. connette l’effetto di interrompere la prescrizione sono infatti quelli che valgono a costituire in mora “il debitore” e devono consistere, per il disposto dell’art. 1219 c.c., comma 1, c.c. in una “intimazione o richiesta” di adempimento di un’obbligazione (previsioni che si attagliano ai diritti di credito e non a quelli potestativi). E’, peraltro, opportuno mettere in risalto che un tentativo di ricostruzione unitaria dei due orientamenti manifestatisi nella giurisprudenza di legittimità è stato operato da una sentenza della Seconda sezione, la n. 8418 del 2016 (non mass.), la quale ha sostenuto che essi avrebbero riguardo a situazioni distinte. Si è in essa, infatti, sostenuto che la richiamata sentenza n. 9630 del 1999, nel considerare atto interruttivo della prescrizione dell’azione di garanzia la manifestazione della volontà del compratore di volerla esercitare, riguarderebbe l’ipotesi in cui il compratore abbia espresso la volontà di esercitare la garanzia e si sia riservato di effettuare successivamente la scelta tra i rimedi consentiti dall’art. 1492 c.c. . Diversa sarebbe, invece, l’ipotesi in cui il compratore dichiari di avvalersi direttamente dell’azione di risoluzione del contratto. In tal caso differente sarebbe la modalità di interruzione della prescrizione dal momento che la facoltà riconosciuta al compratore di chiedere la risoluzione gli conferirebbe un diritto potestativo a fronte del quale la posizione del venditore sarebbe di mera soggezione, non essendo egli tenuto a compiere alcunché ma solo a subire gli effetti della sentenza costitutiva. In tale ipotesi, per l’interruzione della prescrizione occorrerebbe dar luogo solo all’esperimento dell’azione giudiziale, non assumendo efficacia a tale scopo l’intimazione riconducibile a meri atti di costituzione in mora.
Ritiene il collegio che la questione individuata nell’ordinanza interlocutoria della Seconda sezione n. 23857/2018 debba essere risolta accedendo all’impostazione e al relativo percorso ermeneutico adottati, in prima battuta, con la sentenza n. 9630/1999 e poi ripresi dalla sentenza n. 22903/2015, con cui si è statuito il principio alla stregua del quale la prescrizione della garanzia per vizi è interrotta dalla comunicazione al venditore della volontà del compratore di esercitarla benché questi riservi ad un momento successivo la scelta del tipo di tutela, dovendosi escludere che la riserva concerna un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione. Come prevede l’art. 1495, comma 3, c.c. l’azione di garanzia per i vizi e la mancanza di qualità dovute si prescrive in un anno dalla consegna. Questo termine breve (di natura eccezionale – è, perciò, non estensibile al di fuori dei casi previsti – così fissato dal legislatore per garantire la stabilizzazione, in tempi circoscritti, dei rapporti economici riconducibili alle contrattazioni in tema di compravendita), che si collega all’onere della preventiva denuncia il cui assolvimento è prescritto dal comma 1 dell’art. 1495 c.c., concerne la tutela contrattuale del compratore per far valere l’inesatto adempimento per difettosità del bene oggetto della vendita, a prescindere dal rimedio. Il presupposto di fondo, quindi, consiste nella configurazione di tale responsabilità dell’acquirente come obbligazione derivante “ex contractu” nei termini precedentemente precisati (v. paragr. 2.4). E’ il momento della consegna che individua il “dies a quo” della decorrenza di tale termine di prescrizione. E’, altresì, pacifico che, ove la consegna non sia accettata, il termine prescrizionale abbreviato in questione non decorre, poiché il rifiuto dell’acquirente non consente di considerare eseguita la prestazione. Ai sensi dello stesso art. 1495, comma 3, c.c., il compratore può avvalersi della garanzia in esame anche oltre il suddetto termine prescrizionale allorquando sia il venditore ad agire per l’esecuzione del contratto. Al di là della descritta peculiarità della disciplina della prescrizione in questione, le Sezioni unite ritengono che – per quanto non espressamente previsto – trovi applicazione la disciplina generale in tema di prescrizione, con la conseguente operatività, tra l’altro, delle ordinarie cause di interruzione e di sospensione (con particolare riferimento – per quel che rileva in questa sede – all’art. 2943 c.c. e, specificamente, al suo comma 4). Il diverso indirizzo che ritiene necessario ai fini dell’interruzione del termine prescrizionale annuale l’esercizio dell’azione (a cui pone formale riferimento l’incipit del comma 3 dell’art. 1495 c.c., che non discorre del diritto di far valere l’azione entro detto termine ma sancisce testualmente che “l’azione di prescrive…”) in via giudiziale non può essere condiviso. Deve, infatti, osservarsi che, in primo luogo, l’attuale formulazione diverge da quella adottata nel codice civile del 1865 che, invece, lasciava propendere per la necessità dell’esperimento dell’azione giudiziale (l’art. 1505, comma 1, di detto codice prevedeva testualmente che “l’azione redibitoria deve proporsi entro un anno dalla consegna”). La formula ora prevista nel comma 3 dell’art. 1495 del vigente codice civile si richiama esplicitamente alla prescrizione e, pur discorrendosi di prescrizione dell’azione, va rilevato che il ricorso a tale terminologia non può ritenersi decisivo nel senso che debba ritenersi riferibile esclusivamente all’esercizio dell’azione giudiziale. Su un piano sistematico va, infatti, osservato che, anche in altre disposizioni normative, il legislatore ha posto riferimento – ma in senso atecnico dal punto di vista giuridico – alla pretesa sostanziale in termine di azione (dove si avverte il senso concreto della tutela della posizione soggettiva nell’ordinamento: cfr., ad es., l’art. 2947, comma 3, c.c. in cui si parla, indistintamente e con formule equivalenti, di prescrizione dell’azione e di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, e l’art. 132, comma 4, del c.d. codice del consumo – d.lgs. n. 206/2005 – laddove, per un verso, si parla di azione e, per altro verso, si parla di “far valere i diritti” correlati ai vizi della cosa venduta). Diversamente, sempre con riferimento alla vendita, l’art. 1497 c.c. – riferito alla risolubilità del contratto per “mancanza di qualità” – sancisce, al comma 2, che il diritto di ottenere la risoluzione (e non, quindi, l’esercizio della relativa azione) è soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite proprio dal precedente art. 1495. Appare, quindi, incontestabile che, con riguardo al potere di agire, viene in rilievo la pretesa sostanziale del compratore, ovvero la pretesa contrattuale all’esatta esecuzione del contratto, con la conseguenza che, alla tutela di questa pretesa ad essere garantito se insoddisfatta, soccorrono i rimedi sostanziali che non si sostituiscono al diritto primario ma ne perseguono una tutela diretta o indiretta. In sostanza, nella prospettiva generale della questione in esame, deve sottolinearsi che, in effetti, non si verte propriamente nell’ipotesi di esercitare un singolo specifico potere ma di far valere il “diritto alla garanzia” derivante dal contratto, rispetto al quale, perciò, non si frappongono ostacoli decisivi che impediscono l’applicabilità della disciplina generale della prescrizione (e che, invece, in un’ottica sistematica, appare con esso compatibile), ivi compresa quella in materia di interruzione e sospensione. Quando si avvale della “garanzia” il compratore fa valere l’inadempimento di una precisa obbligazione del venditore (contemplata dall’art. 1476 n. 3) c.c.) e, conseguentemente, sul piano generale, deve ammettersi che lo possa fare attraverso una manifestazione di volontà extraprocessuale e ciò si inferisce anche da quanto stabilisce l’art. 1492, comma 2, c.c., il quale, prevedendo che “la scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale”, significativamente la prefigura, riconnettendo, invero, alla domanda in sede processuale la sola impossibilità di rimeditare l’opzione tra risoluzione e riduzione del prezzo. Anche questo argomento di tipo logico-sistematico conforta, quindi, l’ammissibilità dell’interruzione della prescrizione con un atto stragiudiziale, fermo rimanendo che l’interruzione si limita a far perdere ogni efficacia al tempo già trascorso prima del compimento dell’atto, senza interferire con il modo di essere del diritto. La soluzione per la quale si propende si lascia preferire anche per una ragione di ordine generale che impatta sul piano socio-economico posto che, per effetto dell’operatività dell’interruzione della prescrizione secondo la disciplina generale (e, quindi, anche mediante atti stragiudiziali), esiste una plausibile possibilità che il venditore intervenga eventualmente – a seguito della costituzione in mora – eliminando i vizi (possibile, se le parti convengano, prima e al di fuori del processo, configurandosi solo in questo senso la limitazione dei rimedi stabilita dagli artt. 1490 e segg.), così evitando che il compratore debba rivolgersi necessariamente al giudice esercitando la relativa azione in sede, per l’appunto, giudiziale. Questa possibilità è idonea ad perseguire – in termini certamente più ristretti rispetto a quelli fisiologici di un giudizio – un’efficace tutela delle ragioni dell’acquirente, senza tuttavia penalizzare eccessivamente il venditore, poiché dal momento dell’interruzione della prescrizione ricomincia a decorrere il termine originario: in tal modo è, altresì, assicurato alle parti un congruo spatium deliberandi e si evita la conseguenza di una inutile proliferazione di giudizi, così rimanendo realizzato un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi coinvolti. In definitiva, il collegio ritiene che non sussistano ragioni impeditive determinanti per negare al compratore di avvalersi della disciplina generale in tema di prescrizione – con correlata applicabilità anche dell’art. 2943, comma 4, c.c. – e, quindi, per imporgli di agire necessariamente in via giudiziale al fine di far valere la garanzia per vizi in tema di compravendita. Da ciò consegue che non solo le domande giudiziali ma anche gli atti di costituzione in mora (ai sensi dell’appena citato art. 2943, comma 4, c.c., che si concretano – in relazione al disposto di cui all’art. 1219, comma 1, c.c. – in qualsiasi dichiarazione formale che, in generale, esprima univocamente la pretesa del creditore all’adempimento) da parte del compratore costituiscono cause idonee di interruzione della prescrizione: l’effetto che ne deriva è che, una volta che si faccia ricorso a tali atti entro l’anno dalla consegna, inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione di un anno (ai sensi della norma generale di cui al primo comma dell’art. 2945 c.c.) e l’idoneità interruttiva di tali atti persegue, come già evidenziato, anche lo scopo – in presenza, peraltro, di un termine così breve – di favorire una risoluzione (stragiudiziale) preventiva della possibile controversia rispetto all’opzione, a tutela delle ragioni del compratore, per la scelta di vedersi riconosciuto il diritto alla garanzia (e di ottenere uno degli effetti giuridici favorevoli previsti dalla legge) solo mediante l’esercizio dell’azione in via giudiziale. In definitiva, quale principio di diritto risolutivo della prospettata questione di massima di particolare importanza, deve affermarsi che: nel contratto di compravendita, costituiscono – ai sensi dell’art. 2943, comma 4, c.c. – idonei atti interruttivi della prescrizione dell’azione di garanzia per vizi, prevista dall’art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all’art. 12191 comma 1, c.c., con la produzione dell’effetto generale contemplato dall’art. 2945, comma 1, c.c. .
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Il 29 novembre esce la sentenza della II sezione civile della Cassazione n.31314 in materia di contratto preliminare di compravendita e pericolo di evizione per il promissario acquirente.
Dispone l’art. 1481 c.c. – rammenta la Corte – che «il compratore può sospendere il pagamento del prezzo, quando ha ragione di temere che la cosa o una parte di essa possa essere rivendicata da terzi, salvo che il venditore presti idonea garanzia» (comma 1); «il pagamento non può essere sospeso se il pericolo era noto al compratore al tempo della vendita» (comma 2). Presidio del sinallagma funzionale della vendita, la disposizione si applica per analogia al preliminare di vendita, sicché il promissario acquirente può rifiutarsi di concludere il definitivo ove vi sia pericolo di evizione del bene a lui promesso (Cass. 26 gennaio 1985, n. 402; Cass. 18 novembre 2011, n. 24340; Cass. 21 maggio 2012, n. 8002). Il pericolo di evizione deve essere concreto ed attuale, non astratto o ipotetico come, di per sé, il pericolo di revocatoria derivante dal fallimento del dante causa del promittente venditore (Cass. 22 giugno 1994, n. 5979; Cass. 22 febbraio 2016, n. 3390) o il pericolo di riduzione scaturente dalla provenienza donativa del bene (Cass. 17 marzo 1994, n. 2541; Cass. 27 marzo 2019, n. 8571). L’irrilevanza dei pericoli solo teorici riflette il limite della buona fede, che il mezzo speciale di autotutela ex art. 1481 c.c. ripete dalla disciplina generale dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (Cass. 6 aprile 1987, n. 3323; Cass. 21 maggio 2012, n. 8002).
La Corte ha già precisato in passato che la trascrizione di una domanda giudiziale contro il promittente venditore diretta a conseguire il trasferimento del bene promesso in vendita determina in capo al promissario acquirente un pericolo concreto e attuale di evizione, sicché il rifiuto di quest’ultimo di addivenire al definitivo prima della cancellazione della trascrizione non è contrario a buona fede (Cass.18 novembre 2011, n. 24340). Si è anche segnalato che quella prevista dall’art. 1481 c.c. è una garanzia, la quale opera per il fatto obiettivo del serio pericolo di evizione, a prescindere dalla colpa del venditore (Cass. 21 maggio 2012, n. 8002). Seguendo il nesso logico-sistematico tra l’autotutela ex art. 1481 c.c. e l’autotutela ex art. 1460 c.c., la Corte rammenta quanto deciso circa la mancanza delle qualità promesse, che legittima il compratore a sollevare l’eccezione di inadempimento a prescindere dalla colpa del venditore, essendo obiettivamente meritevole di tutela l’interesse dell’acquirente a non eseguire la prestazione in difetto di controprestazione e a non trovarsi, così, in una situazione deteriore rispetto a controparte (Cass. 21 aprile 2015, n. 8102). Nell’insistere sulla necessità della colpa del venditore quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 1481 c.c., e nel paventare l’avversa configurazione di una «responsabilità oggettiva», l’odierna ricorrente – chiosa ancora la Corte – pare sovrapporre concettualmente la garanzia per evizione e la responsabilità per inadempimento del venditore, tanto da esigere anche per la prima l’estremo della colpevolezza, viceversa necessario unicamente per la seconda (sulla natura oggettiva delle garanzie ex empto, contrapposta alla natura soggettiva della responsabilità per inadempimento del venditore, Cass. 22 giugno 2006, n. 14431; Cass.17 settembre 2015, n. 18259).
La Corte afferma alfine l’importante principio di diritto onde nel preliminare di compravendita, in applicazione analogica dell’art.1481 c.c., il promissario acquirente può rifiutarsi di addivenire alla stipula del definitivo qualora sussista un pericolo concreto e attuale di evizione del bene promesso, anche se tale pericolo non sia stato determinato da colpa del promittente venditore.
2020
Il 20 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 1082 secondo cui Nel caso in cui il bene consegnato al consumatore presenti un difetto di conformità del quale il professionista debba rispondere, il consumatore può far valere nei confronti del professionista inadempiente i rimedi contemplati dall’art. 130 del codice del consumo: riparazione del bene, sostituzione dello stesso, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto.
Tra i diritti che competono al consumatore, “nel caso di difetto di conformità”, il comma 2 dell’art 130 cod. consumo non annovera il diritto al risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento. Ciò non significa peraltro che il consumatore che abbia ricevuto un bene non conforme al contratto non possa esercitare, nei confronti del professionista, delle pretese risarcitorie: il diritto al risarcimento del danno rientra senz’altro fra i “diritti” attribuiti al consumatore da “altre norme dell’ordinamento giuridico” italiano (art. 135 cod. consumo).
Costituisce consolidato orientamento della Corte, in materia di garanzia per vizi nella vendita, quello secondo cui il compratore può esercitare l’azione di danni da sola, cioè senza chiedere né la risoluzione, né una riduzione del prezzo.
Or bene analoga facoltà non può essere negata al consumatore, qualora ricorra una delle situazioni di cui al comma 7 dell’art. 130 cod. consumo, che contempla in primo luogo proprio la situazione che la riparazione o la sostituzione siano impossibili o eccessivamente onerose.
È osservazione comune come l’art. 135 faccia espressamente salvi i «diritti che sono attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico» allo scopo di assicurare all’acquirente di beni di consumo uno standard di tutela più elevato rispetto a quello realizzato dalla direttiva n. 44/1999.
Secondo la corrente opinione dottrinaria, condivisa dalla giurisprudenza, il risarcimento del danno ha lo scopo di porre il compratore in una posizione economicamente equivalente non a quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto o se l’avesse concluso a un prezzo inferiore, ma a quella in cui si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi. La circostanza che un determinato prodotto si riveli inidoneo ad essere adoperato secondo le modalità indicate dal venditore e possa esserlo solo con modalità più dispendiose (per tempi di lavorazione e quantità da impiegare) ben può esser valutata dal giudice di merito ai fini del risarcimento del danno, oltreché sotto l’aspetto della riduzione del prezzo poiché quest’ultima ristabilisce l’equilibrio patrimoniale solo con riguardo al valore della cosa venduta ma non elimina il danno determinato dal venditore, consistente nel costo delle maggiori quantità di prodotto utilizzato e di manodopera impiegata.
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Il 6 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 2756 onde l’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c., costituisce applicazione del principio di autoresponsabilità e consegue all’inosservanza dell’onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione.
Per costante giurisprudenza – sebbene il grado della diligenza esigibile non possa essere predicato in astratto, ma debba essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente – è tuttavia da escludere laddove l’onere di diligenza del compratore debba spingersi sino al punto di postulare il ricorso all’opera di esperti o l’effettuazione di indagini penetranti ad opera di tecnici del settore, al fine di individuare il vizio.
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L’11 febbraio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 3272 onde Gli artt. 1490 e 1492 del cod. civ., in tema di azione redibitoria, al pari dell’art. 1497 cod. civ., vanno interpretati con riferimento al principio generale sancito dall’art. 1455 cod. civ., da cui consegue che l’esercizio dell’azione è legittimato soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza, i quali non sono distinti in base a ragioni strutturali, ma solo in funzione della loro capacità di rendere la cosa inidonea all’ uso cui era destinata o dì diminuirne in modo apprezzabile il valore, secondo un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito.
Peraltro, la declaratoria di risoluzione del contratto, pur comportando, per il suo effetto retroattivo espressamente sancito dall’art. 1458 c.c., l’obbligo di ciascuno dei contraenti di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice a emettere i relativi provvedimenti restitutori, in assenza di domanda della parte interessata.
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Il 16 marzo esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 10093 che richiama l’orientamento per cui si ha il reato di truffa contrattuale quando l’inganno sia stato determinante per la conclusione del contratto e, invece, la frode in commercio quando si consegna una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita ma con un contratto liberamente intervenuto, senza alcun raggiro o artificio: La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l’una si concretizza quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l’altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici.
Viene peraltro richiamato altresì altro precedente conforme secondo cui il delitto di truffa si distingue da quello di frode in commercio per l’esistenza del raggiro o dell’artificio, che costituisce un plus rispetto alla frode in commercio e può realizzarsi anche nella fase di esecuzione del contratto. Pertanto, risponde del delitto di truffa il venditore che, in sede di esecuzione del contratto, avvalendosi di artifici e raggiri, induca l’altra parte ad accettare condizioni diverse da quelle pattuite.
Viene quindi enunciato il seguente principio di diritto “La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l’una si concretizza quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l’altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici; la truffa contrattuale ha, quindi, un plus costituito dall’artificio o dal raggiro non presente nella frode in commercio”.
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Il 13 maggio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 8881 onde, in caso di vendita all’asta di un bene oggetto di pegno non si applica la normativa prevista per la vendita forzata e, in particolare, il disposto di cui all’art. 2922 c.c. che nega alla parte acquirente di far valer i vizi della cosa venduta, solo in quanto le cose ricevute in pegno non sono negoziabili liberamente dal creditore garantito, comunque tenuto al rispetto delle leggi sociali inerenti alle forme particolari di costituzione di pegno e agli istituti autorizzati a fare prestiti sopra pegni ex art. 2785 c.c.; deve, pertanto, considerarsi lecita, e meritevole di tutela, ex art. 1322 cod. civ., la previsione regolamentare e convenzionale di escludere, anche in via implicita, il diritto del partecipante all’asta di far valere i vizi redibitori e la mancanza di qualità della cosa venduta ex artt. 1490 e 1497 cod. civ., ricavabile in via implicita anche tramite il regolamento che la disciplina, fatta salva l’eccezione di vendita di aliud pro alio.
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Il 27 maggio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 9953 che conferma l’orientamento secondo il quale, in tema di contratto preliminare, la consegna dell’immobile, effettuata prima della stipula del definitivo, non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre vizi noti, né di quello di prescrizione, presupponendo l’onere della tempestiva denuncia l’avvenuto trasferimento del diritto, sicché il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene, risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l’adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell’art. 2932 c.c., e contemporaneamente agire con l’azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione.
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Il 3 giugno esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 10456, alla cui stregua l’ipotesi di vendita aliud pro alio ricorre quando il bene consegnato è completamente diverso da quello venduto, perché appartenente ad un genere differente oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti. Con riferimento al codice del consumo, laddove sia riscontrabile un difetto di conformità ai sensi dell’art. 130 del predetto codice, da ciò deriva il diritto del consumatore a chiedere, senza spese, il ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. Qualora, però, il difetto di conformità sia di lieve entità e non sia possibile, o sia eccessivamente oneroso, esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, l’art. 130, ultimo comma, del Codice del Consumo, prevede che non sia possibile chiedere la risoluzione del contratto.
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Il 30 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 13148 onde, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del codice del consumo, (D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) potendosi applicare la disciplina del codice civile in materia di compravendita solo per quanto non previsto dalla normativa speciale, attesa la chiara preferenza del legislatore per la normativa speciale e il conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica. Dal combinato disposto degli artt.129 e ss. del codice del consumo si desume una responsabilità del venditore nei riguardi del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene allorché tale difetto si palesi entro il termine di due anni dalla predetta consegna. Il difetto di conformità consente al consumatore di esperire i vari rimedi contemplati all’art.130, i quali sono graduati, per volontà dello stesso legislatore, secondo un ben preciso ordine: costui potrà in primo luogo proporre al proprio dante causa la riparazione ovvero la sostituzione del bene e, solo in secondo luogo, nonché alle condizioni contemplate dal comma 7, potrà richiedere una congrua riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto. Resta fermo che, per poter usufruire dei diritti citati, il consumatore ha l’onere di denunciare al venditore il difetto di conformità nel termine di due mesi decorrente dalla data della scoperta di quest’ultimo. Il Codice del Consumo prevede una presunzione a favore del consumatore, inserita nell’art.132 terzo comma, a norma del quale si presume che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data, salvo che l’ipotesi in questione sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità. Si tratta, secondo la Suprema Corte, di presunzione iuris tantum, superabile attraverso una prova contraria, finalizzata ad agevolare la posizione del consumatore: ne deriva che, ove il difetto si manifesti entro tale termine, il consumatore gode di un’agevolazione probatoria, dovendo semplicemente allegare la sussistenza del vizio e gravando conseguentemente sulla controparte l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita. Superato il suddetto termine, trova nuovamente applicazione la disciplina generale posta in materia di onere della prova posta dall’art. 2697 c.c.: ciò implica che il consumatore che agisce in giudizio sia tenuto a fornire la prova che il difetto fosse presente ab origine nel bene, poiché il vizio ben potrebbe qualificarsi come sopravvenuto e dipendere conseguentemente da cause del tutto indipendenti dalla non conformità del prodotto. Corollario di questo principio è che il consumatore deve provare l’inesatto adempimento mentre è onere del venditore provare, anche attraverso presunzioni, di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto, ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene; solo ove detta prova sia stata fornita, spetta al compratore dimostrare l’esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa ascrivibile al venditore.
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Il 28 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 16077 alla cui stregua, l’azione redibitoria prevista dall’art. 1492 c.c. in tema di vendita, esercitabile nei casi indicati dal precedente art. 1490 c.c. (ovvero in presenza di vizi che rendano la cosa venduta inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore), è riconducibile allo schema generale della risoluzione contrattuale con la conseguente produzione degli effetti restitutori ex tunc, così come contemplati dall’art. 1493 c.c.. Secondo la Suprema Corte, questa impostazione implica che – per effetto dell’operatività del nesso sinallagmatico del contratto di vendita – anche la parte adempiente che, pur corrispondendo il prezzo convenuto, abbia poi scoperto la presenza di vizi afferenti il bene acquistato ed optato per l’esercizio dell’azione redibitoria (anziché per la c.d. quanti minoris), ottenendo la restituzione dell’intero prezzo pagato, è tenuta all’obbligo di riconsegna della cosa, in modo tale, tuttavia, da assicurare all’altra parte (la venditrice) il recupero di una condizione economica che risulti idonea a garantire, in termini di effettività e di reciprocità, la preservazione dell’equilibrio originario delle prestazioni caratterizzate da un nesso di corrispettività, al fine di evitare un trattamento discriminatorio, sul piano oggettivo, fra le parti in causa. Nella pronuncia in parola viene, infine, affermato il principio onde, in virtù dell’operatività del nesso sinallagmatico che connota il contratto di vendita e in dipendenza degli effetti retroattivi riconducibili alla risoluzione contrattuale (ai sensi dell’art. 1458, comma 1, c. c., in correlazione con l’art. 1493 c.c.), nella determinazione del prezzo da restituire al compratore di un’autovettura che abbia agito vittoriosamente in redibitoria si deve tener conto dell’uso del bene fatto dal medesimo, dovendosi, sul piano oggettivo, garantire l’equilibrio anche tra le reciproche prestazioni restitutorie delle parti ed evitare un’illegittima locupletazione dell’acquirente, ove lo stesso abbia continuato ad utilizzare il bene (ancorché accertato come viziato ma non completamente inidoneo al suo uso), determinandone una sua progressiva e fisiologica perdita di valore.
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Il 13 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 17123 secondo la quale, nella vendita di immobili destinati ad abitazione, pur costituendo il certificato di abitabilità un requisito giuridico essenziale ai fini del legittimo godimento e della normale commerciabilità del bene, la mancata consegna di detto certificato costituisce un inadempimento del venditore che non incide necessariamente in modo dirimente sull’equilibrio delle reciproche prestazioni. Pertanto, il successivo rilascio del certificato di abitabilità esclude la possibilità stessa di configurare l’ipotesi di vendita di “aliud pro alio“.
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Il 18 settembre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 19553 onde, in tema di vendita, la garanzia per vizi della cosa ha la funzione di eliminare lo squilibrio delle prestazioni determinato dall’inadempimento del venditore. La colpa del venditore è requisito necessario per la richiesta di risarcimento per danno integrale da parte del compratore nell’ambito dell’inadempimento contrattuale, per il sol fatto di aver ricevuto un bene viziato e per le specifiche conseguenze derivanti dal vizio.
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Il 14 ottobre esce l’ordinanza della sezione VI-2 della Cassazione n. 22146 secondo la quale, nella disciplina consumeristica il legislatore, nell’ottica di dare risalto al principio di conservazione del contratto, ha optato per una gerarchia dei rimedi a tutela del consumatore, distinguendo rimedi primari e rimedi secondari, e imponendo al consumatore di attenersi a tale gerarchizzazione, ma lasciandolo libero di scegliere il rimedio per lui più conveniente, una volta rispettato l’ordine dei rimedi in via progressiva. Come emerge dal dato normativo e come pacificamente si afferma in dottrina, nel caso di non conformità del bene al contratto, il consumatore è tenuto a chiedere in un primo momento la sostituzione ovvero la riparazione del bene e solo qualora ciò non sia possibile, ovvero sia manifestamente oneroso, è legittimato ad avvalersi dei cd. rimedi secondari, che non sono altro che la riproposizione in materia consumeristica delle tradizionali azioni edilizie. È proprio la previsione della subordinazione di una classe di rimedi ad un’altra che impedisce di ritenere che essi siano alternativi, in quanto l’unico onere imposto al consumatore è che egli debba avvalersi prima dei rimedi primari e, solo una volta che questi si rivelino inidonei a risolvere il problema, è dato ricorrere ai cd. rimedi secondari. D’altra parte, che la scelta di un rimedio non comporti la preclusione per il consumatore ad avvalersi successivamente degli altri si ricava agevolmente dalla lettura della norma in esame, la quale stabilisce al comma 7 che “il consumatore può richiedere, a sua scelta, una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto ove ricorra una delle seguenti situazioni: a) la riparazione e la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose; b) il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione del bene entro il termine congruo di cui al comma sesto; c) la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore”, denotando in tal modo la progressività dei rimedi predisposti dal legislatore a tutela dell’acquirente. Secondo la Suprema Corte, il comma 5 dell’art. 1519 quater (oggi 130 cod. cons.) dispone che le riparazioni o le sostituzioni debbano essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non debbano arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale è avvenuto l’acquisto. Tutto ciò premesso, la Suprema Corte nella pronuncia in parola statuisce infine che, in tema di vendita di beni di consumo affetti da vizio di conformità, ove l’acquirente abbia inizialmente richiesto la riparazione del bene, non è preclusa la possibilità di agire per la risoluzione del contratto, ove sia scaduto il termine ritenuto congruo per la riparazione, senza che il venditore vi abbia tempestivamente provveduto, ovvero se la stessa abbia arrecato un notevole inconveniente.
2021
Il 26 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 10917 che conferma la propria consolidata giurisprudenza in virtù della quale il giudice può disporre la restituzione degli immobili quale conseguenza della dichiarazione di nullità e non della domanda di risoluzione, in conseguenza del rilievo di ufficio della nullità del contratto, dovendosi escludere che la correlazione operata dalla parte tra la suddetta domanda di ripetizione ed una specifica e differente causa di caducazione del contratto impedisca la condanna alla ripetizione dell’indebito. Secondo la Suprema Corte, non sussiste pertanto la violazione dell’art.112 c.p.c. qualora il giudice di merito non disponga la restituzione del prezzo in assenza di domanda, dal momento che l’effetto restitutorio non è implicito nella domanda di annullamento, né la domanda riduzione del prezzo, che peraltro non è conseguenza della domanda di risoluzione, va interpretata come domanda di restituzione, dovendo quindi essere formulata dalla parte l’espressa domanda di restituzione del bene o del prezzo.
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Il 16 giugno esce l’ordinanza della sezione VI-2 della Cassazione n. 17058 secondo la quale, in caso di vendita di un bene appartenente ad un edificio condominiale di costruzione molto risalente nel tempo, i difetti materiali conseguenti al concreto ed accertato stato di vetustà ovvero alla risalenza nel tempo delle tecniche costruttive utilizzate, non integrano un vizio rilevante ai fini previsti dall’art. 1490 c.c.. La garanzia in esame, infatti, è esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c., il vizio era facilmente riconoscibile, salvo che, in quest’ultimo caso, il venditore non abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi. Nella pronuncia in parola, inoltre, viene richiamato il principio in virtù del quale colui che acquista un immobile di non recente costruzione ha l’onere di verificare con cura le condizioni di manutenzione, facendo uno sforzo di diligenza, onde riscontrarne, se non i vizi che si sono in seguito manifestati, quanto meno le cause della loro possibile verificazione, le quali, pertanto, sebbene in fatto ignorate, erano dall’acquirente, con un minimo sforzo di diligenza (e, quindi, “facilmente”), conoscibili. L’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c., consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione, sebbene il grado della diligenza esigibile non possa essere predicato in astratto, ma debba essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente. L’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c. (che costituisce applicazione del principio di autoresponsabilità, e consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione), non consenta di predicare in astratto il grado della diligenza esigibile, dovendo essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente, essendo la garanzia in esame esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c. il vizio era facilmente riconoscibile salvo che il venditore abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi.
Questioni intriganti
In che senso si parla di “garanzie” del venditore rispetto al compratore?
- se si escludono i casi particolari di vendita “obbligatoria” (vendita di cosa generica; vendita di cosa altrui; vendita di cosa futura e così via), dalla quale – sul modello del diritto romano classico – nasce l’obbligo per il venditore di far acquistare al compratore la proprietà della res oggetto di compravendita (e che potrebbe compendiare, almeno sul crinale giuridico “tradizionale”, il prototipo più autentico di “compravendita”), normalmente la proprietà della cosa ridetta passa in modo automatico dal venditore al compratore in virtù del c.d. consenso traslativo o, detto altrimenti, degli effetti “reali” del semplice consenso siccome scambiato tra le due parti;
- questo peraltro non significa che il venditore non sia obbligato a trasferire al compratore la proprietà della cosa di che trattasi; significa solo, ragionevolmente, che attraverso un meccanismo automatico e “stilizzato” il consenso scambiato tra le parti fa nascere e, ad un tempo, estingue tale obbligazione “traslativa”, onde il compratore si ritrova direttamente proprietario della cosa acquistata senza che il venditore debba all’uopo fare alcunché (se si esclude, sul piano materiale, l’obbligo di consegnare la cosa stessa, non più sua, al compratore);
- in forza di questo automatismo il venditore, non più “traslativamente obbligato” rispetto alla res compravenduta, è tuttavia tenuto a “garantire” il compratore su taluni predicati della res ridetta, che – unitariamente accomunati, sul crinale della causa, da una sola funzione economico sociale – vengono tradizionalmente identificati nei seguenti: c.1) il pacifico godimento, onde il venditore garantisce il compratore dall’evizione su iniziativa di terzi che si assumano proprietari della cosa venduta; c.2) l’integrità, onde il venditore garantisce il compratore in ordine all’assenza di vizi che inficino la cosa venduta; c.3) il livello qualitativo, onde il venditore garantisce il compratore in ordine alla “qualità” della cosa venduta, che deve essere di livello pari a quanto promesso al compratore medesimo;
- in sostanza, il venditore garantisce il compratore in ordine alla definitività ed alla complessiva bontà dell’acquisto operato, talché la res rimarrà al compratore e sarà idonea a soddisfarne l’interesse divisato, che lo ha indotto a comprarla.
Quali sono le posizioni dottrinali sulla natura giuridica delle “garanzie” nella compravendita generalmente intese?
- il compendio normativo di cui agli articoli 1483 e seguenti c.c. configura delle “garanzie” tecnicamente intese (al pari della fideiussione, come garanzia personale, o dell’ipoteca, come garanzia reale); chi non condivide, rappresenta nondimeno come le garanzie intese in senso tecnico presuppongano un’obbligazione autonoma e pregressa (e, con essa, una del pari autonoma e pregressa posizione creditoria) da “garantire”, presidiando l’interesse del (previo) creditore a vedere soddisfatto il proprio interesse creditorio, mentre nel caso delle “garanzie” annesse alla vendita, l’obiettivo sembra piuttosto quello di ripristinare la situazione patrimoniale – risultatane alfine vulnerata – del compratore; in realtà, se si accede alla tesi di chi scrive in ordine alla “automaticità” dell’acquisto e della estinzione (per “soddisfazione”) del credito da parte del compratore, una pretesa ex ante di quest’ultimo da “garantire” si configura eccome, e risulta soddisfatta – senza necessità di attivare la connessa “garanzia” – solo se il bene che ha acquistato – ex post – resta suo (senza essere rivendicato da terzi), non è viziato e presenta tutte le qualità a suo tempo promesse;
- il compendio normativo di cui agli articoli 1483 e seguenti c.c. disciplina un’ipotesi (declinata in modo triplice) di errore del compratore circa l’effettiva consistenza dell’oggetto (res) del proprio acquisto; si tratta tuttavia, in caso, di un “errore” quale vizio del consenso tutt’affatto peculiare, sol che si consideri come la vendita non possa essere annullata, quanto piuttosto (in ipotesi di res viziata) risolta o lasciata in vita con contestuale riduzione del prezzo pagato dal compratore; inoltre, più che di errore del compratore, dovrebbe semmai discorrersi (dove non vi sia mala fede) di errore del venditore in ordine alla cosa che vende al compratore;
- il compendio normativo di cui agli articoli 1483 e seguenti c.c. configura una ipotesi complessa di responsabilità precontrattuale del venditore, laddove questi non verifichi ex ante di essere pienamente legittimato a disporre della res venduta, ovvero che essa non è immune da vizi o deficit di qualità, ovvero – avendolo verificato – non abbia partecipato al compratore le anomalie riscontrate; chi è critico nei confronti di questa impostazione sottolinea nondimeno come l’oggetto della garanzia sia l’obiettiva esistenza delle ridette anomalie, non già il relativo difetto di verifica e/o comunicazione al compratore da parte del venditore;
- il compendio normativo di cui agli articoli 1483 e seguenti c.c. lascia affiorare una violazione contrattuale (declinata in modo triplice) rendendo il venditore inadempiente nei confronti del compratore, sia con riguardo all’obbligo di trasferirgli una res libera da diritti altrui, sia con riguardo a quello di trasferirgli cose non viziate e con le qualità ex ante promesse (dottrina dominante); il che conferma che si tratta di “garanzie” proprio perché, quando il compratore scopre i ridetti inadempimenti, egli è già proprietario (o presunto tale) della res compravenduta, ed ex post può solo pretendere, per l’appunto, che il venditore lo “garantisca” rispetto ad eventi che ne pregiudicano la soddisfazione del divisato interesse (godere e disporre, senza interferenze di terzi, di una cosa non viziata e che presenti le qualità promesse).
Cosa occorre rammentare in particolare della garanzia per evizione?
- consiste nella privazione subita dal compratore, in tutto o in parte, del diritto reale sul bene acquistato;
- ciò in forza dell’accertato diritto reale di un terzo, incompatibile con il coevo diritto del compratore, palesandosi insufficienti mere molestie di fatto che non siano sfociate in un accertamento del ridetto, incompatibile diritto del terzo;
- sulla causa dell’evizione e sul relativo insorgere si giustappongono due tesi: c.1) tesi recessiva: il fenomeno evittivo può anche compendiarsi in un evento riconducibile ad una causa successiva alla conclusione del contratto di compravendita; c.2) tesi prevalente; il fenomeno evittivo deve giocoforza compendiarsi in un evento (integralmente) riconducibile ad una causa anteriore alla conclusione del contratto di compravendita, a meno che le parti convenzionalmente non abbiano esteso la garanzia anche ad eventi successivi al contratto stesso; non si ha evizione ad esempio, e non scatta dunque la pertinente garanzia, laddove il legittimario pretermesso – che sia stato già vittorioso nei confronti dell’alienante della res in sede di azione di riduzione – spicchi vittoriosamente azione restitutoria nei confronti del terzo acquirente successivamente alla stipula del contratto di compravendita;
- peculiare la fattispecie della doppia alienazione immobiliare, laddove il primo acquirente secondo trascrivente può subire l’evizione del secondo acquirente primo trascrivente: d.1) per la dottrina più autorevole si è al cospetto di una responsabilità aquiliana del venditore, muovendo dal presupposto che il diritto di proprietà “recessivo” (quello del primo acquirente secondo trascrivente) è già stato trasferito, in forza del c.d. consenso traslativo ex art.1376 c.c., nel momento in cui l’evento evittivo si manifesta; d.2) la giurisprudenza si attesta invece sulla responsabilità da inadempimento ex art.1218 c.c., sul presupposto onde in simili fattispecie il venditore si palesa inadempiente all’obbligo di far conseguire al compratore la proprietà del bene venduto, ai sensi dell’art.1476, n.2, c.c., piuttosto che al vero e proprio obbligo di garantirlo dall’evizione ex art.1476, n.3, c.c.;
- dal punto di vista degli effetti, il compratore ha diritto, ex art.1483 c.c., al risarcimento del danno ed alla corresponsione di una somma che sia pari al valore dei frutti della cosa che egli sia tenuto a restituire al terzo, nonché al rimborso delle spese giudiziali del processo di evizione; ciò quale conseguenza meramente obiettiva del fatto compendiantesi nella perdita del diritto acquistato da venditore, e dunque anche se questi non sia in colpa ed anche nel caso in cui il compratore sia ex ante a conoscenza di una possibile causa di evizione eventualmente operante de futuro, dacché a valle dell’evizione viene vulnerato il sinallagma contrattuale tipico della compravendita, discendendone la necessità di un ineluttabile riequilibrio economico tra le parti; tuttavia, nel caso in cui il compratore abbia cagionato con il proprio contegno la perdita del diritto a suo tempo acquistato dal venditore, egli perde il diritto al risarcimento del danno; più in specie, ai sensi dell’art.1485, comma 3, c.c., laddove il compratore spontaneamente riconosca il diritto del terzo (incompatibile con quello da lui acquistato dal venditore), egli perde il diritto alla garanzia per evizione, salvo che provi non essere esistite ragioni sufficienti per impedire l’evizione medesima; il compratore, laddove convenuto da un terzo ed al fine di conservare la garanzia in parola, ha peraltro l’onere di chiamare in causa il venditore (art.1485, comma 1, c.c.) dacché, ove non lo faccia e venga condannato con sentenza passata in giudicato, potrebbe perdere il diritto alla garanzia laddove il venditore provi che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda del terzo;
- un caso “ridotto” è quello in cui l’evizione sia solo quantitativamente “parziale” (art.1484 c.c.), e ricorre allorché il compratore subisce la revindica o l’espropriazione con effetti limitati ad una parte del bene a suo tempo acquistato; fattispecie diversa è invece quella (a connotazione maggiormente qualitativa) dell’evizione c.d. “limitativa”, ex art.1489 c.c., laddove la cosa venduta resta integralmente in proprietà dell’acquirente, risultando tuttavia gravata da oneri o da diritti reali o personali – di natura non apparente – che ne diminuiscano da parte sua il libero godimento, potendo in tal caso, laddove tali diritto e oneri non siano stati denunciati al momento della stipula del contratto di vendita e qualora non se ne abbia avuta aliunde conoscenza, chiedere la risoluzione del contratto ovvero una riduzione del prezzo secondo le previsioni dell’art.1480 c.c.; sono considerati esempi di evizione c.d. “limitativa” tanto la presenza di oneri o diritti di godimento altrui di natura privatistica – ivi compresa l’eventuale clausola contrattuale, vincolante per il compratore, che vieti il mutamento di destinazione e d’uso del bene compravenduto, quanto gli oneri e limitazioni di ascendenza pubblicistica;
- qualora il compratore eviti l’evizione giusta pagamento di una somma di denaro, il venditore – ex art.1486 c.c. – può liberarsi da tutte le conseguenze della garanzia col rimborso della somma pagata, degli interessi e di tutte le spese; in proposito, e su un peculiare crinale ermeneutico, si fronteggiano 2 tesi: g.1) si tratta di una fattispecie diversa rispetto a quella che la dottrina identifica come “evizione invertita”, laddove il compratore non versa una somma di denaro al terzo che potrebbe agire in revindica, ma acquisti piuttosto il diritto di proprietà direttamente da tale terzo, giacché in quest’ultima ipotesi la “prima” vendita deve assumersi definitivamente inadempiuta dal “primo” venditore, onde il prezzo che il compratore ha pagato al “secondo” venditore (che è il vero proprietario della res) può al più fungere da parametro per il risarcimento che il “primo” venditore (non proprietario) deve all’acquirente evitto, risarcimento che va eventualmente integrato, rimanendo fermo il diritto del compratore alla restituzione di tale prezzo a suo tempo pagato al “primo” venditore (non proprietario); g.2) l’art.1486 si applica anche all’”evizione invertita”, al fine di scongiurare facili elusioni e financo potenziali locupletazioni da parte del compratore eventualmente malizioso;
- per quanto concerne i “confini” della garanzia per evizione, essa – rispetto a quella disegnata dal codice – può essere più ampia o più ridotta sulla base di un accordo all’uopo delle parti, dovendo tuttavia assumersi ferma la responsabilità del venditore in relazione al fatto proprio di lui (art.1487 c.c.), affiorando tuttavia in dottrina opinioni differenti in ordine alla configurabilità di tale “fatto proprio”: h.1) secondo una tesi (prevalente), si ha “fatto proprio” solo allorché il terzo vero proprietario fa valere nei confronti del compratore un atto dispositivo che il venditore ha fatto a proprio favore prima di stipulare il contratto con il compratore; h.2) secondo altra tesi (minoritaria), si può parlare di “fatto proprio” anche quando esso sia successivo alla vendita, come nel caso di una seconda vendita immobiliare per l’appunto successiva alla prima, con prima trascrizione da parte del secondo acquirente e dunque prevalenza del relativo diritto su quello del primo acquirente (secondo trascrivente);
- la garanzia per evizione può financo essere totalmente esclusa dalle parti, circostanza prevista dall’art.1488 c.c. alla cui stregua non si applicano in tal caso le disposizioni degli artt. 1479 e 1480 c.c. e, se si verifica l’evizione, il compratore può pretendere dal venditore soltanto la restituzione del prezzo pagato e il rimborso delle spese; il venditore è peraltro esente anche da quest’obbligo (restituzione del prezzo e rimborso delle spese) quando la vendita sia stata espressamente convenuta “a rischio e pericolo del compratore” (art.1488,comma 2, c.c.), laddove viene totalmente esclusa qualsivoglia responsabilità del venditore, facendosi luogo ad un contratto che tanto la dottrina quanto la giurisprudenza qualificano come di natura aleatoria: il compratore assume infatti su di sé il rischio che il diritto acquistato non appartenga al venditore che (apparentemente) glielo aliena nel momento in cui le parti concludono il contratto di compravendita, obbligandosi a pagare al venditore il pertinente prezzo anche laddove subisse l’evizione da parte di un terzo a valle della compravendita; mentre peraltro qui l’oggetto del rischio assunto dal compratore è l’esistenza del diritto del venditore sulla res trasferita, nel diverso caso della c.d. emptio spei (art.1472 c.c., in tema di vendita di cose future che non vengano alfine ad esistenza) il rischio riguarda l’esistenza stessa della cosa sulla quale ricade il diritto di proprietà del venditore oggetto di trasferimento;
- ai sensi dell’art.1481, laddove il compratore abbia ragione di temere un’azione di rivendicazione da parte di terzi (c.d. pericolo di evizione), può legittimamente sospendere il pagamento del pertinente prezzo, a meno che il venditore presti a propria volta idonea garanzia e salvo che il compratore stesso sia stato a conoscenza del pericolo di evizione al momento della compravendita; e può sospendere il pagamento del prezzo anche, ai sensi dell’art.1482, comma 1, c.c., quando non conosceva – al momento della conclusione della vendita – l’esistenza di garanzie reali o di vincoli derivanti da pignoramento o sequestro sulla res, non dichiarati dal venditore, potendo anche chiedere al giudice (art.1482, comma 2, c.c.) che fissi un termine alla scadenza del quale, se la res non viene liberata dai ridetti vincoli, il contratto è risolto con l’obbligo per il venditore di risarcire il danno.
Cosa occorre rammentare in particolare della garanzia per i vizi della cosa?
- essa è prevista all’art.1490, comma 1, c.c., onde il venditore deve garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui è destinata o che comunque ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore; si tratta di una garanzia la cui operatività può essere esclusa o limitata dalle parti in via convenzionale, e tuttavia tali clausole limitative – ai sensi dell’art.1490, comma 2, c.c. – non producono effetti laddove il venditore abbia in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa compravenduta;
- si tratta poi di una garanzia che, ex art.1491 c.c., il venditore non deve al compratore laddove i vizi della cosa compravenduta siano conosciuti dal compratore o siano comunque facilmente riconoscibili dal compratore medesimo; la consegna della cosa “viziata all’insaputa del compratore” costituisce allora – secondo le più recenti acquisizioni delle SSUU – non l’inadempimento di una obbligazione (di consegna o di individuazione), in un’ottica di “prestazione” del venditore, quanto piuttosto la imperfetta attuazione da parte del venditore medesimo del risultato traslativo promesso al compratore, che colloca il primo (venditore garante) in un prisma di “soggezione” rispetto al secondo (compratore garantito);
- la denuncia dei vizi al venditore da parte del compratore non può essere fatta in ogni tempo, configurando piuttosto l’art.1495 c.c. l’onere in capo al compratore di operare tale denuncia (quale atto giuridico in senso stretto e recettizio con il quale il compratore partecipa al venditore la riscontrata presenza di vizi o mancanza di qualità della res acquistata), a pena di decadenza dalla pertinente garanzia, entro 8 giorni dalla scoperta dei vizi medesimi, salvo diverso termine stabilito dalle parti stesse o dalla legge (il termine, conformemente alla disciplina europea ed interna di recepimento, è ad esempio più lungo, ed è pari a 2 mesi, laddove il compratore sia un “consumatore” ed il venditore un “professionista”); tanto nel caso in cui il vizio venga riconosciuto dal venditore quanto in quello in cui esso venga occultato, il compratore è esonerato dall’onere di denuncia del vizio stesso;
- nel caso in cui nella res acquistata sia presente un vizio, gli strumenti di tutela “edilizia” – con evidente richiamo agli Edili curuli ed al relativo Editto, di ascendenza romanistica – a disposizione del compratore sono la risoluzione del contratto (azione c.d. redibitoria) o la riduzione del prezzo (azione c.d. estimatoria o “quanti minoris”); si tratta di 2 azioni tra loro alternative, la proposizione della pertinente domanda da parte del compratore rendendo irrevocabile la scelta di una di esse in luogo dell’altra, ai sensi dell’art.1492, comma 2, c.c.; una scelta tra le due azioni che non è tuttavia più possibile allorché, in forza di una sorta di “concentrazione” delle tutele, la cosa viziata sia perita per caso fortuito o per colpa del compratore (ma non anche del venditore), ovvero laddove il compratore medesimo la abbia alienata o trasformata, potendo in simili ipotesi essere esperita la sola azione (manutentiva) estimatoria, finalizzata ad ottenere la riduzione del prezzo, senza poter più spiccare azione (demolitoria) redibitoria;
- l’azione redibitoria secondo la tesi prevalente ha natura di azione di risoluzione (anche parziale) per inadempimento del venditore, pur con le peculiarità onde: e.1) occorre la preventiva, tempestiva denuncia dei vizi da parte del compratore (onere); e.2) non occorre invece la colpa del venditore, dalla quale si può dunque prescindere;
- l’azione estimatoria viene attivata dal compratore di una res viziata che non scelga la risoluzione del contratto, al fine di ottenere – giusta riduzione del prezzo pagato – un riequilibrio delle prestazioni contrattuali sinallagmaticamente avvinte;
- “in ogni caso”, e dunque a prescindere dall’esperimento di una delle due azioni c.d. “edilizie” (redibitoria che caduca il contratto, o quanti minoris che lo tiene in vita), il venditore è tenuto nei confronti del compratore al risarcimento del danno, a meno che non provi di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa venduta (art.1494, comma 1, c.c.), onde si profila una presunzione di colpa del venditore (che, quand’anche abbia ignorato i vizi, lo ha fatto presuntivamente in modo colposo);
- il termine di prescrizione tanto per l’azione redibitoria, quanto per quella estimatoria (o quanti minoris) quanto, ancora, per quella risarcitoria, ha durata breve di 1 anno che decorre dalla conclusione del contratto laddove il compratore abbia la disponibilità della cosa dei cui vizi si tratta, mentre in caso contrario l’anno decorre dalla consegna della cosa (viziata) stessa; casi peculiari sono quelli della vendita con trasporto (il termine annuale decorre da quando il venditore rimette la cosa al compratore) e della vendita su documenti (il termine annuale decorre da quando vengono rimessi al compratore i titoli rappresentativi della merce venduta). Il termine di prescrizione, conformemente alla disciplina europea ed interna di recepimento, è tuttavia più lungo, ed è pari a 26 mesi, quando il compratore sia un “consumatore” ed il venditore un “professionista”;
- laddove il venditore si impegni con il compratore a riparare il bene viziato (e, dunque, ad eliminarne i vizi), tale impegno implica per giurisprudenza costante riconoscimento del vizio che affetta la res, onde in simili ipotesi viene impedita la decadenza del compratore prevista per mancata, tempestiva denuncia ex art.1495 c.c.; in tal caso, l’obbligazione “riparatoria” (“eliminatoria” dei vizi) assunta dal venditore si aggiunge a quelle che già gravano in capo al medesimo (e che ne sottendono la pertinente garanzia) senza effetti sostitutivi / estintivi, che costituirebbero il prodotto di una novazione la quale, ex art.1230 c.c., può conseguire soltanto ad una espressa, conforme volontà delle parti siccome in tal senso vicendevolmente palesata;
- nel caso in cui il venditore non abbia assunto esplicitamente l’obbligo di eventualmente eliminare i vizi della cosa venduta, dubbia è la pertinente tutela in forma specifica per il compratore: j.1) secondo la tesi affermativa, il compratore può spiccare nei confronti del venditore un’azione di “esatto adempimento” invocandone la condanna alla riparazione dei vizi riscontrati nella res acquistata, ovvero alla sostituzione della res medesima con altra esente da vizi, stante la generale operatività dell’art.1453 c.c.; j.2) secondo l’opposta opzione ermeneutica negativa, il compratore fruisce di una garanzia per i vizi, quella prevista dagli articoli 1490 e seguenti c.c., che è da assumersi speciale rispetto a quella generale di cui può fruire qualunque contraente, con particolare riguardo all’art.1453 c.c. ed alla ivi scolpita alternativa tra la richiesta di risoluzione del contratto (demolitoria) e quella di adempimento (manutentiva), sol che si consideri come chiedendo la sostituzione o la riparazione del bene compravenduto si finisce per richiedere al venditore una attività nuova e diversa rispetto a quella prevista dal tipo contrattuale “compravendita” siccome disegnato dal legislatore; j.3) vi è poi una tesi intermedia e “possibilista”, onde un’azione di esatto adempimento sarebbe spiccabile dal compratore nei confronti del venditore, ma sotto le spoglie di un’azione di risarcimento del danno in forma specifica.
Cosa occorre rammentare in particolare della garanzia per mancanza delle qualità essenziali o promesse?
- sono qualità “essenziali” quelle indispensabili per l’uso cui la cosa compravenduta è normalmente destinata; esse debbono essere presenti perché “quella res” sia, per l’appunto, “quella res” e non un’altra, e della relativa presenza il venditore risponde pertanto anche laddove non siano state espressamente richiamate nel contratto;
- sono qualità “promesse” quelle che, pur non essendo proprie della res compravenduta, nondimeno sono state garantire espressamente (o anche implicitamente) nel corso della contrattazione; esse – in qualche modo – diventano qualità “essenziali” per esplicita volontà delle parti, e dunque del venditore che le promette e del compratore che ne riceve la pertinente promessa;
- si tratta di fattispecie al cospetto della quale, ex art.1497 c.c., il compratore può chiedere la risoluzione del contratto di compravendita secondo le regole generali sulla risoluzione per inadempimento;
- con riguardo ai rapporti tra tutela nei confronti dei vizi e tutela al cospetto di mancanza di qualità della cosa venduta, si giustappongono due opzioni ermeneutiche: d.1) tesi dottrinale: si tratta di fattispecie che, in termini di tutela del compratore, possono essere parificate; d.2) tesi giurisprudenziale: pur assistendosi ad una sostanziale parificazione, nondimeno con riguardo all’azione di risoluzione – pur dovendosi assumere ferma l’applicabilità dei termini di decadenza e di prescrizione di cui all’art.1495 c.c., stante l’espresso richiamo a tale norma operato dall’art.1497, comma 3, c.c. – nondimeno, se nel caso dei vizi non rileva, ex art. 1492, la colpa dell’alienante, nel caso di difetti di qualità della cosa venduta la configurabilità di una colpa dell’alienante è imprescindibile a fini risolutivi (e, dunque, demolitori del contratto), dacché l’art.1497 c.c. richiama (a differenza appunto dell’art.1492 c.c.) richiama le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento e, con esse, il principio della responsabilità colposa del contraente inadempiente (nel caso di specie, per l’appunto il venditore). Al cospetto poi del disaccordo in dottrina e giurisprudenza circa l’applicabilità alla fattispecie della mancanza di qualità della cosa venduta (art.1497 c.c.) dell’azione quanti minoris e, dunque, di riduzione del prezzo, anche chi nega l’esperibilità di tale azione non dubita di come il medesimo risultato pratico possa essere raggiunto attraverso il rimedio risarcitorio, atteggiantesi nella forma appunto della riduzione del prezzo dovuto dal compratore;
- mentre in caso di mancanza di qualità la res venduta difetta, per l’appunto, delle qualità essenziali o promesse, diversa è l’ipotesi in cui il compratore cada in errore sulle qualità della res acquisita; l’errore sulle qualità della cosa acquistata (che consente al compratore di agire per l’annullamento del contratto di vendita) attiene infatti alla fase genetica del pertinente contratto, quale falsa rappresentazione in capo all’acquirente in parola della prestazione dovuta da venditore e delle relative caratteristiche, mentre la mancanza di qualità (che prescinde da un errore dell’acquirente) concerne la fase esecutiva del pertinente contratto compendiando una sostanziale inesattezza dell’adempimento del venditore, dacché il bene venduto risulta difettante delle caratteristiche pattuite ex ante con il compratore o comunque necessarie alla consistenza della res stessa, caratteristiche al compratore medesimo manifeste fin dall’inizio e sulle quali non è caduto verun pertinente errore;
- non si vende un bene viziato, né si vende un bene privo delle qualità essenziali o promesse allorché oggetto della compravendita sia un c.d. aliud pro alio, laddove viene consegnato all’acquirente, da parte del venditore, un bene tutt’affatto diverso rispetto a quello oggetto di pattuizione traslativa: in caso di aliud pro alio si applica integralmente la normativa generale in tema di risoluzione per inadempimento ex art.1453 e seguenti c.c., onde, massime, non si applicano i brevi termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art.1495 c.c. (che si applicano invece sia in caso di vizi che in caso di mancanza di qualità della cosa venduta), trovando piuttosto cittadinanza l’ordinario termine di prescrizione pari a 10 anni. Se la distinzione tra le diverse figure ridette è semplice sul crinale teorico, può essere complessa su quello pratico a cagione dell’atteggiamento della giurisprudenza che, garantendo una tutela più incisiva al compratore, assume configurabile il c.d. aliud pro alio non già solo quando la res consegnata appartenga ad un genere radicalmente diverso da quello pattuito, ma anche laddove la res medesima sia priva delle particolari qualità necessarie affinché assolva alla propria, naturale funzione economico-sociale, ovvero a quella funzione che le parti abbiano assunto come essenziale, finendo dunque con l’essere particolarmente complesso – nei singoli casi pratici – distinguere quando si è al cospetto di un vero e proprio aliud pro alio e quando di una (meno presidiata) mancanza di qualità della cosa venduta.