<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 9 luglio 2019 n. 166</strong><strong> </strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 37, comma 1, 39, commi 1 e 3, e 45 della legge della Regione Sardegna 13 marzo 2018, n. 8 (Nuove norme in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture); l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 37, commi 2, 3, 4 e 8, e dell’art. 39, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018; va invece dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Secondo la costante giurisprudenza della Corte, «</em>il giudizio promosso in via principale è giustificato dalla mera pubblicazione di una legge che si ritenga lesiva della ripartizione di competenze, a prescindere dagli effetti che essa abbia prodotto<em> </em>(ex multis, sentenze n. 195 del 2017, n. 262 del 2016 e n. 118 del 2015<em>)» (sentenza n. 178 del 2018). In altri termini, poiché le norme censurate non hanno una funzione meramente ricognitiva, né sono comunque prive di portata precettiva (sentenza n. 83 del 2018, che richiama le sentenze n. 63 del 2016, n. 254 e n. 77 del 2015, n. 230 del 2013, n. 346 e n. 52 del 2010, n. 401 del 2007), «</em>l’asserita lesione dei criteri di ripartizione delle competenze legislative statali giustifica l’impugnativa in esame<em>» (sentenza n. 178 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Lo sviluppo argomentativo del ricorso dello Stato rende evidente, nel caso di specie, come il richiamo alla tutela della concorrenza e all’ordinamento civile serva a lumeggiare la natura di parametro interposto delle richiamate norme del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), parametro che, anche alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, riempie di contenuto i limiti statutari alla potestà legislativa regionale in materia di lavori pubblici (sentenze n. 263 del 2016 e n. 187 del 2013). Il fatto poi che il ricorrente non abbia preso in considerazione anche le materie dell’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione di cui all’art. 3, lettera a), dello statuto e dell’organizzazione amministrativa di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. – invocate dalla resistente e già prima facie rilevanti per l’inquadramento degli ambiti materiali di alcune delle disposizioni impugnate – non attiene all’ammissibilità ma al merito delle questioni, risolvendosi nell’individuazione del titolo di competenza cui ascrivere la disciplina impugnata (sentenze n. 252 del 2016, n. 199 del 2014 e n. 36 del 2013).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Prima di esaminare il merito delle questioni proposte, è opportuno rammentare brevemente gli approdi della giurisprudenza della Corte sul riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni a statuto speciale e le Province autonome in ordine alle discipline, dettate dal codice dei contratti pubblici, della scelta del contraente nelle procedure ad evidenza pubblica e del perfezionamento del vincolo negoziale e della relativa esecuzione. È pacifico infatti che le disposizioni del codice dei contratti pubblici regolanti le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza; esse inoltre vanno ascritte all’area delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, nonché delle norme con le quali lo Stato ha dato attuazione agli obblighi internazionali nascenti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea (sentenze n. 263 del 2016, n. 187 e n. 36 del 2013, n. 74 del 2012, n. 328, n. 184 e n. 114 del 2011, n. 221 e n. 45 del 2010). Le disposizioni dello stesso codice che regolano gli aspetti privatistici della conclusione ed esecuzione del contratto sono riconducibili all’ordinamento civile (sentenze n. 176 del 2018 e n. 269 del 2014); esse, poi, recano princìpi dell’ordinamento giuridico della Repubblica (sentenze n. 269 del 2014 e n. 187 del 2013) e norme fondamentali di riforma economico-sociale (sentenze n. 74 del 2012, n. 114 del 2011 e n. 221 del 2010). Le considerazioni che precedono, espresse nella vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), devono essere confermate anche in relazione al d. lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti: nuovo codice dei contratti pubblici), che ne ha preso il posto, in attuazione della legge delega 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture). La Regione resistente ha invocato alternativamente la propria competenza statutaria dell’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi e quella residuale dell’organizzazione amministrativa ex art. 117, quarto comma, Cost. Quanto alla seconda, è palese che una Regione, nell’esercizio della propria competenza residuale, non può derogare a tassative e ineludibili disposizioni riconducibili a competenze esclusive statali. Quanto alla prima, invece, non è da escludere in linea di principio che gli statuti possano incidere su quest’ultime riservandole, in parte, alle autonomie speciali, ma ciò evidentemente richiede una puntuale allegazione dell’esistenza e della portata delle norme statutarie, in difetto della quale anche per esse non potrà non trovare applicazione la disciplina statale (sentenza n. 119 del 2019). Al contrario, in presenza di tali competenze statutarie occorrerà verificare se esse incontrino o meno i limiti propri della legislazione in questione: i principi dell’ordinamento giuridico, gli obblighi internazionali, gli interessi nazionali e le norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Venendo all’esame della prima delle questioni proposte dal ricorrente, essa ha ad oggetto l’art. 34, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018. Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che, ai sensi del comma 1 di tale articolo, «</em>Per ogni singolo intervento da realizzarsi mediante un contratto pubblico, le amministrazioni aggiudicatrici<em> […] </em>nominano un responsabile unico del procedimento per le fasi della programmazione, della progettazione, dell’affidamento e dell’esecuzione del contratto pubblico. Tali fasi costituiscono, unitariamente considerate, il progetto del contratto pubblico e il responsabile unico del procedimento è il “responsabile di progetto”». <em>L’unicità del responsabile del procedimento verrebbe tuttavia meno allorché, al comma 2, si conferisce facoltà alle amministrazioni aggiudicatrici di nominare un responsabile per le fasi di programmazione, progettazione ed esecuzione e un altro responsabile per la fase di affidamento. La questione non è fondata. La Corte, con la sentenza n. 43 del 2011, richiamata dalla Regione resistente, in relazione a una simile disposizione di una legge della Regione Umbria, censurata dallo Stato per gli stessi profili, ha osservato: «</em>la legge regionale<em> […] </em>ha previsto, al comma 2, la regola del responsabile unico del procedimento, limitandosi a stabilire che le amministrazioni aggiudicatrici, “nell’ambito dell’unitario procedimento di attuazione dell’intervento”, possono individuare sub-procedimenti senza che ciò incida sulla unicità del centro di responsabilità. Avendo riguardo allo specifico contenuto precettivo delle disposizioni impugnate, deve, pertanto, rilevarsi come la disciplina delle modalità organizzative dell’attività del responsabile unico del procedimento rientri nella materia della organizzazione amministrativa, riservata alle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.». <em>Le medesime considerazioni valgono per la disposizione oggi impugnata, poiché, ai sensi del comma 3 del medesimo art. 34, l’unicità del centro di responsabilità procedimentale è garantita dal «</em>responsabile di progetto<em>», il quale «</em>coordina l’azione dei responsabili per fasi, se nominati ai sensi del comma 2, anche con funzione di supervisione e controllo<em>». La disposizione impugnata non è, dunque, in contrasto con il principio di responsabilità unica, posto dall’invocato art. 31, comma 1, del nuovo codice dei contratti a tutela di unitarie esigenze di trasparenza e funzionalità della procedura di gara, preordinata alla corretta formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione, e di accentramento del regime della responsabilità dei funzionari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La seconda questione di legittimità costituzionale proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri ha ad oggetto l’art. 37, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, rubricato «</em>Commissione giudicatrice<em>», nella parte in cui prevede che, «</em>ai fini della nomina dei componenti della commissione di gara, la Regione istituisce<em> […] </em>l’Albo telematico dei commissari di gara, suddiviso per categorie di specializzazione, a cui le stazioni appaltanti hanno accesso libero e diretto<em>», e gestito «</em>secondo criteri e modalità individuati con apposito decreto del Presidente della Regione, da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge<em>» (art. 37, comma 4). Secondo il ricorrente, la norma impugnata si discosterebbe dall’art. 78 del nuovo codice dei contratti pubblici, il quale – in attuazione dell’art. 1, comma 1, lettera hh), della legge delega n. 11 del 2016 – istituisce «</em>presso l’ANAC, che lo gestisce e lo aggiorna secondo criteri individuati con apposite determinazioni, l’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici<em>», conferendo, altresì, all’Autorità la competenza di definire, con apposite linee guida, i criteri e le modalità di iscrizione, nonché le modalità di funzionamento delle commissioni giudicatrici. La questione è fondata. Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell’operare la drastica scelta di sottrarre la nomina dei commissari di gara alle stazioni appaltanti, ha previsto l’istituzione e la gestione, a cura dell’ANAC, di un unico «</em>Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici<em>», dal quale, sulla base del principio di rotazione, l’Autorità estrae «</em>una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare<em>», che comunica alla stazione appaltante, la quale, a sua volta, procede alla loro individuazione «mediante pubblico sorteggio» (art. 77 del d.lgs. n. 50 del 2016). Deve anzi rilevarsi che il legislatore statale, in sede di redazione del decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), aveva previsto un’articolazione regionale dell’albo gestito dall’ANAC, ma tale modifica è stata espunta a seguito del parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato 22 marzo 2017, n. 782, ove si è osservato che essa avrebbe determinato «</em>la pressoché sistematica nomina, quali commissari, di soggetti radicati nella medesima area geografica interessata dall’appalto<em>» e che la pure condivisibile finalità di razionalizzazione delle spese dovute alle trasferte dei commissari avrebbe potuto essere affrontata altrimenti (utilizzando, ad esempio, la tecnica del lavoro a distanza con procedure telematiche). È vero, come eccepito dalla resistente Regione, che la Corte, con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, ha affermato che «</em>gli aspetti connessi alla composizione della commissione giudicatrice e alle modalità di scelta dei suoi componenti attengono, più specificamente, alla organizzazione amministrativa<em>» (sentenze n. 43 del 2011 e n. 401 del 2007) e, sulla base di tale inquadramento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 84, commi 2, 3, 8 e 9, del decreto legislativo n. 163 del 2006, nella sola «</em>parte in cui, per i contratti inerenti a settori di competenza regionale, non prevede che le norme in esso contenute abbiano carattere suppletivo e cedevole<em>» (sentenza n. 401 del 2007). Tale inquadramento, tuttavia, non può più ritenersi attuale, dal momento che la sottrazione della scelta dei commissari di gara alle stazioni appaltanti rappresenta una radicale innovazione del nuovo codice dei contratti chiaramente ispirata a finalità di trasparenza, imparzialità, tutela della concorrenza e prevenzione di reati (in questo senso, si veda anche il parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato 21 marzo 2016, n. 855, avente ad oggetto lo schema di decreto legislativo recante «</em>Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione<em>»). La Corte, del resto, nell’esaminare le censure mosse dalla Regione Veneto ad alcune disposizioni regolanti l’istituzione e le funzioni dell’Autorità di regolazione dei trasporti, tra cui figurava la competenza a stabilire i criteri per la nomina delle commissioni giudicatrici, ha osservato che «</em>le disposizioni impugnate, pur avendo attinenza con la materia del trasporto pubblico locale, perseguono precipuamente una finalità di promozione della concorrenza e quindi afferiscono alla competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (ex plurimis, sentenza n. 325 del 2010<em>)» (sentenza n. 41 del 2013). La disposizione impugnata, in definitiva, pur incidendo sull’organizzazione amministrativa, deve essere ricondotta alle competenze esclusive statali della tutela della concorrenza e dell’ordine pubblico (esercitate con l’invocato art. 78 del nuovo codice dei contratti pubblici). In questa prospettiva risulta chiara anche l’infondatezza della deduzione della resistente circa l’illegittimità della compressione della propria autonomia statutaria ad opera degli atti di regolazione dell’Autorità. Prescindendo, peraltro, dal corretto inquadramento di tali atti, l’esistenza di una competenza esclusiva dello Stato esclude la violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., unico parametro rilevante, poiché non sono qui in discussione le modalità di esercizio di tale competenza. Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va poi dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale dei commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 37 della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, che, nel regolare alcuni aspetti della nomina delle commissioni giudicatrici, si riferiscono all’albo telematico regionale e ne presuppongono l’operatività, così palesando la stretta connessione e l’inscindibile legame funzionale con la disposizione impugnata (tra le tante, sentenze n. 68 del 2014, n. 332 del 2010 e n. 138 del 2009).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La terza questione di legittimità costituzionale investe l’art. 39, commi 1 e 3, della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, rubricato «</em>Linee guida e codice regionale di buone pratiche<em>», che, secondo il ricorrente Stato, si sovrapporrebbe alle competenze che l’art. 213, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici, in attuazione dell’art. 1, comma 1, lettera t), della citata legge delega, attribuisce all’ANAC, chiamata ad adottare atti di indirizzo, quali «</em>linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile<em>». Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, il rapporto tra le funzioni dell’Autorità di vigilanza nell’approvazione dei bandi-tipo e l’obbligo di adeguamento delle stazioni appaltanti risponderebbe ad esigenze unitarie, che escludono margini di intervento del legislatore regionale. A ciò si dovrebbe aggiungere che le funzioni svolte dall’Autorità di regolazione mirano a garantire la tutela e la promozione della concorrenza e la realizzazione di mercati concorrenziali. La questione è fondata. Le disposizioni censurate, analogamente a quanto già visto con riferimento all’albo dei commissari, istituiscono un sistema parallelo e alternativo a quello nazionale, ove «</em>le linee guida<em>», «</em>i bandi-tipo<em>», i «</em>capitolati-tipo<em>», i «</em>contratti-tipo<em>» e gli altri «</em>strumenti di regolazione flessibile<em>», rimessi dall’art. 213, comma 2, del codice dei contratti pubblici all’ANAC, vengono sostituiti da «</em>linee guida<em>», «</em>documentazione standard<em>», «</em>capitolati speciali<em>» e «</em>schemi di contratto<em>», e dal «</em>codice regionale di buone pratiche<em>». Ai primi (le linee guida, la documentazione standard, i capitolati speciali e gli schemi di contratto), il legislatore regionale affida, tra l’altro, l’individuazione di «</em>parametri utili alla valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa<em> […] </em>e alla valutazione della congruità delle offerte anormalmente basse<em>», ma, data la loro tipologia, è anche chiaro che essi sono destinati a ulteriormente incidere, in vario modo, sulla regolazione sia della procedura ad evidenza pubblica a monte sia del negozio pubblico a valle (si pensi, in particolare, ai capitolati speciali e agli schemi di contratto). Il codice regionale di buone pratiche, poi, «</em>costituisce parte integrante del contratto d’appalto<em>» ed è «</em>rivolto a facilitare l’accesso delle micro e piccole e medie imprese agli appalti pubblici<em>». Le norme censurate − estranee all’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e riconducibili alla materia statutaria dei lavori pubblici regionali − si pongono dunque in contrasto con l’invocata disposizione del codice dei contratti pubblici che, nell’attribuire all’ANAC la regolazione dei medesimi aspetti della procedura pubblica e della fase negoziale ed esecutiva, è esplicazione della tutela della concorrenza e dell’ordinamento civile. Né a diversa conclusione conduce l’osservazione della Regione secondo cui il contrasto sarebbe escluso dalla previsione che tutti gli atti regionali menzionati devono essere adottati «</em>in coerenza<em>» con le linee guida e con i bandi tipo dell’ANAC. La Corte, con riferimento ai bandi tipo approvati dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ricondotti all’ambito materiale della tutela della concorrenza, ha già escluso la competenza a legiferare delle autonomie speciali, poiché il «</em>rapporto tra le funzioni dell’Autorità di vigilanza nell’approvazione dei bandi-tipo e l’obbligo di adeguamento delle stazioni appaltanti risponde ad esigenze unitarie, che non tollerano alcun margine di discrezionalità “intermedio” riservato alla Giunta provinciale: il legislatore provinciale risulta pertanto – alla luce della sopra menzionata giurisprudenza di questa Corte – privo del titolo competenziale ad intervenire in subiecta materia<em>» (sentenza n. 187 del 2013). Tali considerazioni valgono anche per le disposizioni oggi impugnate, senza che rilevi la circostanza che in quell’occasione la norma scrutinata prevedesse un potere della Giunta di adottare bandi tipo «</em>sulla base<em>» di – e non «</em>in coerenza<em>» con – quelli approvati dall’Autorità, perché in entrambi i casi resta l’osservazione di fondo, estensibile anche agli altri atti previsti dal legislatore regionale, che «</em>l’obbligo di adeguamento delle stazioni appaltanti<em>» agli atti dell’Autorità «</em>risponde ad esigenze unitarie, che non tollerano alcun margine di discrezionalità “intermedio” riservato alla Giunta<em>» regionale. Ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, va poi dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale del comma 2 dell’art. 39 della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, dal momento che esso assegna ulteriori contenuti alle linee guida di cui al comma 1, travolto dalla presente pronuncia, sì che la disposizione in parola viene a mancare di oggetto (tra le tante, sentenze n. 166 del 2014 e n. 187 del 2013).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’ultima questione di legittimità costituzionale investe l’art. 45 della legge reg. Sardegna n. 8 del 2018, rubricato «</em>Qualificazione delle stazioni appaltanti<em>», il quale dispone che, «</em>Con deliberazione della Giunta regionale, da adottarsi su proposta del Presidente della Regione entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presene legge, ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti, sono definiti i requisiti necessari sulla base dei criteri di qualità, efficienza e professionalizzazione, tra cui, per le centrali di committenza, il carattere di stabilità delle attività e di relativo ambito territoriale, tenendo conto dei principi previsti dalla normativa statale vigente<em>». Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la disposizione censurata non è coordinata con quanto disposto dalle lettere bb) e dd) dell’art. 1, comma 1, della legge delega n. 11 del 2016, che demandano al legislatore delegato la «</em>razionalizzazione delle procedure di spesa attraverso l’applicazione di criteri di qualità, efficienza, professionalizzazione delle stazioni appaltanti, prevedendo<em> […] </em>l’introduzione di un apposito sistema, gestito dall’ANAC, di qualificazione delle medesime stazioni appaltanti, teso a valutarne l’effettiva capacità tecnica e organizzativa, sulla base di parametri obiettivi<em>», nonché attraverso adeguate forme di centralizzazione delle committenze e di riduzione del numero delle amministrazioni aggiudicatrici basate proprio sul sistema di qualificazione, che consente di gestire contratti di diversa complessità a seconda del grado di abilitazione conseguito. La norma censurata, conseguentemente, sarebbe in contrasto anche con l’art. 38, comma 1, del nuovo codice dei contratti pubblici, che, in esecuzione dei cennati criteri di delega, istituisce presso l’ANAC, che ne assicura la pubblicità, un apposito elenco delle stazioni appaltanti qualificate di cui fanno parte anche le centrali di committenza. La questione è fondata. In attuazione dei criteri di cui alle lettere bb), cc) e dd) dell’art. 1 della legge delega n. 11 del 2016, l’art. 37 del nuovo codice dei contratti pubblici, rubricato «</em>Aggregazione e centralizzazione delle committenze<em>» e l’art. 38, rubricato «</em>Qualificazione delle stazioni appaltanti e centrali di committenza<em>», hanno introdotto una delle innovazioni più importanti, un vero e proprio “</em>pilastro<em>” del sistema degli acquisti pubblici. Il legislatore ha infatti optato per una scelta decisa a favore della riduzione del numero delle stazioni appaltanti nonché della loro professionalizzazione, cosicché la qualificazione è oggi richiesta non più soltanto agli operatori economici ma anche alle amministrazioni aggiudicatrici, secondo standard predefiniti e sistemi premianti, che consentono, man mano che aumenta il livello di qualificazione, di appaltare opere, lavori e servizi di importo elevato e di maggiore complessità. La riduzione, aggregazione, centralizzazione e qualificazione delle stazioni appaltanti risponde a diverse finalità: 1) beneficiare di economie di scala e attribuire alle amministrazioni aggiudicatrici un maggior potere contrattuale; 2) innalzare, anche al fine di favorire la concorrenza, la professionalizzazione e la specializzazione delle stazioni appaltanti; 3) agevolare le missioni dell’ANAC di prevenire fenomeni corruttivi e assicurare la corretta gestione delle commesse pubbliche, mediante la riduzione del novero dei soggetti da controllare. Il sistema della qualificazione, dunque, anche se incide sull’organizzazione, va inquadrato in un ambito materiale caratterizzato dal concorso delle competenze statali esclusive della tutela della concorrenza, dell’ordine pubblico, e di quella concorrente del coordinamento della finanza pubblica. Quanto al profilo della concorrenza, espressamente invocato dallo Stato, può essere utile ricordare come le direttive comunitarie, sulla scorta anche di esperienze positive registratesi in diversi paesi dell’Unione, pur senza imporre obblighi specifici, abbiano sottolineato l’importanza di centralizzare e aggregare la committenza. In particolare, il considerando 69 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, e il considerando n. 78 della direttiva 2014/25/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE – con riferimento alle centrali di committenza ma con ragionamento estensibile anche alle aggregazioni delle stazioni appaltanti e al correlato sistema della qualificazione – affermano che «</em>Tali tecniche possono contribuire, dato l’ampio volume degli acquisti, a un aumento della concorrenza e dovrebbero aiutare a professionalizzare la commessa pubblica<em>». Del resto, già l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con la segnalazione n. 99 del 2010, recante «</em>proposte di modifiche normative per incrementare la concorrenza nel settore dei lavori pubblici<em>», aveva osservato che «</em>Un mercato dei contratti pubblici pienamente competitivo presuppone un generale accrescimento della qualità delle imprese e della pubblica amministrazione che vi partecipano anche al fine della piena assunzione delle responsabilità operative che ne discendono. Ciò significa che contestualmente ad un intervento di rivisitazione del sistema di qualificazione delle imprese, accompagnato, ove necessario, da un corredo di criteri quantitativi e qualitativi, appare necessario intervenire anche per una corrispondente qualificazione delle stazioni appaltanti. Esiste nel nostro Paese un problema strutturale di efficienza della domanda e dell’offerta<em>». La disposizione censurata, dunque, introducendo un non meglio precisato sistema di qualificazione affidato alla Giunta regionale, parallelo e distinto rispetto a quello nazionale, pur incidendo sull’organizzazione amministrativa, deve essere ricondotta alle competenze esclusive statali della tutela della concorrenza e dell’ordine pubblico (esercitate anche con l’invocato art. 38 del nuovo codice dei contratti pubblici). Anche in questo caso, dunque, si manifesta l’infondatezza della deduzione della resistente circa l’illegittimità della compressione della propria autonomia statutaria ad opera degli atti di regolazione dell’Autorità, alla stregua di quanto già chiarito a proposito dell’affidamento all’ANAC della gestione dell’albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme regionali impugnate non comporta alcun vuoto normativo, trovando applicazione la disciplina dettata in materia dal nuovo codice dei contratti pubblici (sentenze n. 263 del 2016 e n. 114 del 2011).</em></p>