<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 27 maggio 2020 n. 100</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La norma censurata violerebbe l’art. 76 della Costituzione, in relazione ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Più in particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, che pone il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (cosiddetto gold plating), sarebbe violato perché l’onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato non sarebbe previsto dalle direttive medesime.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 1, comma 1, lettera eee), della citata legge delega sarebbe invece violato poiché prescriverebbe, «per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico», la valutazione della congruità economica delle offerte degli affidatari, nonché la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti aggiudicatori, ma non l’ulteriore onere, introdotto dal legislatore delegato, di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.− Il rimettente, nel motivare l’ammissibilità della questione, afferma che: 1) l’eccezione di inammissibilità del gravame per essere la ricorrente non legittimata all’impugnazione è infondata, dal momento che la semplice qualità di operatore del settore della gestione del servizio di parcheggio a pagamento la legittima senz’altro a impugnare l’affidamento diretto ad una concorrente; 2) il contratto per cui è causa ha ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza e rientra, in ragione dell’importo del canone di concessione (euro 200.000,00 annui, dall’11 gennaio 2018 al 31 dicembre 2023), nella soglia di rilevanza comunitaria di cui all’art. 4, lettera c), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE; 3) la norma costituisce, alla luce dell’unico motivo di ricorso, il parametro legislativo alla stregua del quale il rimettente medesimo è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato e della loro congruità e adeguatezza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.1.− La motivazione sulla rilevanza della questione è plausibile, ma con la precisazione che l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti codice dei contratti pubblici) riguarda tutti i casi di affidamento in house di contratti aventi ad oggetto «servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza», anche ove si tratti di contratti sotto soglia, per i quali, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice, è comunque prevista una gara semplificata (fatte salve ipotesi minimali di affidamento diretto non ricorrenti nel caso di specie) in alternativa a quella ordinaria (in ogni caso e quindi anche per le cennate ipotesi minimali).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò rende irrilevante la mancata motivazione sulla riconducibilità dell’affidamento oggetto del giudizio a quo al modulo dell’appalto di servizi (come sembra ritenere il rimettente, che invoca la direttiva 2014/24/UE), piuttosto che a quello della concessione, avente una soglia ben più elevata, che nel caso di specie non sarebbe raggiunta.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.− Nel merito, la questione – che ripropone sotto l’angolo visuale del vizio di delega, il noto dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, sulla natura generale o eccezionale dell’affidamento in house – non è fondata in relazione ad entrambi i parametri interposti dedotti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.− Quanto alla violazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, va in primo luogo precisato che il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (il cosiddetto gold plating) è imposto da tale criterio direttivo e dalle norme da esso richiamate, ma non è un principio di diritto comunitario, il quale, come è noto, vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi di scegliere la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per raggiungere i risultati prefissati (salvo che per le norme direttamente applicabili).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il termine gold plating, tuttavia, compare nella comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010, che reca delle riflessioni e delle proposte per il raggiungimento dell’obiettivo di una legiferazione «intelligente», comunitaria e degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tra le iniziative che la Commissione ha adottato per migliorare la qualità della legislazione vigente vi è quella di richiedere «una relazione sulle migliori pratiche negli Stati membri per un’attuazione meno onerosa della legislazione UE», contestualmente impegnandosi ad approfondire «l’analisi del fenomeno delle “regole aggiuntive” (il cosiddetto “gold plating”)».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella comunicazione si precisa che «[i]l termine gold-plating si riferisce alla prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.1.− Nel nostro ordinamento il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art. 15, comma 2, lettera b), della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012)», con l’inserimento nell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), dei commi 24-bis, ter e quater.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il comma 24-bis recita: «[g]li atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, salvo quanto previsto al comma 24-quater».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il comma 24-ter, poi, puntualizza quali debbano intendersi livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie, ovvero: «a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il comma 24-quater, infine, dispone che [l’]amministrazione dà conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli atti normativi non sottoposti ad AIR, le Amministrazioni utilizzano comunque i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma 6 del presente articolo».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.− Ebbene, da tali disposizioni emerge con chiarezza che la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La rilevanza di questa finalità è riconosciuta anche dall’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, nel parere n. 855 del 1° aprile 2016, relativo allo schema di decreto legislativo recante «Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 gennaio 2016, n. 11», in cui si osserva che «il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.1.− La correttezza di tale linea interpretativa trova poi conferma nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che, nell’affermare la non contrarietà della norma oggi scrutinata all’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche (di cui al quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione) discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna» (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa, resa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.− L’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non è dunque in contrasto con il criterio previsto dall’art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.− Nemmeno sussiste la violazione dell’art. 1, comma 1, lettera eee), della medesima legge delega, che impone, per quanto qui rileva, di garantire «adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.− Va evidenziato anzitutto che il criterio direttivo trova il suo epicentro non tanto nel generico obbligo di adeguata pubblicità e trasparenza – che, in quanto principio fondamentale dell’azione amministrativa (art. 97 Cost. e art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), non richiede una conferma nelle normative di settore – quanto nel suo essere riferito, in particolare, agli affidamenti diretti, segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È dunque alla stregua di questo dato che occorre valutare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione circa il mancato ricorso al mercato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.1.− La valutazione, peraltro, va fatta anche alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, che riconosce al legislatore delegato margini di discrezionalità e la necessità di tener conto del quadro normativo di riferimento (sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013), specie quando la delega «riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi» (sentenza n. 10 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 229 del 2014 e n. 162 del 2012).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Quest’ultimo criterio interpretativo è particolarmente calzante nel caso in esame, in cui si è in presenza di un “codice”, che, come è tipico di tale corpo normativo nell’ambito amministrativo, nell’adeguare la normativa nazionale alle direttive europee, si prefigge anche lo scopo di razionalizzare una disciplina di settore stratificatasi nel tempo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>9.− La norma delegata, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, ai sensi dell’art. 192 del codice dei contratti pubblici.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>9.1.− Già l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum,</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>richiedeva, tra le altre condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house nella materia dei servizi pubblici locali, la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’onere motivazionale in questione, poi, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, non si discosta, nella sostanza, da quello imposto dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Quest’ultima disposizione, infatti, richiede l’indicazione delle «ragioni» dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto della parità degli operatori e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento, e ciò non può che essere letto come necessità di rendere palesi (anche) i motivi che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere all’in house invece di rivolgersi al mercato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A sua volta, l’art. 7, comma 3, dello schema di decreto legislativo di riforma dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (adottato ai sensi degli artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), stabiliva, tra l’altro, che, «[n]el caso di affidamento in house o di gestione mediante azienda speciale, il provvedimento dà, altresì, specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che reca la rubrica «[o]neri di motivazione analitica», manifesta la stessa cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica […] deve essere analiticamente motivato […], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>9.2.− Si tratta di una scelta di fondo già vagliata da questa Corte, che – con specifico riferimento alle condizioni allora poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, ma con affermazioni estensibili anche al caso odierno – ha osservato: «[s]iffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato» (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.− Si deve dunque concludere che la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>11.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, sollevata dal TAR Liguria in riferimento all’art. 76 Cost. ed in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge n. 11 del 2016, va quindi dichiarata non fondata.</em></p>