Corte Costituzionale, sentenza 23 novembre 2021 n. 218
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) e dell’art. 177, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici); va poi dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Nell’odierno giudizio sono intervenuti ad adiuvandum, con distinti atti, e-distribuzione spa e l’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori (AISCAT), sostenendo, entrambe, di essere legittimate a intervenire in quanto si tratterebbe, rispettivamente: di una concessionaria del servizio pubblico di distribuzione di energia elettrica (e-distribuzione spa) su gran parte del territorio nazionale, che ha partecipato alla consultazione indetta dall’ANAC per l’adozione delle linee guida di attuazione del censurato art. 177 e ha impugnato queste ultime dinanzi al TAR Lazio con ricorso dichiarato inammissibile, senza tuttavia appellare la relativa sentenza; e di un’associazione delle società concessionarie nell’ambito delle autostrade e dei trafori (AISCAT), che ha impugnato le anzidette linee guida dinanzi al TAR Lazio con ricorso dichiarato inammissibile e ha indi appellato la relativa decisione dinanzi al Consiglio di Stato, che ha sospeso il giudizio in attesa del pronunciamento di questa Corte sulle odierne questioni di legittimità costituzionale.
Con ordinanza dibattimentale letta all’udienza del 5 ottobre 2021 – le cui conclusioni vengono qui ribadite – questa Corte ha dichiarato inammissibili entrambi gli interventi in ragione del fatto che l’interesse con essi fatto valere non è direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, trattandosi bensì di un semplice interesse riflesso all’accoglimento delle questioni, che, in base alla sua costante giurisprudenza, non dà titolo a intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale.
La vicenda in esame, in particolare per quanto attiene alla posizione della richiedente AISCAT, induce nondimeno questa Corte a ribadire come debba «escludersi la sussistenza di una discrezionale facoltà del giudice di sospendere il processo fuori dei casi tassativi di sospensione necessaria, e “per mere ragioni di opportunità” (sentenza n. 207 del 2004)» (ordinanza n. 202 del 2020) e, al contempo, a stigmatizzare la prassi della cosiddetta “sospensione impropria”, vale a dire di quella sospensione disposta, senza l’adozione di un’ordinanza di rimessione a questa Corte, in attesa della decisione sulla questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto le stesse norme, sollevata da altro giudice.
Questa prassi, che si esprime nell’adozione di un provvedimento di sospensione «difforme da univoche indicazioni normative» (ordinanza n. 202 del 2020), priva le parti interessate della possibilità di accedere al giudizio di legittimità costituzionale e riduce, nel giudizio stesso, il quadro, offerto alla Corte, delle varie posizioni soggettive in gioco. Ciò, tuttavia, non è sufficiente a legittimare la parte a intervenire, perché altrimenti risulterebbe alterata la struttura incidentale del giudizio di legittimità costituzionale.
3.– Devono, ancora preliminarmente, essere escluse dal presente giudizio, in quanto inammissibili, le questioni ulteriori rispetto a quelle sollevate dal rimettente, e, in primo luogo, la pretesa violazione dell’art. 10 Cost., dedotta da A2A nella memoria depositata in prossimità dell’udienza. In tale memoria, la società appellante nel giudizio a quo lamenta la violazione del divieto del cosiddetto gold plating e, su questo assunto, chiede l’autorimessione della relativa questione da parte di questa Corte, oltre che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, mentre non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di legittimità costituzionale dedotti dalle parti, diretti ad ampliare o modificare il contenuto della stessa ordinanza, quand’anche eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 203, n. 172, n. 149, n. 147, n. 119, n. 109, n. 49 e n. 35 del 2021, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016).
Da queste considerazioni discende l’estraneità rispetto al presente giudizio di legittimità costituzionale delle ulteriori censure sollevate dalla parte privata e della questione interpretativa che essa chiede di sottoporre alla Corte di giustizia con istanza di rinvio pregiudiziale (sentenza n. 49 del 2021).
Quanto alla richiesta di autorimessione, questa Corte ha precisato che «[l]a possibilità che [la stessa] sollevi in via incidentale una questione davanti a sé si dà solo allorché dubiti della legittimità costituzionale di una norma, diversa da quella impugnata, che sia chiamata necessariamente ad applicare nell’iter logico per arrivare alla decisione sulla questione che le è stata sottoposta: in altri termini, si deve trattare di una questione che si presenti pregiudiziale alla definizione della questione principale e strumentale rispetto alla decisione da emanare (sentenze n. 122 del 1976, n. 195 del 1972 e n. 68 del 1961)» (sentenza n. 24 del 2018).
Nella specie, la questione avrebbe invece per oggetto la stessa norma denunciata dal rimettente, in quanto ritenuta lesiva di parametri diversi da quelli indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché deve escludersi la sussistenza del nesso di pregiudizialità che consente a questa Corte di sollevare davanti a sé una questione in via incidentale (sentenza n. 203 del 2021).
4.– Ancora in via preliminare, deve essere precisato che la forma della sentenza non definitiva, in luogo dell’ordinanza, quale atto di promovimento del giudizio di legittimità costituzionale, non inficia di per sé l’ammissibilità delle questioni con essa proposte.
Alla sentenza non definitiva può essere, infatti, riconosciuto, sul piano sostanziale, il carattere dell’ordinanza di rimessione, sempre che il giudice a quo – come nel caso in esame – abbia disposto, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte, dopo aver valutato la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione (in questi termini, tra le altre, sentenze n. 112 del 2021 e n. 153 del 2020).
5.– Prima di esaminare il merito delle questioni, occorre ricostruire la genesi della normativa censurata, che va letta alla luce dell’evoluzione della disciplina comunitaria in materia e di quella interna di recepimento, con la precisazione che, sin dal suo primo intervento nella materia in esame, il legislatore comunitario ha ritenuto necessario predisporre un quadro normativo comune attraverso uno strumento normativo, la direttiva, che consente di perseguire i suoi obiettivi valorizzando le specificità dei singoli Stati membri, che possono diversamente modulare le forme di realizzazione dello scopo indicato.
5.1.– Il punto di partenza di questo percorso può essere individuato nella direttiva 89/440/CEE del Consiglio, del 18 luglio 1989, che modifica la direttiva 71/305/CEE che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici. In particolare, l’art. 1, numero 2), della direttiva 89/440/CEE aveva aggiunto una serie di articoli nel corpo della direttiva 71/305/CEE del Consiglio, del 26 luglio 1971 e, tra questi, l’art. 1-ter, paragrafo 2, secondo cui «[l]’amministrazione aggiudicatrice può: – imporre al concessionario di affidare a terzi appalti corrispondenti a una percentuale minima del 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione, pur prevedendo la facoltà per i candidati di aumentare detta percentuale; questa percentuale minima deve figurare nel contratto di concessione di lavori; – oppure invitare i candidati concessionari a dichiarare nelle loro offerte la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione che essi intendono affidare a terzi».
Questa previsione si inseriva in un contesto di significative innovazioni della disciplina de qua, nella quale si prevedeva, tra l’altro, che «[l]e amministrazioni aggiudicatrici che intendono ricorrere alla concessione di lavori pubblici rendono nota tale intenzione con un bando di gara», e che «[i] concessionari di lavori che non sono le amministrazioni aggiudicatrici e che intendono stipulare un appalto di lavori con un terzo, ai sensi dell’articolo 1-ter, paragrafo 4, fanno conoscere tale intenzione con un bando di gara» (così, rispettivamente, paragrafi 3 e 4 dell’art. 12 della direttiva 71/305/CEE, come novellato dall’art. 1, numero 12, della direttiva 89/440/CEE).
Le due direttive citate (71/305/CEE e 89/440/CEE) sono state abrogate dall’art. 36 della direttiva 93/37/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, a sua volta abrogata dall’art. 82 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.
L’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 93/37/CEE, riproducendo sostanzialmente quanto già disposto dalla direttiva 89/440/CEE, stabiliva che «[l]’amministrazione aggiudicatrice può: – imporre al concessionario di lavori pubblici di affidare a terzi appalti corrispondenti a una percentuale minima del 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione, pur prevedendo la facoltà per i candidati di aumentare tale percentuale. Detta percentuale minima deve figurare nel contratto di concessione di lavori; – oppure invitare i candidati concessionari a dichiarare nelle loro offerte la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione che essi intendono affidare a terzi».
Analogamente a quanto previsto nella direttiva 89/440/CEE, si prevedeva altresì che la concessione di lavori pubblici dovesse avvenire previa pubblicazione di bando di gara (art. 11, paragrafo 3).
Nella direzione tracciata dal legislatore comunitario si collocava anche l’art. 2 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), che, già nel suo testo originario, trasformava in un obbligo la facoltà – prevista dalla normativa comunitaria – per l’amministrazione aggiudicatrice di imporre al concessionario di lavori pubblici di affidare a terzi appalti corrispondenti a una data percentuale minima. In particolare, si prevedeva che i «concessionari di lavori pubblici, [i] concessionari di esercizio di infrastrutture destinate al pubblico servizio, [le] società con capitale pubblico, in misura anche non prevalente, che abbiano ad oggetto della propria attività la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza nonché, qualora operino in virtù di diritti speciali o esclusivi, [i] concessionari di servizi pubblici e [i] soggetti di cui alla direttiva 93/38/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993», «sono obbligati ad appaltare a terzi i lavori pubblici non realizzati direttamente o tramite imprese controllate […]» (art. 2, commi 2, lettera b, e 4, della legge n. 109 del 1994).
Si prevedeva, altresì, una deroga, sia pure limitata ai soli «tre anni successivi alla data di entrata in vigore della […] legge», nel senso che i soggetti di cui sopra potevano «far eseguire i lavori oggetto della concessione ad imprese collegate, nella misura massima del 30 per cento» (art. 2, comma 5, della legge n. 109 del 1994).
Il testo dell’art. 2 della legge n. 109 del 1994, prima di essere abrogato dall’art. 256 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), ha subito ripetute e significative modifiche; tra queste merita di essere segnalata, ai fini del presente giudizio, quella operata dall’art. 7, comma 1, lettera a), della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), che, novellandolo, ha previsto, fra l’altro, che «[l]e amministrazioni aggiudicatrici possono imporre ai concessionari di lavori pubblici, con espressa previsione del contratto di concessione, di affidare a terzi appalti corrispondenti a una percentuale minima del 30 per cento del valore globale dei lavori oggetto della concessione oppure possono invitare i candidati concessionari a dichiarare nelle loro offerte la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione che essi intendono affidare a terzi. Per la realizzazione delle opere previste nelle convenzioni già assentite alla data del 30 giugno 2002, ovvero rinnovate e prorogate ai sensi della legislazione vigente, i concessionari sono tenuti ad appaltare a terzi una percentuale minima del 40 per cento dei lavori […]».
La previsione dell’obbligo era mantenuta, dunque, solo per le convenzioni già assentite alla data del 30 giugno 2002 e limitatamente a una percentuale minima del 40 per cento; per le restanti concessioni, invece, si ritornava alla previsione della possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di imporre l’obbligo di affidamento per la misura minima del 30 per cento.
Tornando alla normativa comunitaria, la direttiva 93/37/CEE, come detto, è stata abrogata dall’art. 82 della direttiva 2004/18/CE. A sua volta, l’art. 60 di quest’ultima, rubricato «Subappalto», ribadiva quanto già previsto nella disciplina comunitaria previgente, stabilendo che «[l]’amministrazione aggiudicatrice può: a) imporre al concessionario di lavori pubblici di affidare a terzi appalti corrispondenti a una percentuale non inferiore al 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione, pur prevedendo la facoltà per i candidati di aumentare tale percentuale; detta aliquota minima deve figurare nel contratto di concessione di lavori; oppure b) invitare i candidati concessionari a dichiarare essi stessi nelle loro offerte la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione che intendono affidare a terzi».
Questa direttiva veniva recepita con il d.lgs. n. 163 del 2006, del quale rilevano, in questa sede, gli artt. 146 e 253, comma 25.
L’art. 146, rubricato «Obblighi e facoltà del concessionario in relazione all’affidamento a terzi di una parte dei lavori», riprendeva il contenuto dell’art. 60 della direttiva 2004/18/CE e dell’ultima versione dell’art. 2, comma 3, della legge n. 109 del 1994, stabilendo che «[…] la stazione appaltante può: a) imporre al concessionario di lavori pubblici di affidare a terzi appalti corrispondenti ad una percentuale non inferiore al 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione. Tale aliquota minima deve figurare nel bando di gara e nel contratto di concessione. Il bando fa salva la facoltà per i candidati di aumentare tale percentuale; b) invitare i candidati a dichiarare nelle loro offerte la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione, che intendono appaltare a terzi».
Il comma 25 dell’art. 253, nell’ultimo testo in vigore, prevedeva, invece, un regime transitorio per «i titolari di concessioni già assentite alla data del 30 giugno 2002, ivi comprese quelle rinnovate o prorogate ai sensi della legislazione successiva», i quali erano «tenuti ad affidare a terzi una percentuale minima del 60 per cento dei lavori, agendo, esclusivamente per detta quota, a tutti gli effetti come amministrazioni aggiudicatrici».
Dunque, la previsione dell’art. 146 operava per le concessioni affidate mediante gara (come si deduce dal secondo periodo della lettera a), mentre quella dell’art. 253, comma 25, concerneva le concessioni già assentite e quelle rinnovate o prorogate.
Da ultimo, la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, ha innovato la disciplina della materia di cui si discute. In particolare, in questa sede, rileva sia la previsione per cui la nuova normativa europea trova applicazione, oltre che per le concessioni di lavori, anche per le concessioni di servizi, sia la circostanza, rilevata anche dal rimettente, che la stessa normativa non prevede un obbligo di esternalizzazione.
In definitiva, la disamina dell’evoluzione normativa a livello europeo restituisce l’immagine di una disciplina in costante oscillazione ma comunque piuttosto stabile nell’escludere un radicale obbligo di affidamento a terzi, finanche per le concessioni già assentite, rinnovate o prorogate.
5.2.– Nella cornice normativa così definita si colloca il censurato principio e criterio direttivo della legge di delega n. 11 del 2016, recante, tra l’altro, disposizioni per l’attuazione di alcune direttive e, tra queste, della citata direttiva 2014/23/UE.
L’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge in parola prevede, infatti, l’«obbligo per i soggetti pubblici e privati, titolari di concessioni di lavori o di servizi pubblici già esistenti o di nuova aggiudicazione, di affidare una quota pari all’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro mediante procedura ad evidenza pubblica».
Si stabilisce, inoltre, «che la restante parte possa essere realizzata da società in house per i soggetti pubblici ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedure ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato».
Infine, si dispone che siano affidate all’ANAC le «modalità di verifica del rispetto di tali previsioni […], introducendo clausole sociali per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia delle professionalità e prevedendo, per le concessioni già in essere, un periodo transitorio di adeguamento non superiore a ventiquattro mesi ed escludendo dal predetto obbligo unicamente le concessioni in essere o di nuova aggiudicazione affidate con la formula della finanza di progetto e le concessioni in essere o di nuova aggiudicazione affidate con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea per le quali continuano comunque ad applicarsi le disposizioni in materia di affidamento di contratti di appalto vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge».
5.2.1.– Un tale principio e criterio direttivo non era presente nel testo del disegno di legge presentato dal Governo al Senato della Repubblica (AS n. 1678), comunicato alla Presidenza dell’Assemblea il 18 novembre 2014. La sua introduzione si deve, invece, all’approvazione, nella seduta del 20 maggio 2015 dell’8a Commissione permanente del Senato (Lavori pubblici, comunicazioni), di un emendamento, presentato dai relatori del disegno stesso. In particolare, nella sua primigenia versione, l’obbligo concerneva «tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni» e si prevedeva «un periodo transitorio di adeguamento non superiore a dodici mesi».
Anche il testo licenziato dall’Assemblea del Senato il 18 giugno 2015 – che pure limitava la portata generale della disposizione, circoscrivendone l’applicabilità alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro ed escludendo quelle affidate con la formula della finanza di progetto, oltre che con procedura di gara ad evidenza pubblica – continuava a prevedere che l’obbligo di affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica riguardasse «tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi» alla concessione.
Nel corso dell’esame del disegno di legge alla Camera dei deputati la portata assoluta dell’obbligo è stata sostituita con la previsione della misura dell’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture (stabilendo, peraltro, che il restante 20 per cento possa essere realizzato da società in house per i soggetti pubblici e da società controllate o collegate per i soggetti privati), e la durata massima del periodo transitorio di adeguamento è stata portata a ventiquattro mesi.
5.3.– La sostanza normativa del suddetto principio e criterio direttivo (almeno per la parte qui censurata) è stata pressoché integralmente riprodotta nell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016. Il comma 2 di questo articolo ha individuato in ventiquattro mesi il termine del periodo di adeguamento, conformemente a quanto previsto nella legge di delega. Infine, il comma 3 ha rimesso ad apposite linee guida dell’ANAC il compito di definire le modalità di verifica del rispetto del limite di cui al comma 1, prevedendo una penale «[n]el caso di reiterate situazioni di squilibrio per due anni consecutivi».
In attuazione di quanto disposto da quest’ultimo comma, l’ANAC ha approvato la delibera n. 614 del 2018, recante le linee guida n. 11, impugnate dalla A2A nel giudizio amministrativo di prime cure. Le suddette linee guida sono state poi oggetto di aggiornamento ad opera della delibera 26 giugno 2019, n. 570 (Linee Guida n. 11 recanti «Indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all’articolo 177, comma 1, del codice, da parte dei soggetti pubblici o privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture già in essere alla data di entrata in vigore del codice non affidate con la formula della finanza di progetto ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea»).
Il termine del periodo di adeguamento, previsto dal comma 2, primo periodo, dell’art. 177, è stato a più riprese prorogato, essendo stato differito al 31 dicembre 2019, al 31 dicembre 2020, al 31 dicembre 2021 e, da ultimo – con l’art. 47-ter del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure), convertito, con modificazioni, nella legge 29 luglio 2021, n. 108 – al 31 dicembre 2022.
Intervenendo in sede consultiva, il Consiglio di Stato ha ritenuto il relativo schema di decreto legislativo un «coerente, ma parziale, recepimento del punto iii) della legge delega» e ne ha sottolineato «la efficacia retroattiva connessa direttamente alla previsione» della stessa delega, in ragione della sua applicabilità alle sole concessioni già in essere e non anche alle nuove concessioni (così Consiglio di Stato, adunanza della Commissione speciale del 21 marzo 2016, parere 1° aprile 2016, n. 855, sullo «[s]chema di decreto legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 gennaio 2016, n. 11»). Con specifico riguardo a questo profilo, il Consiglio di Stato ha aggiunto che per le nuove concessioni «il problema, a regime, potrebbe non porsi», in ragione del fatto «che, almeno in linea teorica, tutte le nuove concessioni, affidate dopo l’entrata in vigore del codice, dovrebbero essere affidate con la formula della finanza di progetto ovvero con procedura di gara ad evidenza pubblica».
Proprio quest’ultima considerazione avvalora la dichiarata (in sede di lavori parlamentari) ratio dell’intervento legislativo realizzato attraverso le disposizioni censurate; non sembra esservi dubbio, infatti, sulle finalità perseguite dal legislatore delegante e realizzate da quello delegato, costituendo l’art. 177 «la conferma della necessità di imporre regole concorrenziali, seppure a valle, in una certa misura, quando sono mancate le gare a monte» (in questi termini, Consiglio di Stato, sezione prima, parere 28 aprile 2020, n. 823, reso su richiesta del Ministero dell’economia e delle finanze sullo «[s]chema di contratto standard per l’affidamento della progettazione, costruzione e gestione di opere pubbliche a diretto utilizzo della pubblica amministrazione da realizzare in partenariato pubblico-privato»).
6.– Alla luce dell’inquadramento normativo fin qui operato è possibile affrontare innanzitutto il profilo della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale della normativa censurata. L’odierno rimettente si trova a dover decidere sull’appello promosso dalla A2A avverso la sentenza del TAR Lazio n. 9309 del 2019, con la quale – come detto – è stato dichiarato inammissibile il ricorso promosso dalla stessa società nei confronti delle linee guida n. 11, attuative dell’art. 177, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Dopo aver superato le ragioni, ritenute non condivisibili, che avevano portato il giudice di primo grado a escludere l’ammissibilità del ricorso di A2A, il Consiglio di Stato esamina in via preliminare le eccezioni di illegittimità costituzionale prospettate dalla ricorrente e, con la sentenza non definitiva con la quale decide l’ammissibilità del ricorso, le accoglie – sia pure in parte – sollevando le odierne questioni di legittimità costituzionale sul principio e criterio direttivo contenuto nella legge di delega e sulla norma recata dal decreto legislativo, muovendo dal presupposto dell’identità sostanziale delle due disposizioni censurate.
Il Consiglio di Stato ha pertanto motivato in modo non implausibile la rilevanza delle questioni prospettate; né, d’altra parte, alcuna eccezione di inammissibilità è formulata al riguardo dall’Avvocatura generale dello Stato.
7.– Quanto al merito delle censure, occorre anzitutto verificare la praticabilità dell’interpretazione conforme a Costituzione, patrocinata, come primo argomento difensivo, dalla A2A.
7.1.– Si tratta, invero, di un percorso interpretativo già esplorato dal rimettente, che ne ha escluso la praticabilità, ritenendo che «la pur suggestiva interpretazione costituzionalmente orientata […] proposta da A2A» si scontrerebbe, sia con il tenore letterale delle disposizioni censurate, sia con la ratio dell’intervento legislativo, finendo con il rimettere «alla sola volontà del concessionario» la scelta sull’esternalizzazione senza alcuna indicazione dei «criteri, oggettivi e inequivoci», cui tale decisione dovrebbe essere improntata.
Come viene ricordato nell’atto di promovimento, la tesi proposta dall’appellante è stata già respinta dallo stesso Consiglio di Stato in sede consultiva, in occasione sia del parere reso sul decreto correttivo al codice dei contratti pubblici (Commissione speciale, parere 30 marzo 2017, n. 782), sia di quello sulle linee guida ANAC n. 11 (Commissione speciale, parere 20 giugno 2018, n. 1582).
7.2.– Nell’atto di costituzione nell’odierno giudizio di legittimità costituzionale la A2A – con uno sforzo interpretativo chiaramente volto a limitare la portata della normativa censurata – ritiene possibile leggere la disposizione di cui all’art. 177 nel senso che «l’obbligo di affidare mediante procedura di gara […] si applichi solo all’80% delle attività oggetto della concessione (e non delle prestazioni a esse funzionali/strumentali) che per scelta il concessionario dovesse affidare a terzi».
In tal senso deporrebbero sia il dato letterale della disposizione (che fa riferimento ai «contratti […] relativi alle concessioni»), sia la salvezza accordata, nel suo incipit, all’art. 7 cod. contratti pubblici, che consente l’affidamento diretto a imprese collegate. Ciò che confermerebbe l’intenzione del legislatore di non riferire le percentuali dell’80 e del 20 per cento al complesso delle attività oggetto della concessione, ma solo a quelle che lo stesso concessionario intenda esternalizzare.
7.3.– In senso ostativo a tale lettura militano, tuttavia, diverse ragioni, desumibili, in primis, dall’interpretazione letterale delle disposizioni de quibus. Da questo punto di vista, il dato letterale risulta inequivoco nel riferire la quota percentuale da affidare mediante procedura a evidenza pubblica a tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi alla concessione di cui si discute.
Né ad esiti differenti si perviene seguendo altri approcci ermeneutici. Si è già detto della ragione storica che ha caratterizzato l’evoluzione normativa in materia e, in particolare, la disciplina oggi censurata, diretta, in tutta evidenza, a recuperare a valle il deficit di concorrenza registrato al momento dell’affidamento della concessione, in linea con il crescente favor espresso dal legislatore europeo e interno nei confronti delle procedure pro-concorrenziali.
Nemmeno sul piano dell’interpretazione sistematica sembra di poter pervenire a conclusioni diverse. Al riguardo, come questa Corte ha avuto modo di precisare in relazione al divieto del cosiddetto gold plating, si registra «una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, ai sensi dell’art. 192 del codice dei contratti pubblici» (sentenza n. 100 del 2020).
Di particolare significato risultano, infine, le affermazioni contenute nei due pareri del Consiglio di Stato richiamati dall’odierno rimettente.
Nel primo (parere n. 782 del 2017), relativo alle disposizioni integrative e correttive al d.lgs. n. 50 del 2016, il Consiglio di Stato ha posto come condizione della legittimità del decreto correttivo l’espunzione dal testo (poi avvenuta) della previsione secondo cui l’art. 177 non avrebbe dovuto riguardare la manutenzione ordinaria o i contratti eseguiti direttamente dai concessionari, giacché un tale «importante temperamento dell’obbligo di esternalizzazione dell’80%» sarebbe risultato «in evidente distonia con il criterio di delega di cui alla lett. iii) del comma 1 dell’art. 1 della legge n. 11 del 2016».
Nel secondo parere (n. 1582 del 2018), reso sullo schema di linee guida successivamente approvate con la delibera n. 614 del 2018, si afferma con altrettanta chiarezza che «non può essere condivisa» la tesi riferita dall’ANAC e sostenuta da alcuni stakeholder, secondo cui la quota percentuale dovrebbe avere a riferimento «non già il totale delle prestazioni oggetto dell’originaria concessione comprensive del valore delle prestazioni effettuate in proprio […], ma le sole prestazioni che il concessionario non è capace di svolgere direttamente e per le quali sia già intervenuta, o si intenda adottare, una esternalizzazione a mezzo di contratti di appalto stipulati con società in house, collegate o comunque con altri soggetti privati».
Nel medesimo parere, nondimeno, il Consiglio di Stato precisa come – stante l’impraticabilità di un’interpretazione che escluda la produzione in proprio dal computo della quota percentuale da esternalizzare – «non si [possa] al contempo non segnalare la sussistenza di alcuni dubbi di costituzionalità della norma così interpretata», individuando una «contraddizione con i principi scaturenti dall’art. 41 Cost.».
7.4.– Per le ragioni anzidette si deve quindi ritenere – conformemente a quanto sostenuto dal rimettente – che quella avversata dall’appellante sia l’unica interpretazione plausibile, oltre che conforme al criterio direttivo di cui alla legge delega.
8.– Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost. sono fondate.
8.1.– Le articolate censure mosse dal rimettente in riferimento agli indicati parametri costituzionali possono essere così sintetizzate.
Innanzitutto, il Consiglio di Stato ritiene che l’obbligo di dismissione totalitaria previsto dalle disposizioni di legge censurate, ancorché finalizzato a sanare l’originario contrasto con i principi comunitari di libera concorrenza determinatosi in occasione dell’affidamento senza gara della concessione, si traduca in un impedimento assoluto e definitivo a proseguire l’attività economica privata, comunque intrapresa ed esercitata in base ad un titolo amministrativo legittimo sul piano interno, secondo le disposizioni di legge all’epoca vigenti, con conseguente violazione dell’art. 41 Cost.
Le norme censurate determinerebbero, altresì, uno snaturamento del ruolo del privato concessionario, ridotto, secondo il rimettente, a mera stazione appaltante in contrasto sempre con l’art. 41 Cost.
La scelta legislativa operata con le norme censurate non sarebbe inoltre equilibrata, risultando in essa del tutto trascurate le legittime aspettative dei concessionari – contrapposte a quelle di tutela della concorrenza e del mercato – di proseguire l’attività economica in corso di svolgimento, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
Sarebbe infine illegittima, sempre in riferimento al parametro costituzionale da ultimo indicato, la previsione di un indistinto e generalizzato obbligo di dismissione «indipendentemente dalla effettiva dimensione della struttura imprenditoriale che gestisce la concessione, dall’oggetto e dall’importanza del settore strategico cui si riferisce la concessione, oltre che dal suo valore economico e dal fatto che il contratto di concessione fosse ancora in vigore al momento dell’entrata in vigore dell’art. 177 D.Lgs. n. 50 del 2016, ovvero se la concessione fosse scaduta e che versasse in una situazione di proroga, di fatto o meno».
8.2.– Come si evince dalla sintetica descrizione delle censure formulate dal rimettente, le questioni prospettate nell’odierno giudizio in riferimento all’art. 41 Cost. sono legate in modo pressoché inscindibile a quelle elaborate con riferimento all’art. 3 Cost., ritenendo, il giudice a quo, che nel caso di specie la limitazione della libertà di iniziativa economica privata derivante dalle norme censurate trasmodi intollerabilmente in una irragionevole compressione di detta libertà.
Tale lettura appare coerente con la giurisprudenza costituzionale in tema di restrizioni della libertà di iniziativa economica privata, che ne ha individuato il limite insuperabile nell’arbitrarietà e nell’incongruenza – e quindi nell’irragionevolezza – delle misure restrittive adottate per assicurare l’utilità sociale. Questa Corte ha, infatti, «costantemente negato che sia “configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale”, oltre, ovviamente, alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., purché, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale “non appaia arbitraria” e, “per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue” (ex plurimis, sentenze n. 247 e n. 152 del 2010; n. 167 del 2009)» (sentenza n. 56 del 2015).
Le censure prospettate in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost. possono quindi essere esaminate congiuntamente.
8.3.– Nel caso oggetto del presente giudizio, i vincoli frapposti dalle norme denunciate alla piena esplicazione della libertà di iniziativa economica non consistono, come più frequentemente accade, in misure che, al fine di assicurarne l’utilità o i fini sociali, limitano il normale dispiegarsi di tale libertà in un ambiente di libera concorrenza tra imprese, ma sono costituiti da misure espressamente dirette a favorire l’apertura alla concorrenza, attraverso la restituzione al mercato di segmenti di attività ad esso sottratti, in quanto oggetto di concessioni a suo tempo affidate senza gara alle imprese concessionarie. A questo fine è precisamente orientato, come visto, l’obbligo imposto ai concessionari di esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, l’80 per cento dei contratti relative alle concessioni, nonché di realizzare la restante parte tramite società in house, quanto ai soggetti pubblici, o società controllate o collegate, quanto ai soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato.
In questo contesto, ciò di cui il rimettente si duole è la ritenuta eccessiva gravosità di un intervento legislativo che, pur perseguendo l’apprezzabile finalità di assicurare la massima apertura possibile al mercato delle commesse pubbliche – quindi una finalità che attiene proprio al libero esercizio dell’attività di impresa – avrebbe oltrepassato i limiti segnati dalla ragionevolezza, imponendo un obbligo generalizzato di affidamento all’esterno con procedura ad evidenza pubblica della gran parte dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni affidate in passato in via diretta e di dismissione, comunque a favore di imprese formalmente distinte, anche della restante parte. Con la conseguenza che il concessionario, anziché poter decidere se eseguire esso stesso o esternalizzare, in tutto o in parte, le prestazioni oggetto della concessione, è obbligato ad affidarle nella loro totalità a terzi, ciò che finirebbe per snaturare la sua stessa attività imprenditoriale, ridotta in questo modo all’attività burocratica propria di una stazione appaltante.
La libertà di iniziativa economica privata risulta così invocata dal giudice a quo quale limite “interno” alle misure finalizzate ad assicurare la concorrenza, esse stesse dirette a garantire la medesima libertà di iniziativa economica.
8.4.– Questa Corte è dunque chiamata a verificare in che misura la libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost. – da leggere oggi anche alla luce dei Trattati e, in generale, del diritto dell’Unione europea, costituito, per quanto qui interessa, dalla normativa di cui si è descritta sopra l’evoluzione – possa essere limitata in nome della tutela della concorrenza, la quale, in quanto funzionale al libero esplicarsi dell’attività di impresa, trova nella medesima previsione il suo fondamento costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 129 e n. 7 del 2021, e n. 168 del 2020).
In questa prospettiva, libera iniziativa economica e limiti al suo esercizio devono costituire oggetto, nel quadro della garanzia offerta dall’art. 41 Cost. – considerato sia nel suo primo comma, espressamente individuato dal rimettente come parametro di legittimità costituzionale, sia nei due commi successivi che, della invocata libertà, definiscono portata e limiti – di una complessa operazione di bilanciamento. In essa vengono in evidenza, per un verso, il contesto sociale ed economico di riferimento e le esigenze generali del mercato in cui si realizza la libertà di impresa, e, per altro verso, le legittime aspettative degli operatori, in particolare quando essi abbiano dato avvio, sulla base di investimenti e di programmi, a un’attività imprenditoriale in corso di svolgimento. E al riguardo si deve sottolineare che uno degli aspetti caratterizzanti della libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta spettante all’imprenditore: scelta dell’attività da svolgere, delle modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di corrispettivo.
Se, dunque, legittimamente in base a quanto previsto all’art. 41 Cost., il legislatore può intervenire a limitare e conformare la libertà d’impresa in funzione di tutela della concorrenza, nello specifico ponendo rimedio ex post al vulnus conseguente a passati affidamenti diretti avvenuti al di fuori delle regole del mercato, il perseguimento di tale finalità incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione di tutti gli interessi coinvolti. La libertà d’impresa non può subire infatti, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe nel caso di un completo sacrificio della facoltà dell’imprenditore di compiere le scelte organizzative che costituiscono tipico oggetto della stessa attività d’impresa.
8.5.– Alla luce delle considerazioni svolte, si deve ritenere che la previsione dell’obbligo a carico dei titolari di concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, di affidare completamente all’esterno l’attività oggetto di concessione – mediante appalto a terzi dell’80 per cento dei contratti inerenti alla concessione stessa e mediante assegnazione a società in house o comunque controllate o collegate del restante 20 per cento – costituisca una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito, in quanto tale lesiva della libertà di iniziativa economica, con la conseguenza dell’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge n. 11 del 2016, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost.
8.5.1.– L’irragionevolezza dell’obbligo censurato si collega innanzitutto alle dimensioni del suo oggetto: come detto, la parte più grande delle attività concesse deve essere appaltata a terzi e la modesta percentuale restante non può comunque essere compiuta direttamente. L’impossibilità per l’imprenditore concessionario di conservare finanche un minimo di residua attività operativa trasforma la natura stessa della sua attività imprenditoriale, e lo tramuta da soggetto (più o meno direttamente) operativo in soggetto preposto ad attività esclusivamente burocratica di affidamento di commesse, cioè, nella sostanza, in una stazione appaltante. Né vale in proposito osservare che resterebbero comunque garantiti i profitti della concessione, giacché, anche a prescindere da ogni considerazione di merito al riguardo, è evidente che la garanzia della libertà di impresa non investe soltanto la prospettiva del profitto ma attiene anche, e ancor prima, alla libertà di scegliere le attività da intraprendere e le modalità del loro svolgimento.
Al riguardo giova richiamare quanto affermato da questa Corte, secondo cui «[n]on è […] contestabile che la garanzia posta nel primo comma [dell’art. 41 Cost.] nell’ambito circoscritto dai successivi due capoversi riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell’attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento; ed è ugualmente certo che, poiché l’autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all’iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione» (sentenza n. 30 del 1965).
Un ulteriore indice della irragionevolezza del vincolo, così come definito dalla previsione censurata, è costituito dalla sua mancata differenziazione o graduazione in ragione di elementi rilevanti, nel ricordato bilanciamento, per l’apprezzamento dello stesso interesse della concorrenza, quali fra gli altri le dimensioni della concessione – apparendo a tale fine di scarso rilievo la prevista soglia di applicazione alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro, normalmente superata dalla quasi totalità delle concessioni –, le dimensioni e i caratteri del soggetto concessionario, l’epoca di assegnazione della concessione, la sua durata, il suo oggetto e il suo valore economico.
Nello stabilire un obbligo di tale incisività e ampiezza applicativa il legislatore ha poi omesso del tutto di considerare l’interesse dei concessionari che, per quanto possano godere tuttora di una posizione di favore derivante dalla concessione ottenuta in passato, esercitano nondimeno un’attività di impresa per la quale hanno sostenuto investimenti e fatto programmi, riponendo un relativo affidamento nella stabilità del rapporto instaurato con il concedente. Affidamento che riguarda, inoltre, anche al di là dell’impresa e delle sue sorti, la prestazione oggetto della concessione, e quindi l’interesse del concedente, degli eventuali utenti del servizio, nonché del personale occupato nell’impresa. Interessi tutti che, per quanto comprimibili nel bilanciamento con altri ritenuti meritevoli di protezione da parte del legislatore, non possono essere tuttavia completamente pretermessi, come risulta essere accaduto invece nella scelta legislativa in esame.
8.5.2.– Per queste stesse ragioni, l’introduzione di un obbligo radicale e generalizzato di esternalizzazione, come quello disposto nella normativa censurata, non supera nemmeno – nello scrutinio del bilanciamento operato fra diritti di pari rilievo – la doverosa verifica di proporzionalità.
Per quanto la misura prevista possa in astratto apparire idonea rispetto al fine di ripristinare condizioni di piena concorrenza, non si può certo dire che con essa il legislatore abbia dato la preferenza al “mezzo più mite” fra quelli idonei a raggiungere lo scopo, scegliendo, fra i vari strumenti a disposizione, quello che determina il sacrificio minore (sentenze n. 202 del 2021, n. 119 del 2020 e n. 179 del 2019).
In questa logica, lo stesso legislatore sarebbe stato tenuto a perseguire l’obiettivo di tutela della concorrenza, non attraverso una misura radicale e ad applicazione indistinta, ma calibrando l’obbligo di affidamento all’esterno sulle varie e alquanto differenziate situazioni concrete, attenuandone la radicalità, se del caso attraverso una modulazione dei tempi, ovvero limitandolo ed escludendolo, ad esempio, laddove la posizione del destinatario apparisse particolarmente meritevole di protezione, e comunque in definitiva dando evidenza alle circostanze rilevanti in funzione di un adeguato bilanciamento dei due diversi aspetti della libertà di impresa, costituiti, come visto, dalla aspirazione a proseguire un’attività in atto, da un lato, e dall’esigenza di assicurare la piena concorrenza, dall’altro.
In conclusione, se la previsione legislativa di obblighi a carico dei titolari delle concessioni in essere, a suo tempo affidate in maniera non concorrenziale, può risultare necessaria nella corretta prospettiva di ricondurre al mercato settori di attività ad esso sottratti, le misure da assumere a tale fine non possono non tenere conto di tutto il quadro degli interessi rilevanti e operarne una ragionevole composizione, nella consapevolezza della complessità, come visto, delle scelte inerenti alla tutela da accordare alla libertà di iniziativa economica. Complessità – e quindi difficoltà nella concreta composizione a sistema degli interessi in gioco – che, d’altra parte, non sembra essere sfuggita allo stesso legislatore, che ha prorogato più volte il termine per l’adeguamento, fissandolo, da ultimo, al 31 dicembre 2022.
9.– Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 deriva l’illegittimità costituzionale dei successivi commi 2 e 3. Come precisato in precedenza, il comma 2 fissa il termine per l’adeguamento delle concessioni a quanto previsto dal comma 1, mentre il comma 3 disciplina la verifica del rispetto dei limiti di cui al predetto comma 1. Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 integrano dunque la normativa recata dal comma 1, costituendo un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro nell’obbligo di affidamento previsto nel comma 1, e devono pertanto seguire la stessa sorte.
Va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 177, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.
10.– Sono assorbite le censure prospettate dal rimettente in riferimento all’art. 97, secondo comma, Cost.