Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 12 gennaio 2023 n. 877
PRINCIPIO DI DIRITTO
La pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1. La questione rimessa alle Sezioni Unite è stata così formulata: «se configuri “pena illegale“, ai fini del sindacato di legittimità sul patteggiamento, quella fissata sulla base di un’erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, in violazione del criterio unitario previsto dall’art. 69, comma terzo, cod. pen.».
2. Prima di esaminare la questione controversa, è necessario evidenziare che, secondo il pacifico orientamento di questa Corte, la recidiva non diversamente qualificata dal capo d’imputazione deve ritenersi “semplice”, ex art. 99, comma primo, cod. pen. (sull’onere di specifica contestazione delle forme di recidiva qualificata, cfr. Sez. 1, n. 19681 del 08/02/2001, Chiardola, Rv. 219283-01 e Sez. 6, n. 35335 del 27/02/1996, Caccavallo, Rv. 205072-01; sulla necessità di ritenere la recidiva come “semplice” qualora non vi sia stata contestazione di una specifica, diversa e più grave tipologia tra quelle previste dall’art. 99 cod. pen., cfr. Sez. 3, n. 43795 del 01/12/2016, Bencantando, Rv. 270843-01 e Sez. 2, n. 5663 dei 20/11/2012, dep. 2013, Alexa Catalin, Rv. 254692-01).
Di conseguenza, nessun problema si poneva quanto alla facoltà dell’imputato di accedere al rito alternativo prescelto, atteso che l’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. la preclude unicamente al recidivo qualificato ex art. 99, comma quarto, cod. pen., “qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.
3. Secondo il ricorrente e secondo l’ordinanza di rimessione, nel caso di specie la sentenza impugnata avrebbe implicitamente ritenuto le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla sola recidiva semplice, senza considerare, nel bilanciamento, le ulteriori circostanze aggravanti inerenti al reato di furto contestato all’imputato (artt. 61, comma primo, nn. 5 e 7, e 625, comma primo, nn. 2, 5 e 7, cod. pen.), non escluse: ciò sarebbe confermato dal fatto che non risulta operata una riduzione di pena per le ritenute circostanze attenuanti generiche, né risulta operato un aumento di pena per la contestata recidiva, neppure esclusa.
3.1. L’assoluto silenzio della motivazione della sentenza impugnata sul punto non consente di ritenere che la contestata recidiva sia stata esclusa, né che le riconosciute circostanze attenuanti generiche siano state ritenute subvalenti rispetto alle circostanze aggravanti concorrenti. D’altro canto, se, da un lato, il Tribunale risulta avere pedissequamente recepito l’accordo intervenuto inter partes, riportandolo integralmente in sentenza, dall’altro deve rilevarsi che, nella proposta di “patteggiamento” (esistente in atti), il procuratore speciale dell’imputato afferma espressamente che il reato giudicando è più grave quoad poenam del reato separatamente giudicato che si richiede ritenersi unificato al primo ex art. 81, comma secondo, cod. pen., il che non corrisponderebbe al vero se le circostanze attenuanti generiche fossero state ritenute equivalenti a tutte le circostanze aggravanti concorrenti.
Deve, pertanto, ritenersi che la determinazione della pena applicata all’imputato su concorde richiesta sua e del pubblico ministero sia avvenuta previo bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche con la sola recidiva semplice (con – a quanto pare – implicito giudizio di equivalenza), non anche con le plurime ulteriori circostanze che aggravavano il contestato reato di furto.
3.2. Risulta, conseguentemente, violato (in difetto di circostanze aggravanti “privilegiate” nel giudizio di comparazione, ovvero da valutare autonomamente, fuori dal bilanciamento, per espressa previsione di legge: cfr. Sez. U, n. 42414 del 29/4/2021, Cena, Rv. 282096-01 relativa alla disposizione speciale di cui all’art. 624-bis, comma quarto, cod. pen.) l’art. 69, comma terzo, cod. pen., a norma del quale il giudizio di bilanciamento ha carattere unitario, dovendo riguardare tutte le circostanze coinvolte nel procedimento di comparazione, sia comuni che ad effetto speciale, in quanto la disciplina differenziata per queste ultime concerne solo l’applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena e non il concorso di circostanze attenuanti ed aggravanti.
La preclusione al bilanciamento unitario opera, infatti, solo nei casi in cui vi sia un espresso divieto di comparazione (Sez. 2, n. 17347 del 26/01/2021, Angelini, Rv. 281217-01): in difetto, non è consentito operare il bilanciamento tra le circostanze attenuanti ed una sola (o soltanto alcune) delle circostanze aggravanti concorrenti, dovendosi invece procedere alla simultanea comparazione di tutte le circostanze contestate e ritenute dal giudice (Sez. 1, n. 28109 del 11/06/2021, Cardaropoli, Rv. 281671-01; Sez. 5, n. 12988 del 22/02/2012, Benatti, Rv. 252313-01; Sez. 5, n. 4991 del 28/04/1981, Morandi, Rv. 149034- 01).
3.3. Diversamente da quanto afferma il ricorrente, nella sentenza emessa dal medesimo giudicante all’esito del giudizio abbreviato celebrato nei confronti dei coimputati (allegata al ricorso) non può dirsi intervenuto analogo errore, atteso che, in dispositivo, viene espressamente ritenuta l’equivalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche alle circostanze aggravanti concorrenti ed alla recidiva contestata e ritenuta.
4. In ordine alla possibilità di ricorrere per cassazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, facendo valere l’asserita illegalità della pena, contro una sentenza emessa ai sensi degli articoli 444 e seguenti cod. proc. pen., come anticipato, si registrano diverse opzioni esegetiche di questa Corte.
4.1. Un orientamento sostiene che, nel c.d. “patteggiamento”, la legalità, in relazione all’osservanza dei limiti edittali, della pena applicata va valutata considerando non soltanto la pena conclusivamente determinata, ma anche i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione (tra i quali rientrano anche quelli inerenti al bilanciamento delle circostanze eterogenee concorrenti). Il principio è stato affermato in relazione a due diverse tipologie di situazioni.
4.1.1. In alcuni casi sono stati valorizzati errori che avevano portato all’applicazione di una pena la cui ritenuta illegalità costituiva oggettiva conseguenza delle valutazioni effettuate, o comunque dell’omissione di valutazioni che sarebbero state vincolate, e non meramente discrezionali. Ad esempio: – Sez. 5, n. 5018 del 19/10/1999, dep. 2000, Rezel, Rv. 215673-01, ha annullato la sentenza di “patteggiamento” relativa al delitto di rissa aggravata, per il quale, a seguito del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle circostanze aggravanti speciali dell’art. 588 cod. pen., avrebbe dovuto essere applicata la pena pecuniaria e non, come al contrario avvenuto nel caso in esame, quella detentiva; – Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi, non mass., ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che aveva computato la pena base nella misura di giorni novanta di reclusione, a fronte del minimo edittale pari a mesi sei di reclusione; Sez. 4, n. 2376 del 06/12/2013, dep. 2014, Marzano, non mass., ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che, ritenuto più grave il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, attenuato ai sensi del comma 5 della medesima disposizione (all’epoca non ancora costituente autonomo reato), non aveva bilanciato la predetta circostanza con la concorrente recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen., ritenendo quest’ultima (che ex lege non sarebbe stato possibile giudicare subvalente) equivalente alle sole circostanze attenuanti generiche; – Sez. 4, n. 10688 del 05/03/2020, Tonoli, Rv. 278970 – 01, ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che aveva applicato la pena minima edittale per il reato principale, senza operare alcun aumento per la continuazione, poi riducendola per le circostanze attenuanti e per il rito; – Sez. 6, n. 4726 del 20/01/2021, Casati, Rv. 280875 – 01, ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che, ritenuta la sussistenza della recidiva reiterata ex art. 99, comma quarto, cod. pen., aveva disposto un aumento per la continuazione inferiore al minimo di un terzo della pena irrogata per il reato più grave; – Sez. 2, n. 4798 del 28/10/2020, dep. 2021, Ouertani, non mass., ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che aveva ritenuto la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva specifica ed infraquinquennale, in violazione del divieto posto dall’art. 69, comma quarto, cod. pen.
4.1.2. In altri casi, sono stati valorizzati errori che avevano portato all’applicazione di una pena la cui illegalità era meramente eventuale, perché condizionata all’esito di valutazioni doverose, ma omesse, per essere stato operato il giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e soltanto alcune delle circostanze aggravanti concorrenti. Ad esempio: – Sez. 5, n. 24054 del 23/05/2014, Restaino, Rv. 259894-01, ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che aveva bilanciato le circostanze attenuanti generiche soltanto con la recidiva, non anche con le circostanze aggravanti speciali della rissa, pure concorrenti; – Sez. 5, n. 9818 del 27/01/2021, Santese, Rv. 280626-01, ha annullato la sentenza di “patteggiamento” che aveva bilanciato le circostanze attenuanti generiche soltanto con la recidiva, non anche con le circostanze aggravanti speciali del furto, pure concorrenti.
4.2. Atro orientamento sostiene, al contrario, che, nel “patteggiamento”, l’illegalità della pena va determinata avendo riguardo alla pena finale applicata, non anche ai passaggi intermedi che portano alla sua determinazione, poiché soltanto il risultato finale delle predette operazioni di computo della pena costituisce espressione ultima e definitiva dell’incontro delle volontà delle parti: di conseguenza, non sarebbe “illegale”, nel senso richiesto dall’art. 448, comma 2- bis, cod. proc. pen., se non eccedente, per specie o quantità, il limite legale, la pena determinata dal giudice non operando simultaneamente il giudizio di bilanciamento tra le circostanze eterogenee concorrenti bilanciabili, in quanto essa – pur erroneamente determinata – corrisponde pur sempre, per specie e quantità, a quella astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice. Non sarebbe, pertanto, “pena illegale” quella viziata dalla violazione dei parametri di cui all’art. 69 cod. pen., inerenti al bilanciamento delle circostanze del reato, o di cui all’art. 133 cod. pen., inerenti alla misura delle diminuzioni conseguenti alla loro applicazione (Sez. 6, n. 28031 del 27/4/2021, Di Bernardo, Rv. 282104 – 01; Sez. 5, n. 19757 del 16/4/2019, Bonfiglio, Rv. 276509 – 01; Sez. 3, n. 28641 del 28/05/2009, Fontana, Rv. 244582 – 01).
4.2.1. In applicazione del principio, sono stati ritenuti non deducibili in sede di legittimità i vizi consistenti: – nell’avere determinato la pena per il delitto circostanziato tentato ascritto all’imputato applicando l’aumento per la circostanza aggravante dopo la riduzione per il tentativo e non antecedentemente ad esso, «non essendo illegale la pena calcolata con modalità erronee, che non sia di specie diversa da quella prevista dalla norma incriminatrice e sia compresa nella cornice edittale» (Sez. 2, n. 14320 del 23/02/2022, Perone, Rv. 282979-01); – nell’avere operato il giudizio di bilanciamento tra circostanze senza procedere alla simultanea comparazione di tutte le circostanze attenuanti ed aggravanti, poiché «l’erronea pena così determinata corrisponde comunque, per specie e quantità, a quella astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice» (Sez. 6, n. 28031 del 27/4/2021, Di Bernardo, Rv. 282104 – 01); – nell’avere omesso l’aumento per la continuazione tra i reati, «non trattandosi di pena illegalmente determinata» (Sez. 5, n. 15413 del 28/01/2020, Rama, Rv. 279080 – 01); – nell’omesso bilanciamento della circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. con le circostanze attenuanti generiche (Sez. 5, n. 19757 del 16/4/2019, Bonfiglio, Rv. 276509 – 01); – nell’avere computato l’aumento per la recidiva sulla pena già aumentata per la continuazione (Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915 – 01).
5. Analoga questione può porsi con riferimento al concordato in appello, disciplinato dall’art. 599-bis cod. proc. pen.
5.1. In proposito, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere, in linea di principio, che la sentenza che abbia ratificato il concordato proposto dall’imputato è ricorribile per cassazione se la pena concordata è illegale (Sez. 3, n. 19983 del 09/06/2020, Coppola, Rv. 279504-01; Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278170-01; Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102-01). E’ pacifica l’ammissibilità del ricorso nel caso in cui la pena concordata risulti illegale per effetto di una sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale riguardante i precedenti limiti edittali della norma incriminatrice violata (Sez. 6, n. 16192 del 16/03/2021, Di Maria, Rv. 280881-01; Sez. 4, n. 21901 del 10/07/2020, Abbrescia, Rv. 279765-01; Sez. 6, n. 41461 del 12/09/2019, Baglio, Rv. 276803-01). Fuori dal caso predetto, è stato ammesso il ricorso avverso la sentenza che, avendo accolto la proposta di concordato che aveva ridotto la pena irrogata in primo grado ad una misura inferiore ad anni tre anni di reclusione, non aveva revocato la pena accessoria a norma dell’art. 29 cod. pen. (Sez. 5, n. 7333 del 13/11/2018, dep. 2019, Alessandria, Rv. 275234-01).
E’ stata, al contrario, ritenuta la non ricorribilità della sentenza che aveva determinato la pena, in relazione a reato contravvenzionale giudicato in primo grado con rito abbreviato, computando una riduzione per il rito pari ad un terzo, e non alla metà, giacché in tal caso ricorre un’ipotesi, non già di irrogazione di pena illegale, bensì di errata applicazione di legge processuale (Sez. 2, n. 28306 del 25/06/2021, Perrella, Rv. 281804-01). Del pari, è stato ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza che aveva recepito un concordato viziato dalla violazione dell’art. 69 cod. pen. nel bilanciamento delle circostanze eterogenee concorrenti, avendo giudicato le circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto ad alcune delle circostanze aggravanti concorrenti, e poi operato un aumento di pena per la recidiva reiterata contestata e ritenuta (Sez. 2, n. 24275 del 01/04/2022, Della Cerra, non mass.).
Un recente orientamento (Sez. 6, n. 23614 del 18/05/2022, Ferrigno, Rv. 283284-02) ha osservato che, nel concordato in appello, le parti non sono vincolate a criteri di determinazione della pena, con la conseguenza che il giudice può sindacare esclusivamente la congruità della pena finale concordata, senza che rilevino eventuali errori di calcolo nei passaggi intermedi (nella specie, la Corte di appello aveva erroneamente rigettato l’istanza per essere stata proposta l’applicazione di una riduzione per il rito abbreviato inferiore al terzo).
6. Le Sezioni Unite ritengono che la pena determinata a seguito del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti effettuato in violazione della disciplina stabilita dall’art. 69 cod. pen. sia illegale soltanto nei casi in cui essa non rispetti i limiti edittali generali previsti per ciascun genere o specie di pena dagli artt. 23 e seguenti, 65 e seguenti, e 71 e seguenti del codice penale, oppure quelli previsti dalle singole norme incriminatrici per ciascuna fattispecie di reato.
7. L’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto con legge 23 giugno 2017, n. 103, dispone che il pubblico ministero e l’imputato possono ricorrere per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti solo per “motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.
Ai sensi del successivo art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., introdotto dal medesimo intervento novellatore, l’inammissibilità dell’impugnazione proposta per motivi non consentiti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., va dichiarata senza formalità di rito, con trattazione camerale non partecipata.
7.1. Come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la predetta disciplina persegue, nel suo complesso, finalità deflattive, meglio assicurate da un procedimento che assicuri un più rapido passaggio in giudicato del provvedimento impugnato, proprio in considerazione delle sue peculiarità (Sez. 5, n. 28604 del 04/06/2018, Imran, Rv. 273169 – 01), poiché il consenso prestato dall’imputato, personalmente o a mezzo procuratore speciale, all’applicazione della pena in relazione al fatto-reato contestato, correttamente qualificato, rende superfluo lo svolgimento di un giudizio di impugnazione “a cognizione piena” (Sez. 2, n. 4727 del 11/01/2018, Oboroceanu, Rv. 272014).
7.2. Le medesime finalità deflattive sono state perseguite anche attraverso la previsione della possibilità di dichiarare senza formalità di rito l’inammissibilità del ricorso per cassazione presentato contro le sentenze di “patteggiamento” in casi non consentiti.
La Relazione finale della c.d. “Commissione Canzio”, all’epoca incaricata di predisporre lo Schema della modifica legislativa de qua, osserva in proposito quanto segue: «A fini deflattivi, si è ritenuto di prevedere una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità nei casi in cui l’invalidità dell’atto possa emergere senza valutazioni che superano l’oggettività delle situazioni per i ricorsi contro le sentenze di patteggiamento o di concordato sui motivi, per la quasi totalità dei quali la Corte di cassazione, secondo i più recenti rilievi statistici, delibera la inammissibilità, con dispendio di tempi e costi organizzativi, pure a fronte della già disposta soluzione negoziale del caso».
8. Ciò premesso, deve rilevarsi che l’applicazione ex artt. 444 e seguenti cod. proc. pen. di una pena illegale non può ritenersi sic et simpliciter legittimata dall’intervenuto consenso dell’imputato, poiché, se così fosse, il legislatore non avrebbe previsto una ipotesi di ricorso ad hoc (cfr. art. 448, comma 2 -bis, cod. proc. pen.). Il fatto che il vizio in ipotesi sussistente sia ascrivibile alla condotta processuale dello stesso soggetto che successivamente se ne dolga in ricorso risulta, pertanto, privo di rilievo ai fini della risoluzione della questione controversa.
9. La legalità della pena è un valore garantito, oltre che dall’art. 1 cod. pen., dall’art. 25, comma secondo, e dall’art. 27, comma terzo, della Costituzione: la pena può essere irrogata solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del reo, non potendo consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La corretta individuazione della misura della pena irrogabile incide sulla corretta operatività dei principi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27, comma terzo, Cost.), tale dovendo ritenersi soltanto quella in concreto idonea a tendere alla rieducazione del condannato; per altro verso, la predeterminazione di una cornice edittale inviolabile per il giudice costituisce il punto di equilibrio fra legalità ed individualizzazione della pena. Come già chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, «l’art. 25, secondo comma, della Costituzione (…) affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge», senza che rilevi la soppressione, in sede di formulazione definitiva della norma, della frase «e con le pene da essa stabilite» compiuta, per altri fini, dal Costituente (Corte cost., sent. n. 15 del 1962).
D’altro canto, «è la previsione legale della pena, secondo la Costituzione, a fondare la stessa potestà punitiva del giudice. Si tratta di una valorizzazione centrale, perché dimostra l’esistenza di limiti all’esercizio del potere pubblico il cui superamento non può essere tollerato dall’ordinamento per la centralità che la Carta costituzionale assicura ai diritti fondamentali della persona, tra i quali si colloca il fondamentale diritto di libertà personale garantito dall’art. 13 Cost., in condizioni di uguaglianza per tutti i consociati (art. 3 Cost.)» (Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, non mass. sul punto).
9.1. Il principio di legalità della pena informa di sé tutto il sistema penale, vale sia per le pene detentive che per le pene pecuniarie, e comporta che pena legale sia soltanto quella prevista dall’ordinamento giuridico e non eccedente, per genere, specie o quantità, il limite legale; esso opera sia in fase di cognizione che di esecuzione, e vieta l’esecuzione di una pena (anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria) che non trovi fondamento in una norma di legge, perché avulsa da una pretesa punitiva dello Stato. La valenza del principio di legalità della pena è rafforzata dal principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), il quale a sua volta «esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione della difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali» (Corte cost., sent. n. 409 del 1989).
La stessa finalità rieducativa della pena non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce «una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue», implicando, inoltre, la presenza costante del “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra (Corte cost., sent. n. 313 del 1990 e n. 105 del 2014).
10. Il principio di legalità della pena è riconosciuto, a livello sovranazionale, dall’art. 7, § 1, della Convenzione EDU, a norma del quale «(…) Non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato». La predetta garanzia comporta, secondo la giurisprudenza convenzionale, la necessità di una «protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie»; si precisa che la norma in questione «non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato», ma consacra in via generale «il principio di legalità in ordine ai diritti ed alle pene, e quello che impone la non applicazione estensiva o analogica della legge penale a detrimento dell’imputato (Corte EDU, Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 78).
Considerato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’art. 7 della Convenzione EDU, oltre a vietare l’applicazione retroattiva di sanzioni penali, richiede anche la prevedibilità del precetto e delle specifiche conseguenze del reato, intendendo quest’ultima come probabilità concreta per il destinatario di valutare le conseguenze del proprio agire, in rapporto alle circostanze del caso concreto (Corte EDU, 22/01/2013, Camilleri c. Malta; Corte EDU, Del Rio Prada c. Spagna, cit.; Corte EDU, Grande Camera, 12/02/2008, Kafkaris c. Cipro), una pena illegale risulterebbe, per tale sia natura, di per sé “non prevedibile”, e quindi, sempre e comunque, convenzionalmente illegittima.
10.1. Il principio di legalità della pena è riconosciuto anche dall’art. 49 della Carta di Nizza (il cui § 3 opera un significativo riferimento al principio della proporzionalità della pena rispetto al reato) e dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale, oltre a prevedere espressamente il canone del nullum crimen, nulla poena sine lege, impone anche l’obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole.
11. Come in più occasioni chiarito anche dalla dottrina, “pena legale” è soltanto quella “positiva”, ovvero prevista dall’ordinamento giuridico, e quindi quella non eccedente, per specie e quantità, i limiti previsti dalla legge.
Autorevole dottrina ha osservato che, tra i corollari del principio di legalità, quello di tassatività, «pur nella sua funzione garantista di certezza ed uguaglianza giuridica contro l’arbitrium iudicis, ha, rispetto alla pena, una portata diversa che rispetto all’incriminazione. Esso sta ad indicare il dovere del legislatore di predeterminare sia i tipi sia la misura edittale della pena in rapporto alle singole figure legali di reato, ed il conseguente dovere per il giudice di applicare soltanto la pena nel tipo ed entro i limiti edittali previsti per quel reato», salva l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio entro i limiti consentiti. In definitiva, attraverso la predeterminazione di limiti astratti per ciascuna specie di pena, e di limiti edittali riferibili a ciascun reato, il legislatore fissa – per ciascuna pena e per ciascun reato – il minimum cui possa riconoscersi concreta valenza rieducativa ed il limite massimo oltre il quale la pena perderebbe la predetta valenza e si risolverebbe nell’inflizione di una mera e non rieducativa sofferenza.
12. Ciò premesso, la giurisprudenza di legittimità (cfr., in sintesi, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, non mass. sul punto) è ferma nel qualificare come “illegale” la pena «quando non corrisponde, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale. L’ambito dell’illegalità della pena si riferisce anche ai classici casi di illegalità ab origine, costituiti, ad esempio, dalla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali».
Plurime decisioni hanno precisato che non si configura un’ipotesi di illegalità della pena quando essa sia frutto di un vizio nell’iter di determinazione della sua entità, alla quale sarebbe stato possibile giungere attraverso diversa modulazione dei vari passaggi intermedi, a partire dall’individuazione della pena base e fino agli aumenti o alle riduzioni per le singole circostanze concorrenti (cfr., ad esempio, Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326-01; Sez. 6, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729-01; Sez. 2, n. 20275 del 07/05/2013, Stagno, Rv. 255197-01).
12.1. L’illegalità della pena rileva anche in relazione alla funzione cui essa assolve: «se i limiti edittali di pena astrattamente previsti rappresentano la valutazione di disvalore del fatto incriminato compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità – seppure ancorata al limite della ragionevolezza – la pena concretamente inflitta esprime e, al contempo, “misura” il giudizio di responsabilità per un determinato fatto illecito» (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, non mass. sul punto). Il principio è stato sviluppato in riferimento a casi nei quali l’illegalità della pena risulti sopravvenuta, conseguendo a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207: fattispecie riguardante la dichiarazione di incostituzionalità, intervenuta con la sentenza n. 32 del 2014, del trattamento sanzionatorio introdotto per le cosiddette “droghe leggere” dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49).
12.2. Alle stesse conclusioni si è già pervenuti in relazione alla pena applicata su richiesta delle parti ai sensi degli articoli 444 e seguenti del vigente codice di rito, in base al rilievo che le peculiarità che caratterizzano la “individuazione” della sanzione in questo rito speciale non comportano deroghe ai principi suindicati. Invero, nel “patteggiamento” non è richiesto un accertamento positivo della responsabilità penale, ma solo un accertamento negativo della non punibilità, attraverso la constatazione della insussistenza delle cause di proscioglimento di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen.: «tuttavia, mentre in relazione alla responsabilità il giudice può limitarsi ad un accertamento negativo funzionale alla esclusione della sussistenza di cause di non punibilità, la verifica in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica, all’applicazione delle circostanze e alla congruità della pena impone un controllo positivo. In questi ultimi casi, l’estensione del controllo attribuito al giudice è pieno, non sommario e bilancia il contenuto negoziale del rito, come del resto ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990 in cui, riconoscendo il ruolo determinante e non notarile del giudice nel controllo della pena nel “patteggiamento”, ha fatto esplicito richiamo all’art. 27, terzo comma, Cost., ribadendo il suo collegamento con il “principio di proporzione fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altro”» (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, non mass. sul punto).
13. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, può, pertanto, dirsi che, nell’ambito della categoria dell’illegalità della pena, non rientra la sanzione che risulti conclusivamente legittima, pur essendo stata determinata seguendo un percorso argomentativo viziato (cfr. Sez. U, n. 21368 del 26/9/2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348 e Sez. U, n. 40986 del 19/7/2018, P., Rv. 273934, quest’ultima inerente ai problemi sanzionatori derivati da un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, ed in particolare da una novella legislativa sfavorevole, la prima inerente ali approdi della sentenza P. in ordine al concetto di illegalità della pena, in generale e nel patteggiamento).
13.1. Invero, come già chiarito dalle Sezioni Unite, la nozione di pena illegale non può estendersi «sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità. In altri termini, la pena è illegale (…) non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore»: la pena non prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall’ordinamento, «è una pena che attesta un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore» (Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, non mass. sul punto).
13.2. Infine, con la sentenza n. 47182 del 31/03/2022, Savini, in corso di mass., le Sezioni Unite hanno ulteriormente ribadito che vi è diversità tra i concetti di pena “illegale” (in presenza della quale è consentito il ricorso contro le sentenze di patteggiamento) e di pena meramente “illegittima”, perché determinata in violazione di legge, affermando, con riferimento al caso esaminato, che, qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali astratti, l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un’ipotesi di violazione di legge che, ove non dedotta nell’appello, resta preclusa dalla inammissibilità del motivo di ricorso.
13.2.1. Premesso che «il tema della pena è il tema della coesistenza di due domini, quello del legislatore e quello del giudice, tra loro interrelati e tuttavia non confondibili», il primo costituente espressione del potere di determinare il disvalore del tipo (ed eventualmente del sottotipo) astratto, l’altro del potere di determinare il disvalore del fatto concreto, la sentenza Savini ha osservato che, nel commisurare la pena, il giudice si confronta, quindi, con due vincoli legali: «quelli del primo tipo tendono a preservare le fondamentali opzioni legislative in ordine al disvalore del fatto reato astrattamente inteso; gli altri indirizzano e regolano la discrezionalità giudiziale nell’apprezzamento del disvalore del fatto reato storicamente concretizzatosi ai fini della individualizzazione della pena». Si è poi precisato che «ogni violazione del primo travolge le prerogative del legislatore ed i valori per i quali esse sono riconosciute (nello Stato di diritto di stampo liberale, tali valori fanno capo all’individuo): la pena così determinata è illegale. La violazione delle regole che disciplinano l’uso del potere commisurativo – che resti rispettoso della determinazione legale – pone invece una questione di legittimità della pena».
Dopo aver richiamato, tra le altre, le condivise affermazioni di Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729, che esclude la riconducibilità alla categoria della pena illegale della sanzione che, pur osservando i limiti edittali, sia il frutto di errori, e di Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, De Paola, Rv. 266080, secondo la quale esula dalla nozione di pena illegale la sanzione che sia complessivamente legittima, ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato, le Sezioni Unite hanno concluso che «gli errori nell’applicazione delle diverse discipline che entrano in gioco nella commisurazione della pena danno luogo ad una pena illegale solo se la risultante (ovvero la pena indicata in dispositivo) è per genere, specie o per valore minimo o massimo diversa da quella che il legislatore ha previsto per il tipo (o sottotipo) astratto al quale viene ricondotto il fatto storico reato. Fuori da tale caso, la pena è illegittima, ove commisurata sulla base della errata applicazione della legge o non giustificata secondo il modello argomentativo normativamente previsto».
14. In continuità con il proprio consolidato orientamento, che si pone in armonia con il principio di legalità della pena come costituzionalizzato e come altresì riconosciuto dalle fonti sovranazionali, le Sezioni Unite ribadiscono, pertanto, ancora una volta, che “pena legale” è quella: – del genere e della specie predeterminati dal legislatore entro limiti ragionevoli; – comminata da una norma (sostanzialmente) penale, vigente al momento della commissione del fatto-reato, o, se sopravvenuta rispetto ad esso, più favorevole di quella anteriormente prevista; – determinata dal giudice, nel rispetto della cornice edittale, all’esito di un procedimento di individualizzazione che tenga conto del concreto disvalore del fatto e delle necessità di rieducazione del reo. “Pena illegale” è, conseguentemente, quella che si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista.
14.1. L’individuazione delle ipotesi di pene illegali per genere (pene detentive o pecuniarie) o per specie (quanto alle prime, ergastolo, reclusione o arresto; quanto alle seconde, multa o ammenda) non pone problemi. Come già chiarito dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255348 – 01), l’art. 17 cod. pen., nell’elencare in maniera tassativa e vincolante per l’interprete le “specie” di pene principali che si applicano a seguito della commissione di un fatto-reato, da un lato, fornisce il criterio di tipo nominalistico per identificare l’illecito criminale rispetto agli altri tipi di illecito previsti dall’ordinamento e, al contempo, coordinandosi con l’art. 39 cod. pen., introduce il criterio formale di individuazione delle due fattispecie tipiche di reato, i delitti e le contravvenzioni. Il successivo art. 18, a sua volta, raggruppa le pene principali per “genere”, a seconda del bene da essere sacrificato: – «pene detentive» o «restrittive della libertà personale» sono l’ergastolo, la reclusione (per i reati militari, la reclusione militare prevista dall’art. 22 cod. pen. mil . pace) e l’arresto; – «pene pecuniarie», incidenti sul patrimonio, sono, invece, la multa e l’ammenda.
14.2. Quanto all’individuazione delle ipotesi di pena illegale per quantità (sia in difetto che in eccesso), deve farsi riferimento: – sia alla misura stabilita per ciascuna pena dagli artt. 23 e seguenti del codice penale, nonché, a fronte del concorso di più circostanze aggravanti, dagli artt. 65 e seguenti del codice penale, ed, in presenza del concorso di più reati, dagli artt. 71 e seguenti, dello stesso codice; – sia ai limiti edittali minimi e massimi fissati in astratto da ciascuna norma penale incriminatrice.
14.3. Non è, pertanto, illegale la pena conclusivamente corrispondente per genere, specie e quantità a quella legale, anche se determinata attraverso un percorso argomentativo viziato da una o più violazioni di legge: gli errori relativi ai singoli passaggi interni che conducono alla determinazione della pena risultano, infatti, privi di rilievo, ove non abbiano comportato la conclusiva irrogazione di una pena illegale nel senso in precedenza indicato.
14.4. La struttura del reato può essere arricchita dalle circostanze, elementi accidentali od accessori del reato che possono mancare, ma che, come osserva autorevole dottrina, quando sono presenti, «trasformano il reato semplice (o la fattispecie astratta di reato semplice, delitto o contravvenzione) in reato circostanziato (o in una fattispecie astratta di reato circostanziato), importando una variazione, in aumento o diminuzione, della pena per esso stabilita», e la cui funzione « va ravvisata in quella continua duplice aspirazione del diritto penale: a) da un lato, a rendere il più aderente possibile la valutazione legale e a meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti: cioè ad una sempre maggiore individualizzazione dell’illecito penale e della responsabilità; b) dall’altro, a circoscrivere la discrezionalità del giudice nella determinazione della pena».
14.4.1. Le circostanze del reato possono incidere variamente sui limiti edittali fissati dalle norme incriminatrici: alcune di esse (le cc.dd. circostanze ad efficacia comune) variandoli proporzionalmente (cfr., ad esempio, artt. 61 e 62 cod. pen.); altre (le cc.dd. circostanze ad efficacia speciale) comportando l’applicazione di una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato non circostanziato (cc.dd. circostanze ad efficacia speciale in senso stretto, od autonome: cfr., ad esempio, artt. 576 e 577 cod. pen.), oppure prevedendo l’applicazione di una pena della stessa specie di quella prevista per la fattispecie non circostanziata, ma determinata non operando un aumento od una riduzione proporzionale rispetto alla pena-base, bensì prescindendo da essa (cc.dd. circostanze ad efficacia non proporzionale, od indipendenti: cfr., ad esempio, art. 628, comma terzo, cod. pen.).
14.4.2. Deve, quindi, ritenersi che, sia pur nel rispetto dei limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti del codice penale per le singole tipologie di pene, e dagli artt. 65 e seguenti del codice penale per il caso del concorso di circostanze, la contestazione di circostanze incida sulla determinazione della pena in astratto legale, a seconda dei casi aumentando o diminuendo (entro i predetti limiti) la pena edittale prevista dalla norma incriminatrice che di volta in volta si assume violata. Ne consegue che, in caso di concorso di circostanze eterogenee, a prescindere dal concreto esito del giudizio di bilanciamento (disciplinato dall’art. 69 cod. pen.), i valori estremi astratti che connotano la legalità della pena, entro i quali il giudice può esercitare la sua valutazione discrezionale concreta, sono rappresentati, nel rispetto dei limiti astratti innanzi richiamati, dal minimo della pena prevista per la fattispecie attenuata e dal massimo della pena prevista per la fattispecie aggravata.
14.4.3. Soltanto in presenza della violazione dei predetti limiti la pena in concreto irrogata dal giudice risulterebbe “illegale”; diversamente, la pena determinata entro i predetti limiti, ma in violazione delle disposizioni dettate dall’art. 69 cod. pen. risulterebbe meramente “illegittima”, ma non anche “illegale”.
14.5. L’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite ha, in concreto, ritenuto l’illegalità della pena, oltre che nel caso (che può dirsi di scuola) in cui la sanzione irrogata fosse ab origine diversa e più gravosa di quella irrogabile nel rispetto della disciplina vigente alla data di commissione del reato (Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, Rv. 283689 – 01: fattispecie relativa ad irrogazione della pena detentiva per il reato di cui all’art. 582 cod. pen., in luogo delle sanzioni previste, per i reati di competenza del giudice di pace, dall’art. 52, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), nei seguenti casi: a) declaratorie di illegittimità costituzionale riguardanti i limiti edittali previsti da norme penali incriminatrici (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264206-01, riguardante una sentenza di applicazione ex art. 444 cod. proc. pen. della pena determinata sulla base dei parametri edittali originariamente previsti per le cosiddette “droghe leggere” dall’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, nella formulazione oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale); b) pene di specie diversa di quella legalmente prevista (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106-01); c) fenomeni di successione di leggi nel tempo caratterizzati dalla sopravvenienza di una lex mitior (Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111-01, che, risolvendo la questione se possa ritenersi illegale una pena irrogata in base ad un quadro normativo sanzionatorio successivamente mutato in senso favorevole all’imputato, qualora la pena risulti comunque formalmente compatibile anche con la nuova forbice edittale prevista per il reato, ha rammentato come il principio costituzionale di legalità della pena riguardi non solo l’an dell’irrogazione della pena bensì anche il quomodo ed in particolare il quantum di pena inflitta).
15. Le predette affermazioni di principio sono certamente valide anche in riferimento alla pena “patteggiata”, che viene applicata in attuazione di un accordo che si forma non tanto sulle operazioni di computo attraverso le quali la pena indicata viene determinata, bensì sul risultato finale delle predette operazioni, ovvero sulla pena della quale si chiede conclusivamente l’applicazione. Dalla natura negoziale dell’accordo sulla pena e dall’individuazione del relativo oggetto (il “risultato finale”) discende una evidente ricaduta sul piano della sindacabilità, in riferimento alla determinazione della pena stessa, della sentenza di “patteggiamento”: la generale irrilevanza degli errori relativi ai vari “passaggi” attraverso i quali si giunge al “risultato finale”, a meno che essi non comportino l’applicazione di una pena illegale.
15.1. Può, quindi, concludersi che anche nel “patteggiamento” non rilevano, se non si traducono in una pena illegale, gli errori relativi ai singoli passaggi interni per la determinazione della pena concordata, tra i quali gli errori compiuti nell’iter di determinazione della pena base.
15.2. Con specifico riferimento al “patteggiamento”, è stata ritenuta illegale l’applicazione della pena più severa introdotta dalla norma incriminatrice dell’omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen., entrata in vigore medio tempore, prima del verificarsi dell’evento lesivo, ma non ancora vigente alla data della condotta (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, P., Rv. 273934-01). E’ stata, al contrario, esclusa l’illegalità delle pena (nel caso di specie, irrogata per una contravvenzione) rientrante nei limiti edittali astratti, pur se in concreto determinata erroneamente, per erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente prevista per i reati contravvenzionali giudicati con rito abbreviato (Sez. U, n. 47182 del 31/03/2022, Savini).
15.2.1. In tema di “patteggiamento”, la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, individuato i seguenti casi di pena illegale: – pena inferiore al minimo edittale previsto dall’art. 23 cod. pen. (Sez. 3, n. 29985 del 03/06/2014, Lan, Rv. 260263-01; conforme, ex plurimis, Sez. 6, n. 4917 del 03/12/2003, dep. 2004, Pianezza, Rv. 229995-01); – applicazione di una pena congiunta per una contravvenzione punita con pena alternativa (Sez. 1, n. 17108 del 18/02/2004, Merlini, Rv. 228650-01; Sez. 1, n. 2174 del 14/03/1997, Salvatori, Rv. 207246-01; Sez. 1, n. 2322 del 22/05/1992, Riccardi, Rv. 191362-01); – erronea applicazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria (Sez. 5, n. 5018 del 19/10/1999, dep. 2000, Rezel, Rv. 215673-01); – mancata applicazione della pena prevista per il reato rientrante nella competenza del giudice di pace (Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, B., Rv. 262943- 01).
15.2.2. Al contrario, sono stati ritenuti privi di rilievo, ove non comportino l’irrogazione di una pena da considerarsi “illegale” nei termini fin qui precisati, ovvero per genere, specie o misura, gli errori relativi ai singoli passaggi interni per la determinazione della pena concordata (Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013, Marchisella, Rv. 257151-01; conforme, ex plurimis, Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005 – dep. 2006, Federico, cit.; Sez. 4, n. 518 del 28/01/2000, Carrello, cit.), e quindi anche gli errori compiuti nell’iter di determinazione della pena base (Sez. 5, n. 5047 del 21/10/1999, Paulon, Rv. 214602-01).
16. Deve, per esigenze di completezza, rilevarsi che i limiti imposti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. in tema di accesso al sindacato di legittimità in ordine alle sentenze di “patteggiamento” appaiono costituzionalmente legittimi perché, come già osservato da questa Corte (Sez. 5, n. 21497 del 12/03/2021, Ricciardi, Rv. 281182-01), sono compatibili con il diritto, costituzionalmente garantito dall’art. 24, comma primo, Cost., di agire in giudizio a tutela dei propri diritti: la limitazione della facoltà di ricorso alle sole ipotesi espressamente previste dalla norma trova, infatti, ragionevole giustificazione, nell’ambito delle scelte discrezionali riservate al legislatore, nell’esigenza di limitare il controllo di legittimità alle sole decisioni che contrastano con la volontà espressa dalle parti o che costituiscono disapplicazione dell’assetto normativo disciplinante l’illecito oggetto di cognizione.
D’altro canto, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, stabilito dall’art. 111, comma sesto, Cost., va, come già chiarito (Sez. U, n. 10372 del 27/07/1995, Serafino, Rv. 202270-01), necessariamente conformato «alla particolare natura della emananda pronuncia giudiziale, sicché questa non può prescindere dalla consapevole rinuncia dell’imputato a difendersi nel merito, fatta per godere dei notevoli benefici connessi al patteggiamento sulla pena»; in quest’ottica, trovano, pertanto, razionale giustificazione «anche la limitazione dei casi di ricorso in cassazione alle ipotesi previste dall’art. 448, comma 2-bis e la possibilità di ritenere implicita – con l’accoglimento della proposta concordata – la motivazione sulla responsabilità» (Sez. 5, n. 21497 del 12/03/2021, Ricciardi, cit.).
16.1. Occorre, peraltro, evidenziare che il giudice del patteggiamento è pur sempre chiamato a valutare la congruità della pena della quale le parti chiedono l’applicazione: «I poteri del giudice non hanno poi mero carattere “notarile”, ben potendo egli contestare che la definizione giuridica data dalle parti sia quella che effettivamente discende dalle risultanze degli atti, e sulla base delle stesse verificare le attenuanti che le parti ritengono debbano concorrere alla quantificazione della pena, attenendosi, specie per quelle non scritte, all’art. 133 cod. pen., e, in caso di bilanciamento con eventuali aggravanti, i criteri adottati, il che finisce per renderlo determinante proprio agli effetti della commisurazione della pena, sulla quale ripristina l’imperio di quella legge alla quale, soltanto, egli è soggetto» (cfr. Corte cost., sent. n. 313 del 1990).
16.2. Proprio in considerazione dei limiti normativamente imposti alla possibilità di impugnare le sentenza di c.d. “patteggiamento”, il controllo del giudice non soltanto sulla congruità della pena applicanda, ma anche sulla correttezza dei “passaggi intermedi” attraverso i quali essa viene determinata, deve essere particolarmente penetrante e rigoroso: pur non potendo procedere di sua iniziativa ad una revisione discrezionale della pena proposta ovvero, anche restando ferma la misura di quest’ultima, dei “passaggi” intermedi che hanno concorso alla sua quantificazione definitiva (Sez. 4, n. 22731 del 03/07/2020, Cervo, non mass.; Sez. 7, n. 15089 del 12/12/2017, dep. 2018, Grippa, non mass.; Sez. 6, n. 53465 del 12/10/2017, Bassi, non mass.; Sez. 3, n. 1191 del 16/03/2000, Farci, Rv. 217597 – 01; Sez. 3, n. 110 del 17/01/1994, Badaoui, Rv. 196957 – 01), il giudice conserva, infatti, il potere-dovere di non accogliere le richieste di “patteggiamento” che comportino l’applicazione di pene (non soltanto illegali, ma anche) non congrue, o comunque, seppur non illegali, determinate attraverso “passaggi intermedi” effettuati in violazione di legge.
In argomento, le Sezioni Unite hanno già avuto modo di chiarire che «la determinazione contra legem della pena concordata tra le parti ed illegittimamente ratificata dal giudice, invalida la base negoziale sulla quale è maturato l’accordo e vizia la sentenza che lo ha recepito. Il controllo di congruità della pena è logicamente comprensivo della legalità di essa, ossia della sua conformità alle regole che la disciplinano, nonché di quelle che influiscono sulla sua determinazione» (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255348 – 01).
17. Va conclusivamente enunciato il seguente principio di diritto: «la pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge».
18. In applicazione del predetto principio di diritto, nel caso in esame il ricorso dell’imputato è inammissibile, in quanto proposto per un motivo non consentito, ovvero fuori dai casi previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. Invero, il ricorrente lamenta l’illegalità (peraltro meramente eventuale, perché condizionata dall’ignoto esito del bilanciamento tra le circostanze eterogenee concorrenti, se correttamente effettuato) della pena applicatagli su sua richiesta (determinata, per il reato giudicando, nella misura di anni cinque e mesi tre di reclusione ed euro seicento di multa, oltre aumento per la continuazione per reati separatamente giudicati e riduzione per il rito), laddove la predetta pena non è illegale, risultando rispettosa dei limiti astrattamente previsti per la reclusione dall’art. 23 cod. pen. (da quindici giorni a ventiquattro anni) e per la multa dall’art. 24 cod. pen. (da cinquanta a cinquantamila euro), e rientrando nell’ambito della cornice edittale prevista dall’art. 625, comma secondo, cod. pen. (reclusione da tre a dieci anni e multa da duecentosei a millecinquecentoquarantanove euro). Il vizio dedotto riguarda unicamente l’effettuazione di un passaggio intermedio in violazione dell’art. 69 cod. pen. (per la mancata, simultanea comparazione di tutte le circostanze eterogenee concorrenti), come detto irrilevante ai fini della legalità o meno della pena irrogata.
19. La dichiarazione d’inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
19.1. Ad essa non consegue la condanna del ricorrente al pagamento di una somma in favore della Cassa per le ammende, poiché la questione dedotta costituiva oggetto di contrasto al momento della sua proposizione, il che non consente di enucleare (come sarebbe, al contrario, necessario, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., nel testo vigente dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000) profili di colpa in capo al ricorrente (Sez. U, n. 43055 del 30/09/2010, Dalla Serra, Rv. 248380-01; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219532-01).
20. Dall’esame degli atti, sempre consentito, ed anzi necessario, in riferimento alla risoluzione di questioni di natura processuale (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro ed altri, Rv. 220092-01), risulta che la parte civile Azienda Sanitaria Isontina (in favore della quale la sentenza impugnata aveva liquidato le spese processuali) aveva depositato, dinanzi alla Quinta Sezione, una memoria contenente il riepilogo delle vicende processuali e le conclusioni («Dichiarare il ricorso inammissibile, ovvero, in subordine, rigettarlo perché infondato, così, comunque, confermando le sanzioni inflitte all’esito del primo grado. Vinte le spese»). Si pone, quindi, il problema della necessità o meno di liquidare in suo favore le spese processuali riguardanti la fase di legittimità, in astratto liquidabili (Sez. U, n. 40288 del 14/07/2011, Tizzi, Rv. 250680-01).
20.1. E’ certamente privo di rilievo preclusivo, al riguardo, il fatto che non sia stata depositata la nota spese. Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 20 del 27/10/1999, Fraccari, Rv. 214641-01), con orientamento (successivamente ribadito da Sez. 4, n. 2311 del 05/12/2018, dep. 2019, Grasso, Rv. 274957-01 e da Sez. 3, n. 31865 del 17/03/2016, Vacca, Rv. 267666-01) che il Collegio condivide e ribadisce, hanno, infatti, già chiarito, in tema di spese relative all’azione civile, che l’art. 153 disp. att. cod. proc. pen. non commina alcuna sanzione di nullità o inammissibilità per l’inosservanza del dovere della parte civile di produrre l’apposita nota spese: ciò comporta che la mancanza di questa, ove la domanda di rifusione sia stata tempestivamente proposta, non preclude la liquidazione in favore della stessa parte civile delle spese sulla base della tariffa professionale vigente, con esclusione del rimborso delle spese vive in relazione alle quali, viceversa, è necessaria la specificazione e l’allegazione di adeguata documentazione probatoria.
20.2. Va, peraltro, valutata la possibile incidenza sul diritto alla liquidazione delle spese processuali della parte civile della mancata comparizione della stessa all’udienza celebrata dinanzi alla Quinta Sezione ed all’udienza odierna, entrambe celebrate con rito camerale non partecipato, ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen.
20.2.1. Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226716- 01), con orientamento che, ancora una volta, il Collegio condivide e ribadisce, hanno, infatti, già chiarito che, nel procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di cassazione in camera di consiglio nelle forme previste dagli artt. 610 e 611 cod. proc. pen., ovvero con rito camerale c.d. “non partecipato”, quando il ricorso dell’imputato viene dichiarato, per qualsiasi causa, inammissibile, ne va disposta la condanna al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, purché, in sede di legittimità, la stessa parte civile abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare la pretesa dell’imputato per la tutela dei propri interessi.
20.2.2. Il principio è stato ribadito, in riferimento a giudizi di legittimità celebrati dinanzi alla Settima Sezione di questa Corte con le forme di cui all’art. 610 cod. proc. pen., da Sez. 7, n. 44280 del 13/09/2016, C., Rv. 268139-01 (fattispecie nella quale il ricorrente non è stato condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute nel grado dalla parte civile, perché quest’ultima aveva prodotto una memoria contenente l’indicazione di elementi di contrasto ultronei rispetto alla valutazione preliminare di inammissibilità operata dal collegio secondo i presupposti e le peculiari finalità del meccanismo di cui all’art. 610, comma 1, cod. proc. pen.) e da Sez. 7, n. 7425 del 28/01/2016, Botta, Rv. 265974-01 (fattispecie nella quale il ricorrente non è stato condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute nel grado dalla parte civile, perché quest’ultima si era limitata a sollecitare, con una memoria, la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la condanna alle spese in proprio favore, senza contrastare specificamente i motivi di impugnazione proposti), oltre che, più recentemente, da Sez. 7, n. 39902 del 05/07/2022, Bongiovanni, non mass., e da Sez. 7, n. 46288 del 05/11/2021, Ahmetaj, non mass.
20.2.3. Analogamente, con riferimento al giudizio di legittimità celebrato con rito camerale non partecipato, nella vigenza della normativa introdotta per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 24619 del 02/07/2020, Puma, Rv. 279551-01) ha già ritenuto che la parte civile, pur in difetto di richiesta di trattazione orale, ha diritto di ottenere la liquidazione delle spese processuali purché abbia effettivamente esplicato, anche solo attraverso memorie scritte, un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria, fornendo un utile contributo alla decisione. L’orientamento è stato successivamente ribadito da Sez. 2, n. 33523 del 16/06/2021, D., Rv. 281960-03; Sez. 5, n. 34816 del 15/06/2021, Palmieri, non mass.; Sez. 1, n. 17544 del 30/03/2021, Barba, non mass.; Sez. 5, n. 26484 del 09/03/2021, Castrignano, non mass.; Sez. 1, n. 34847 del 25/02/2021, Reibaldi, non mass.
20.3. Nel caso in esame, in applicazione di tale condiviso principio di diritto, costantemente enunciato in riferimento a tutte le forme di giudizio camerale non partecipato, la liquidazione delle spese processali riferibili alla fase di legittimità in favore della parte civile non è dovuta, perché essa non ha fornito alcun contributo, essendosi limitata a richiedere la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso, od il suo rigetto, con vittoria di spese, senza contrastare specificamente i motivi di impugnazione proposti, neppure rilevando l’esistenza del contrasto oggetto di devoluzione della decisione a queste Sezioni Unite.