Massima
L’abitudine a concepire il principio di legalità penale nella relativa declinazione meramente “interna” viene da tempo contraddetto da un approccio pretorio diverso che – in ottica assai più sostanziale che formale – tiene conto di quanto previsto a livello europeo “convenzionale” (CEDU), profilandosi dunque in modo vieppiù netto una “legalità europea” a connotazione sostanzialistica capace di impattare in modo consistente sui rapporti tra sanzioni interne (formalmente) amministrative e sanzioni penali collegate ai medesimi fatti imputati al soggetto agente; ne discende la stigmatizzazione “pro reo” – a tratti più severa, a tratti più blanda – di probabili “bis in idem” da parte della Corte EDU, con prospettive financo di applicazione alle sanzioni amministrative (massime laddove “para-penalmente” connotate) di principi “penalistici” ad esse ancora estranei, primo fra tutti quello della retroattività della “lex mitius”.
Crono-articolo
Originariamente la “sanzione” non corrisponde, in ambito romanistico, ad un atto compendiantesi nella risposta “secondaria” dell’ordinamento alla violazione “primaria” di una norma giuridica, la “sanctio” atteggiandosi piuttosto a clausola che è parte integrante della norma “primaria” medesima.
Nelle leggi della Repubblica, più in specie, figurano talune clausole dette per l’appunto “sanctiones legis“, che costituiscono quella parte della legge (caput) contenente prescrizioni volte ad assicurarne l’attuazione e, massime, a regolarne i rapporti con il resto dell’ordinamento già vigente; un esempio si rinviene nel c.d. caput tralaticium de impunitate, col quale – nel contesto letterale di una determinata Lex – si statuisce che colui il quale, per ottemperare alla Lex medesima appena introdotta, violi una legge precedente non può per questo essere passibile di una “sanzione” (stavolta intesa in senso moderno, ed il cui concetto è dunque genericamente ben presente ai Romani). Sono dubbi i rapporti tra questo caput e l’altro “ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset” (e dunque “sarà diritto ciò che il popolo ha deliberato per ultimo“), “capita” entrambi concernenti la successione di leggi nel tempo e la possibile abrogazione della legge precedente da parte di quella successiva.
Ancora, costituisce una sanctio nel senso anzidetto il “caput” alla cui stregua la “rogatio” (proposta di legge) va assunta come non presentata laddove risulti proibito – per l’appunto – presentarla in base al ius o al fas (regole di ascendenza “divina“): qui i Romani della Repubblica pongono dei limiti al procedimento legislativo, garantendo in particolare chi propone la legge dall’eventuale accusa di voler violare i ridetti limiti.
Qualcosa di più vicino al concetto di sanzione nel senso “secondario” modernamente inteso si rinviene nella classificazione tardo classica (Tit. Ulp., 1.1-2) onde, nello specifico ambito delle leggi c.d. proibitive (che dunque vietano di tenere un dato comportamento) vanno distinte le leges perfectae (esse proibiscono un atto disponendone, laddove compiuto, la nullità e dunque privandolo ex ante di effetti) da quelle minus quam perfectae (l’atto viene vietato, ma se compiuto non è nullo, venendo piuttosto irrogata ex post, per l’appunto, una “sanzione“, sub specie di pena pubblica o privata, al relativo autore) e da quelle imperfectae (onde l’atto vietato, laddove compiuto, non è nullo, né viene irrogata una pena pubblica o privata al relativo autore).
Tipico esempio di lex minus quam perfecta, che dispone una sanzione assimilabile a quelle moderne in ragione del compimento dell’atto vietato, è la Lex Laetoria de circumscriptione adulescentium, datata 200 a.C. circa, con la quale si irroga una pena pecuniaria a chi, nel concludere un atto a rilevanza patrimoniale, abbia abusato dell’inesperienza di un minore dei 25 anni arrecandogli pregiudizio; pena applicata su impulso di chiunque, e dunque a valle di una vera e propria azione popolare, il che connota la pertinente “sanzione” in termini decisamente “pubblicistici“.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che vede la luce in un contesto storico di formazione dello Stato unitario e di embrionale affacciarsi all’orbe giuridico del diritto amministrativo.
In questa fase, problemi concernenti sanzioni amministrative “parapenali” e di connessa riperimetrazione del principio di legalità non si pone ancora, prevedendosi semplicemente – all’art.1 – che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene sia una legge.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, il cui art.1 conferma che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene deve essere una legge. Analogamente, ai sensi dell’art.199 nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.
Esiste dunque una “legalità penale”, sia su crinale delle pene che su quello delle misure di sicurezza, mentre la “legalità” delle sanzioni amministrative risulta “diffusa”, dovendosi ricondurre alle singole leggi che le prevedono.
1948
Viene varata la Costituzione Repubblicana, il cui art.25 cristallizza un rigido principio di legalità – declinato, fra l’altro, in termini di riserva assoluta di legge – in materia penale, onde nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (comma 2), né può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge (comma 3).
Nello stesso tempo talune norme dedicate all’azione della Pubblica Amministrazione si esprimono invece in termini di riserva di legge relativa: non già solo l’art.97, alla cui stregua i pubblici uffici sono organizzati “secondo disposizioni di legge” (in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione), ma anche l’art.23 alla cui stregua nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non “in base alla legge”.
1950
Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
1955
Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.
1957
Il 25 marzo viene sottoscritto a Roma il Trattato istitutivo della CEE, Comunità Economica Europea.
* * *
Il 14 ottobre viene varata la legge n.1203 che ratifica, tra gli altri, anche il Trattato CEE.
1959
Il 21 gennaio vengono eletti i componenti della Corte EDU.
Il 23 febbraio la Corte EDU tiene la prima seduta, che dura 5 giorni.
1976
L’8 giugno esce la storica sentenza della Corte EDU Engel c. Paesi Bassi, che vara i c.d. “Engel criteria”, canoni guida per ritrarre la effettiva natura di disposizioni di diritto interno da assumersi presidiate dalle garanzie CEDU stante il relativo afferire – prescindendo dal pertinente nomen iuris – a materia “sostanzialmente penale”.
Per la Corte EDU, al fine di verificare se un procedimento abbia o meno ad oggetto “accuse in materia penale” ai sensi della Convenzione, vanno considerarti 3 diversi fattori, muovendo dalla qualificazione data dal sistema giuridico dello Stato convenuto all’illecito contestato dal ricorrente; qualificazione (nomen iuris) la quale, nondimeno, deve assumersi avere solo un valore formale e relativo, dovendo la Corte medesima verificarne la correttezza alla luce degli altri fattori indicativi del carattere (concretamente) “penale” dell’accusa contestata.
In secondo luogo, va difatti presa in considerazione per la Corte la natura sostanziale dell’illecito commesso, vale a dire se si è di fronte ad una condotta in violazione di una norma che protegge il funzionamento di una determinata formazione sociale o se è invece preposta alla tutela erga omnes di beni giuridici della collettività, anche alla luce del denominatore comune delle rispettive legislazioni dei diversi Stati contraenti.
Va infine considerato – per la Corte – il grado di severità della pena che rischia la persona interessata, in una società di diritto appartenendo alla sfera “penale” le privazioni della libertà personale suscettibili di essere imposte quali punizioni, eccezione fatta per quelle la cui natura, durata o modalità di esecuzione non possano causare al relativo destinatario un apprezzabile danno.
In sostanza, per la Corte EDU si è al cospetto della “materia penale” – con necessità di assicurare al soggetto coinvolto tutte le garanzie che la ridetta “materia” impone – laddove si abbia a che fare con un fatto penalmente rilevante alla stregua della qualificazione (formale) prevalente degli Stati contraenti, tenendo conto altresì della natura (sostanzialmente) penale dell’infrazione commessa, nonché della natura punitiva e della gravità della sanzione applicabile, siccome diretta a fini preventivi e punitivi.
1981
Il 24 novembre viene varata la legge n.689, recante modifiche al sistema penale (c.d. legge di depenalizzazione), alla stregua del cui art.1 – significativamente rubricato “principio di legalità” – nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione (comma 1), le leggi che prevedono sanzioni amministrative applicandosi soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati (comma 2), con conseguente non operatività per le sanzioni amministrative del principio della retroattività della legge sopravvenuta più favorevole (al contrario di quanto accade in materia penale).
Per il successivo art.9 sul c.d. principio di specialità, quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto e’ punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali. Ai fatti puniti dagli articoli 5, 6, 9 e 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283, modificata con legge 26 febbraio 1963, n. 441, sulla disciplina igienica degli alimenti, si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali speciali.
Vede dunque la luce una disciplina generale delle sanzioni amministrative, corredata da un precipuo “principio di legalità” di tali sanzioni non perfettamente coincidente con quello “penale” puro (massime in termini di irretroattività della lex mitius, che opera in ambito penale non opera in ambito amministrativo). Il nuovo “microsistema” sanzionatorio amministrativo si preoccupa peraltro anche di disciplinare i relativi rapporti con il diritto penale, in termini di c.d. “specialità”.
1982
Il 10 luglio viene varato il decreto legge n.429, recante norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria.
Stando al relativo art.10, l’applicazione delle pene previste nel decreto legge non esclude l’applicazione delle “pene pecuniarie” (in realtà, sanzioni di natura amministrativa tributaria) previste dalle disposizioni vigenti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, configurando dunque una deroga rispetto al generale principio di specialità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative di cui alla legge 689.81.
* * *
Il 7 agosto viene varata la legge n.516 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.429.
1984
Il 22 novembre viene adottato dal Consiglio d’Europa il VII Protocollo addizionale alla CEDU, secondo il cui articolo 4 (dedicato al “diritto a non essere giudicato o punito due volte”), paragrafo 1, “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”.
Viene dunque cristallizzato a livello convenzionale il diritto al c.d. “ne bis in idem”.
1988
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, il cui art.649, rubricato “divieto di un secondo giudizio”, dispone significativamente che l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345 (comma 1); se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo (comma 2).
Si tratta di una disciplina coerente con quanto disposto, su fronti contermini, dall’art.669 per quanto concerne, più a valle, il giudizio di esecuzione (pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona) e, più a monte, dagli articoli 28 (casi di conflitto tra giudici in ordine ad un medesimo fatto) e 54 e seguenti (casi di conflitto tra PM in ordine alle indagini su un medesimo fatto).
Qui si tende a scongiurare che ad un medesimo fatto corrispondano due procedimenti, o due processi, o alfine due condanne di natura formalmente e sostanzialmente penale, mentre nessun riferimento viene fatto ai rapporti – sempre con riguardo ad un medesimo fatto – tra possibili sanzioni penali e sanzioni amministrative (c.d. doppio binario sanzionatorio).
1990
Il 9 aprile viene varata la legge n.98, recante ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984.
1991
Il 12 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.409 che dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982 n.516, (Norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria di primo grado di Treviso.
Per la Corte, il principio del cumulo delle “pene pecuniarie” (di natura tributaria amministrativa) e delle sanzioni penali – quale posto dalla norma censurata – rappresenta, sì, una disciplina differenziata rispetto all’opposto principio della specialità operante in generale per le sanzioni amministrative irrogabili per fatti che integrerebbero anche gli estremi di un reato, ma è nient’affatto irragionevole, né lesivo del principio di eguaglianza, attesa l’assoluta diversità degli illeciti ai quali le due disposizioni si riferiscono e la peculiarità delle violazioni finanziarie, per le quali legittimamente il legislatore – nell’esercizio della propria discrezionalità – può modulare la reazione dell’ordinamento giuridico al comportamento illecito del contribuente con una duplice sanzione, pecuniaria e penale.
A non diversa valutazione – chiosa ancora la Corte – conduce il rilievo del giudice a quo sulla residuale applicabilità (dal medesimo de plano assunta operante) del principio di specialità alle violazioni finanziarie diverse da quelle contemplate dalla legge n. 516 del 1982, atteso che – ove anche ciò fosse (ma è tutt’altro che certo in presenza di giurisprudenza, anche della Corte di cassazione, nonché di dottrina per nulla univoche sia su tale specifica questione, sia in termini più ampi sull’applicabilità, o meno, alle violazioni finanziarie dei principi generali posti dalla legge n. 689 del 1981 cit.) – la non irragionevolezza della pertinente opzione normativa risiederebbe comunque nella considerazione che la legge n. 516 cit. attiene a tributi evidentemente e non ingiustificatamente dal legislatore considerati fondamentali nel quadro della globale politica finanziaria da lui complessivamente disegnata con discrezionale modulazione della potestà impositiva, sicché per tali tributi sarebbe giustificata una scelta di maggior rigore (e, dunque, la doppia sanzionabilità sia a livello amministrativo che “penale puro”).
1998
Il 24 febbraio viene varato il decreto legislativo n.58, recante testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (c.d. legge Draghi).
Più in specie, secondo l’art.185, rubricato “notizia di reato e attività di accertamento”, quando ha notizia di taluno dei reati previsti dagli articoli 180 (abuso di informazioni privilegiate) e 181 (aggiotaggio su strumenti finanziari) il PM ne informa senza ritardo il Presidente della CONSOB (comma 1); la CONSOB compie gli atti di accertamento delle violazioni avvalendosi dei poteri a essa attribuiti nei confronti dei soggetti sottoposti alla relativa vigilanza (comma 2) ed al medesimo fine, essa può inoltre: a) richiedere notizie, dati o documenti a chiunque appaia informato sui fatti, stabilendo il termine per la relativa comunicazione; b) procedere all’audizione di chiunque appaia informato sui fatti, redigendone processo verbale; c) avvalersi della collaborazione delle pubbliche amministrazioni ed accedere al sistema informativo dell’anagrafe tributaria secondo le modalità previste dagli articoli 2 e 3, comma 1, del decreto legislativo 12 luglio 1991, n. 212 (comma 3). I poteri previsti dal comma 3, lettere a) e b), sono esercitati dalla Consob nel rispetto delle disposizioni degli articoli 199, 200, 201, 202 e 203 del codice di procedura penale, in quanto compatibili (comma 4).
2000
Il 7 dicembre viene proclamata per la prima volta a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, con la quale – per quanto qui di interesse – anche il diritto eurounitario riconosce ai cittadini europei un precipuo diritto al “ne bis in idem”.
Particolarmente rilevante in proposito l’art.50, rubricato “diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato”, onde nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge. Il riferimento è dunque ad una “sentenza penale definitiva”, espressione sul cui valore semantico occorre indagare, con particolare riferimento all’aggettivo “penale”.
2001
Il 18 ottobre viene pubblicata la legge costituzionale n.3 che, tra le altre cose, modifica il testo dell’art.117 della Costituzione: la potestà legislativa deve essere esercitata:
– nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; il che fa dire a parte della dottrina che la frizione di una norma interna con una norma comunitaria comporta (nuovamente) vizio di costituzionalità e competenza alla relativa declaratoria solo della Corte costituzionale (previa remissione della relativa questione di legittimità costituzionale);
– nel rispetto dei vincoli derivanti dai Trattati internazionali, e dunque anche dalla CEDU.
Si profila dunque una sorta di “legalità europea” con possibili ricadute anche sul diritto penale, il cui sfondo è dato non già solo dai Trattati comunitari e dalle norme da essi derivate, ma anche dalla stessa CEDU.
2005
Il 18 aprile viene varata la legge n.62, il cui art.9 introduce – tra gli altri – l’art.187 ter nel decreto legislativo 58.98, configurando la fattispecie di c.d. manipolazione del mercato.
Stando al relativo comma 1, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, é punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso INTERNET o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari; per i giornalisti che operano nello svolgimento della loro attività professionale la diffusione delle informazioni va peraltro valutata tenendo conto delle norme di autoregolamentazione proprie di detta professione, salvo che tali soggetti traggano, direttamente o indirettamente, un vantaggio o un profitto dalla diffusione delle informazioni (comma 2).
Ancora, ai sensi del successivo comma 3, salve le pertinenti sanzioni penali, quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di cui al comma 1 chiunque pone in essere: a) operazioni od ordini di compravendita che forniscano o siano idonei a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di strumenti finanziari; b) operazioni od ordini di compravendita che consentono, tramite l’azione di una o di più persone che agiscono di concerto, di fissare il prezzo di mercato di uno o più strumenti finanziari ad un livello anomalo o artificiale; c) operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o di espediente; d) altri artifizi idonei a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di strumenti finanziari.
Per gli illeciti indicati al comma 3, lettere a) e b), non può tuttavia essere assoggettato a sanzione amministrativa chi dimostri di avere agito per motivi legittimi e in conformità alle prassi ammesse nel mercato interessato (comma 4).
Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dai commi precedenti – dispone il comma 5 – sono aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito (e, dunque, in misura assai rigorosa) quando, per le qualità personali del colpevole, per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito ovvero per gli effetti prodotti sul mercato, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo. Il Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la CONSOB ovvero su proposta della medesima, può individuare, con proprio regolamento, in conformità alle disposizioni di attuazione della direttiva 2003/6/CE adottate dalla Commissione europea, secondo la procedura di cui all’articolo 17, paragrafo 2, della stessa direttiva, le fattispecie, anche ulteriori rispetto a quelle previste nei commi precedenti, rilevanti ai fini dell’applicazione del presente articolo (comma 6).
Infine, per il comma 7 la CONSOB rende noti, con proprie disposizioni, gli elementi e le circostanze da prendere in considerazione per la valutazione dei comportamenti idonei a costituire manipolazioni di mercato, ai sensi della direttiva 2003/6/CE e delle disposizioni di attuazione della stessa.
Lo stesso provvedimento riformula l’art.185 sul reato c.d. di manipolazione del mercato, onde chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, e’ punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni (comma 1); il giudice può peraltro aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo (comma 2).
2007
Il 12 dicembre viene proclamata una seconda volta a Strasburgo, in versione adattata, la Carta di Nizza da parte di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.
* * *
Il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, che apporta ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea.
Con la relativa entrata in vigore, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1 novellato, del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di Trattati e Protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea, con conseguente disapplicabilità delle norme interne contrastanti.
I paragrafi 2 e 3 dell’art.6, anch’essi novellati, consentono nella sostanza all’Unione Europea di aderire alla CEDU; quando ciò dovesse accadere (con la procedura di cui al protocollo n.8 annesso al Trattato), i diritti fondamentali CEDU non saranno comunque, secondo l’interpretazione dottrinale, comunitarizzati tout court, ma la relativa tutela verrà considerata quale principio generale del diritto dell’Unione, così come già avviene per le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri.
Ai sensi del relativo art.51, le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, onde i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze (comma 1), la Carta medesima non introducendo competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modificando le competenze e i compiti definiti dai Trattati. In sostanza dunque, nelle materie penali “a rilevanza eurounitaria” (ma non anche fuori di esse) si applica la Carta ridetta e, in particolare, l’art.50 con il divieto di bis in idem in esso inscritto.
Peraltro, ai sensi del successivo art.52, paragrafo 3, laddove la Carta di Nizza (CDFUE) contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione (potendo nondimeno) il diritto dell’Unione concedere una protezione più estesa ai ridetti diritti convenzionalmente rilevanti. Ciò implica che il divieto di bis in idem viene previsto dalla Carta, in qualche modo, due volte: a) autonomamente, all’art.50 della Carta stessa); b) indirettamente, attraverso il richiamo all’art.4 del Protocollo VII alla CEDU.
2008
Il 2 agosto viene varata la legge n.130, recante ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunita’ europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007.
2009
Il 10 febbraio esce la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, n. 14939/03, Zolotukhine c. Russia, che inaugura la giurisprudenza onde deve assumersi preclusa – stante la configurabilità di un “medesimo fatto” (idem factum) – la celebrazione di due processi che abbiano ad oggetto il medesimo fatto storico, a prescindere dalla qualificazione giuridica che di esso venga data.
In sostanza, al cospetto di un dato fatto storico, si ha bis in idem quando sia celebrato un processo sulla scorta della pertinente qualificazione come reato A ed un altro processo in cui lo stesso fatto storico venga qualificato reato B; ciò proprio in considerazione della circostanza onde per “medesimo fatto” deve assumersi appunto il fatto storicamente inteso, e non già la qualificazione (quand’anche diversa) che ne venga data.
* * *
2013
Il 26 febbraio esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, in causa C-617/10, Fransson.
Nell’ambito del diritto dell’Unione, secondo quanto affermato da tale decisione, a fronte di un obbligo a carico dello Stato membro di repressione di certe condotte, l’efficacia del divieto di bis in idem basato sull’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, è subordinata ad una verifica sul carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo delle sanzioni applicate.
Qualora la risposta sanzionatoria sia stata sotto tale verso – nel primo giudizio – inadeguata, il giudice potrebbe procedere nel secondo giudizio anche se il primo fosse già esaurito. Benché operante in malam partem, il limite all’efficacia del ne bis in idem così descritto apre dunque la strada ad una valutazione sul peso combinato delle sanzioni applicabili in due separate sedi; valutazione che incrina dunque la portata meramente processuale della pertinente regola, onde il problema non è tanto e solo non sottoporre a due processi per un medesimo fatto, quanto piuttosto non “sanzionare” per quel medesimo fatto (ferme le coordinate dalla pronuncia indicate in termini di complessiva adeguatezza e proporzionalità del trattamento sanzionatorio applicato).
2014
Il 4 marzo esce la nota sentenza della Corte EDU, sezione II, sul caso Grande Stevens ed altri c. Italia, che vede due soggetti privati – già sanzionati a titolo “amministrativo” dalla Consob – essere rinviati a giudizio in sede e penale (con previsione di sottoposizione al pertinente processo) e, dipoi, condannati in appello civile nel giudizio spiccato contro la sanzione (di carattere appunto “amministrativo”) irrogata dalla Consob, con sentenza alfine confermata dalla Cassazione civile.
La Corte, per quanto qui maggiormente rileva, dopo aver operato una panoramica sulle norme di diritto interno (italiano) rilevanti, osserva preliminarmente come la posta in gioco “finanziaria” della causa sia stata importante. I ricorrenti sono stati condannati dalla CONSOB e dalla corte d’appello di Torino a pagare sanzioni pecuniarie che vanno da 500.000 a 3.000.000 EUR e rischiano di vedersi irrogare, dai giudici penali, una pena restrittiva della libertà e una sanzione pecuniaria che va da 20.000 a 5.000.000 EUR. Inoltre, prosegue la Corte, l’importanza soggettiva della questione appare evidente per i sigg. Gabetti, Grande Stevens e Marrone (si veda, a contrario, Shefer c. Russia (dec.), n. 45175/04, 13 marzo 2012) dacché, nei loro confronti, è stato pronunciato il divieto di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo di società quotate in borsa, rispettivamente per la durata di sei, quattro e due mesi, il che potrebbe essere considerato lesivo della loro onorabilità professionale (si veda, mutatis mutandis, Eon c. Francia, n. 26118/10, § 34, 14 marzo 2013).
Tenuto conto di quanto precede, la Corte ritiene che la prima condizione dell’articolo 35 § 3 b) della Convenzione, ossia l’assenza di pregiudizio importante per i ricorrenti, non sia soddisfatta e che quindi l’eccezione del Governo debba essere nel caso di specie rigettata. A titolo sovrabbondante, la Corte precisa poi che la prosecuzione dell’esame della causa si rende necessaria anche in nome del rispetto dei diritti dell’uomo (si veda, mutatis mutandis, Nicoleta Gheorghe c. Romania, n. 23470/05, § 24, 3 aprile 2012, e Eon, § 35). Al riguardo, essa rileva che il ricorso solleva in particolare la questione della natura e dell’equità del procedimento dinanzi alla CONSOB e della possibilità di iniziare un processo penale per fatti già sanzionati da quest’ultima.
Si tratta – precisa il Collegio – della prima causa di questo tipo che la Corte è chiamata ad esaminare per quanto riguarda l’Italia e una decisione della Corte su questa questione di principio potrebbe in futuro guidare i giudici nazionali.
La Corte rammenta poi che, ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita solo dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne. La finalità di tale regola è quella di offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o riparare le violazioni denunciate nei loro confronti prima che la Corte ne sia investita (si vedano, tra le altre, Mifsud c. Francia (dec.) [GC], n. 57220/00, § 15, CEDU 2002 VIII, e Simons c. Belgio (dec.), n. 71407/10, § 23, 28 agosto 2012).
I principi generali relativi alla regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne sono esposti nella sentenza Sejdovic c. Italia ([GC], n. 56581/00, §§ 43-46, CEDU 2006 II). La Corte rammenta che l’articolo 35 § 1 della Convenzione prescrive l’esaurimento dei soli ricorsi che siano al tempo stesso relativi alle violazioni denunciate, disponibili e adeguati. Un ricorso è effettivo quando è disponibile tanto in teoria quanto in pratica all’epoca dei fatti, vale a dire quando è accessibile, può offrire al ricorrente la riparazione delle violazioni denunciate e presenta ragionevoli prospettive di successo. Al riguardo, il mero fatto di nutrire dubbi quanto alle prospettive di successo di un dato ricorso che non è secondo ogni evidenza destinato al fallimento non costituisce un motivo valido per giustificare il mancato utilizzo di ricorsi interni (Brusco c. Italia (dec.), n. 69789/01, CEDU 2001 IX; Sardinas Albo c. Italia (dec.), n. 56271/00, CEDU 2004 I; e Alberto Eugénio da Conceicao c. Portogallo (dec.), n. 74044/11, 29 maggio 2012).
Nel caso di specie, chiosa ancora la Corte, nel loro ricorso in opposizione dinanzi alla corte d’appello di Torino, i ricorrenti hanno eccepito il mancato rispetto, da parte della CONSOB, del principio del contraddittorio. Essi hanno reiterato le loro deduzioni in questo senso dinanzi alla Corte di cassazione, invocando i principi del giusto processo, sanciti dall’articolo 111 della Costituzione. Hanno quindi esaurito, al riguardo, le vie di ricorso offerte loro dal diritto italiano. Quanto alle questioni relative ai poteri del presidente della CONSOB e alla tenuta di un’udienza a porte chiuse dinanzi alla corte d’appello di Torino, si trattava, secondo i ricorrenti, dell’applicazione di regole contenute in disposizioni legislative interne. Del resto, qualsiasi eccezione dei ricorrenti al riguardo sarebbe stata priva di ragionevoli prospettive di successo, tenuto conto in particolare del fatto che la Corte di cassazione ha ritenuto che le disposizioni costituzionali in materia di giusto processo e di diritto alla difesa non fossero applicabili al procedimento per l’irrogazione di sanzioni amministrative.
La Corte osserva anche che dopo la conferma, da parte della Corte di cassazione, della condanna pronunciata dalla CONSOB, i ricorrenti hanno invocato, nel procedimento penale, il principio del ne bis in idem ed hanno eccepito, invano, l’incostituzionalità delle disposizioni pertinenti del decreto legislativo n. 58 del 1998 e dell’articolo 649 del CPP, a causa della loro incompatibilità con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. Infine, per quanto riguarda la circostanza che il procedimento penale era, alla data delle ultime informazioni ricevute dalla Corte (7 giugno 2013), ancora pendente in cassazione nei confronti dei sigg. Gabetti e Grande Stevens, è sufficiente osservare che i ricorrenti lamentano di essere stati «perseguiti penalmente» per un reato per il quale erano già stati condannati con sentenza definitiva. Pertanto, la loro doglianza relativa all’articolo 4 del Protocollo n. 7 non può per il Collegio essere considerata prematura. Ne consegue che l’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne non può per la Corte essere accolta.
Proseguendo nel proprio iter decisorio, la Corte rammenta la propria consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’articolo 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti)).
Nel caso di specie, la Corte constata innanzitutto che le manipolazioni del mercato ascritte ai ricorrenti non costituiscono un “reato di natura penale” nel diritto italiano. Questi comportamenti sono in effetti puniti con una sanzione qualificata come «amministrativa» dall’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998. Ciò non è tuttavia decisivo ai fini dell’applicabilità del profilo penale dell’articolo 6 della Convenzione, in quanto le indicazioni che fornisce il diritto interno hanno un valore relativo (Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, § 52, serie A n. 73, e Menarini Diagnostics S.r.l., § 39).
Per quanto riguarda la natura dell’illecito, sembra che le disposizioni la cui violazione è stata ascritta ai ricorrenti si prefiggessero di garantire l’integrità dei mercati finanziari e di mantenere la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni. La Corte rammenta che la CONSOB, autorità amministrativa indipendente, ha tra i propri scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l’efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici. Si tratta di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale (si veda mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., § 40; si veda anche Société Stenuit c. Francia, rapporto della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 30 maggio 1991, § 62, serie A n. 232 A). Inoltre, la Corte è del parere che le sanzioni pecuniarie inflitte mirassero essenzialmente a punire per impedire la recidiva. Erano dunque basate su norme che perseguivano uno scopo preventivo, ovvero dissuadere gli interessati dal ricominciare, e repressivo, in quanto sanzionavano una irregolarità (si veda, mutatis mutandis, Jussila, § 38).
Dunque, chiosa ancora la Corte, esse non si prefiggevano unicamente, come sostiene il Governo, di riparare un danno di natura finanziaria. Al riguardo, è opportuno notare che le sanzioni erano inflitte dalla CONSOB in funzione della gravità della condotta ascritta e non del danno provocato agli investitori.
Per quanto riguarda la natura e la severità della sanzione «che può essere inflitta» ai ricorrenti (Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], nn. 39665/98 e 40086/98, § 120, CEDU 2003-X), la Corte conviene con il Governo che le sanzioni pecuniarie in questione non potessero essere sostituite da una pena privativa della libertà in caso di mancato pagamento (si veda, a contrario, Anghel c. Romania, n. 28183/03, § 52, 4 ottobre 2007). Tuttavia, la CONSOB poteva infliggere una sanzione pecuniaria fino a 5.000.000 EUR, e questo massimo ordinario poteva, in alcune circostanze, essere triplicato o elevato fino a dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto grazie al comportamento illecito. L’inflizione delle sanzioni amministrative pecuniarie sopra menzionate comporta per i rappresentanti delle società coinvolte la perdita temporanea della loro onorabilità, e se queste ultime sono quotate in borsa, ai loro rappresentanti si applica l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito delle società quotate per una durata variabile da due mesi a tre anni. La CONSOB può anche vietare alle società quotate, alle società di gestione e alle società di revisione di avvalersi della collaborazione dell’autore dell’illecito, per una durata massima di tre anni, e chiedere agli ordini professionali la sospensione temporanea dell’interessato dall’esercizio della propria attività professionale. Infine, l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo.
È vero che nel caso di specie le sanzioni non sono state applicate nel loro ammontare massimo, in quanto la corte d’appello di Torino ha ridotto alcune ammende inflitte dalla CONSOB, e non è stata disposta alcuna confisca. Tuttavia, il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel e altri, sopra citata, § 82), e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (Dubus S.A., § 37). Per di più, nel caso di specie i ricorrenti sono stati sanzionati con ammende variabili tra 500.000 e 3.000.000 EUR, e a Gabetti, Grande Stevens e Marrone è stata inflitta l’interdizione dall’amministrare, dirigere o controllare delle società quotate in borsa per un tempo compreso tra due e quattro mesi. Quest’ultima sanzione era tale da ledere il credito delle persone interessate (si veda, mutatis mutandis, Dubus S.A., loc. ult. cit.), e le ammende erano, visto il loro ammontare, di una innegabile severità che comportava per gli interessati conseguenze patrimoniali importanti.
Alla luce di quanto è stato esposto e tenuto conto dell’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell’ambito della materia penale (si vedano, mutatis mutandis, Öztürk, sopra citata, § 54, e, a contrario, Inocêncio c. Portogallo (dec.), n. 43862/98, CEDU 2001 I).
Del resto, la Corte rammenta anche che a proposito di alcune autorità amministrative francesi competenti in diritto economico e finanziario, dotate di potere sanzionatorio, essa ha dichiarato che il profilo penale dell’articolo 6 si applicava anche nel caso della Corte di disciplina finanziaria ed economica (Guisset c. Francia, n. 33933/96, § 59, CEDU 2000 IX), del Consiglio dei mercati finanziari (Didier c. Francia (dec.), n. 58188/00, 27 agosto 2002), del Consiglio della concorrenza (Lilly France S.A. c. Francia (dec.), n. 53892/00, 3 dicembre 2002), della commissione delle sanzioni dell’Autorità dei mercati finanziari (Messier c. Francia (dec.), n. 25041/07, 19 maggio 2009), e della Commissione bancaria (Dubus S.A., sopra citata, § 38). Lo stesso è accaduto per l’autorità italiana AGCM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; si veda Menarini Diagnostics S.r.l., § 44).
Tenuto conto dei diversi aspetti della causa, debitamente ponderati, la Corte ritiene alfine che le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti abbiano carattere penale, di modo che il profilo penale dell’articolo 6 § 1 sia applicabile nel caso di specie (si veda, mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., loc. ult. cit.).
Sotto altro profilo, la Corte si dichiara pronta ad ammettere che, come sottolineato dal Governo, il procedimento dinanzi alla CONSOB ha permesso agli accusati di presentare elementi utili per la loro difesa. In effetti, l’accusa formulata dall’ufficio IT è stata comunicata ai ricorrenti, i quali sono stati invitati a difendersi. I ricorrenti hanno anche avuto conoscenza del rapporto e della nota complementare dell’ufficio IT, e hanno avuto a disposizione trenta giorni di tempo per presentare eventuali osservazioni rispetto a quest’ultimo documento. Questo termine non appare manifestamente insufficiente e i ricorrenti non ne hanno chiesto la proroga.
Resta comunque il fatto che, come riconosciuto dal Governo, il rapporto che conteneva le conclusioni dell’ufficio sanzioni, destinato a servire poi da base alla decisione della Commissione, non è stato comunicato ai ricorrenti, che non hanno dunque avuto la possibilità di difendersi rispetto al documento alla fine sottoposto dagli organi investigativi della CONSOB all’organo incaricato di decidere sulla fondatezza delle accuse. Inoltre, gli interessati non hanno avuto possibilità di interrogare o di far interrogare le persone eventualmente sentite dall’ufficio IT.
La Corte rileva anche che il procedimento dinanzi alla CONSOB era essenzialmente scritto e che i ricorrenti non hanno avuto la possibilità di partecipare all’unica riunione tenuta dalla Commissione, alla quale non erano ammessi. Questo non viene contestato dal Governo. A tale proposito, la Corte rammenta che lo svolgimento di un’udienza pubblica costituisce un principio fondamentale sancito dall’articolo 6 § 1 (Jussila, sopra citata, § 40). Tuttavia, è vero che l’obbligo di tenere un’udienza pubblica non è assoluto (Håkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie A n. 171-A) e che l’articolo 6 non esige necessariamente lo svolgimento di una udienza in tutte le procedure, soprattutto nelle cause che non sollevano questioni di credibilità o non suscitano controversie su fatti che rendono necessario un confronto orale, e nell’ambito delle quali i giudici possono pronunciarsi in maniera equa e ragionevole sulla base delle conclusioni scritte delle parti e degli altri documenti contenuti nel fascicolo (si vedano, ad esempio, Döry c. Svezia, n. 28394/95, § 37, 12 novembre 2002; Pursiheimo c. Finlandia (dec.), n. 57795/00, 25 novembre 2003; Jussila, § 41; e Suhadolc c. Slovenia (dec.), n. 57655/08, 17 maggio 2011, dove la Corte ha ritenuto che la mancanza di udienza orale e pubblica non creasse alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione in una causa per eccesso di velocità e di guida in stato di ebbrezza nella quale gli elementi a carico dell’accusato erano stati ottenuti grazie ad alcuni apparecchi tecnici).
Anche se le esigenze del processo equo sono più rigorose in materia penale, la Corte non esclude che, nell’ambito di alcune procedure penali, i giudici aditi possano, in ragione della natura delle questioni che si pongono, sentirsi esonerati dal tenere un’udienza. Se bisogna tenere presente che i procedimenti penali, che hanno ad oggetto la determinazione della responsabilità penale e l’imposizione di misure a carattere repressivo e dissuasivo, assumono una certa gravità, va da sé che alcuni di essi non comportano alcun carattere infamante per le persone che ne sono oggetto e che le «accuse in materia penale» non hanno tutte lo stesso peso (Jussila, § 43).
È opportuno anche precisare – chiosa ancora la Corte – che l’importanza considerevole che la posta in gioco del procedimento in questione può avere per la situazione personale di un ricorrente non è decisiva per stabilire se sia necessario tenere una udienza (Pirinen c. Finlandia (dec.), n. 32447/02, 16 maggio 2006). Resta comunque il fatto che il rigetto della richiesta di tenere una udienza può giustificarsi soltanto in rare occasioni (Miller c. Svezia, n. 55853/00, § 29, 8 febbraio 2005, e Jussila, § 42).
Per quanto riguarda la presente causa, secondo la Corte era necessaria una udienza pubblica, orale e accessibile ai ricorrenti. A tale proposito, la Corte osserva che vi era una controversia sui fatti, soprattutto per ciò che riguardava lo stato di avanzamento delle negoziazioni con la Merrill Lynch International Ltd, e che, al di là della loro gravità da un punto di vista economico, le sanzioni in cui rischiavano di incorrere alcuni dei ricorrenti avevano, come notato prima, un carattere infamante, potendo arrecare pregiudizio all’onorabilità professionale e al credito delle persone interessate. Per quanto sopra esposto, la Corte reputa che il procedimento dinanzi alla CONSOB non soddisfacesse tutte le esigenze dell’articolo 6 della Convenzione, soprattutto per quanto riguarda la parità delle armi tra accusa e difesa e il mancato svolgimento di una udienza pubblica che permettesse un confronto orale.
Ancora, la Corte rammenta la propria consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, per stabilire se un «tribunale» possa essere considerato «indipendente», occorre tener conto, soprattutto, delle modalità di designazione e della durata del mandato dei relativi membri, dell’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne e sapere se vi sia stata o meno parvenza di indipendenza (Kleyn e altri c. Paesi Bassi [GC], nn. 39343/98, 39651/98, 43147/98 e 46664/99, § 190, CEDU 2003-VI). Tenuto conto delle modalità e delle condizioni di nomina dei membri della CONSOB, e in assenza di elementi che permettano di dire che le garanzie contro eventuali pressioni esterne non sono sufficienti e adeguate, la Corte ritiene che non si debba dubitare dell’indipendenza della CONSOB rispetto a qualsiasi altro potere o autorità, e in particolare rispetto al potere esecutivo. Al riguardo, essa fa proprie le osservazioni del Governo per quanto riguarda l’autonomia della CONSOB e le garanzie che caratterizzano la nomina dei relativi membri.
La Corte rammenta poi i principi generali riguardanti il metodo per valutare l’imparzialità di un «tribunale», che sono esposti, tra altre, nelle seguenti sentenze: Padovani c. Italia, 26 febbraio 1993, § 20, serie A n. 257-B; Thomann c. Svizzera, 10 giugno 1996, § 30, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Ferrantelli e Santangelo c. Italia, 7 agosto 1996, § 58, Recueil 1996-III; Castillo Algar c. Spagna, 28 ottobre 1998, § 45, Recueil 1998-VIII; Wettstein c. Svizzera, n. 33958/96, § 44, CEDU 2000 XII; Morel c. Francia, n. 34130/96, § 42, CEDU 2000-VI; e Cianetti c. Italia, n. 55634/00, § 37, 22 aprile 2004.
Per quanto riguarda l’aspetto soggettivo dell’imparzialità della CONSOB, la Corte constata che nel caso di specie non vi è nulla che indichi un qualsiasi pregiudizio o partito preso da parte dei relativi membri. Il fatto che siano state prese decisioni sfavorevoli ai ricorrenti non può da solo mettere in dubbio la loro imparzialità (si veda, mutatis mutandis, Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, § 53, 12 febbraio 2013) e la Corte non può dunque che presumere l’imparzialità personale dei membri della CONSOB, compresa quella del relativo presidente.
Per quanto riguarda l’imparzialità oggettiva, la Corte nota che il regolamento della CONSOB prevede una certa separazione tra organi incaricati dell’indagine e organo competente a decidere sull’esistenza di un illecito e sull’applicazione delle sanzioni. In particolare, l’accusa è formulata dall’ufficio IT, che compie anche indagini i cui risultati sono riassunti nel rapporto dell’ufficio sanzioni contenente le conclusioni e le proposte sulle sanzioni da applicare. La decisione finale sull’inflizione di queste ultime spetta unicamente alla commissione.
Rimane comunque il fatto – chiosa ancora la Corte – che l’ufficio IT, l’ufficio sanzioni e la commissione non sono che suddivisioni dello stesso organo amministrativo, che agiscono sotto l’autorità e la supervisione di uno stesso presidente. Secondo la Corte, ciò si esprime nel consecutivo esercizio di funzioni di indagine e di giudizio in seno ad una stessa istituzione; ora, in materia penale tale cumulo non è compatibile con le esigenze di imparzialità richieste dall’articolo 6 § 1 della Convenzione (si veda, in particolare e mutatis mutandis, Piersack c. Belgio, 1o ottobre 1982, §§ 30-32, serie A n. 53, e De Cubber c. Belgio, 26 ottobre 1984, §§ 24-30, serie A n. 86, dove la Corte ha concluso per una mancanza di imparzialità oggettiva del «tribunale» in ragione, nella prima di queste cause, del fatto che una corte d’assise fosse presieduta da un consigliere che, precedentemente, aveva diretto la sezione della procura di Bruxelles investita del caso dell’interessato; e, nella seconda, dell’esercizio in successione delle funzioni di giudice istruttore e di giudice di merito da parte di uno stesso magistrato in una stessa causa).
Le constatazioni che precedono, relative alla mancanza di imparzialità oggettiva della CONSOB e alla mancata conformità del procedimento dinanzi ad essa con il principio del processo equo non sono comunque sufficienti – rappresenta tuttavia la Corte – per poter concludere che nel caso di specie vi è stata violazione dell’articolo 6. Al riguardo la Corte osserva che le sanzioni lamentate dai ricorrenti non sono state inflitte da un giudice all’esito di un procedimento giudiziario in contraddittorio, ma da un’autorità amministrativa, la CONSOB. Se affidare a tali autorità il compito di perseguire e reprimere le contravvenzioni non è incompatibile con la Convenzione, occorre tuttavia sottolineare che i ricorrenti devono poter impugnare qualsiasi decisione adottata in questo modo nei loro confronti dinanzi a un tribunale che offra le garanzie dell’articolo 6 (Kadubec c. Slovacchia, 2 settembre 1998, § 57, Recueil 1998-VI; Čanády c. Slovacchia, n. 53371/99, § 31, 16 novembre 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 58).
Il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude dunque che in un procedimento di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa. Esso presuppone, tuttavia, che la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni dell’articolo 6 sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione (Schmautzer, Umlauft, Gradinger, Pramstaller, Palaoro e Pfarrmeier c. Austria, sentenze del 23 ottobre 1995, rispettivamente §§ 34, 37, 42 e 39, 41 e 38, serie A nn. 328 A-C e 329 A C). Fra le caratteristiche di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione figura il potere di riformare qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata, resa dall’organo inferiore. In particolare esso deve avere competenza per esaminare tutte le pertinenti questioni di fatto e di diritto che si pongono nella controversia di cui si trova investito (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III; Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l., § 59).
Nel caso di specie i ricorrenti hanno avuto la possibilità, di cui si sono avvalsi, di contestare le sanzioni inflitte dalla CONSOB dinanzi alla corte d’appello di Torino e di ricorrere per cassazione avverso le sentenze emesse da quest’ultima. Resta da stabilire se queste due autorità giudiziarie fossero «organi giudiziari dotati di piena giurisdizione» ai sensi della giurisprudenza della Corte.
La Corte nota innanzitutto che nel caso di specie non vi sono elementi che permettano di dubitare dell’indipendenza e della imparzialità della corte d’appello di Torino. I ricorrenti peraltro non sollevano contestazioni in tal senso.
La Corte osserva per di più che la corte d’appello era competente per giudicare sulla esistenza, in fatto e in diritto, dell’illecito definito dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998, e aveva il potere di annullare la decisione della CONSOB. Essa doveva anche valutare la proporzionalità delle sanzioni inflitte rispetto alla gravità del comportamento ascritto. Di fatto, essa ha peraltro ridotto l’ammontare delle sanzioni pecuniarie e la durata della interdizione pronunciata per alcuni dei ricorrenti ed ha esaminato le loro diverse affermazioni di ordine fattuale o giuridico. La relativa competenza non si limitava dunque ad un semplice controllo di legalità.
È vero che i ricorrenti contestano il fatto che la corte d’appello non ha interrogato i testimoni. Tuttavia, essi non indicano alcuna norma procedurale che avrebbe impedito tale interrogatorio. Per di più, la richiesta di audizione dei testimoni formulata dal sig. Grande Stevens nella relativa memoria del 25 settembre 2007 non indicava né i nomi delle persone che l’interessato desiderava fossero convocate né le circostanze sulle quali queste ultime avrebbero dovuto testimoniare. Inoltre, la richiesta era stata formulata in maniera puramente eventuale, dovendo essere esaminata unicamente nel caso in cui la corte d’appello avesse considerato insufficienti o non utilizzabili i documenti già inseriti nel fascicolo. Lo stesso si può dire per la domanda formulata dal sig. Marrone, che prospettava la possibilità di ascoltare i testimoni, di cui citava le dichiarazioni, soltanto «se necessario». Ad ogni modo, dinanzi alla Corte i ricorrenti non hanno indicato con precisione i testimoni la cui audizione sarebbe stata rifiutata dalla corte d’appello e le ragioni per le quali la loro testimonianza sarebbe stata decisiva per l’esito delle loro cause. Non hanno neanche sostenuto il loro motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 3 d) della Convenzione.
Alla luce di quanto esposto, la Corte considera che la corte d’appello di Torino era certamente un «organo dotato di piena giurisdizione» ai sensi della propria giurisprudenza (si veda, mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., §§ 60-67). I ricorrenti stessi non sembrano contestarlo.
Resta da stabilire se le udienze sul merito svoltesi dinanzi alla corte d’appello di Torino siano state pubbliche, questione di fatto sulla quale le affermazioni delle parti divergono. Al riguardo, la Corte non può che richiamare le proprie conclusioni sulla necessità, nel caso di specie, di un’udienza pubblica.
La Corte nota che le parti hanno prodotto documenti contraddittori sul modo in cui si sarebbero svolte le udienze oggetto di contestazione; secondo le dichiarazioni scritte del dirigente la cancelleria della corte d’appello di Torino, prodotte dai ricorrenti, queste udienze si sarebbero svolte in camera di consiglio, mentre secondo le dichiarazioni scritte del presidente della corte d’appello, prodotte dal Governo, soltanto le udienze relative al subprocedimento cautelare si sarebbero svolte in camera di consiglio, tutte le altre udienze sarebbero state pubbliche. La Corte non è affatto in grado di dire quale delle due versioni sia vera. Comunque sia, davanti a queste due versioni, entrambe plausibili e provenienti da fonti qualificate, ma opposte, la Corte ritiene opportuno attenersi al contenuto degli atti ufficiali del procedimento.
Ora, come i ricorrenti hanno giustamente sottolineato, le sentenze emesse dalla corte d’appello indicano che queste ultime si erano svolte in camera di consiglio o che era stata disposta la comparizione delle parti in camera di consiglio. Facendo fede a queste menzioni, la Corte giunge pertanto alla conclusione che dinanzi alla corte d’appello di Torino non si sia svolta alcuna udienza pubblica.
È vero – prosegue la Corte – che un’udienza pubblica si è svolta dinanzi alla Corte di cassazione. Tuttavia, quest’ultima non era competente per esaminare il merito della causa, accertare i fatti e valutare gli elementi di prova; il Governo peraltro non lo contesta. La Corte di cassazione non poteva dunque essere considerata come un organo dotato di piena giurisdizione ai sensi della giurisprudenza della Corte.
La Corte rammenta – sotto altro profilo – che non le spetta esaminare gli errori di fatto o di diritto che si presumono commessi da un organo giudiziario interno, a meno che e nella misura in cui questi errori abbiano potuto ledere i diritti e le libertà salvaguardati dalla Convenzione (Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V), e che in linea di principio spetta alle autorità giudiziarie nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Pacifico c. Italia (dec.), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012). Ora, la Corte ha esaminato le decisioni interne contestate dai ricorrenti senza rilevare segni di arbitrio che possano costituire un diniego di giustizia o un evidente abuso (si veda, a contrario, De Moor c. Belgio, 23 giugno 1994, § 55 in fine, serie A n. 292 A, e Barać e altri c. Montenegro, n. 47974/06, § 32, 13 dicembre 2011).
La Corte rammenta anche che il principio della presunzione d’innocenza richiede, tra l’altro, che nell’adempiere alle loro funzioni i membri del tribunale non partano dall’idea preconcetta che l’imputato abbia commesso l’atto contestato; l’onere della prova è a carico dell’accusa e il dubbio è a favore dell’accusato. Inoltre, spetta all’autorità che procede indicare all’interessato ciò che gli verrà addebitato – al fine di dargli modo di preparare e presentare la sua consequenziale difesa – e di offrire prove sufficienti per poter basare una dichiarazione di colpevolezza (si veda, in particolare Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, 6 dicembre 1988, § 77, serie A n. 146; John Murray c. Regno Unito, 8 febbraio 1996, § 54, Recueil 1996-I; e Telfner c. Austria, n. 33501/96, § 15, 20 marzo 2001).
Nel caso di specie – chiosa la Corte – la condanna degli interessati è stata pronunciata sulla base di un insieme di indizi giudicati precisi, gravi e concordanti prodotti dall’ufficio IT, e che facevano pensare che, all’epoca della diffusione dei comunicati stampa del 24 agosto 2005, l’accordo che modificava l’equity swap fosse stato concluso o stava per essere concluso. In tali circostanze, non può essere rilevata alcuna violazione del principio della presunzione di innocenza (si veda, mutatis mutandis, Previti c. Italia (dec.), n. 45291/06, § 250, 8 dicembre 2009).
Alla luce di quanto esposto, la Corte ritiene che, anche se il procedimento dinanzi alla CONSOB non ha soddisfatto le esigenze di equità e di imparzialità oggettiva dall’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti hanno beneficiato del successivo controllo da parte di un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione, in questo caso la corte d’appello di Torino. Tuttavia, quest’ultima non ha tenuto un’udienza pubblica, fatto che, nel caso di specie, ha costituito una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
La Corte rammenta a questo punto che dalle disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) della Convenzione si deduce la necessità che l’«accusa» sia notificata all’interessato con estrema attenzione. L’atto d’accusa svolge un ruolo determinante nell’ambito dell’azione penale: a decorrere dalla relativa notifica, la persona accusata viene ufficialmente avvisata per iscritto della base giuridica e fattuale delle accuse formulate nei relativi confronti (Kamasinski c. Austria, 19 dicembre 1989, § 79, serie A n. 168). Peraltro, l’articolo 6 § 3 a) riconosce all’accusato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali posti a relativo carico e sui quali si basa l’imputazione, ma anche, in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica attribuita a tali fatti (Pélissier e Sassi c. Francia [GC], n. 25444/94, § 51, CEDU 1999-II).
La portata di tale disposizione deve essere valutata alla luce del diritto più generale a un processo equo sancito dal paragrafo 1 dell’articolo 6 della Convenzione (Sadak e altri c. Turchia (n. 1), nn. 29900/96, 29901/96, 29902/96 e 29903/96, § 49, CEDU 2001 VIII). La Corte considera che, in materia penale, una notifica precisa e completa all’accusato degli elementi a relativo carico – compresa la qualificazione giuridica che il giudice potrebbe applicare nei relativi confronti – sia una condizione essenziale per l’equità del procedimento (Pélissier e Sassi, § 52).
Esiste peraltro un collegamento tra i punti a) e b) dell’articolo 6 § 3, e il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa deve essere esaminato alla luce del diritto per l’accusato di preparare la propria difesa (Pélissier e Sassi, § 54).
Nel caso di specie, la Corte osserva che le doglianze del sig. Grande Stevens sono inerenti al fatto che la CONSOB aveva indicato che egli aveva agito nella relativa qualità di amministratore della Exor e che la corte d’appello di Torino, pur riconoscendo che egli non aveva tale qualità, ha comunque confermato la condanna a suo carico.
La Corte osserva che la qualità di amministratore di una società quotata in borsa non rientra tra gli elementi costitutivi dell’illecito ascritto al sig. Grande Stevens, in quanto l’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 punisce «chiunque» diffonde informazioni false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari. La corte d’appello di Torino lo ha giustamente sottolineato, ritenendo che la questione che si poneva non fosse stabilire se l’interessato era uno degli amministratori della Exor, ma se aveva partecipato al processo decisionale che aveva condotto alla pubblicazione del comunicato stampa in questione.
Di conseguenza, la qualità di amministratore della Exor non faceva parte dell’«accusa» notificata al sig. Grande Stevens, e non costituiva nemmeno un «elemento intrinseco dell’accusa iniziale» che l’accusato avrebbe dovuto conoscere fin dall’inizio del procedimento (si veda, a contrario, De Salvador Torres c. Spagna, 24 ottobre 1996, § 33, Recueil 1996-V).
Peraltro, nella misura in cui si potrebbe ritenere che la qualità di amministratore della Exor fosse uno degli elementi utilizzati dalle autorità nazionali per valutare se il sig. Grande Stevens si fosse reso colpevole dell’illecito ascrittogli, si deve osservare che l’interessato è stato informato in tempo utile del fatto che gli era stata attribuita tale qualità, e ha potuto presentare in merito argomenti fattuali e giuridici sia dinanzi alla CONSOB che dinanzi alla corte d’appello (si veda, mutatis mutandis, D.C. c. Italia (dec.), n. 55990/00, 28 febbraio 2002, e Dallos c. Ungheria, n. 29082/95, §§ 49-53, 1o marzo 2001). E quest’ultima alla fine ha riconosciuto che il sig. Grande Stevens non aveva tale qualità.
Pertanto, la Corte non constata alcuna violazione del diritto, riconosciuto al ricorrente dall’articolo 6 § 3 a) e b) della Convenzione, di essere informato della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei relativi confronti e di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa.
Ancora, la Corte osserva che i ricorrenti sono stati condannati dalla CONSOB e dalla corte d’appello di Torino al pagamento di pesanti sanzioni pecuniarie, comprese tra 500.000 e 3.000.000 EUR, il che si traduce in una ingerenza nel diritto degli interessati al rispetto dei beni. Peraltro, ciò non viene messo in discussione dal Governo.
La Corte rammenta che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: la prima, contenuta nella prima frase del primo comma e avente carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, contenuta nella seconda frase dello stesso comma, prevede la privazione della proprietà subordinandola ad alcune condizioni; la terza, prevista nel secondo comma, riconosce agli Stati contraenti il potere di disciplinare l’uso dei beni, conformemente all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle sanzioni pecuniarie (si vedano, tra le altre, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, 23 ottobre 1997, § 78, Recueil 1997-VII).
La Corte ritiene che le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti rientrino nelle previsioni del secondo comma dell’articolo 1, in particolare nel diritto dello Stato di disciplinare l’uso dei beni per assicurare il pagamento delle sanzioni pecuniarie.
La Corte rammenta che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, innanzitutto e soprattutto, che un’ingerenza della pubblica autorità nel godimento del diritto al rispetto dei beni sia legale (Varesi e altri c. Italia (dec.), n. 49407/08, § 36, 12 marzo 2013): la seconda frase del primo comma di tale articolo autorizza una privazione della proprietà solo «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce agli Stati il diritto di disciplinare l’uso dei beni adottando «leggi» (OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia, n. 14902/04, § 559, 20 settembre 2011). Inoltre, la preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali in una società democratica, è inerente al complesso degli articoli della Convenzione (Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 58, CEDU 1999-II, e Capital Bank AD c. Bulgaria, n. 49429/99, § 133, CEDU 2005 XII (estratti)).
Per rispondere a questa esigenza di legalità, il diritto interno deve offrire un certo margine di protezione contro le ingerenze arbitrarie delle pubbliche autorità nel diritto al rispetto dei beni (Capital Bank AD, § 134; Zlínsat, spol. s r.o. c. Bulgaria, n. 57785/00, § 98, 15 giugno 2006; Družstevní Záložna Pria e altri c. Repubblica ceca, n. 72034/01, § 89, 31 luglio 2008; e Forminster Enterprises Limited c. Repubblica ceca, n. 38238/04, § 69, 9 ottobre 2008).
Nonostante il silenzio dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 in materia di esigenze procedurali, le procedure applicabili nel caso di specie devono offrire alla persona interessata un’adeguata opportunità di esporre i propri argomenti alle autorità competenti allo scopo di contestare effettivamente le misure che ledono i diritti sanciti da tale disposizione (Sovtransavto Holding c. Ucraina, n. 48553/99, § 96, CEDU 2002 VII; Anheuser-Busch Inc. c. Portogallo [GC], n. 73049/01, § 83, CEDU 2007-I; J.A. Pye (Oxford) Ltd e J.A. Pye (Oxford) Land Ltd c. Regno Unito [GC], n. 44302/02, § 57, CEDU 2007-III; Ucraina Tyumen c. Ucraina, n. 22603/02, § 51, 22 novembre 2007; Zehentner c. Austria, n. 20082/02, § 75, 16 luglio 2009; e Shesti Mai Engineering OOD e altri c. Bulgaria, n. 17854/04, § 79, 20 settembre 2011; si vedano anche, mutatis mutandis, Al Nashif c. Bulgaria, n. 50963/99, § 123, 20 giugno 2002). Per assicurarsi che tale condizione sia rispettata, si devono valutare le procedure applicabili da un punto di vista generale (si vedano Jokela c. Finlandia, n. 28856/95, § 45, CEDU 2002-IV, e Družstevní Záložna Pria e altri, § 89).
La Corte osserva che le parti sono d’accordo nel riconoscere che le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti avevano una base legale sufficientemente chiara ed accessibile nel diritto italiano, ossia l’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998. Tale disposizione sanziona, tra l’altro, chiunque diffonde informazioni false o fuorvianti a proposito di strumenti finanziari. Secondo le autorità nazionali, i ricorrenti hanno avuto un comportamento di questo tipo quando hanno emesso i comunicati stampa descritti.
La Corte osserva per di più che le sanzioni pecuniarie in questione sono state inflitte dalla CONSOB all’esito di un procedimento nel corso del quale i ricorrenti hanno potuto presentare le loro difese. Anche se il procedimento dinanzi alla CONSOB non ha soddisfatto tutte le esigenze dell’articolo 6 della Convenzione, come precedentemente osservato, i ricorrenti hanno successivamente avuto accesso a un organo giudiziario di piena giurisdizione, ossia la corte d’appello di Torino, competente ad esaminare tutte le questioni di fatto e di diritto inerenti all’esito della loro causa. Per di più, hanno potuto presentare ricorso per cassazione contro le sentenze della corte d’appello disponendo in tal modo di un controllo supplementare di legalità.
Stando così le cose, la Corte non può concludere che i ricorrenti non hanno disposto di garanzie procedurali adeguate contro l’arbitrio o non hanno avuto la possibilità di contestare le misure che hanno leso il loro diritto al rispetto dei loro beni.
È vero che la Corte ha appena concluso che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione per il fatto che le udienze dinanzi alla corte d’appello di Torino non sono state pubbliche. Tuttavia, questa circostanza non può, da sola, inficiare la legalità delle misure controverse o essere costitutiva di una inosservanza degli obblighi positivi derivanti per lo Stato dall’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Resta da stabilire se l’ingerenza fosse conforme all’interesse generale e proporzionata agli scopi legittimi perseguiti.
La Corte osserva che il divieto di diffondere informazioni false o fuorvianti in merito a strumenti finanziari è volto a garantire l’integrità dei mercati finanziari e a mantenere la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni.
Non vi sono dubbi per la Corte che si tratti di uno scopo di interesse generale. La Corte è consapevole dell’importanza che ha per gli Stati membri la lotta contro gli abusi di mercato e osserva che alcune norme comunitarie (ossia la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003) sono volte a istituire dispositivi efficaci contro gli abusi di informazioni privilegiate e le manipolazioni di mercato.
Resta da stabilire se le autorità abbiano, nel caso di specie, mantenuto un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, e dunque un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della collettività e quelle della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 107, CEDU 2000-I, e Air Canada c. Regno Unito, 5 maggio 1995, § 36, serie A n. 316-A). Questo giusto equilibrio viene rotto se la persona interessata deve sostenere un onere eccessivo e sproporzionato (Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, §§ 69-74, serie A n. 52, e Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 57, 31 maggio 2011).
Nel caso di specie, avvalendosi del loro diritto di accertare i fatti, le autorità nazionali hanno ritenuto che il 24 agosto 2005, data dei comunicati stampa in questione, il piano che prevedeva la rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd esisteva ed era in corso di esecuzione, e che i ricorrenti abbiano volontariamente omesso di menzionare tale circostanza, dando in questo modo una falsa rappresentazione della situazione dell’epoca.
La Corte osserva che, con la conclusione dell’accordo che modificava il contratto di equity swap, la Exor ha mantenuto la propria partecipazione del 30 % nel capitale della FIAT, uno dei principali costruttori automobilistici mondiali. Pertanto, la prospettiva di un’acquisizione del 28 % del capitale sociale da parte di banche è stata scartata, e con essa tutte le conseguenze che una tale acquisizione avrebbe potuto produrre sul controllo della FIAT. Secondo la Corte, si trattava di questioni che rivestivano, all’epoca, un interesse fondamentale per gli investitori, e la circostanza che al riguardo siano state diffuse informazioni false o fuorvianti era indiscutibilmente grave.
Pertanto, le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti, benché severe, non sembrano sproporzionate rispetto alla condotta loro ascritta. Al riguardo, la Corte osserva che, nel fissare l’importo delle sanzioni, la CONSOB ha preso in considerazione la posizione occupata dalle persone interessate e l’esistenza di un dolo e che la corte d’appello ha ridotto le sanzioni inflitte a tre dei ricorrenti. Di conseguenza, non si può considerare che le autorità interne abbiano applicato le sanzioni senza tenere conto delle circostanze particolari del caso di specie o del fatto che i ricorrenti sono stati costretti a sostenere un onere eccessivo e sproporzionato.
Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che le sanzioni inflitte ai ricorrenti fossero «legali» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 e che costituissero misure necessarie per garantire il pagamento delle sanzioni pecuniarie.
Su altro crinale, la Corte osserva che il Governo afferma di avere emesso una riserva per quanto riguarda l’applicazione degli articoli 2 – 4 del Protocollo n. 7. Indipendentemente dalla questione dell’applicabilità di tale riserva, la Corte deve esaminarne la validità: in altri termini, essa deve stabilire se la riserva soddisfi le esigenze dell’articolo 57 della Convenzione (Eisenstecken c. Austria, n. 29477/95, § 28, CEDU 2000-X).
La Corte rammenta che, per essere valida, una riserva deve presentare i seguenti requisiti: 1) deve essere fatta al momento in cui la Convenzione o i suoi Protocolli vengono firmati o ratificati; 2) deve riguardare leggi ben precise in vigore all’epoca della ratifica; 3) non deve essere di carattere generale; 4) deve contenere una breve esposizione della legge interessata (Põder e altri c. Estonia (dec.), n. 67723/01, CEDU 2005 VIII, e Liepājnieks c. Lettonia (dec.), n. 37586/06, § 45, 2 novembre 2010).
La Corte ha avuto modo di precisare che l’articolo 57 § 1 della Convenzione esige da parte degli Stati contraenti «precisione e chiarezza», e che, chiedendo loro di presentare una breve esposizione della legge in questione, tale disposizione non enuncia un «semplice requisito formale» ma stabilisce una «condizione sostanziale» che costituisce «un elemento di prova e, allo stesso tempo, un fattore di sicurezza giuridica» (Belilos c. Svizzera, 29 aprile 1988, §§ 55 e 59, serie A n. 132; Weber c. Svizzera, 22 maggio 1990, § 38, serie A n. 177; e Eisenstecken, sopra citata, § 24).
Per «riserva di carattere generale», l’articolo 57 intende in particolare una riserva redatta in termini troppo vaghi o ampi per poterne valutare con precisione il senso e il campo di applicazione. Il testo della dichiarazione deve permettere di valutare esattamente la portata dell’impegno dello Stato contraente, in particolare per quanto riguarda le categorie di controversie previste, e non deve prestarsi a diverse interpretazioni (Belilos, § 55).
Nel caso di specie, la Corte rileva che la riserva in questione non contiene una «breve esposizione» della legge o delle leggi asseritamente incompatibili con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. Dal testo della riserva si può dedurre che l’Italia ha inteso escludere dal campo di applicazione di tale disposizione tutti gli illeciti e le procedure che non sono qualificati come «penali» dalla legge italiana. Ciò non toglie che una riserva che non invoca né indica le disposizioni specifiche dell’ordinamento giuridico italiano che escludono alcuni illeciti o alcune procedure dal campo di applicazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 non offra sufficienti garanzie che non andrà oltre le disposizioni esplicitamente escluse dallo Stato contraente (si vedano, mutatis mutandis, Chorherr c. Austria, 25 agosto 1993, § 20, serie A n. 266 B; Gradinger c. Austria, 23 ottobre 1995, § 51, serie A n. 328 C; e Eisenstecken, sopra citata, § 29; si veda anche, a contrario, Kozlova e Smirnova c. Lettonia (dec.), n. 57381/00, CEDU 2001 XI). Al riguardo, la Corte rammenta che nemmeno difficoltà pratiche notevoli nell’indicazione e nella descrizione di tutte le disposizioni interessate dalla riserva possono giustificare l’inosservanza delle condizioni dettate dall’articolo 57 della Convenzione (Liepājnieks, § 54).
Di conseguenza, la riserva invocata dall’Italia non soddisfa le esigenze dell’articolo 57 § 2 della Convenzione. Questa conclusione è sufficiente per determinare la nullità della riserva, senza che sia necessario esaminare se siano state rispettate le altre condizioni formulate nell’articolo 57 (si veda, mutatis mutandis, Eisenstecken, § 30).
La Corte rammenta a questo punto che, nella causa Sergueï Zolotoukhine (§ 82), la Grande Camera ha precisato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi.
La garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. In questa fase, gli elementi del fascicolo comprenderanno ovviamente la decisione con la quale si è concluso il primo «procedimento penale» e la lista delle accuse mosse nei confronti del ricorrente nell’ambito del nuovo procedimento. Tali documenti includono ovviamente un’esposizione dei fatti relativi all’illecito per cui il ricorrente è stato già giudicato e una descrizione del secondo illecito di cui è accusato. Tali esposizioni costituiscono un utile punto di partenza, per l’esame da parte della Corte, per poter stabilire se i fatti oggetto dei due procedimenti sono identici o sono in sostanza gli stessi. Non è importante sapere quali parti di queste nuove accuse siano alla fine ammesse o escluse nella procedura successiva, poiché l’articolo 4 del Protocollo n. 7 enuncia una garanzia contro nuove azioni penali o contro il rischio di tali azioni, e non il divieto di una seconda condanna o di una seconda assoluzione (Sergueï Zolotoukhine, § 83).
La Corte, pertanto, deve esaminare la causa dal punto di vista dei fatti descritti nelle suddette esposizioni, che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete a carico dello stesso contravventore e indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio; l’esistenza di tali circostanze deve essere dimostrata affinché possa essere pronunciata una condanna o esercitata l’azione penale (Sergueï Zolotoukhine, sopra citata, § 84).
Applicando tali principi nel caso di specie, la Corte osserva anzitutto che ha appena concluso, dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, che era opportuno considerare che il procedimento dinanzi alla CONSOB riguardava una «accusa in materia penale» contro i ricorrenti e osserva anche che le condanne inflitte dalla CONSOB e parzialmente ridotte dalla corte d’appello sono passate in giudicato il 23 giugno 2009, quando sono state pronunciate le sentenze della Corte di cassazione. A partire da tale momento, i ricorrenti dovevano dunque essere considerati come «già condannati per un reato a seguito di una sentenza definitiva» ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7.
Malgrado ciò, la nuova azione penale che nel frattempo era stata avviata nei loro confronti non è stata interrotta, e ha portato alla pronuncia di sentenze di primo e secondo grado.
Resta da determinare se il nuovo procedimento in questione fosse basato su fatti che erano sostanzialmente gli stessi rispetto a quelli che sono stati oggetto della condanna definitiva. A tale riguardo, la Corte osserva che, contrariamente a quanto sembra affermare il Governo, dai principi enunciati nella causa Sergueï Zolotoukhine sopra citata risulta che la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dagli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta.
Dinanzi alla CONSOB, i ricorrenti erano accusati, sostanzialmente, di non aver menzionato nei comunicati stampa del 24 agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd mentre tale progetto già esisteva e si trovava in una fase di realizzazione avanzata. Successivamente, essi sono stati condannati per tale fatto dalla CONSOB e dalla corte d’appello di Torino.
Dinanzi ai giudici penali, gli interessati sono stati accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati, che la Exor non aveva né avviato né messo a punto iniziative con riguardo alla scadenza del contratto di finanziamento, mentre l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata tenuta nascosta allo scopo di evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT.
Secondo la Corte, si tratta chiaramente di una unica e stessa condotta da parte delle stesse persone alla stessa data. Peraltro la stessa corte d’appello di Torino, nelle sentenze del 23 gennaio 2008, ha ammesso che gli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 avevano ad oggetto la stessa condotta, ossia la diffusione di false informazioni. Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un secondo «illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva.
Questa constatazione è sufficiente alla Corte per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7. Peraltro, nella misura in cui il Governo afferma che il diritto dell’Unione europea avrebbe apertamente autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte abusive sui mercati finanziari, la Corte, pur precisando che il proprio compito non è interpretare la giurisprudenza della CGUE, osserva che nella sentenza del 23 dicembre 2009, resa nella causa Spector Photo Group, la CGUE ha indicato che l’articolo 14 della direttiva 2003/6 non impone agli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad enunciare che tali Stati sono tenuti a vigilare affinché siano applicate sanzioni amministrative nei confronti delle persone responsabili di una violazione delle disposizioni adottate in applicazione di tale direttiva. Essa ha anche messo in guardia gli Stati sul fatto che tali sanzioni amministrative potevano, ai fini dell’applicazione della Convenzione, essere qualificate come sanzioni penali.
Inoltre, nella sentenza Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, in materia di imposta sul valore aggiunto, la CGUE ha precisato che, in virtù del principio ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti solo a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale.
Ancora, su altro versante, ricorda la Corte come tutte le sentenze che constatino una violazione comportano per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze, in modo tale da ripristinare per quanto possibile la situazione precedente a quest’ultima. Se, invece, il diritto nazionale non permette o permette solo in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze della violazione, l’articolo 41 autorizza la Corte ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che ritiene appropriata. Ne consegue in particolare che lo Stato convenuto riconosciuto responsabile di una violazione della Convenzione o dei relativi Protocolli è chiamato non solo a versare agli interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione, ma anche a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali da adottare nel proprio ordinamento giuridico interno (Maestri c. Italia [GC], n. 39748/98, § 47, CEDU 2004 I; Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 198, CEDU 2004 II; e Ilaşcu e altri c. Moldavia e Russia [GC], n. 48787/99, § 487, CEDU 2004-VII).
La Corte rammenta che le proprie sentenze sono essenzialmente di natura dichiaratoria e che, in generale, è in primo luogo lo Stato in causa a dover scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, i mezzi da utilizzare nel proprio ordinamento giuridico interno per adempiere al proprio obbligo rispetto all’articolo 46 della Convenzione, purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (si vedano, tra le altre, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000-VIII; Brumărescu c. Romania (equa soddisfazione) [GC], n. 28342/95, § 20, CEDU 2001-I; e Öcalan c. Turchia [GC], n. 46221/99, § 210, CEDU 2005-IV). Tale potere di apprezzamento per quanto riguarda le modalità di esecuzione di una sentenza esprime la libertà di scelta che accompagna l’obbligo fondamentale imposto dalla Convenzione agli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti (Papamichalopoulos e altri c. Grecia (Articolo 50), 31 ottobre 1995, § 34, serie A n. 330 B).
Tuttavia, a titolo eccezionale, per aiutare lo Stato convenuto ad adempiere ai propri obblighi ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, la Corte cerca di indicare il tipo di misure da adottare per porre fine alla situazione strutturale da essa constatata. In questo contesto, essa può formulare varie opzioni la cui scelta e realizzazione vengono lasciate alla discrezione dello Stato interessato (si veda, ad esempio, Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, § 194, CEDU 2004-V). In alcuni casi, accade che la natura stessa della violazione constatata non offra realmente una scelta tra vari tipi di misure idonee a porvi rimedio, nel qual caso la Corte può decidere di indicare una sola misura di questo tipo (si vedano, ad esempio, Assanidzé, §§ 202 e 203; Alexanian c. Russia, n. 46468/06, § 240, 22 dicembre 2008; Fatullayev c. Azerbaijan, n. 40984/07, §§ 176 e 177, 22 aprile 2010; e Oleksandr Volkov c. Ucraina, n. 21722/11, § 208, 9 gennaio 2013).
Nelle circostanze particolari della presente causa, la Corte non ritiene necessario indicare misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per l’esecuzione della presente sentenza. Per quanto riguarda, invece, le misure individuali, la Corte ritiene che, nel caso di specie, la natura stessa della violazione constatata non offra veramente una scelta tra vari tipi di misure che possono porvi rimedio.
Di conseguenza, considerate le circostanze particolari della causa e la necessità urgente di porre fine alla violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7, la Corte ritiene che spetti allo Stato convenuto fare in modo che i nuovi procedimenti penali avviati contro i ricorrenti in violazione di tale disposizione e ancora pendenti, alla data delle ultime informazioni ricevute, nei confronti dei sigg. Gabetti e Grande Stevens, vengano chiusi nel più breve tempo possibile e senza conseguenze pregiudizievoli per i ricorrenti (si vedano, mutatis mutandis, Assanidzé, sopra citata, § 203, e Oleksandr Volkov, § 208).
La Corte osserva ancora di avere appena concluso per la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione in quanto non vi è stata un’udienza pubblica dinanzi alla corte d’appello di Torino, e dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 per il fatto che sono stati avviati nuovi procedimenti penali dopo la condanna definitiva dei ricorrenti. Tali constatazioni non implicano che le sanzioni inflitte dalla CONSOB fossero di per sé contrarie alla Convenzione o ai suoi Protocolli. Al riguardo, la Corte osserva di avere ritenuto che non vi era stata violazione del diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti, sancito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 (paragrafo 201 supra). In queste circostanze, la Corte non vede alcun nesso di causalità tra le violazioni constatate e l’asserito danno materiale e rigetta la relativa domanda.
Per quanto riguarda il danno morale legato al fatto che non vi è stata una pubblica udienza dinanzi alla corte d’appello di Torino e che sono stati avviati nuovi procedimenti penali a carico dei ricorrenti, la Corte, deliberando in via equitativa, decide di accordare 10.000 EUR a ciascuno dei ricorrenti a tale titolo.
Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può poi ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella presente causa, tenuto conto dei documenti di cui dispone, della propria giurisprudenza e del fatto che i ricorrenti sono stati costretti a difendersi nell’ambito di un procedimento penale avviato e condotto in violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7, la Corte considera ragionevole la somma di 40.000 EUR per l’insieme delle spese e la accorda congiuntamente ai ricorrenti.
La Corte assume infine opportuno basare il tasso degli interessi moratori (sulla somma dovuta) sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
* * *
Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.50130 alla cui stregua – inserendosi in un consolidato filone pretorio in tema di rapporti tra gli artt. 81, co. 1, c.p. (concorso formale di reati) e 649 c.p.p. (divieto del c.d. bis in idem) – la preclusione del ne bis in idem non opera ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un’ipotesi di concorso formale di reati, potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge.
Si tratta di un trend pretorio che si palesa in frizione con l’orientamento della Corte EDU inteso a considerare un fatto “lo stesso” sulla base della relativa dimensione storico-empirica, prescindendo dunque dalla pertinente qualificazione giuridica.
* * *
Il 20 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.52645, che si occupa del c.d. ne bis in idem, oggetto di una diversa prospettiva ermeneutica a livello interno e a livello di CEDU (Protocollo addizionale n.7, art.4) con riguardo alle precise connotazioni da riconoscersi al c.d. “medesimo fatto”.
La Corte si pone nel solco di un consistente orientamento pretorio interno onde, per configurare un “medesimo fatto” ed un conseguente bis in idem occorre avere riguardo al “fatto giuridico”, e dunque non al fatto storico, ma a come tale fatto viene giuridicamente qualificato, il pertinente divieto scattando in presenza di una corrispondenza biunivoca tra gli elementi costitutivi dei reati posti a paragone, siccome descritti nelle rispettive contestazioni.
In sostanza, in presenza di un dato fatto storico, laddove qualificato giuridicamente come reato A, si ha bis in idem se lo si riqualifica di nuovo come reato A, mentre non si ha bis in idem laddove lo si riqualifichi come (diverso) reato B
2015
Il 15 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1782 che opera un primo richiamo alla sentenza della Corte EDU sul caso Grande Stevens.
Per la Corte – muovendo dal disposto dell’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 4 del Protocollo della CEDU e con specifico riferimento al settore ordinamentale degli illeciti in materia finanziaria, con particolare riguardo ai fatti di abuso privilegiato di informazioni, va richiesto un pronunciamento alla Corte costituzionale onde verificare la compatibilità della disciplina nazionale, imperniantesi sul c.d. “doppio binario sanzionatorio”, con la pertinente normativa convenzionale.
Ciò giusta questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non estende l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato già giudicato, per il medesimo fatto, con un provvedimento irrevocabile adottato nell’ambito di un procedimento “amministrativo” per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi “natura penale” ai sensi della CEDUe dei relativi Protocolli addizionali.
* * *
Il 24 luglio esce l’ordinanza del GUP di Torino, giudice Bompieri, competente ad emettere decreto di rinvio a giudizio nel processo “Eternit-bis”, con la quale viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui limita l’applicazione del principio del ne bis in idem all’esistenza del medesimo “fatto giuridico”, nei relativi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che all’esistenza del medesimo “fatto storico” così come delineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per violazione dell’art. 117 c. 1 Cost. in relazione all’art. 4 Prot, 7 CEDU.
A seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 19 novembre 2014, n. 7941/15, che ha prosciolto il vertice di una multinazionale produttrice di cemento-amianto dai reati di disastro doloso e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro in quanto estinti per prescrizione, il PM di Torino ha formulato una nuova richiesta di rinvio a giudizio per omicidio volontario, in relazione alle medesime condotte di diffusione del materiale cancerogeno (c.d. processo Eternit-bis), configurando un concorso formale di reati: richiesta che il GUP, nondimeno, assume in frizione con il divieto di bis in idem delineato in sede europea, con conseguente, assunta rilevanza della sollevata questione di incostituzionalità.
* * *
L’8 ottobre esce l’ordinanza del Tribunale di Bergamo che solleva questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia UE con riguardo alla questione se la previsione dell’art. 50 CDFUE (Carta di Nizza), interpretato alla luce dell’art. 4. Prot. n. 7 CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia già riportato sanzione amministrativa irrevocabile.
Per i giudici lombardi, va posto in dubbio che la perdurante pendenza del processo penale per il delitto di cui all’art. 10-ter, d.lgs. 74/2000 sia compatibile con divieto di bis in idem previsto dall’art. 50 della Carta di Nizza, interpretato tenendo conto dell’ermeneusi fornitane dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Non viene tuttavia sollevata dal Tribunale di Bergamo una questione di legittimità costituzionale per presunto contrasto tra le norme interne rilevanti ratione materiae e l’art. 4 Prot. 7 della CEDU, quale parametro interposto in relazione all’art. 117 co. 1 Cost, quanto piuttosto una questione pregiudiziale interpretativa dinanzi alla Corte di Giustizia UE, appuntantesi sul ridetto art.50 della Carta di Nizza, quale norma direttamente applicabile nell’ordinamento interno e come tale destinata a prevalere rispetto al diritto italiano contrastante, sulla scorta del c.d. primato del diritto dell’Unione.
2016
Il 12 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.102 che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) e dell’art. 649 del codice di procedura penale, sollevate, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, con l’ordinanza all’uopo; dichiara altresì inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, sollevata, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, del pari con ordinanza all’uopo.
Per la Corte, l’intervento additivo richiesto non determinerebbe un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i due procedimenti — penale e amministrativo — cosicché la preclusione del secondo procedimento scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo irrevocabile, ponendo così rimedio ai singoli casi concreti, ma non, più in generale, alla violazione “strutturale” da parte dell’ordinamento italiano del divieto di bis in idem, come censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Grande Stevens.
La Corte precisa peraltro – significativamente – come in base a consolidata giurisprudenza europea il divieto di bis in idem abbia carattere processuale, e non sostanziale. Esso, in altre parole, per la Consulta permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro.
La Corte invita peraltro – ed un tempo – il legislatore a «stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni» che il sistema del cosiddetto doppio binario «genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU».
* * *
Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.193, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata – in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Como.
La Corte rammenta preliminarmente come ad avviso del giudice a quo, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della CEDU, risiederebbe nel contrasto della disposizione censurata con il principio di retroattività della norma più favorevole, principio applicabile anche alle sanzioni amministrative. Vengono richiamate, in particolare le sentenze della Corte di Strasburgo del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania.
In particolare, nella prima di tali pronunce la Grande Camera, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, ha ammesso che «l’art. 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», traducendosi «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».
Come è noto, chiosa ancora la Corte, il nuovo orientamento è stato ribadito nella successiva decisione del 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, in cui la Corte europea ha affermato che «le disposizioni che definiscono le infrazioni e le pene» sottostanno a «delle regole particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole» all’imputato. In questa occasione è stato, peraltro, sottolineato che l’art. 7 riguarda solamente le norme penali sostanziali, e in particolare le disposizioni che influiscono sull’entità della pena da infliggere.
Infine, nella decisione del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania, la Corte ha ritenuto che l’art. 7 della CEDU imponga la necessità che l’illecito sia chiaramente descritto dalla legge, che la legge sia «predictable and foreseeable» e che sancisca sia l’irretroattività di disposizioni penali sfavorevoli, sia la retroattività di norme penali più miti.
Tali principi, costituenti l’interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo, non possono essere disattesi: ed invero «le norme della CEDU […] devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007). Spetta, peraltro, alla Corte «valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del 2009). «A questa Corte compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011).
La Corte rammenta a questo punto come l’estensione del principio, di matrice convenzionale, della retroattività della legge successiva favorevole abbia già formato oggetto di propria valutazione: è stato ritenuto che «Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio» (sentenza n. 236 del 2011).
Con riferimento al caso in esame, prosegue il Collegio, va rilevato che – nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite – la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale.
L’intervento additivo invocato dal rimettente risulta, quindi, travalicare l’obbligo convenzionale: esso è volto ad estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo, finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento); criteri, peraltro, la cui applicazione, al di là di quello della qualificazione giuridica, sarebbe facilitata da ulteriori precisazioni da parte della Corte europea o dei singoli ordinamenti nazionali nell’ambito del margine di apprezzamento e di adeguamento che è loro rimesso.
In definitiva, rappresenta ancora la Corte, non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative.
Da ciò discende la non fondatezza della denunciata violazione degli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, primo comma, Cost.
Anche in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 per il Collegio non è fondata.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione in esame si porrebbe in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, poiché − a differenza di altre fattispecie previste in leggi speciali ed in mancanza di motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento – verrebbe derogato il principio generale di retroattività della norma successiva più favorevole.
Il rimettente prospetta, dunque, la necessità di un intervento additivo volto ad estendere a tutto il sistema sanzionatorio amministrativo, in via generalizzata ed indifferenziata, il principio della retroattività della legge successiva favorevole.
In riferimento all’art. 3 Cost., la costante giurisprudenza della Corte, richiamata dallo stesso rimettente, ha nondimeno affermato che in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore “nel rispetto del limite della ragionevolezza“ modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002).
Quanto, inoltre, al differente e più favorevole trattamento riservato dal legislatore ad alcune sanzioni, ad esempio a quelle tributarie e valutarie, esso trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non si presta, conseguentemente, a trasformarsi da eccezione a regola (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Tale impostazione risulta coerente non solo con il principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11 delle preleggi), ma anche con il divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (art. 14 delle preleggi).
Nel caso in esame, chiosa ancora la Corte, la specialità della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002 è accentuata dall’applicabilità della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 689 del 1981, intitolato «Più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative». Essa prevede che – per le sole violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie ed in via derogatoria rispetto alla regola generale del cumulo materiale – si applichi il trattamento di maggior favore del cumulo giuridico (sanzione per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) anche per le ipotesi di concorso materiale eterogeneo. Peraltro, al di fuori di tale particolare categoria di illeciti amministrativi, il concorso materiale di violazioni continua ad essere regolato dal criterio generale del cumulo materiale delle sanzioni.
Siffatto trattamento favorevole – specificamente applicabile in via derogatoria alle sole sanzioni in esame – sottolinea la peculiarità degli interessi tutelati e la natura eccezionale di tale disciplina, la quale non si presta ad una generalizzata trasposizione di principi maturati nell’ambito di settori diversi dell’ordinamento.
Invero, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé irragionevole. A questo riguardo, precisa la Corte, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità legislativa, si riflette sulla natura “contingente” e storicamente connotata dei relativi precetti. Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi.
Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, a scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati. Tali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi e risultano quindi sindacabili dalla Corte solo laddove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.
Va, infine, rilevato che un intervento come quello invocato dal rimettente, in quanto finalizzato alla generalizzata ed indiscriminata estensione del principio della lex mitior a tutto il sistema sanzionatorio amministrativo, risulta esorbitante dall’ambito della disciplina settoriale della quale il giudice a quo è chiamato a fare applicazione. Inoltre, l’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale sancirebbe il principio della retroattività della lex mitior per le sanzioni amministrative in maniera persino più ampia di quanto stabilito dall’art. 2 cod. pen., il quale fa salvo il limite del giudicato ed esclude dal proprio ambito di operatività le leggi eccezionali e temporanee.
Viene, in definitiva, sollecitata dal rimettente una nuova configurazione del complessivo trattamento sanzionatorio di tutti gli illeciti amministrativi, in un ambito in cui deve riconoscersi al legislatore un ampio margine di libera determinazione.
* * *
Il 21 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.200 che – pronunciandosi sulla questione di costituzionalità sollevata dal GUP di Torino nel caso “Eternit – bis”, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che “il fatto” sia il medesimo (e che dunque vi sia “bis in idem”) per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale, senza soffermarsi a considerare in concreto come si sia atteggiato il “fatto” ridetto (in termini di sola condotta? In termini anche di nesso causalità e di eventi prodotti?) nel primo giudizio che lo ha coinvolto.
Per la Corte infatti, dovendosi fare riferimento al “fatto” naturalisticamente (e non legalmente) inteso, è ben possibile che in presenza di un concorso formale di reati il “fatto” ridetto – nella relativa accezione “globale” di condotta, nesso di causalità ed evento – sia in effetti il “medesimo”, con conseguente frizione dell’ordinamento italiano, in tal caso, con la disciplina convenzionale.
Prima di dedicarsi al c.d. concorso formale di reati, la Corte si occupa di verificare cosa debba realmente intendersi per “idem factum” in senso convenzionale: se cioè ci si riferisca alla sola condotta posta in essere dal soggetto agente (tesi che sarebbe a quest’ultimo più favorevole: una medesima condotta già “giudicata” non potrebbe esserlo nuovamente), ovvero piuttosto ci si riferisca al fatto naturalistico nella sua dimensione completa di condotta, nesso di causalità ed evento (tesi più sfavorevole al soggetto agente: se questi ha posto in essere una data condotta ed è stato già giudicato in relazione ad un dato evento che ne sia disceso, potrà comunque essere nuovamente giudicato laddove la medesima condotta abbia fatto luogo ad un evento diverso, stante l’intervenuto mutamento del pertinente “fatto” naturalistico).
Nel merito della questione ad essa proposta, per la Corte si tratta di verificare se davvero il principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole all’imputato del corrispondente principio recepito dall’art. 649 cod. proc. pen.
È anzitutto opportuno per il Collegio saggiare il convincimento del giudice a quo, secondo cui la disposizione europea significa che la medesimezza del fatto deve evincersi considerando la sola condotta dell’agente, assunta nei termini di un movimento corporeo o di un’inerzia.
È noto che la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, è intervenuta per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte EDU, sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. Dopo avere passato in rassegna le tesi enunciate in proposito, la Grande Camera ha consolidato la giurisprudenza europea nel senso che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio. È stata così respinta la tesi, precedentemente sostenuta da una parte di quella giurisprudenza, che l’infraction indicata dal testo normativo sia da reputare la stessa solo se medesimo è il reato contestato nuovamente dopo un primo giudizio definitivo, ovvero il fatto nella qualificazione giuridica che ne dà l’ordinamento penale.
È perciò pacifico oramai che la Convenzione recepisce il più favorevole criterio dell’idem factum, a dispetto della lettera dell’art. 4 del Protocollo n. 7, anziché la più restrittiva nozione di idem legale.
Il rimettente – chiosa ancora la Corte – pare persuaso che da questa corretta premessa derivi inevitabilmente il corollario ipotizzato innanzi, ossia che il test di comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale dipenda esclusivamente dalla medesimezza della condotta dell’agente.
In altre parole, secondo il rimettente, qualora non si intenda far rifluire nel giudizio comparativo implicazioni legate al bene giuridico tutelato dalle disposizioni penali, e ci si voglia agganciare alla sola componente empirica del fatto, come è previsto dalla Corte EDU, sarebbe giocoforza concludere che quest’ultimo vada individuato in ragione dell’azione o dell’omissione, trascurando evento e nesso di causalità.
La tesi, per la Corte, è tuttavia errata.
Il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella relativa dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente.
È chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto.
Nell’ambito della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell’idem factum, è perciò essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell’agente, ovvero abbracci l’oggetto fisico, o anche l’evento naturalistico.
L’indagine cui si è appena accennato non conforta – chiosa ancora la Corte – l’ipotesi formulata dal giudice a quo. Né la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato. A tal fine, infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione di reati di sola condotta, ove è ovvio che l’indagine giudiziale ha avuto per oggetto quest’ultima soltanto (ad esempio, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
Anzi, in almeno tre occasioni, il giudice europeo ha attribuito importanza, per stabilire l’unicità del fatto, alla circostanza che la condotta fosse rivolta verso la medesima vittima (sentenza 14 aprile 2014, Muslija contro Bosnia Erzegovina, paragrafo 34; sentenza 14 aprile 2014, Khmel contro Russia, paragrafo 65; sentenza 23 settembre 2015, Butnaru e Bejan-Piser contro Romania, paragrafo 37), e ciò potrebbe suggerire che un mutamento dell’oggetto dell’azione, e quindi della persona offesa dal reato, spezzi il nesso tra fatto giudicato in via definitiva e nuova imputazione, pur in presenza della stessa condotta (come potrebbe accadere, ad esempio, nell’omicidio plurimo).
Certo è che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza europea, che «resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l’opzione compiuta con nettezza a favore dell’idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all’art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell’agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale.
Ciò equivale a concludere che il difetto di una giurisprudenza europea univoca, tale da superare la sporadicità di decisioni casistiche orientate da fattori del tutto peculiari della fattispecie concreta, libera l’interprete dall’obbligo di porre alla base della decisione un contenuto della normativa interposta ulteriore, rispetto al rilievo storico-naturalistico del fatto, salvo – precisa il Collegio – quanto si dovrà aggiungere in seguito a proposito del concorso formale dei reati.
Parimenti, un’opzione a favore della più ampia espansione della garanzia del divieto di bis in idem in materia penale non è stimolata neppure dal contesto normativo e logico entro cui si colloca l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
È intuitivo che l’accoglimento della posizione propugnata dal giudice a quo, circa l’apprezzamento della sola condotta ai fini del giudizio sulla medesimezza del fatto, rassicura al massimo grado l’imputato già giudicato in via definitiva, che per tale via si sottrarrebbe a un nuovo processo penale, sia nei casi, tra gli altri, in cui si sia aggravata l’offesa nei confronti della stessa persona, sia in quelli in cui un’unica condotta abbia determinato una pluralità di vittime, lese in beni primari e personalissimi come la vita e l’integrità fisica.
Tuttavia la tutela convenzionale affronta il principio del ne bis in idem con un certo grado di relatività, nel senso che esso patisce condizionamenti tali da renderlo recessivo rispetto a esigenze contrarie di carattere sostanziale. Questa circostanza non indirizza l’interprete, in assenza di una consolidata giurisprudenza europea che lo conforti, verso letture necessariamente orientate nella direzione della più favorevole soluzione per l’imputato, quando un’altra esegesi della disposizione sia comunque collocabile nella cornice dell’idem factum.
In primo luogo, l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, secondo paragrafo, permette la riapertura del processo penale, quando è prevista dall’ordinamento nazionale, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di inficiare la sentenza già passata in giudicato. Mentre nell’ordinamento giuridico italiano è consentita la revisione della sola sentenza di condanna, al fine di assicurare senza limiti di tempo «la tutela dell’innocente» (sentenza n. 28 del 1969), la Convenzione consente di infrangere la “quiete penalistica” della persona già assolta in via definitiva solo perché sono maturate, dopo il processo, nuove evenienze, anche di carattere probatorio. La finalità di perseguire la giustizia, in tali casi, prevale sulla stabilità della garanzia processuale concernente la sottrazione alla pretesa punitiva dello Stato.
In secondo luogo, la stessa Grande Camera (sentenza 27 maggio 2014, Marguš contro Croazia) ha affermato (in un caso in cui un uomo politico aveva goduto dell’amnistia, rilevata in giudizio, per crimini di guerra, ma era stato nuovamente sottoposto a processo per gli stessi fatti) che l’art. 4 del Protocollo n. 7 è soggetto a bilanciamento con gli artt. 2 e 3 della Convenzione, in quanto parti di un tutto (paragrafo 128), ed ha aggiunto che ciò comporta l’inoperatività della garanzia del ne bis in idem in presenza di episodi estremamente gravi, quali i crimini contro l’umanità, che gli Stati aderenti hanno l’obbligo di perseguire (paragrafo 140). Si manifesta, in tal modo, un ulteriore tratto di appannamento dell’istituto che la Convenzione giustifica nel quadro del bilanciamento con obblighi di tutela penale.
È il caso però di sottolineare che nell’ordinamento nazionale non si può avere un soddisfacimento di pretese punitive che non sia contenuto nelle forme del giusto processo, ovvero che non si renda compatibile con il fascio delle garanzie processuali attribuite all’imputato. Né il principio di obbligatorietà dell’azione penale, né la rilevanza costituzionale dei beni giuridici che sono stati offesi, cui le parti private si sono ampiamente riferite, possono rendere giusto, e quindi conforme a Costituzione, un processo che abbia violato i diritti fondamentali, e costituzionalmente rilevanti, della persona che vi è soggetta.
Tra questi non può non annoverarsi il «principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione» (ordinanza n. 150 del 1995) espresso dal divieto di bis in idem, grazie al quale giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il contatto con l’apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo, proietterebbe l’ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell’ordinamento costituzionale (sentenza n. 1 del 1969; in seguito, sentenza n. 219 del 2008).
In questa sede, peraltro, non interessa porre a raffronto i livelli di tutela offerti dalla CEDU e dal diritto nazionale, ma piuttosto trarre conferma che la prima non obbliga, neppure sul piano logico-sistematico, a optare in ogni caso per la concezione di medesimo fatto più favorevole all’imputato, posto che la garanzia del ne bis in idem non assume tratti di assolutezza, né nel testo dell’art. 4 del Protocollo n. 7, né nell’interpretazione consolidata tracciata dalla Corte di Strasburgo.
Resta, in definitiva, assodato che, contrariamente all’ipotesi del giudice a quo, allo stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Una volta chiarita la portata del vincolo derivante dalla CEDU, prosegue il Collegio, si tratta di accertare la compatibilità con esso del diritto vivente formatosi sull’art. 649 cod. proc. pen. Per quanto finora è stato precisato, è evidente che la ragione del contrasto non potrebbe consistere nella ricezione, da parte dell’interprete nazionale, di una visione di medesimezza del fatto svincolata dalla sola condotta, ed estesa invece all’oggetto fisico di essa, o all’evento in senso naturalistico, come suggerisce il rimettente. Piuttosto, la disposizione nazionale avrebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., solo se dovesse essere interpretata nel senso di assegnare rilievo all’idem legale, ovvero a profili attinenti alla qualificazione giuridica del fatto.
È quanto il giudice a quo ritiene accaduto, per effetto di una torsione curiale della lettera dell’art. 649 cod. proc. pen., che si riferisce al fatto storico, anche diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.
Bisogna aggiungere che, se così fosse, a essere violati sarebbero anche gli artt. 24 e 111 Cost., ai quali il principio del ne bis in idem va collegato in via generale (ordinanza n. 501 del 2000), ma con una particolare pregnanza nella materia penale (sentenza n. 284 del 2003). Benché non riconosciuto espressamente dalla lettera della Costituzione, tale principio è infatti immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire. Nel diritto penale, la Corte rammenta di avere da tempo arricchito la forza del divieto, proiettandolo da una dimensione correlata al valore obiettivo del giudicato (sentenze n. 6 e n. 69 del 1976, n. 1 del 1973 e n. 48 del 1967) fino a investire la sfera dei diritti dell’individuo, in quanto «principio di civiltà giuridica» (ordinanza n. 150 del 1995; inoltre, sentenze n. 284 del 2003 e n. 115 del 1987), oltretutto dotato di «forza espansiva» (sentenza n. 230 del 2004), e contraddistinto dalla natura di «garanzia» personale (sentenza n. 381 del 2006).
Il criterio dell’idem legale appare allora troppo debole per accordarsi con simili premesse costituzionali, perché solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato.
Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento.
Ciò premesso, la Corte ha già avuto modo di prendere atto che «l’identità del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008).
È in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico. A condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella relativa astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea.
Certamente, a differenza di quanto mostra di credere il rimettente anche con riguardo alla pronuncia delle sezioni unite appena ricordata, l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. Detto questo, e alle ricordate condizioni, non vi è spazio di contrasto – per il Collegio – tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
La Corte deve però riconoscere che persiste nella stessa giurisprudenza di legittimità un orientamento minoritario, diverso da quello adottato dalle sezioni unite fin dal 2005. Lo stesso rimettente ha individuato con esattezza alcuni esempi di decisioni che si limitano a echeggiare il principio di diritto affermato dalle sezioni unite, ma lo corrompono aggiungendo che va tenuta in conto non solo la dimensione storico-naturalistica del fatto ma anche quella giuridica; ovvero che vanno considerate le implicazioni penalistiche dell’accadimento.
Queste e altre simili formule celano un criterio di giudizio legato all’idem legale, che non è compatibile per la Corte né con la Costituzione, né con la CEDU, sicché è necessario che esso sia definitivamente abbandonato.
Tuttavia il carattere occasionale di tali interventi giurisprudenziali li rende incapaci di trasfigurare la lettera e la logica dell’art. 649 cod. proc. pen., conferendogli, come invece ipotizza il rimettente, un significato difforme dalla normativa interposta evocata nel presente processo incidentale. Al contrario, il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, impone di valutare, con un approccio storico-naturalistico, la identità della condotta e dell’evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima.
Non vi è perciò dubbio che nel caso di specie gli indici segnalati dal Giudice rimettente per ritenere diversi i fatti già giudicati rispetto a quelli di omicidio oggetto della nuova contestazione non siano adeguati, perché non possono avere peso a tali fini né la natura di pericolo dei delitti previsti dagli artt. 434 e 437 cod. pen., né il bene giuridico tutelato, né il «differente “ruolo” del medesimo evento morte all’interno della fattispecie». Allo stesso tempo, è chiaro che, anche dal punto di vista rigorosamente materiale, la morte di una persona, seppure cagionata da una medesima condotta, dà luogo ad un nuovo evento, e quindi ad un fatto diverso rispetto alla morte di altre persone.
Entro questi limiti va escluso che sussista il primo profilo di contrasto individuato dal giudice a quo tra l’art. 649 cod. proc. pen. e la normativa interposta convenzionale, perché entrambe recepiscono il criterio dell’idem factum, e all’interno di esso la Convenzione non obbliga a scartare l’evento in senso naturalistico dagli elementi identitari del fatto, e dunque a superare il diritto vivente nazionale.
Fatta chiarezza su questo primo punto, la Corte passa poi – con esiti tutt’affatto differenti – a scandagliare il secondo profilo di contrasto, segnalato dall’ordinanza di rimessione, tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU: esso riguarda la regola, enucleata dal diritto vivente nazionale, che vieta di applicare il principio del ne bis in idem (e che dunque consente un secondo giudizio), ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto della nuova iniziativa del PM, nonostante la medesimezza del fatto; si tratta, nella sostanza, delle ipotesi in cui un medesimo fatto realizzi plurime fattispecie criminose in concorso formale tra loro, una delle quali sia già stata oggetto di un giudizio penale.
Sulla corrispondenza di tale regola a un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità non vi sono dubbi, posto che essa è stata ininterrottamente applicata dall’entrata in vigore dell’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 fino ad oggi, anche dopo che a quest’ultima disposizione è subentrato l’art. 649 del nuovo codice di procedura penale. La sola eccezione ammessa, al fine di prevenire un conflitto tra giudicati, è quella che la giurisprudenza ha ravvisato nel caso in cui il primo processo si è concluso con una pronuncia definitiva perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso.
Ne consegue che la Corte è tenuta a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. postulando che esso abbia il significato che gli è conferito dal diritto vivente, e la relativa questione, collegata con quella già esaminata sulla medesimezza del fatto, è per il Collegio questa volta fondata, nei termini che essa si premura di precisare.
Allo stato attuale del diritto vivente il rinnovato esercizio dell’azione penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti penali.
Va premesso che, sul piano delle opzioni di politica criminale dello Stato, è ben possibile, per quanto qui interessa, che un’unica azione o omissione infranga, in base alla valutazione normativa dell’ordinamento, diverse disposizioni penali, alle quali corrisponde un autonomo disvalore che il legislatore, nei limiti della discrezionalità di cui dispone, reputa opportuno riflettere nella molteplicità dei corrispondenti reati e sanzionare attraverso le relative pene (sia pure secondo il criterio di favore indicato dall’art. 81 cod. pen.).
Qualora il giudice abbia escluso che tra le norme viga un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, è incontestato che si debbano attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico.
Siamo, infatti, nell’ambito di un istituto del diritto penale sostanziale che evoca mutevoli scelte di politica incriminatrice, proprie del legislatore, e in quanto tali soggette al controllo della Corte solo qualora trasmodino in un assetto sanzionatorio manifestamente irragionevole, arbitrario o sproporzionato (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2016 e n. 185 del 2015).
Né queste opzioni in sé violano la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo.
In linea astratta pertanto la circostanza che i reati concorrano formalmente non sembrerebbe interferire con l’area coperta dal portato normativo dell’art. 649 cod. proc. pen. Quest’ultima dovrebbe, al contrario, essere determinata esclusivamente dalla formazione di un giudicato sul medesimo fatto, sia che esso costituisca un solo reato, sia che integri plurime fattispecie delittuose realizzate con un’unica azione od omissione.
Ciò detto, la Corte è obbligata a prendere atto che il diritto vivente, come è stato correttamente rilevato dal rimettente, ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. La garanzia espressa da questa norma, infatti, viene scavalcata per la sola circostanza che il reato già giudicato definitivamente concorre formalmente, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con il reato per il quale si procede.
Non spetta alla Corte pronunciarsi sulla correttezza ermeneutica del principio appena esposto. È invece oggetto del giudizio incidentale la conformità di esso, e dunque dell’art. 649 cod. proc. pen., che secondo il diritto vivente lo esprime normativamente, rispetto all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Ove, infatti, non vi fossero motivi di contrasto, il rimettente, pure a fronte del medesimo fatto, sarebbe tenuto a procedere nel giudizio per la sola ragione che l’omicidio concorre formalmente, secondo la giurisprudenza di legittimità, con i delitti previsti dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, cod. pen., mentre, nel caso opposto, egli dovrebbe concentrare la propria attenzione sulla sola identità del fatto, per decidere se applicare o no l’art. 649 cod. proc. pen.
Il nesso di necessità predicato nel diritto vivente tra concorso formale di reati e superamento del ne bis in idem inevitabilmente reintroduce nel corpo dell’art. 649 cod. proc. pen. profili di apprezzamento sulla dimensione giuridica del fatto, che erano stati espulsi attraverso l’adesione ad una concezione rigorosamente naturalistica di condotta, nesso causale ed evento.
Per decidere sulla unicità o pluralità dei reati determinati dalla condotta dell’agente ai sensi dell’art. 81 cod. pen., l’interprete, che deve sciogliere il nodo dell’eventuale concorso apparente delle norme incriminatrici, considera gli elementi del fatto materiale giuridicamente rilevanti, si interroga, tra l’altro, sul bene giuridico tutelato dalle convergenti disposizioni penali e può assumere l’evento in un’accezione che cessa di essere empirica.
Questa operazione, connaturata in modo del tutto legittimo al giudizio penalistico sul concorso formale di reati, e dalla quale dipende la celebrazione di un eventuale simultaneus processus, deve reputarsi sbarrata dall’art. 4 del Protocollo n. 7, perché segna l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto di bis in idem.
Nel sistema della CEDU (e, come si è visto, anche in base alla Costituzione repubblicana), l’esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato deve invece dipendere esclusivamente dal raffronto tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del PM, ed è perciò permessa in caso di diversità, ma sempre vietata nell’ipotesi di medesimezza del fatto storico (salve le deroghe, nel sistema convenzionale, previste dal secondo paragrafo dell’art. 4 del Protocollo n. 7). Ogni ulteriore criterio di giudizio connesso agli aspetti giuridici del fatto esula dalle opzioni concesse allo Stato aderente.
Difatti, la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, non ha aderito a un pregresso orientamento della Corte EDU volto a escludere la violazione del divieto di bis in idem in presenza di un concours idéal d’infractions (paragrafi 72 e 81).
D’altro canto, è evidente che la clausola di riserva delineata dalla giurisprudenza nazionale, che fa salvi i casi di assoluzione dell’imputato per l’insussistenza del fatto o per non averlo commesso, vietando per essi il secondo giudizio pure in presenza di un concorso formale di reati, tradisce in modo scoperto la mera finalità di prevenire il conflitto dei giudicati, e con questa l’oscuramento della componente garantista del principio del ne bis in idem, che invece in materia penale lo connota profondamente e va anzi ritenuta prioritaria.
Sussiste perciò il contrasto denunciato dal rimettente tra l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo.
È il caso di precisare – chiosa ancora la Corte – che la conclusione appena raggiunta non impone di applicare il divieto di bis in idem per la esclusiva ragione che i reati concorrono formalmente e sono perciò stati commessi con un’unica azione o omissione.
È infatti facilmente immaginabile che all’unicità della condotta non corrisponda la medesimezza del fatto, una volta che si sia precisato che essa può discendere dall’identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all’azione o all’omissione dell’agente, siano essi costituiti dall’oggetto fisico di quest’ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall’evento. Tale ultima posizione, in particolare, è fatta propria dal diritto vivente nazionale e se ne è già accertata la compatibilità con la Costituzione e con lo stato attuale della giurisprudenza europea.
Sono queste le ipotesi a cui va riferita la giurisprudenza della Corte per la quale l’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 non si riferiva «al caso di concorso formale di reati», ove «anche se l’azione è unica, gli eventi, che sono plurimi e diversi, danno ontologicamente luogo a più fatti, che possono anche essere separatamente perseguiti» (sentenza n. 6 del 1976; in seguito, sentenza n. 69 del 1976). E sono, altresì, le ipotesi regolate dall’art. 671 cod. proc. pen., che permette al giudice dell’esecuzione penale di applicare la disciplina del concorso formale di reati, nel caso di più sentenze irrevocabili pronunciate nei confronti della stessa persona, e dunque presuppone normativamente che siano date occasioni in cui la formazione del primo giudicato non preclude il perseguimento in separato processo del reato concorrente con il primo.
In definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico.
Per effetto della presente pronuncia di illegittimità costituzionale pertanto, afferma la Corte, l’autorità giudiziaria (e quindi lo stesso giudice a quo) sarà tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal PM a base della nuova imputazione. A tale scopo, è escluso che eserciti un condizionamento l’esistenza di un concorso formale, e con essa, ad esempio, l’insieme degli elementi indicati dal rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene giuridico tutelato; l’evento in senso giuridico).
Sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei relativi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze.
In conclusione, per le ragioni esposte, per la Corte l’art. 649 cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui secondo il diritto vivente esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
* * *
Il 15 novembre esce la importante sentenza della Corte EDU, Grande Camera, A. e B. c. Norvegia, che – pronunciandosi in tema di sanzioni tributarie – rimodula le posizioni di cui alla precedente sentenza Grande Stevens del 2014 in tema di bis in idem tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, nel caso di specie, tributarie.
In primo luogo, la Corte si propone di passare in rassegna la propria giurisprudenza pertinente ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione del principio ne bis in idem enunciato all’articolo 4 del Protocollo 7 (parti da a a c)
Essa constata che, nelle osservazioni delle parti e dei terzi intervenienti, non vi è alcun disaccordo quanto al principale contributo fornito dalla sentenza della Grande Camera Sergueï Zolotoukhine, che consiste nella precisazione dei criteri sulla base dei quali occorre valutare se la violazione per la quale un ricorrente sia stato giudicato o punito nel secondo procedimento fosse la stessa (idem) di quella in relazione alla quale una decisione era stata resa nel corso del primo procedimento. Non vi è nemmeno disaccordo sostanziale quanto ai criteri che consentono di determinare in quale occasione i criteri enunciati in detta sentenza permettano di definire una sentenza “definitiva”.
Al contrario, le opinioni si differenziano quanto al metodo da utilizzare al fine di determinare se la procedura di applicazione di maggiorazione di imposta rivestisse natura penale ai fini dell’art. 4 del Protocollo 7, nella consapevolezza che detta questione è suscettibile di spiegare incidenza sull’applicabilità del divieto, previsto da detta disposizione, della doppia incriminazione.
Inoltre, per la Corte esistono divergenze di impostazione (in particolare tra i ricorrenti, da un lato, ed il governo convenuto ed i governi intervenienti, dall’altro), sul tema della ripetizione dei procedimenti, in particolare nella misura in cui le procedure parallele o miste sono previste dall’art. 4 del Protocollo 7.
Nella sentenza Sergueï Zolotoukhine, cit., al fine di determinare se i procedimenti in questione potessero essere considerati come “penali” sulla base dell’art. 4 del Protocollo 7, la Corte ha applicato i tre criteri Engel precedentemente elaborati in relazione all’art.6 della Convenzione, vale a dire: 1) “la qualificazione giuridica della violazione nel diritto interno”; 2) “la natura stessa della violazione”; 3) il grado di severità della sanzione irrogabile; il secondo ed il terzo criterio sono alternativi e non necessariamente cumulativi, ma non può escludersi un approccio cumulativo.
La sentenza Sergueï Zolotoukhin, pur potendolo fare, non ha riproposto il ragionamento seguito in una serie di sentenze precedenti (ad esempio, la sentenza Storbraten), nella quale era stata prevista una lista più ampia e non esaustiva di fattori, senza che la Corte ne avesse specificato il peso specifico né se fosse necessario farne applicazione alternativa o cumulativa. I governi francese e norvegese invitano la Corte a cogliere la presente occasione per dire se siano questi ultimi, più numerosi, a trovare applicazione.
Esiste un certo numero di argomenti a favore di una simile interpretazione: in particolare il fatto che l’art. 4 del Protocollo 7 sia stato apparentemente concepito dai relativi autori in relazione ai procedimenti penali in senso stretto e la circostanza che, diversamente dall’art. 6 ma come invece nell’art. 7, non risulta suscettibile di deroga ai sensi dell’art. 15.
Se l’art. 6 si limita ad enunciare le garanzie di equità procedurale in particolar modo in materia penale, il divieto della doppia incriminazione previsto dall’art. 4 del Protocollo 7 comporta determinate conseguenze, che possono essere consistenti, sulle modalità di applicazione delle regole di diritto nazionale che disciplinano le sanzioni penali ed amministrative in molti settori. Tale ultima disposizione implica un’analisi più spinta del diritto penale materiale poiché si tratta di stabilire se le rispettive violazioni facciano riferimento ad una medesima condotta (idem). Tali differenze, al pari dell’assenza di convergenza tra i sistemi nazionali degli Stati contraenti, il grado variabile di volontà da parte di detti Stati di essere tenuti dal Protocollo 7 e l’esteso margine di apprezzamento del quale generalmente godono nella scelta dei loro sistemi e dello loro politiche in materia penale (Nykanen, cit., § 44 CEDH 2006 – IV) consentono tipicamente di giustificare un più vasto gruppo di criteri di applicabilità, più incentrato sul diritto nazionale, sul modello di quelli elaborati in relazione all’art. 7 e prima dell’art. 4 del Protocollo 7 (vale a dire prima della sentenza Sergueï Zolotoukhine), e dunque un campo di applicazione più ristretto di quanto avvenga con l’art. 6.
Tuttavia, se, come è stato sottolineato, la sentenza Sergueï Zolotoukhine non risulta esplicita sul punto, occorre supporre che la Corte abbia deliberatamente scelto in detta sentenza di utilizzare i criteri Engel come il modello da seguire per determinare se il procedimento in esame sia penale ai sensi dell’art. 4 del Protocollo 7. Agli occhi della Corte, non appare giustificato allontanarsi da detta analisi nel caso di specie, poiché considerazioni di peso militano a favore di una simile scelta. Il principio del ne bis in idem mira principalmente all’equità procedurale, che forma oggetto dell’art. 6 ed è meno rilevante sul piano del diritto penale materiale di quanto non lo sia nell’art. 7.
La Corte ritiene preferibile, in una logica di coerenza nell’interpretazione della Convenzione globalmente considerata, che l’applicabilità di detto principio sia disciplinata dai criteri, più precisi, definiti nella sentenza Engel.
Ciò detto, come già ammesso in precedenza, nel caso di ritenuta applicabilità del principio del ne bis in idem, un approccio modulato si impone con evidenza per valutare il modo in cui esso viene attuato trattandosi di procedimenti che mescolano sanzioni amministrative e sanzioni penali.
La questione Serguei Zolotukhin riguardava due procedimenti, ognuno dei quali aveva ad oggetto delle condotte moleste nel vis à vis con pubblici ufficiali e nei quali i procedimenti amministrativi erano divenuti definitivi arrivando a sentenza prima ancora della fine del processo penale (Serguei Zolotukhin, già citato). Il contributo più importante del caso Serguei Zolotukhin è stato quello di aver affermato che, per capire se le infrazioni in questione fossero le stesse (idem), ci si doveva basare su un’analisi orientata sui fatti (ibidem, § 84) piuttosto che sull’esame formale degli stessi, consistente nella comparazione degli «elementi essenziali» delle infrazioni. Il divieto riguarda l’azione penale o il processo per un secondo illecito, originato da fatti identici o fatti che, in sostanza, sono gli stessi (ibidem, § 82).
Inoltre, ricordando che lo scopo dell’Articolo 4 del Protocollo N. 7 è quello di proibire la reiterazione di procedimenti penali conclusisi con una “decisione finale” (“res judicata”), la sentenza Zolotukhin ha precisato che le decisioni suscettibili di un ricorso ordinario non beneficiavano della garanzia che conteneva tale disposizione finché il termine del ricorso non fosse spirato.
La Corte ha poi affermato con fermezza che l’Articolo 4 del Protocollo N. 7 non tratta solamente il diritto di non essere condannato due volte, ma anche quello di non essere perseguito due volte. Se non fosse così, non sarebbe stato necessario usare il termine “giudicato” , oltre quello di “punito”, dal momento che ciò avrebbe costituito una ripetizione. La Corte ha così ribadito che tale disposizione si applica anche se l’individuo in questione è stato semplicemente processato in processi che non hanno dato luogo ad una condanna e ha sottolineato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 contiene tre distinte garanzie, disponendo che nessuno i) può essere perseguito ii) giudicato o iii) punito due volte per gli stessi fatti (ibidem, § 110).
Si noti peraltro, prosegue la Corte, che la sentenza Zolotukhin ha offerto delle linee guida per i casi in cui i procedimenti non sono stati in realtà duplicati ma combinati in maniera integrativa in modo da creare un contesto coerente.
Dopo la sentenza Zolotoukhin, come specificato precedentemente, la Corte ha ammesso che l’imposizione da parte di differenti autorità, di distinte sanzioni aventi ad oggetto la stessa condotta è permessa in una certa misura in base all’Articolo 4 del Protocollo n.7, nonostante l’esistenza di una decisione definitiva. Si può comprendere tale conclusione partendo dalla premessa che la combinazione di sanzioni, in questi casi, si deve analizzare come un insieme, in conseguenza del quale sarà innaturale vederci una duplicazione di procedimenti che portano il ricorrente ad essere «perseguito o punito nuovamente (…) per un reato per il quale era già stato già stato definitivamente […] condannato » in violazione dell’articolo 4 del Protocollo n.7.
La questione è stata sollevata in riferimento a quattro tipi di situazioni. All’origine delle analisi interpretative dell’Articolo 4, c’è una prima categoria di casi, che risale alla sentenza R.T. contro Svizzera, citata precedentemente. Tale sentenza riguardava un ricorrente al quale, nel Maggio 1993, era stata ritirata per quattro mesi la patente di guida dall’Ufficio Stradale per guida in stato di ebbrezza. Tale misura era stata successivamente confermata nel procedimento innanzi alla Commissione Amministrativa d’Appello e dalla Corte Federale (dicembre 1995). Parallelamente, nel giugno 1993 le autorità cantonali di Gossau avevano emesso un’ordinanza penale nei confronti del richiedente che lo condannava ad una pena detentiva con termini sospesi e un’ammenda di 1.100 franchi svizzeri. Non avendo presentato appello contro tale ordinanza, la stessa passava in giudicato.
La Corte ha stabilito che le autorità svizzere avevano semplicemente determinato le tre differenti e cumulabili sanzioni previste dalla legge per tale reato, ossia una pena detentiva, una multa e il ritiro della patente di guida. Tali sanzioni erano state emesse nello stesso momento da due differenti autorità, cioè da un’autorità penale ed una amministrativa. Per questo, non si poteva sostenere che il procedimento penale era stato ripetuto, contrariamente a quanto affermato nell’Articolo 4 del Protocollo n.7.
Allo stesso modo, in Nilsson c. Svezia, che riguardava una sanzione penale (50 ore di lavori socialmente utili) e il ritiro della patente di guida (per una durata di 18 mesi) a causa di un’infrazione stradale, il ricorso era stato rigettato sulla base di un ragionamento più elaborato, che aveva introdotto per la prima volta il criterio del «nesso materiale e temporale sufficientemente stretto». La Corte aveva ritenuto che il ritiro di patente fosse una conseguenza diretta e prevedibile dell’anteriore condanna del richiedente per le stesse infrazioni di guida in stato d’ebbrezza e di guida senza patente e che, facendo seguito ad una condanna penale, costituiva una questione penale in base ai requisiti dell’Articolo 4 del Protocollo n.7.
La Corte aveva inoltre aggiunto che, indipendentemente dall’anteriore condanna penale, il ritiro della patente per 18 mesi costituiva da sola, a causa della relativa severità, una misura che poteva ritenersi normalmente una sanzione penale. Nonostante le distinte sanzioni fossero state imposte da due diverse autorità in differenti procedimenti, esisteva tra le stesse un nesso temporale e materiale sufficientemente stretto per il quale si poteva considerare il ritiro della patente come una delle misure previste dal diritto svedese per la repressione dei reati per guida in stato d’ebbrezza aggravata e di guida senza patente. Il ritiro di patente non implicava che il richiedente “fosse stato punito di nuovo…per un reato per il quale era stato già…condannato con sentenza definitiva” alla stregua dell’Articolo 4 § 1 del Protocollo n.7.
Così come in Boman, la Corte aveva concluso che esisteva un sufficiente nesso temporale e materiale tra, da una parte, la procedura penale nella quale il richiedente era stato giudicato e condannato a 75 giorni di ammenda (ammontante a €.450) oltre che all’interdizione a guidare di una durata di quattro mesi e tre settimane) e, dall’altra parte, l’ulteriore procedura amministrativa, conclusasi con il prolungamento dell’interdizione a guidare (della durata di un mese).
In una seconda serie di casi, la Corte aveva riaffermato che i procedimenti paralleli non escludevano l’imposizione di multe in procedimenti amministrativi e insieme condanna e sanzioni per frode fiscale in procedimenti penali, ma concludeva che la richiesta di “un nesso sufficientemente stretto…in sostanza ed in tempo” non era stata soddisfatto in particolari circostanze prese in considerazione. Tali casi riguardavano la Finlandia (principalmente Glantz, precitata, § 57 e Nykänen, precitata, § 47) e Svezia (Lucky Dev. c. Svezia, n. 7356/10, § 58, 27 Novembre 2014).
In Nykänen, che regolamentava l’approccio seguito negli altri casi contro la Finlandia e la Svezia, la Corte aveva rinvenuto nei fatti che, nel sistema finlandese, le sanzioni penali ed amministrative erano state irrogate da diverse autorità senza che i procedimenti avessero avuto alcun tipo di connessione: entrambe le procedure avevano seguito il loro singolare corso ed erano giunte al termine indipendentemente l’una dall’altra. Inoltre, nessuna sanzione era stata presa in considerazione dall’altra Corte o autorità per la determinazione della severità della sanzione, e neppure c’era stata alcun tipo di interazione tra le autorità competenti. Soprattutto, nel sistema finlandese le multe erano state comminate seguendo un esame della condotta del richiedente e la relativa responsabilità in relazione alla legislazione fiscale, che era indipendente dal giudizio penale. In conclusione, la Corte aveva decretato l’esistenza di una violazione dell’Articolo 4 del Protocollo n.7 della Convenzione, dato che il richiedente era stato dichiarato colpevole due volte per lo stesso motivo in due procedimenti separati.
Identici (o quasi) ragionamenti e conclusioni si possono rinvenire riguardo a casi simili in Rinas c. Finlandia, n.17039/13, 27 Gennaio 2015, e Österlund c. Finland, n. 53197/13, 10 Febbraio 2015. Si noti – chiosa ancora la Corte – che, se in alcuni giudizi (Nykänen, Glantz, Lucky Dev, Rinas, Österlund) i due procedimenti erano stati portati avanti in maniera contemporanea, il nesso temporale era stato giudicato manifestamente insufficiente per escludere l’applicazione della regola del ne bis in idem. Non sembra irragionevole dedurre da tali casi riguardanti Finlandia e Svezia che le due procedure, considerate simultanee, in particolari circostanze risultano carenti di un nesso sostanziale che dà luogo alla violazione dell’Articolo 4 del Protocollo n.7.
In un terzo comparto di casi, in cui i procedimenti erano stati celebrati in parallelo per un certo periodo di tempo, la Corte aveva rilevato la violazione ma senza il riferimento al testo contenuto nella sentenza Nilsson del “nesso sufficientemente stretto…in sostanza ed in tempo”.
In Tomasović (§§ 5-10 e 30-32), il richiedente era stato citato e condannato due volte per lo stesso reato di possesso di stupefacenti, prima come “infrazione minore” (considerata “penale” in base al secondo e terzo criterio contenuto in Engel (ibid. §§ 22-25)) e poi come “reato penale”. Dato che la seconda procedura era stata abbandonata alla conclusione della prima, la Corte aveva ritenuto evidente l’esistenza di una ripetizione delle procedure penali contraria all’Articolo 4 del Protocollo n.7 (confronta con Muslija, precitata, §§ 28-32 e 37, in relazione a percosse e lesioni aggravate).
Allo stesso modo, in Grande Stevens e altri v. Italia (nos. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, 4 Marzo 2014), la Corte aveva ritenuto l’esistenza di procedimenti doppi riguardanti la stessa condotta fraudolenta, cioè la manipolazione del mercato per la diffusione di false informazioni: da una parte, una procedura amministrativa (dal 9 febbraio 2007 al 23 giugno 2009), qualificata come “penale” in base ai criteri Engel, portata innanzi alla Commissione Nazionale per la Società e la Borsa (Consob), seguita dalle impugnazioni davanti alla Corte d’Appello e alla Corte di Cassazione e terminata con la comminazione di un’ammenda di €.3.000.000 (oltre all’interdizione ad esercitare determinate attività professionali); dall’altra, una procedura penale (dal 7 novembre 2008 al 28 febbraio 2013 e oltre, essendo ancora in corso) innanzi al giudice di prima istanza, la Corte di Cassazione e la Corte d’Appello. La constatazione era che la nuova istanza riguardava una seconda “infrazione” sorta da fatti identici a quelli che avevano dato luogo alla prima condanna, divenuta definitiva, cosa che aveva fatto concludere la Corte per la violazione dell’Articolo 4 del Protocollo n.7.
Un’ulteriore e distinta illustrazione della mancanza di un nesso sostanziale senza uno specifico riferimento al testo della precitata sentenza Nilsson si ritrova nella Kapetanios e altri (precitata), che è stata confermata da Sismanidis e Sitaridis c. Greece, nos. 66602/09 e 71879/12, 9 Giugno 2016. In tali casi, i ricorrenti erano stati inizialmente assolti dalle accuse nei procedimenti penali. In seguito, nonostante le assoluzioni, i tribunali amministrativi avevano imposto ai ricorrenti pesanti sanzioni amministrative per lo stesso oggetto. Convinta che le ultime procedure rientrassero nella competenza penale in base all’Articolo 4 del Protocollo n.7, la Corte aveva concluso per la violazione di tale disposizione (ibid, respettivamente, § 73 e 47).
Se gli Stati contraenti hanno il particolare dovere di proteggere gli interessi specifici salvaguardati dall’Articolo 4 del Protocollo n.7, è altresì necessario, così come è già stato indicato supra dalla Corte, lasciare alle autorità nazionali la scelta dei mezzi da utilizzare per conseguirli.
Non bisogna dimenticare, a tale riguardo, che il diritto di non essere giudicato o punito due volte non è stato inserito nella Convenzione adottata nel 1950 ma è stato inserito nel settimo protocollo, adottato nel 1984 ed entrato in vigore nel 1988, ossia circa 40 anni più tardi. Quattro Stati (Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Turchia) non hanno ratificato il Protocollo n.7 e uno di loro (Germania), assieme ad altri quattro Stati che l’hanno ratificato (Austria, Francia, Italia e Portogallo), ha espresso delle riserve o delle dichiarazioni interpretative che hanno precisato che la parola “penalmente” deve essere da loro applicata in base al senso dato a tale nozione dalle rispettive leggi nazionali. (Si noti che le riserve presentate da Austria ed Italia sono state considerate invalide, non contenendo un breve richiamo alla legge appellata, così come richiesto dall’articolo 57 § 2 della Convenzione (rispettivamente Gradinger c. Austria, 23 Ottobre 1995, § 51, Serie A n.328-C; e Grande Stevens, precitata, §§ 204-211), a differenza della riserva presentata dalla Francia (vedi Göktan c. France, n. 33402/96, § 51, ECHR 2002-V).
La Corte ha ugualmente sottolineato l’osservazione formulata dall’Avvocato Generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Fransson (paragrafo 51), secondo la quale l’imposizione di sanzioni sulla base del diritto amministrativo e del diritto penale riguardante la stessa infrazione è una pratica molto diffusa tra gli Stati membri dell’Unione Europea, soprattutto negli ambiti fiscali, delle politiche ambientali o della sicurezza pubblica. L’Avvocato Generale ha aggiunto che le modalità relative al cumulo delle sanzioni variano enormemente in base agli ordinamenti giuridici e rivestono delle caratteristiche specifiche proprie di ogni Stato membro e che, nella maggioranza dei casi, tali specificità aspirano ad attenuare gli effetti di una doppia reazione punitiva da parte dei pubblici poteri.
Inoltre, precisa ancora la Corte, non meno di sei Stati contraenti del Protocollo n.7 sono intervenuti alla presente istanza, esprimendo soprattutto opinioni e preoccupazioni sui punti d’interpretazione che condivide anche, in larga parte, il Governo convenuto.
In queste condizioni, occorre sottolineare preliminarmente che, dato che la Corte lo riconosce nella costante giurisprudenza, sono gli Stati contraenti che scelgono come organizzare il proprio sistema legale, incluse le proprie procedure di giustizia penale (vedere, per esempio, Taxquet c. Belgio [GC], n. 926/05, § 83, ECHR 2010). La Convenzione non proibisce, per esempio, la separazione in diverse fasi o parti dell’udienza di fissazione della pena, in modo che differenti pene possono essere pronunciate, successivamente o parallelamente, per un’infrazione che occorre qualificare come “penale”, nell’autonomo significato della nozione secondo la Convenzione (vedere, per esempio, Phillips c. Regno Unito, n. 41087/98, § 34, ECHR 2001-VII, questione che concerne, nell’ambito dell’articolo 6, una procedura di confisca di beni provenienti da infrazioni della legge sugli stupefacenti, diretta contro un individuo e riguardante la condanna dello stesso individuo per le stesse infrazioni).
Agli occhi della Corte, gli Stati dovrebbero poter legittimamente optare per delle risposte giuridiche complementari innanzi a determinati comportamenti socialmente inaccettabili (per esempio, il non rispettare il codice della strada, il non pagare le tasse o l’evasione fiscale) mediante diverse procedure che formano un insieme coerente di modi di trattare, da diversi punti di vista, il problema sociale in questione, sempre che tali risposte giuridiche combinate non rappresentino un carico eccessivo per la persona in causa.
Nelle questioni in cui entra in gioco l’articolo 4 del Protocollo n. 7, la Corte ha come obiettivo quello di determinare se la misura nazionale specifica denunciata costituisce, nella propria sostanza o nei propri effetti, una doppia incriminazione che pregiudica il responsabile o se, al contrario, è il frutto di un sistema integrato che permette di reprimere un misfatto da differenti punti di vista, in modo prevedibile e proporzionato, formando un insieme coerente, in modo da non causare nessuna ingiustizia all’interessato.
Non può essere considerato un effetto dell’articolo 4 del Protocollo n.7 il fatto che negli Stati contraenti si proibisca l’organizzazione dei propri sistemi legali in modo da permettere l’aumento ad un tasso fisso delle imposte non pagate in maniera illegale (quand’anche una misura del genere fosse classificata come “penale” per il bisogno di garanzia d’equità del processo, prevista dalla Convenzione), anche nei casi più gravi in cui sarebbe stato appropriato perseguire l’autore dell’offesa perché un elemento non inserito nella procedura “amministrativa” della riscossione delle imposte (per esempio una condotta fraudolenta) si aggiunge al difetto di pagamento.
L’articolo 4 del Protocollo n.7 ha come oggetto quello di impedire l’ingiustizia che potrebbe rappresentare per una persona il fatto di essere perseguito o punito due volte per lo stesso comportamento delittuoso. Ciononostante, chiosa ancora la Corte, non si proibiscono i sistemi giuridici che trattano in maniera “integrata” i misfatti della società in questione, ed in particolare l’approccio che coinvolge fasi parallele di approcci legali derivanti da diverse autorità e con obiettivi diversi.
La Corte ritiene che la giurisprudenza precitata riguardo le procedure parallele o miste, nata con le decisioni R.T. c. Svizzera e Nilssonc. Svezia, successivamente con il caso Nykänen e una serie di altri casi, fornisce delle utili indicazioni che aiutano a definire il punto in cui si trova il giusto equilibrio tra la necessaria preservazione degli interessi dell’individuo tutelati dal principio del non bis in idem da una parte, e dall’altra il particolare interesse della società di poter regolamentare in maniera calibrata l’ambito in questione. Allo stesso tempo, prima di procedere ad analizzare i criteri per raggiungere tale equilibrio, la Corte considera necessario precisare le conclusioni tratte dalla giurisprudenza esistente.
In primo luogo, ciò che emerge dall’applicazione del criterio del “nesso materiale e temporale sufficientemente stretto” statuito nei recenti casi della Finlandia e della Svezia è che non si riuscirà a soddisfare tale criterio se uno dei due elementi (materiale o temporale) manca (cfr. paragrafo 114).
In secondo luogo, in alcuni casi, la Corte ha prima esaminato se, e in tale caso, quando si è giunti ad una decisione “finale” in uno dei procedimenti (ostacolando, potenzialmente, la prosecuzione degli altri) prima di applicare il criterio del “nesso sufficientemente stretto” e di dare un parere negativo alla questione del rispetto della condizione del “bis”, ossia di concludere per l’assenza della ripetizione (Boman, precitato, §§ 36 à 38). Per la Corte, comunque, la questione di carattere “definitivo” o meno di una decisione è priva di rilevanza quando non sussiste una reale duplicazione dei procedimenti, ma piuttosto una combinazione di procedimenti che costituisce un insieme integrato.
In terzo luogo, il precedente punto ha anche incidenza sulle preoccupazioni espresse da alcuni governi interventori, ossia che non bisogna esigere che le procedure connesse divengano “definitive” nello stesso momento. Se fosse così, si consentirebbe alla persona interessata di utilizzare il principio del non bis in idem come strumento per la manipolazione e l’impunità. Su questo punto, la conclusione a cui si giunge nel paragrafo 51 della Nykänen (precitata) e in un buon numero di giudizi posteriori, cioè che “entrambi i procedimenti seguono il proprio corso e alla fine diventano indipendenti l’uno dall’altro”, deve essere considerata come un dato di fatto: nel sistema finlandese esaminato non esistevano nessi sufficienti dal punto di vista materiale tra la procedura amministrativa e la procedura penale, nonostante fossero state condotte in modo più o meno simultaneo. Nykänen è un esempio del caso in cui l’applicazione del criterio del “sufficiente nesso materiale e temporale” segua una determinata direzione in funzione dei fatti.
In quarto luogo, per ragioni simili a quelle esposte precedentemente, l’ordine nel quale sono condotte le procedure non dovrà essere l’elemento decisivo per pronunciarsi sul fatto di sapere se l’articolo 4 del Protocollo n. 7 permette delle procedure miste o multiple (cfr. con le precitate questioni R.T. c. Svizzera, in cui la patente di guida è stata ritirata prima dell’apertura del processo penale, e Nilsson c. Svezia, in cui il ritiro era intervenuto successivamente).
In ultima analisi, risulta evidente da alcuni casi citati precedentemente (vedi Zolothukin,Tomasović, e Muslija – descritti nei paragrafi 108 e 115), considerando che essi riguardano la ripetizione di procedimenti nei quali gli obiettivi e i mezzi impiegati non risultavano complementari (paragrafo 130), che la Corte non ha voluto esaminarli come se riguardassero delle procedure parallele o miste suscettibili di essere compatibili con il principio del non bis in idem, come nei casi R.T. c. Svizzera, Nilsson e Boman (paragrafo 113).
Dopo tale analisi della giurisprudenza della Corte, risulta evidente che, in relazione ai fatti punibili nell’ambito del diritto penale e del diritto amministrativo, il modo più sicuro per far rispettare l’articolo 4 del Protocollo n.7 consiste nel prevedere, in un momento opportuno, una procedura con un solo livello che permetta la riunione di ambiti paralleli del regime legale che regola l’attività in causa, in modo da soddisfare, nell’ambito di un unico processo, differenti imperativi perseguiti dalla società nella relativa reazione di fronte alle infrazioni. Ciononostante, come precisato precedentemente, l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non esclude la possibilità di porre in essere procedimenti duali, a patto che si rispettino determinate condizioni.
In particolare, per far sì che la Corte sia convinta che non esista una duplicazione della pena o del processo (bis) come statuito nell’articolo 4 del Protocollo n.7, lo Stato difensore deve dimostrare, argomentando con prove, che i procedimenti duali in questione abbiano “un nesso sufficientemente stretto in sostanza e tempo”. In altre parole, si deve dimostrare che sono stati combinati in un modo integrato, tale da formare un insieme coerente. Ciò implica non solo che gli obiettivi perseguiti e i mezzi utilizzati per addivenire a tale risultato debbano essere complementari in sostanza e presentare un nesso temporale, ma anche che le eventuali conseguenze derivanti dalla regolamentazione giuridica della condotta in esame debbano essere proporzionate e prevedibili dalla persona giudicata.
Trattandosi di condizioni da soddisfare affinché, all’interno di procedure miste (amministrative e penali), si possa considerare esistente un nesso materiale e temporale sufficiente e, dunque, compatibile con il criterio del “bis” sussistente all’interno dell’articolo 4 del protocollo n.7, la Corte riassume nel seguente modo le considerazioni a cui si è arrivati tramite la giurisprudenza appena esaminata.
Gli elementi pertinenti per affermare l’esistenza di un nesso sufficientemente stretto dal punto di vista materiale sono i seguenti:
- sapere se le distinte procedure perseguono obiettivi complementari e riguardanti, non solo in abstracto ma anche in concreto, aspetti diversi dall’atto pregiudizievole alla società in causa;
- sapere se il dualismo dei procedimenti risulti essere una conseguenza prevedibile, sia dal punto di vista del diritto che nella pratica, degli stessi comportamenti repressi (idem);
- sapere se i procedimenti in questione si sono svolti in una maniera che evita, per quanto possibile, qualsiasi ripetizione nella raccolta e valutazione degli elementi di prova, principalmente attraverso un’interazione adeguata tra le diverse autorità competenti, facendo sembrare che la statuizione dei fatti effettuata in uno dei procedimenti è stata ripresa nell’altro;
- e, soprattutto, sapere se la sanzione imposta al termine del processo è stata prima presa in considerazione nell’ultimo processo, in modo da non gravare in modo eccessivo sull’interessato, essendo quest’ultimo rischio meno suscettibile di presentarsi esistendo un meccanismo di compensazione che possa assicurare che l’insieme globale di tutte le sanzioni irrogate sia proporzionato.
A tal proposito, bisogna allo stesso modo tenere in considerazione il modo in cui l’articolo 6 della Convenzione è stato applicato nelle questioni esaminate dalla Corte (Jussila, precitato, § 43): « (…) va da sé che esistono procedure penali che non comportano alcun tipo di stigma. Esistono chiaramente “carichi penali” con un peso distinto. In aggiunta, l’autonoma interpretazione adottata dalle istituzioni della Convenzione per la nozione di “carico penale”, applicando il criterio Engel, ha sostenuto una graduale estensione dell’applicazione della componente penale dell’articolo 6 a dei domini non propriamente appartenenti alle tradizionali categorie del diritto penale, per esempio reati amministrativi …, procedimenti disciplinari carcerari …, infrazioni portuali …, sanzioni pecuniarie inflitte per la violazione della concorrenza …, e ammende inflitte dalla giurisdizione fiscale (…). Gli aumenti delle tasse non fanno parte dello zoccolo duro del diritto penale, conseguentemente le garanzie offerte non saranno necessariamente applicate in tutto il loro rigore (…).»
Tale ragionamento permette di estrarre gli elementi pertinenti che servono a determinare se l’articolo 4 del Protocollo n.7 è stato rispettato nelle questioni riguardanti procedure miste (amministrative e penali). Inoltre, come già detto dalla Corte in numerose riprese, la Convenzione si deve interpretare nel relativo insieme, in maniera da promuoverne la coerenza interna e l’armonia tra la diverse disposizioni (Klass e altri c. Germania, 6 settembre 1978, § 68, serie A n. 28; vedere anche Maaouia c. Francia [GC], n. 39652/98, § 36, CEDU 2000-X, Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 152, CEDU 2000-XI, e Stec e altri c. Regno Unito (dec.) [GC], n. 65731/01 e 65900/01, § 48, CEDU 2005X). Il grado in cui la procedura amministrativa presenta le caratteristiche di una procedura penale ordinaria è un importante elemento.
Talune procedure miste hanno soddisfatto più verosimilmente i criteri di complementarietà e di coerenza se le sanzioni imponibili nella procedura non formalmente qualificata come “penale” sono specifiche per i comportamenti in questione e non fanno perciò parte dello “zoccolo duro del diritto penale” (per riprendere la terminologia della Jussila precitata). In aggiunta, se tale procedura non ha un reale carattere diffamatorio, esistono minori possibilità che essa crei un carico non proporzionato in capo all’accusato. Al contrario, più la procedura amministrativa presenta caratteristiche punitive che si possono assimilare in larga parte alla procedura penale ordinaria, più le finalità sociali perseguite per la punizione del comportamento delittuoso all’interno di procedure differenti rischia di ripetersi (bis) invece di completarsi. L’insieme delle questioni menzionate può servire a identificare tale rischio.
Inoltre, prosegue la Corte, come già detto in maniera implicita, quando il nesso sostanziale è sufficientemente forte, la richiesta di un nesso temporale persiste e deve essere soddisfatta. Ciò non vuol dire, comunque, che le due tipologie di procedimenti devono essere portati avanti simultaneamente dall’inizio alla fine. Lo Stato deve avere la facoltà di optare per uno svolgimento progressivo delle procedure, se esso si giustifica con la necessità di efficacia e di buona amministrazione della giustizia, perseguendo finalità sociali diverse e non causando un pregiudizio sproporzionato all’interessato.
Nonostante ciò, come già precisato, deve sempre sussistere un nesso temporale. Tale nesso deve essere sufficientemente stretto per proteggere l’individuo dalle incertezze e dalle lungaggini e dai procedimenti protratti per un tempo eccessivo (vedere, come esempio di lacune di tale tipo, Kapetanios et autres, précité, § 67), anche quando il sistema nazionale preveda un meccanismo “integrato” che comporta una separazione delle componenti amministrative e penali. Più il nesso temporale è sottile, più ci sarà bisogno che lo Stato spieghi e giustifichi i ritardi di cui potrà essere responsabile.
Nel caso del primo ricorrente, l’Ufficio Tributi, il 24 novembre del 2008, gli applica un interesse moratorio del 30%, in base agli articoli 10-2 (1) e 10-4 (1) della legge fiscale, motivando tale scelta con il fatto che avesse omesso, nella dichiarazione fiscale del 2002, la somma di 3.259.342 NOK di introiti ottenuti all’estero. Non avendo fatto ricorso contro tale decisione, essa diviene definitiva dopo tre settimane, una volta prescritti i termini per l’impugnazione.
Il soggetto viene anche perseguito penalmente per la stessa omissione nella dichiarazione fiscale del 2002: il 14 ottobre 2008 è dichiarato colpevole e il 2 marzo 2009 il tribunale di Follo lo riconosce colpevole di frode fiscale aggravata, condannandolo ad un anno di reclusione per la violazione dell’articolo 12-1 1)a), cf. sezione 12-2, della legge fiscale (paragrafi 15 e 17 seguenti). La Corte d’Appello ne rigetta il ricorso (paragrafo 19 seguente) così come fa, il 27 novembre 2010, la Corte di Cassazione (paragrafi 20-30 seguenti).
Seguendo le conclusioni esposte supra, la Corte dichiara a questo punto di voler scandagliare se la procedura di applicazione di un interesse moratorio del 30% poteva essere qualificata, in base ai criteri Engel, come “penale”, come disposto dall’articolo 4 del Protocollo n.7.
A tale riguardo, la Corte ha notato che la Corte Suprema ha vigilato sugli sviluppi progressivi del diritto della Convenzione in tale ambito e si è sforzata di tenere in considerazione le evoluzioni della giurisprudenza della Corte nelle proprie decisioni in materia di legislazione fiscale (paragrafi 44- 47 seguenti). Inoltre, nel 2002 la Corte Suprema, per la prima volta, ha dichiarato che l’imposizione di un interesse del 30% costituiva una “sanzione penale” ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione. Ha statuito allo stesso modo, contrariamente alle proprie decisioni precedenti, che un aumento dell’interesse del 60% avesse carattere penale in base all’articolo 4 del Protocollo n.7. Nel 2004 e nel 2006 ha stimato che ci sia stata la stessa applicazione di interesse del 30%.
In casi simili riguardanti la Svezia (aventi ad oggetto l’imposizione di interessi del 40% e del 20%), la Corte ha ritenuto che i procedimenti in questione fossero “penali”, non solo in base all’articolo 6 della Convenzione (vedi Janosevic c. Svezia, n. 34619/97, §§ 68-71, ECHR 2002-VII; e Västberga Taxi Aktiebolag e Vulic c. Svezia, n. 36985/97, §§ 79-82, 23 Luglio 2002), ma anche in base all’articolo 4 del Protocollo n. 7 (vedi Manasson c. Svezia (dec.), n. 41265/98, 8 Aprile 2003; Rosenquist, precitato; Synnelius e Edsbergs Taxi AB c. Svezia (dec.), n. 44298/02, 17 Giugno 2008; Carlberg c. Svezia (dec.), n. 9631/04, 27 Gennaio 2009; e Lucky Dev, precitato, §§ 6 e 51).
In tali condizioni, la Corte non riscontra alcun motivo per opporsi alla conclusione della Corte Suprema in base alla quale la procedura che ha portato ad imporre un interesse moratorio del 30% al primo ricorrente possedeva caratteristiche di diritto “penale” in base al significato attribuito dall’articolo 4 del Protocollo n.7.
Come detto precedentemente, prosegue la Corte, la protezione del principio del ne bis in idem non dipende dall’ordine secondo il quale i processi vengono rispettivamente portati avanti: ciò che conta è il nesso materiale tra le due infrazioni (vedi Franz Fischer c. Austria, n. 37950/97, § 29, 29 Maggio 2001; e anche Storbråten; Mjelde; Haarvig; Ruotsalainen; e Kapetanios and Others, tutti precitati).
Applicando ai fatti di specie l’approccio armonizzato esposto nel caso Zolotukhin (citato precedentemente), la Corte Suprema ha concluso che le circostanze fattuali che costituiscono la base per l’interesse moratorio e la condanna penale – cioè in entrambi i casi l’omissione nella dichiarazione fiscale di alcune informazioni riguardanti gli introiti – erano sufficientemente simili per soddisfare la condizione summenzionata. Le parti non contestano tale punto e, nonostante l’elemento fattuale supplementare di frode che caratterizza l’infrazione penale, la Corte non individua alcun motivo per concludere in un altro modo.
A proposito del dubbio sull’imposizione di un aumento percentuale delle tasse nel corso del procedimento, occorre dire che è stata presa una decisione “definitiva” suscettibile di ostacolare potenzialmente la persecuzione penale (Sergueï Zolotoukhin, precitata, §§ 107-108), per la cui analisi la Corte rimanda ai paragrafi seguenti. Essendo convinta dell’esistenza di un nesso materiale e temporale sufficiente tra il procedimento fiscale e il procedimento penale per quelli che possono essere considerati come formanti una soluzione giuridica integrata che risponda al comportamento del primo ricorrente, la Corte non ritiene necessario esaminare successivamente la questione del carattere definitivo del procedimento fiscale in sé.
Dal relativo punto di vista, la circostanza che il primo procedimento sia divenuto definitivo prima del secondo non ha alcuna incidenza sull’esame effettuato precedentemente.
Pertanto la Corte non vede la necessità di esprimere alcun parere sull’esame effettuato dalla Corte Suprema per sapere se la prima decisione del 24 novembre 2008 fosse divenuta definitiva dopo la scadenza del termine per il ricorso amministrativo di tre settimane o per il ricorso giudiziario di sei mesi.
Le autorità nazionali competenti hanno ritenuto che la condotta riprovevole del primo ricorrente richiedesse due risposte, una pena amministrativa in base al capitolo 10 della Legge Fiscale riguardante la maggiorazione delle imposte e una penale in base al capitolo 12 della stessa legge, riguardante le pene (cfr. paragrafi 15, 16 e 41-43), ognuna delle quali perseguiva obiettivi distinti. Così come la Corte Suprema ha spiegato nei relativi giudizi del Maggio 2002 (cfr. paragrafo 46), la sanzione amministrativa di maggiorazione delle imposte ha una finalità generale di dissuasione, come reazione alla comunicazione al contribuente, forse in maniera innocente, di dichiarazioni o informazioni inesatte o incomplete, e serve anche a compensare le risorse umane e finanziarie considerevoli utilizzate dalle autorità fiscali per conto della collettività per i controlli e le verifiche, destinate a correggere le dichiarazioni erronee. L’obiettivo è quello di far sopportare, in una certa misura, i costi aggiuntivi alle persone che abbiano comunicato delle informazioni incomplete o inesatte.
Il calcolo delle imposte è una grande operazione che coinvolge milioni di cittadini. Secondo la Corte Suprema, l’aumento di un’imposta ordinaria ha, innanzitutto, come scopo quello di incitare i contribuenti a rispettare i propri obblighi di fornire delle informazioni complete ed esatte e di rinforzare le basi del sistema fiscale nazionale, condizione indispensabile per il buon funzionamento dello Stato e, pertanto, della società. Così come detto dalla Corte Suprema, una condanna penale in base al capitolo 12, in cambio, persegue delle finalità non solo dissuasorie ma anche repressive, trattandosi della stessa omissione pregiudizievole per la società, e comporta un elemento addizionale di frode colpevole.
E’ così che, dopo un controllo fiscale nel 2005, il fisco cita penalmente il primo ricorrente e altri soggetti nell’autunno 2007. Nel dicembre 2007, l’interessato viene interrogato dall’accusa e detenuto per quattro giorni. Nell’agosto 2008, basandosi sulle conclusioni dell’inchiesta penale, il fisco lo avverte di essere stato sanzionato, per l’anno 2002, dato che aveva omesso di dichiarare 3.259.341 NOK. Tale avviso si basava sulle conclusioni del controllo fiscale formulate dalla società Software Innovation AS, mandata dal fisco, nella successiva inchiesta penale e nella deposizione del primo ricorrente nel corso di tale inchiesta.
Nell’ottobre 2008, il primo ricorrente viene indagato per infrazione fiscale da Økokrim. In base alla decisione del 24 novembre 2008, il fisco ordina la rettifica e il versamento della maggiorazione di imposte in questione. Tale decisione era basata sulle deposizioni rese dal primo e dal secondo ricorrente durante gli interrogatori svolti nel corso delle udienze penali. Un paio di mesi dopo, il 2 marzo 2009, il tribunale di Follo condanna l’interessato per frode fiscale, avendo lo stesso omesso la cifra summenzionata nella dichiarazione fiscale del 2002.
Per la Corte è particolarmente importante constatare che, in conformità ai principi generali del diritto nazionale in materia di fissazione della pena, tale tribunale ha irrogato la pena di un anno di reclusione tenendo in conto che il primo ricorrente era già stato pesantemente sanzionato con l’applicazione della maggiorazione di imposta (paragrafo 17; comparare con Kapetanios e altri, § 66, in cui le giurisdizioni amministrative avevano irrogato delle ammende amministrative senza tenere in considerazione il pagamento, da parte dei richiedenti, delle sanzioni emesse nelle procedure penali anteriori relative allo stesso oggetto e Nykänen, in cui la Corte ha concluso per l’assenza di un nesso materiale sufficiente tra i due procedimenti).
In tali circostanze, la Corte conclude in primo luogo di non avere alcun motivo per mettere in discussione le motivazioni per le quali il legislatore norvegese ha scelto di regolare una procedura mista (amministrativa e penale) integrata per il comportamento pregiudizievole per la società, consistente nel mancato pagamento delle imposte, motivo per cui le autorità norvegesi competenti hanno scelto, nel caso del primo richiedente, di trattare separatamente l’elemento della frode, più grave e più riprovevole socialmente, nell’ambito di una procedura penale piuttosto che in quello di una procedura amministrativa ordinaria.
In secondo luogo, l’esecuzione di procedimenti duali, con la possibilità di diverse pene cumulabili, si poteva prevedere per il primo ricorrente, che doveva sapere fin dall’inizio dell’esistenza della possibilità di sanzioni penali così come di maggiorazioni di imposte.
In terzo luogo, appare chiaro al Collegio che, come dichiarato dalla Corte Suprema, i procedimenti amministrativo e penale sono stati portati avanti in parallelo ed erano connessi. I fatti stabiliti in una delle due procedure sono stati ripresi nell’altra e, considerando la proporzionalità della pena totale, la sanzione penale ha tenuto conto della maggiorazione di imposte.
Tenuto conto dei fatti di cui è venuta a conoscenza, la Corte ha concluso che nulla indica che il primo ricorrente abbia subito un pregiudizio sproporzionato o un’ingiustizia come conseguenza della risposta giuridica integrata, denunciata dallo stesso, apportata in relativa assenza dalla dichiarazione di alcuni introiti e dal mancato pagamento di determinate imposte.
Riguardo poi al secondo ricorrente, riprendendo il ragionamento della Corte Suprema nell’interruzione riguardante il primo ricorrente, la Corte d’Appello aveva statuito, innanzitutto, che la decisione presa il 5 dicembre 2008 dal fisco, riguardante l’obbligo per l’interessato di pagare una maggiorazione del 30% delle imposte, si inseriva positivamente nell’ambito dell’imposizione di una sanzione “penale” ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n.7; in secondo luogo, sosteneva che la decisione era passata in giudicato il 26 dicembre 2008, data di scadenza del termine per il ricorso; in terzo luogo, sosteneva che la decisione di aumentare le imposte e l’ulteriore condanna penale si riferivano agli stessi fatti.
Come nel caso del primo ricorrente, la Corte non vede alcun motivo per concludere in altro modo sul primo e terzo punto, e nemmeno la necessità di pronunciarsi sul secondo. Per ciò che concerne la questione posta precedentemente, ossia quella di verificare l’esistenza di una duplicazione di procedimenti (bis) incompatible con il Protocollo n.7, la Corte rileva che le autorità competenti, così come per il primo ricorrente, hanno giudicato che una procedura mista si potesse giustificare nel caso del secondo ricorrente.
Quanto al preciso sviluppo dei processi in causa, dopo il controllo condotto nel 2005, il fisco ha denunciato penalmente, insieme a Økokrim nell’autunno 2007, il secondo ricorrente (così come aveva fatto contro il primo ricorrente e altri soggetti), motivando tale scelta con il fatto che l’interessato non aveva dichiarato 4.561.881 NOK (circa €.500.000) di introiti nell’anno fiscale 2002.
Il 16 ottobre 2008, riferendosi in particolare al controllo fiscale, alla deposizione resa dal secondo ricorrente durante l’inchiesta penale in questione così come ai documenti acquisiti da Økokrim durante l’inchiesta, l’ufficio delle imposte avvisava l’interessato di stare valutando l’opportunità di indirizzargli fiscalmente il motivo per cui si considerava che avesse omesso di dichiarare determinati introiti e di applicare una maggiorazione di imposte.
L’11 novembre 2008, la pubblica accusa incriminava il secondo ricorrente per frode fiscale per l’omissione dell’ammontare summenzionato, che rappresentava 1.302.526 NOK di imposte da pagare, e chiedeva al Tribunale di Oslo di giudicarlo sommariamente, in base alla confessione del secondo ricorrente medesimo. Il 5 dicembre 2008, data in cui l’ufficio delle imposte ordinava al secondo ricorrente, in base al procedimento, di versare tale ammontare, oltre alla maggiorazione delle imposte in questione, la procedura penale risultava trovarsi in uno stato avanzato.
Così come si può vedere dagli elementi precedenti, prosegue il Collegio, a seguito della denuncia presentata dal fisco alla polizia nell’autunno 2007 e della decisione di imporre una maggiorazione delle imposte del 5 dicembre 2008, la procedura penale e la procedura fiscale sono state condotte in parallelo e connesse. Tale situazione appare simile a quella del primo ricorrente.
E’ vero, così come rilevato dalla Corte d’Appello, che il periodo di nove mesi che separa la data in cui la decisione presa dal fisco (5 dicembre 2008) è divenuta definitiva dalla data della condanna del Tribunale di Oslo del secondo ricorrente (30 settembre 2009), risultava essere un po’ più lungo del periodo di due mesi e mezzo trascorso nel processo del primo ricorrente. Ciononostante, così come è stato indicato dalla Corte d’Appello, ciò si spiega con la ritrattazione del secondo ricorrente nel febbraio 2009, in conseguenza della quale era stato necessario indagarlo nuovamente il 29 maggio 2009 e giudicarlo nell’ambito di un processo contraddittorio ordinario. Tale circostanza, risultato di un repentino cambio di opinione del secondo ricorrente, non sarebbe stata sufficiente da sola a rompere il nesso temporale che univa la procedura fiscale alla procedura penale.
In particolare, il lasso di tempo supplementare che era trascorso prima dell’udienza penale non sarebbe risultato sproporzionato o irragionevole, tenuto conto della causa. E ciò che risulta significativo è il fatto che, come per il primo ricorrente, la maggiorazione di imposte era stata presa in considerazione dal giudice competente nel fissare la pena del processo penale.
Di conseguenza, trattandosi del secondo ricorrente, la Corte non ha ragione di mettere in dubbio i motivi per i quali le autorità norvegesi abbiano scelto di reprimere tramite una procedura mista (amministrativa e penale) integrata il comportamento reprensibile di cui è causa. La possibilità di un cumulo di differenti pene era sicuramente prevedibile date le circostanze. La procedura amministrativa e la procedura penale sono state condotte in buona parte in parallelo e sono state connesse. Inoltre, i fatti stabiliti nell’ambito di una di tali procedure sono stati ripresi nell’altra e, considerando la proporzionalità della pena globale, la sanzione penale è stata fissata tenendo conto della sanzione amministrativa.
Tenuto conto dei fatti portati a conoscenza, la Corte conclude che nulla indica che il secondo ricorrente abbia subito un pregiudizio sproporzionato o un’ingiustizia in conseguenza della risposta giuridica integrata, da lui denunciata, apportata nell’assenza di una relativa dichiarazione degli introiti e al mancato pagamento di alcune imposte.
Inoltre, riguardo alle considerazioni esposte precedentemente, la Corte conclude che esiste un nesso tra la decisione di maggiorazione delle imposte e l’ulteriore condanna penale, sia materiale che temporale, sufficientemente stretto da considerare che tali misure si iscrivano nel meccanismo integrato delle sanzioni previsto dal diritto norvegese, nel caso in cui un’omissione di informazioni in una dichiarazione fiscale conduca ad un errore nella base imponibile.
Considerato ciò che precede, si può concludere per la Corte che nessuno dei due ricorrenti è stato “incriminato o punito penalmente (…) in base ad un’infrazione per la quale era già stato assolto o condannato in un giudizio definitivo”, in base all’Articolo 4 del Protocollo n.7. La Corte conclude dunque nel senso di non individuare alcuna violazione di tale previsione nei casi presentati da entrambi i ricorrenti, con evidente rimodulazione “in malam partem” rispetto a quanto in precedenza affermato nel caso Grande Stevens.
2017
Il 24 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.43, che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Como, in tema di sanzioni amministrative “para-penali” e c.d. retroattività in mitius.
La Corte rammenta preliminarmente come l’impugnato art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 preveda una deroga all’intangibilità del giudicato per i casi in cui una sentenza di condanna sia stata pronunciata in applicazione di una norma dichiarata costituzionalmente illegittima. Il principio della retroattività degli effetti delle pronunce di illegittimità costituzionale di cui al terzo comma del medesimo articolo – che, come la Corte medesima ha più volte ribadito, «è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte» (da ultimo, sentenza n. 10 del 2015) – si estende oltre il limite dei rapporti esauriti nel solo ambito penale, in considerazione della gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri interessi fondamentali della persona.
Sulla base di queste ragioni, la Corte di cassazione penale – prosegue la Corte – ha recentemente adottato una interpretazione ampia dell’art. 30, quarto comma, qui in discussione, chiarendo che esso riguarda le ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale tanto delle norme incriminatrici – che determinano una vera e propria abolitio criminis – quanto delle norme penali che incidono sul quantum del trattamento sanzionatorio.
Ponendo fine a un contrasto interpretativo sul punto, a partire da alcune sentenze pronunciate a sezioni unite nel 2014 (sentenza 24 ottobre 2013, n. 18821; sentenza 29 maggio 2014, n. 42858), la Corte di cassazione ha ritenuto che la ratio dell’art. 30, quarto comma, sia quella di impedire che venga ingiustamente sofferta una sanzione penale che, per quanto inflitta con sentenza irrevocabile, sia basata su una norma successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima: ciò in virtù del principio per cui la conformità della pena alla legge deve essere costantemente garantita, dal momento della relativa irrogazione fino al termine della sua esecuzione.
Di qui, le ragioni del superamento del precedente orientamento – ancora recentemente ribadito (tra le altre, sentenza della Corte di cassazione, I sezione penale, 19 gennaio 2012, n. 27640) – che circoscriveva l’ambito di applicazione dell’art. 30, quarto comma, alle sole norme penali incriminatrici.
Anche la Corte afferma di avere in diverse occasioni riscontrato nell’ordinamento nazionale l’esistenza di ipotesi di flessibilità del principio della intangibilità del giudicato (sentenza n. 210 del 2013), necessarie a garantire la tutela di valori di rango costituzionale, legati in particolare ai diritti fondamentali della persona del condannato.
Sulla scorta di tale riconoscimento, la Corte ha ritenuto non implausibile l’interpretazione della Corte di cassazione che ha esteso l’applicabilità dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 alle norme penali sanzionatorie (sentenze n. 57 del 2016 e n. 210 del 2013).
Viceversa, ha lasciato del tutto impregiudicata (come si evince dalla sentenza n. 102 del 2016) la questione, sollevata dal rimettente, della ulteriore estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 30, quarto comma, alle norme che prevedono sanzioni amministrative considerate come sostanzialmente penali, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Il Collegio osserva che le ragioni addotte a sostegno della questione ora in esame traggono origine dalla adozione, da parte del giudice rimettente, della più ampia portata della nozione di “sanzione penale” elaborata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto a quella vigente nell’ordinamento italiano.
La qualificazione giuridica formalmente attribuita a una sanzione dall’ordinamento nazionale è, per la Corte europea, solo uno degli indicatori di cui tener conto per stabilire l’ambito e il confine della materia penale. Ciò che per il diritto interno non è pena, può invece esserlo per la giurisprudenza sovranazionale. Ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione, sono infatti riconducibili alla materia penale (secondo quanto affermato a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, par. 82) tutte quelle sanzioni che, pur se non qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali, sono rivolte alla generalità dei consociati; perseguono uno scopo non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo; hanno una connotazione afflittiva, potendo raggiungere un rilevante grado di severità.
Alla luce di tali criteri, che si applicano alternativamente e non cumulativamente (come recentemente ribadito nella sentenza della Corte Edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, par. 94), il giudice rimettente ritiene che alle sanzioni amministrative di cui all’art. 18-bis, comma 4, del d.lgs. n. 66 del 2003 debba essere riconosciuta natura sostanzialmente penale, benché manchi, allo stato, una pronuncia della Corte europea che, con specifico riferimento alle suddette sanzioni, si sia espressa in tal senso.
Infatti, il giudice a quo evidenzia che la disposizione da ultimo citata, rivolta alla generalità dei consociati, mira alla prevenzione e alla punizione dello sfruttamento del lavoro, a tutela dell’interesse dei lavoratori, di sicuro rilievo costituzionale, e richiama a tal fine gli artt. 1, 4 e 36 Cost. Inoltre, sottolinea che la sanzione amministrativa astrattamente irrogabile per ogni violazione, in sé e per sé di ammontare elevato, può raggiungere, come avviene nel caso di specie, un importo considerevole, in conseguenza della moltiplicazione dell’importo ivi previsto in ragione del numero di giornate di violazione.
Di qui discenderebbe, secondo il rimettente, la natura “penale” ai sensi della CEDU della sanzione prevista dall’art. 18-bis, comma 4, del d.lgs. n. 66 del 2003 e, dunque, la questione di legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio.
La nozione di “sanzione penale” – chiosa ancora la Corte – appartiene al novero di quei concetti che la Corte di Strasburgo ha elaborato, autonomamente rispetto agli ordinamenti nazionali, al fine di dare interpretazione e applicazione alla Convenzione. La giurisprudenza sui cosiddetti “criteri Engel”, come è risaputo, si è sviluppata al fine di «scongiurare che i vasti processi di decriminalizzazione, avviati dagli Stati aderenti fin dagli anni 60 del secolo scorso, potessero avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania)» (sentenza n. 49 del 2015).
L’attrazione di una sanzione amministrativa nell’ambito della materia penale in virtù dei menzionati criteri trascina, dunque, con sé tutte e soltanto le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione, come elaborate dalla Corte di Strasburgo. Rimane, invece, nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato aderente la definizione dell’ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale, in sé e per sé valevoli per i soli precetti e le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera espressione della potestà punitiva dello Stato, secondo i propri criteri. Ciò, del resto, corrisponde alla natura della Convenzione europea e del sistema di garanzie da essa approntato, volto a garantire una soglia minima di tutela comune, in funzione sussidiaria rispetto alle garanzie assicurate dalle Costituzioni nazionali.
Detto diversamente, ciò che per la giurisprudenza europea ha natura “penale” deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la “materia penale”; mentre solo ciò che è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presídi rinvenibili nella legislazione interna.
Occorre innanzitutto verificare, prosegue il Collegio, se nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sia reperibile un principio analogo a quello previsto dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, volto a precludere l’esecuzione di una sanzione sostanzialmente penale, anche se inflitta con sentenza irrevocabile, qualora la norma che la prevedeva sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima o altrimenti invalida ex tunc.
Ad avviso del giudice rimettente, il «principio di legalità penale» di cui all’art. 7 CEDU non tollera sanzioni basate su norme illegittime, sicché «la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma sanzionatrice comporta il venir meno, ex tunc, della base legale (legal basis) della sanzione comminata e la sua illegittimità ai sensi dell’art. 7 CEDU».
Invero, prosegue tuttavia la Corte, dalla giurisprudenza della Corte Edu non si evince, allo stato, una tale affermazione. Il concetto di base legale convenzionale, definito dalla Corte di Strasburgo in maniera autonoma rispetto agli ordinamenti degli Stati aderenti, è stato infatti per lo più inteso in riferimento ai requisiti di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale (Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna; in senso conforme, sentenze 27 gennaio 2015, Rohlena contro Repubblica Ceca, e 14 aprile 2015, Contrada contro Italia), sia quello scritto che quello di matrice giurisprudenziale (Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 marzo 2012, Huhtamäki contro Finlandia).
La stessa giurisprudenza richiamata dal giudice a quo – Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 marzo 2001, Streletz, Kessler e Krenz contro Germania; 22 marzo 2001, K.-H.W. contro Germania; 3 maggio 2007, Custers, Deveaux e Turkcontro Danimarca – non sembra conferente, né idonea a fornire spunti contrari. Non risultano pertinenti le prime due pronunce, in quanto a essere espressamente considerate prive di base legale non erano in esse le norme sanzionatorie, di rango costituzionale e ordinario, in vigore al momento dei fatti, bensì una prassi statale, invocata dai ricorrenti come causa di giustificazione rispetto alla violazione di divieti discendenti dal codice penale e dalla Costituzione dell’allora Repubblica Democratica Tedesca, oltre che da norme di trattati internazionali sui diritti dell’uomo ratificati dalla stessa ex RDT (il riferimento era alla prassi di protezione del confine “ad ogni costo”, invalsa tra le guardie di frontiera dell’allora Repubblica Democratica Tedesca nei confronti di quanti tentavano di superare illegalmente la frontiera all’epoca del muro di Berlino).
Non è idonea a fornire spunti contrari neppure l’ultima decisione menzionata, in quanto il caso non riguardava in alcun modo sanzioni inflitte sulla base di norme costituzionalmente illegittime: la Corte di Strasburgo, rigettando le argomentazioni dei ricorrenti (attivisti di un’associazione ambientalista), ha ritenuto che le norme sulla cui base erano stati condannati, per avere violato il divieto di ingresso in zone militari, non erano prive di base legale e rispondevano ai requisiti di accessibilità e prevedibilità di cui all’art. 7 della CEDU.
La diversità delle situazioni allora trattate rispetto al caso di specie evidenzia, dunque, l’inconferenza della giurisprudenza richiamata a sostegno della questione di costituzionalità portata davanti alla Corte.
Quanto alla dimensione temporale del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU, la giurisprudenza europea è intervenuta solo sotto il profilo della successione delle leggi nel tempo. In questa prospettiva, fino ad epoca recente, la Corte europea ha ritenuto che la garanzia riguardasse solo il divieto di retroattività delle norme incriminatrici e della sanzione più sfavorevole. A partire dalla sentenza Scoppola contro Italia (Corte europea dei diritti dell’uomo, 17 settembre 2009), la Grande Camera, attraverso una interpretazione evolutiva, ha poi ampliato la sfera delle garanzie coperte dallo stesso art. 7, affermando che esso include anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa, senza però che sia intaccato il valore del giudicato. Sulla scorta di tale giurisprudenza, detto principio è stato richiamato e ribadito anche dalla Corte nelle sentenze n. 230 del 2012 e n. 236 del 2011.
Anche nei casi, più recenti (Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 gennaio 2016, Gouarré Patte contro Andorra, e 12 luglio 2016, Ruban contro Ucraina), in cui alla Corte di Strasburgo si è posto il problema dell’applicabilità retroattiva di una norma penale più favorevole quando la condanna era già divenuta definitiva, essa ha affermato che l’eventuale cedevolezza del giudicato rispetto alla lex mitior è consentita in quanto prevista dall’ordinamento interno e non in quanto imposta dall’art. 7 della CEDU.
Inoltre, prosegue la Corte, nemmeno la giurisprudenza europea sulla problematica distinzione tra norme sulla pena, che rientrano nella portata dell’art. 7 della CEDU, e norme sulla esecuzione e sulla applicazione della pena, che ne fuoriescono (Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia, par. 51; 3 marzo 1986, Hogben contro Regno unito, par. 4, richiamata da 29 novembre 2005, Uttley contro Regno Unito; e più recentemente, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna), contiene indicazioni circa i limiti alla efficacia del giudicato nei termini in cui la questione è ora portata all’attenzione di questa Corte.
In sintesi, nella giurisprudenza della Corte europea non si rinviene, allo stato, alcuna affermazione che esplicitamente o implicitamente possa avvalorare l’interpretazione dell’art. 7 della CEDU nel significato elaborato dal giudice rimettente, tale da esigere che gli Stati aderenti sacrifichino il principio dell’intangibilità del giudicato nel caso di sanzioni amministrative inflitte sulla base di norme successivamente dichiarate costituzionalmente illegittime. Ne consegue la non fondatezza della denunciata violazione degli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, primo comma, Cost.
La questione – chiosa ancora la Corte – non è fondata neppure in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 3 Cost. L’intervento additivo richiesto dal giudice rimettente di estendere la portata applicativa della disposizione censurata anche alle ipotesi di sanzioni che, seppur qualificate come amministrative dal diritto interno, assumono natura convenzionalmente penale, poggia su un erroneo presupposto: ossia, che le garanzie previste dal diritto interno per la pena – tra le quali lo stesso art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 nell’interpretazione consolidatasi nel diritto vivente – debbano valere anche per le sanzioni amministrative, qualora esse siano qualificabili come sostanzialmente penali ai (soli) fini dell’ordinamento convenzionale.
Viceversa, come il Collegio ha rilevato poco sopra, l’ordinamento nazionale può apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle convenzionali, riservandole alle sole sanzioni penali, così come qualificate dall’ordinamento interno. In tale contesto di coesistenza, e non di assimilazione, tra le garanzie interne e quelle convenzionali, si pone dunque la peculiare tutela di cui all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, e la relativa applicazione alle sole ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di norme penali, e non anche di norme amministrative.
La portata dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, è stata estesa dalla consolidata giurisprudenza di legittimità includendovi anche le norme penali sanzionatorie, in un sistema normativo che prevede una fase esecutiva della sanzione, non ancora esaurita al momento della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale. In un tale contesto, garante della legalità della pena è il giudice dell’esecuzione, cui compete di ricondurre la pena inflitta a legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 maggio 2014, n. 42858). Evidente risulta la differenza rispetto alle sanzioni amministrative qui in discussione, in cui sia la loro comminatoria sia la relativa fase esecutiva obbediscono a principi affatto differenti, in cui il giudice preposto è investito della sola cognizione del titolo esecutivo. L’incomparabilità delle situazioni a confronto non solo comporta l’infondatezza della censura ex art. 3 Cost., ma evidenzia anche le ragioni di infondatezza della censura sollevata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.
È pur vero che la Corte ha, occasionalmente (sentenze n. 104 del 2014, n. 196 del 2010, richiamate dalla recente n. 276 del 2016), riferito il parametro di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. anche a misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto. Ma lo ha fatto limitatamente al contenuto essenziale del richiamato precetto costituzionale, in virtù del quale una misura «è applicabile soltanto se la legge che la prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sentenza n. 276 del 2016), e in riferimento a misure amministrative incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino.
Diverso è il problema, posto dalla odierna ordinanza di rimessione, dell’applicabilità alle sanzioni amministrative di tutte le garanzie previste dalla legge per le sanzioni penali. Nulla – chiosa la Corte – impedisce al legislatore di riservare alcune garanzie, come quelle previste dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, qualificato come tale dall’ordinamento interno. Sotto questo profilo deve, infatti, ricordarsi che la Corte ha, anche di recente, ribadito «l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale» (sentenza n. 49 del 2015), considerando legittima la mancata estensione agli illeciti amministrativi di taluni principi operanti nel diritto penale, sulla considerazione che «[t]ali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi» (sentenza n. 193 del 2016).
La qualificazione degli illeciti e la conseguente sfera delle garanzie, circoscritta ad alcuni settori dell’ordinamento ed esclusa per altri, risponde, dunque, a «scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati» (sentenza n. 193 del 2016), sindacabili dalla Corte solo laddove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio.
Per le ragioni sopra esposte deve per il Collegio essere dichiarata la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, sollevate in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
2018
Il 14 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.6993, che – sulla scia della sentenza della Corte EDU A. e B. c. Norvegia del 2016 – assume non fondata la violazione dell’art. 4 prot. 6 della Convenzione dei diritti dell’Uomo secondo l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia di cui al primo motivo di ricorso, in una fattispecie di doppia sanzione, amministrativa-tributaria e penale “pura”.
Il riconoscimento della garanzia del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, adottato nel novembre del 1984, reso esecutivo nell’ordinamento italiano con la legge 9 aprile 1990, n. 98, è espressione di una garanzia per il cittadino e cioè che nessuno possa essere nuovamente processato o punito per un reato in relazione al quale, nella giurisdizione del medesimo Stato, sia stato assolto o condannato a seguito di sentenza divenuta definitiva.
Il principio affermato con riguardo alla materia penale e all’irrogazione delle sanzioni definite dalla legge «penali», come sancito nell’ordinamento interno all’art. 649 cod.proc.pen., è stato progressivamente esteso anche ai casi di sanzioni che pur non formalmente penali sono state ritenute tali, secondo i criteri Engel, per il contenuto afflittivo dalla giurisprudenza della Corte Edu. L’evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu, ha, infatti, esteso la garanzia convenzionale anche nei casi di sanzioni irrogata avanti ad autorità diverse ed aventi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel e, per quanto qui di interesse, ha riconosciuto la garanzia convenzionale nei casi di irrogazione di una sanzione amministrativa per lo stesso fatto, avente natura sostanzialmente penale, in presenza di doppio binario sanzionatorio in materia tributaria.
Di recente – prosegue ancora la Corte – e per quanto strettamente rilevante ai fini della decisione, la Corte Edu ha avuto modo di precisare il perimetro della garanzia convenzionale del divieto di un secondo giudizio, in ambito tributario, con la decisione A. e B. Norvegia. La Corte EDU (grande Camera), con la sentenza del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, ha, infatti, affermato che non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella specie pari al 30% dell’imposta evasa), purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta“.
La Corte di Strasburgo ha, così, chiarito che in linea di principio l’art. 4 prot. 7 CEDU non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive (come l’evasione fiscale) che si articoli – nella cornice di un approccio unitario e coerente – attraverso procedimenti distinti, purché le plurime risposte sanzionatorie non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato, con il conseguente onere per la Corte di verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato comporti una violazione del divieto di ne bis in idem, oppure sia, al contrario il “prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria” (§ 122).
Non sarebbe, infatti, possibile dedurre dall’art. 4 prot. 7 un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa (ancorché qualificabile come “sostanzialmente penale” ai fini delle garanzie dell’equo processo) per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura “amministrativa” (§ 123).
Nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli collettivi, la Corte ha dunque valorizzato il criterio della “sufficiently close connection in substance and time” ricavato da parte della propria precedente giurisprudenza (§ 125). Secondo la Corte EDU, la disposizione convenzionale non esclude lo svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta, e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili (§ 130), verificando gli scopi delle diverse sanzioni e dei profili della condotta considerati, la prevedibilità della duplicità delle sanzioni e dei procedimenti, i correttivi adottati per evitare “per quanto possibile” duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova e, soprattutto la proporzionalità complessiva della pena (§ 133).
Nel caso in esame – riprende a questo punto la Corte – deve escludersi, alla luce degli orientamenti interpretativi espressi dalla giurisprudenza della Corte Edu, la violazione dell’art.4 prot. 7 della Convenzione EDU sussistendo, quella stretta connessione temporale tra i due procedimenti che costituisce l’elemento per ritenere che le due sanzioni irrogate possano essere considerate quali parti di un unico sistema sanzionatorio adottato da uno Stato per sanzionare la commissione di un fatto illecito.
Ed infatti, risulta dagli atti che gli avvisi di accertamento e di contestazione, con i quali venivano mosse le contestazioni e irrogate le sanzioni datati 15 luglio 2014, sono stati notificati, a mezzo lettera raccomandata, nel luglio 2014 al S.; il procedimento di primo grado avanti al Tribunale di Bergamo si è concluso con la pronuncia della sentenza in data 2 dicembre 2014 (mentre il giudizio di appello in data 26 maggio 2015), sicché vi è stata contemporaneità dell’irrogazione della due sanzioni a pochi mesi di distanza e, pertanto, deve ritenersi una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra i due procedimenti sanzionatori.
Anche il richiamo all’art. 50 del TFUE e al principio convenzionale del ne bis in idem nel diritto della UE da parte della Corte di Giustizia non è fondato. Ed invero, le norme della Convenzione dei Diritti dell’Uomo si applicano sempre nell’interpretazione data dalla Corte Edu e, dunque, anche la Corte di Giustizia, in applicazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, che ingloba il diritto convenzionale nel diritto eurounitario, applica le norme convenzionali nell’interpretazione data dalla Corte Edu con la conseguenza che, tenuto conto dell’interpretazione sopra richiamata dalla recente pronuncia A. e B. c/ Norvegia, non ricorrono i presupposti per sollevare una questione pregiudiziale di compatibilità della norma interna ai sensi dell’art. 267 TFUE.
* * *
Il 2 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.43, che ordina nel caso di specie la restituzione degli atti al giudice a quo (Tribunale di Monza). La Corte premette che la lettera e la ratio dell’art. 649 cod. proc. pen. escludono che, in difetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale, tale disposizione (col divieto di bis in idem che essa reca seco) sia idonea a regolare il caso del giudizio a quo, come il rimettente ha posto in luce. La questione di legittimità costituzionale è perciò ammissibile, dato che è stata motivatamente e convincentemente esclusa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata (sentenze n. 253 del 2017, n. 36 del 2016 e n. 221 del 2015).
Tanto premesso, le disposizioni della CEDU e dei relativi protocolli addizionali vivono – chiosa il Collegio – nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata (sentenza n. 49 del 2015).
Adeguandosi ai principi così espressi dalla Corte, il rimettente ha collocato a base del dubbio di legittimità costituzionale una normativa interposta, ricostruita in forza dell’analisi della giurisprudenza europea disponibile alla data dell’ordinanza di rimessione, e ne ha colto correttamente il significato.
In particolare due sono i tratti peculiari del divieto di bis in idem che meritano qui di venire sottolineati alla luce di quella giurisprudenza e ai quali il rimettente si è doverosamente ritenuto legato.
Anzitutto il ne bis in idem convenzionale aveva, quando la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata, carattere tendenzialmente inderogabile, nel senso che la relativa efficacia non era mediata da apprezzamenti discrezionali del giudice in ordine alle concrete modalità di svolgimento dei procedimenti sanzionatori, ma si riconnetteva esclusivamente alla constatazione che un fatto, colto nella relativa componente naturalistica (cosiddetto idem factum), fosse già stato giudicato in via definitiva, con ciò impedendo l’avvio di un nuovo procedimento.
Sotto questo aspetto è vero che la Corte EDU aveva talvolta ritenuto conforme alla CEDU e all’art. 4 del relativo Protocollo n. 7 la conclusione di un secondo procedimento, nonostante il primo fosse già stato definito, a condizione che esistesse tra i due un legame materiale e temporale sufficientemente stretto.
Tuttavia, fino allo sviluppo di cui presto si dirà, si era trattato di un criterio di così sporadica applicazione da non poter in alcun modo contribuire a scolpire con univocità il significato della normativa interposta. Esso aveva infatti trovato esplicita manifestazione, nel senso di escludere il bis in idem, soltanto nei casi in cui la seconda sanzione costituiva una conseguenza, in sostanza automatica e necessitata, della condanna con cui era stata inflitta la prima pena: è l’ipotesi del ritiro in via amministrativa della patente di guida, a seguito della condanna penale per un reato legato alla circolazione stradale (Corte EDU, sentenza 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia; analogamente, sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia).
Del resto – prosegue il Collegio – altra parte della giurisprudenza europea si è esercitata sul tema in discussione nel medesimo periodo senza neppure menzionare il criterio del legame temporale e materiale tra i due procedimenti (ad esempio, grande camera, sentenza 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia; sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
In nessun caso, soprattutto, tale criterio avrebbe potuto estendersi al rapporto tra procedimento tributario e procedimento penale, quando, come accade nell’ordinamento italiano, entrambe le autorità chiamate in gioco sono tenute ad un autonomo apprezzamento dei fatti (Corte EDU, sentenza 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia; sentenza 20 maggio 2014, Nykänen contro Finlandia; sentenza 20 maggio 2014, Glantz contro Finlandia).
È perciò evidente che, perlomeno con riguardo al caso oggetto del giudizio a quo, non sarebbe stato conforme alla giurisprudenza europea valorizzare il legame temporale e materiale tra i procedimenti, al fine di escludere il bis in idem.
In secondo luogo il divieto convenzionale di bis in idem aveva, alla luce della giurisprudenza vigente al tempo dell’ordinanza di rimessione, natura esclusivamente processuale. L’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU permetteva «agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni», ma richiedeva che ciò avvenisse «in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro» (sentenza n. 102 del 2016). La tutela convenzionale basata su quella disposizione non richiedeva perciò alcun controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata, né, allo scopo di prevenire un trattamento sanzionatorio eccessivamente afflittivo, subordinava la quantificazione della pena inflitta per seconda a meccanismi compensativi rispetto alla sanzione divenuta definitiva per prima.
Sotto tale profilo, gli approdi della giurisprudenza di Strasburgo non coincidevano pienamente con quanto statuito dalla grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson. Nell’ambito del diritto dell’Unione, secondo quanto affermato da tale decisione, a fronte di un obbligo a carico dello Stato membro di repressione di certe condotte, l’efficacia del divieto di bis in idem basato sull’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, è subordinata ad una verifica sul carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo delle sanzioni applicate.
Qualora la risposta sanzionatoria fosse sotto tale verso inadeguata, il giudice potrebbe procedere nel secondo giudizio anche se il primo fosse già esaurito. Benché operante in malam partem, il limite all’efficacia del ne bis in idem così descritto apre la strada ad una valutazione sul peso combinato delle sanzioni applicabili in due separate sedi; valutazione che incrina la portata meramente processuale della regola.
Il divieto convenzionale di bis in idem, viceversa, escludeva, al pari di quello ricavabile nella materia penale dalla Costituzione (sentenza n. 200 del 2016), ogni valutazione di tale natura, operando su una sfera esclusivamente processuale.
Sulla base di questa premessa il rimettente, per decidere sulla sussistenza, o no, di un divieto di procedere nuovamente per lo stesso fatto, non aveva ragione di interrogarsi sulla misura della sanzione tributaria per rapportarla alla pena che avrebbe potuto applicare in caso di condanna dell’imputato.
In conclusione, il dubbio di legittimità costituzionale è stato correttamente formulato, assumendo a presupposto, in forza della giurisprudenza europea allora in essere, che il ne bis in idem convenzionale opera, nel rapporto tra accertamento tributario e accertamento penale, ogni qual volta sia stato definito uno dei relativi procedimenti.
La questione doveva perciò ritenersi rilevante, dato che, in seguito alla definitiva irrogazione di una sanzione convenzionalmente penale, il giudice a quo non avrebbe potuto procedere nel giudizio penale sul medesimo fatto senza affrontare il nodo del divieto imposto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia – precisa a questo punto la Corte – la grande camera della Corte di Strasburgo ha tuttavia impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. La rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficoltà presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, perché la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem.
Per alleviare tale inconveniente la Corte EDU ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza.
In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito.
Al contempo, si dovrà valutare anche se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto.
Con la sentenza A e B contro Norvegia, per quanto qui interessa, entrambi i presupposti intorno ai quali è stata costruita l’odierna questione di legittimità costituzionale sono per la Corte venuti meno.
Il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una “close connection” è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro.
Inoltre neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale abbia carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella relativa totalità non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante.
Così, ciò che il divieto di bis in idem ha perso in termini di garanzia individuale, a causa dell’attenuazione del relativo carattere inderogabile, viene compensato impedendo risposte punitive nel complesso sproporzionate.
È chiaro il carattere innovativo che la regola della sentenza A e B contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem, rispetto al quadro esistente al tempo dell’ordinanza di rimessione. In sintesi può dirsi che si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata.
Questa svolta giurisprudenziale appare alla Corte potenzialmente produttiva di effetti con riguardo al rapporto tra procedimento tributario e procedimento penale.
In precedenza, come si è visto, l’autonomia dell’uno rispetto all’altro escludeva in radice che essi potessero sottrarsi al divieto di bis in idem. Oggi, pur dovendosi prendere in considerazione il loro grado di coordinamento probatorio, al fine di ravvisare il legame materiale, vi è la possibilità che in concreto gli stessi siano ritenuti sufficientemente connessi, in modo da far escludere l’applicazione del divieto di bis in idem, come testimonia la stessa sentenza A e B contro Norvegia, che proprio a tali procedimenti si riferisce.
Naturalmente la decisione non può che passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede. Infatti, sebbene possa affermarsi in termini astratti che la configurazione normativa dei procedimenti è in grado per alcuni aspetti di integrare una “close connection”, vi sono altri aspetti che restano necessariamente consegnati alla peculiare dinamica con cui le vicende procedimentali si sono atteggiate nel caso concreto.
Il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, comporta per la Corte la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale (ordinanza n. 150 del 2012). Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’art. 649 cod. proc. pen., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.
La Corte tiene a sottolineare che la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende meno probabile l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali.
Resta perciò attuale l’invito al legislatore a «stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni» che il sistema del cosiddetto doppio binario «genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU» (sentenza n. 102 del 2016).
* * *
Il 20 marzo escono le sentenze della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE in cause C-524/15, Menci, C-537/16, Gardsson RealEstate e altri, C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca, che prendono posizione sulla compatibilità con il diritto euro unitario del meccanismo di “doppio binario” sanzionatorio, penale ed amministrativo, vigente in Italia con riguardo a talune fattispecie; ciò per la prima volta dopo la nota pronuncia della Corte EDU del 2016 nel caso A. e B. c. Norvegia.
A parere del supremo giudice dell’Unione, la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE non si verifica: a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione. La sostanziale coincidenza di tali criteri rispetto a quelli enunciati dalla Corte di Strasburgo è, del resto, espressamente sottolineata dalla Corte di giustizia, che richiama il principio generale, posto dall’art. 52, paragrafo 1, CDFUE, dell’equivalenza delle tutele assicurate dalla Carta rispetto a quelle approntate dalla CEDU e dai relativi protocolli (sentenza Menci, paragrafi 61-62).
La verifica circa il rispetto di tali requisiti — chiosa ancora la Corte — spetta al giudice nazionale, che potrà, ovviamente, valersi dello strumento del rinvio pregiudiziale al fine di agevolare la propria opera interpretativa.
Alla luce dei criteri appena rammentati, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza Menci, conclude nel senso che la disciplina italiana in materia di omesso versamento di IVA, riservando la perseguibilità in sede penale alle sole violazioni superiori a determinate soglie di imposta evasa e attribuendo tra l’altro rilevanza, in sede penale, al volontario pagamento del debito tributario e delle sanzioni amministrative, appare conformata in modo tale da «garantire» – sia pure «con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio» – che «il cumulo di procedimenti e di sanzioni che essa autorizza non eccede quanto è strettamente necessario ai fini della realizzazione dell’obiettivo» di assicurare l’integrale riscossione dell’IVA (paragrafo 57).
In tal modo, la Corte di giustizia da un lato suggerisce al giudice del procedimento principale che il complessivo regime sanzionatorio e procedimentale previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento di IVA non si pone in contrasto, (astrattamente e) in linea generale, con il ne bis in idem riconosciuto dalla Carta, pur facendo salva la diversa conclusione cui il giudice del rinvio dovesse (in concreto) pervenire in applicazione dei criteri enunciati in via generale dalla Corte; e, dall’altro, affida allo stesso giudice nazionale il compito di verificare che, nel caso concreto, «l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso» (sentenza Menci, paragrafo 64).
Per la Corte di Giustizia dunque sia il concetto di “sanzione penale” che quello di “medesimo fatto” vengono assunti con lo stesso significato loro attribuito dalla Corte EDU, dovendo la prima (sanzione penale) essere necessariamente afflittiva ed il secondo (medesimo fatto) qualificato come tale sulla base della relativa connotazione storica ed a prescindere da qualunque qualificazione giuridica.
Ancora, per la Corte il cumulo di sanzioni “sostanzialmente penali” relative al medesimo fatto storico non può assumersi di per sé quale violazione del divieto di bis in idem europeo, configurandosi piuttosto quale semplice limitazione al pertinente diritto dell’incolpato, ammissibile nella misura in cui rispetti i requisiti dettati dall’art. 52 della Carta di Nizza, alla cui stregua eventuali “limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà” riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà, nel rispetto del principio di proporzionalità potendo essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e l libertà altrui.
La Corte conclude – in causa “Menci” – nel senso onde l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta entro i termini di legge, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale ai sensi del citato articolo 50, purché siffatta normativa: – sia volta ad un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari; – contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e – preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia imitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti.
Nella causa Di Puma poi, muovendo dalla chiara «finalità repressiva» della sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (in tema di illeciti finanziari) e del relativo «elevato carico di severità», la Corte ne afferma la natura «penale» ai sensi dell’art. 50 CDFUE.
* * *
Il 18 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.21997 alla cui stregua, in caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino soggetto anche alla giurisdizione ecclesiastica della Santa Sede – con la quale non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina di cui all’art. 11 c.p. (rinnovo del giudizio a carico di chi sia già stato giudicato da uno Stato estero) – il processo canonico innanzi agli organi della giurisdizione ecclesiastica non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo quello del “ne bis in idem” additabile quale principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno.
Nel caso di specie un sacerdote, imputato del delitto di violenza sessuale in danno di due ragazzi, è stato già assoggettato per il medesimo fatto alla sanzione massima della dismissione dallo stato clericale, di natura sostanzialmente penale in base al codice canonico; il Collegio conferma quanto disposto dalla sentenza di merito impugnata, laddove essa ha escluso l’applicabilità del principio del “ne bis in idem”, non configurandosi tra Italia e Santa Sede accordi bilaterali che deroghino alla disciplina di cui all’art. 11 c.p., e non essendo applicabili né l’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, né tampoco l’art. 4 protocollo n. 7 della CEDU, non avendo la Santa Sede aderito ad alcuno dei suddetti strumenti di diritto internazionale.
2019
Il 21 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.63, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).
La stessa pronuncia dichiara altresì, in via consequenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998; dichiara invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano.
Per il Collegio va premesso che – anche a prescindere dal rilievo che l’art. 49, paragrafo 1, CDFUE non è richiamato, nel caso di specie, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ove il giudice a quo ha inteso formulare in termini chiari e definitivi le questioni sottoposte all’esame della Corte – occorre ribadire – sulla scorta dei principi già affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 – che alla Corte medesima non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al relativo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.
Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, la Corte non può esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), e conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione, da ciò conseguendone l’ammissibilità, sotto questo profilo, delle questioni prospettate dal GO rimettente.
Prima di esaminare il merito di tali questioni, è peraltro necessario per il Collegio vagliare la possibile rilevanza nel giudizio a quo dello ius superveniens rappresentato dal d.lgs. n. 107 del 2018 il cui art. 4, comma 9, ha nuovamente modificato il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, in particolare tenendo fermo il minimo edittale di ventimila euro, ma innalzando il massimo da tre a cinque milioni di euro, salva la possibilità di ulteriori aumenti nei casi previsti dal comma 5 dello stesso art. 187-bis. Nulla ha disposto, però, il legislatore del 2018 in merito all’applicazione nel tempo della nuova disciplina, facendo così ritenere che abbia inteso assegnarle efficacia soltanto per il futuro. Ciò esclude, per la Corte, che sia necessario restituire gli atti al giudice a quo.
Nel merito, per la Corte, le questioni ad essa sottoposte sono fondate, in relazione a entrambi i parametri invocati dal rimettente.
Il principio della retroattività della lex mitior in materia penale si appunta infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare di controinteressi di rango costituzionale. Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura “punitiva”. Le sanzioni amministrative previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 hanno natura “punitiva”, e rientrano come tali nell’ambito di applicazione del principio della retroattività in mitius.
La deroga alla retroattività in mitius stabilita dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, qui censurato, non supera il “vaglio positivo di ragionevolezza” ed è, pertanto, costituzionalmente illegittima, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in mitius apportate alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
Invero, secondo la costante giurisprudenza della Corte (sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. L’applicazione retroattiva della lex mitior non può, però, ritenersi imposta dall’art. 25, secondo comma, Cost., la cui ratio immediata è – in parte qua – quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto.
Una simile garanzia non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò «per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo» (sentenza n. 394 del 2006).
Cionondimeno, prosegue la Corte, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, «[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del 2011).
La riconduzione della retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però – chiosa la Corte – anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione.
Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale medesima «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (sentenza n. 236 del 2011).
Il criterio di valutazione della legittimità costituzionale di eventuali deroghe legislative alla retroattività della lex mitior in materia penale, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato oggetto di approfondita analisi da parte della Corte nella sentenza n. 393 del 2006. In quell’occasione, la Corte osservò che la retroattività in mitius della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea.
La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE. Ciò ha indotto la Corte a concludere che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo […]. Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (sentenza n. 393 del 2006).
In applicazione di tale criterio, la stessa sentenza n. 393 del 2006 giudicò non ragionevole, e pertanto costituzionalmente illegittima, la deroga alla retroattività delle modifiche più favorevoli, introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), alla disciplina della prescrizione del reato, con riferimento ai processi pendenti in primo grado in cui fosse stata già dichiarata l’apertura del dibattimento.
La successiva sentenza n. 72 del 2008 escluse invece l’incostituzionalità di tale deroga rispetto ai processi già pendenti in grado di appello, in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi di rango costituzionale dell’efficienza e della salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale, potenzialmente pregiudicati dalla dispersione delle attività processuali già svolte che sarebbe conseguita all’applicazione generalizzata dei nuovi e più brevi termini di prescrizione a processi già conclusi in primo grado.
La questione della legittimità costituzionale della deroga alla retroattività, per i processi pendenti in grado di appello, delle più favorevoli disposizioni in materia di prescrizione introdotte dalla legge n. 251 del 2005 tornò qualche anno più tardi all’esame della Corte, in ragione del fatto nuovo rappresentato dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Tale pronuncia aveva, per la prima volta, dedotto dall’art. 7 CEDU il principio secondo cui «se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato»; il che aveva indotto la Corte di cassazione a sollevare questione di legittimità costituzionale della medesima disciplina transitoria già giudicata legittima, quanto ai parametri allora dedotti, dalla sentenza n. 72 del 2008, sotto il profilo – questa volta – di un relativo possibile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, come interpretato dalla sentenza Scoppola.
Con la già menzionata sentenza n. 236 del 2011, la Corte affermò che – proprio in seguito alla sentenza Scoppola – il «principio di retroattività in mitius» ha, «attraverso l’art. 117, primo comma, Cost, acquistato un nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo»; aggiungendo, peraltro, che – anche nel prisma del diritto convenzionale – a tale principio non può riconoscersi carattere assoluto, ben potendo il legislatore «introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione».
La sentenza n. 236 del 2011 ritenne, per l’appunto, sussistere una simile valida giustificazione per la deroga legislativa alla retroattività in mitius sottoposta nuovamente al relativo esame; e ciò per le medesime ragioni che avevano condotto la sentenza n. 72 del 2008 a risolvere in senso positivo la questione della relativa compatibilità con l’art. 3 Cost.
La giurisprudenza costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio della retroattività della lex mitior in materia penale un duplice, e concorrente, fondamento. L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel cui alveo peraltro la sentenza n. 393 del 2006, in epoca immediatamente precedente alle sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, aveva già fatto confluire gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in quell’occasione come criteri interpretativi (sentenza n. 15 del 1996) delle stesse garanzie costituzionali.
L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (oltre alla sentenza Scoppola, Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; sentenza 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania; sentenza 12 gennaio 2016, Gouarré Patte contro Andorra; sentenza 12 luglio 2016, Ruban contro Ucraina), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost.
A tale pluralità di basi normative nel testo costituzionale fa, peraltro, da contraltare la comune ratio della garanzia in questione, identificabile in sostanza nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della relativa commissione.
Comune è altresì il limite della tutela assicurata, assieme, dalla Costituzione e dalle carte internazionali a tale garanzia: tutela che la giurisprudenza della Corte ritiene non assoluta, ma aperta a possibili deroghe, purché giustificabili al metro di quel «vaglio positivo di ragionevolezza» richiesto dalla sentenza n. 393 del 2006, in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco.
Se poi, ed eventualmente in che misura – prosegue la Corte – il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata funditus dalla sentenza n. 193 del 2016.
In quell’occasione, la Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia «mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale».
In difetto, pertanto, di alcun «vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative», la sentenza n. 193 del 2016 ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione della Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel».
Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior, nei limiti appena precisati – non potrà per il Collegio che estendersi anche a tali sanzioni.
A tale conclusione non osta l’assenza, sino a questo momento, di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Come la Corte ha avuto recentemente occasione di affermare, infatti, «è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo» (sentenza n. 68 del 2017).
L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento.
E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale.
Non v’è dubbio – prosegue la Corte venendo al caso di specie – che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 abbia natura punitiva, e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale, ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior.
La Corte dichiara di avere già avuto occasione di affermare, in due distinte occasioni, la natura sostanzialmente punitiva della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate (sentenze n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017); ma tale qualificazione deve necessariamente estendersi anche alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per il medesimo illecito, che qui viene immediatamente in considerazione.
Tale sanzione non può essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti. Si tratta, infatti, di sanzione dall’elevatissima carica afflittiva, che può giungere, oggi, sino a cinque milioni di euro (a loro volta elevabili sino al triplo ovvero al maggior importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate), e che è comunque sempre destinata, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a propria volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto.
Del resto, proprio in considerazione della «finalità repressiva» di questa sanzione amministrativa e del relativo «elevato carico di severità», la Corte di giustizia UE ha recentemente affermato la relativa natura «penale» ai sensi dell’art. 50 CDFUE (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38).
Resta, dunque, da verificare se la deroga, stabilita dalla disposizione in questa sede censurata, alla retroattività in mitius del più favorevole regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 (il cui principale effetto pratico, come più sopra evidenziato, consiste nella “dequintuplicazione” delle sanzioni amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del 1998) possa ritenersi legittima al metro del vaglio positivo di ragionevolezza di cui si è detto. A tale quesito non può tuttavia, per la Corte, che rispondersi negativamente.
Nella relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, in attuazione della legge n. 154 del 2014, il Governo dichiarò la propria intenzione di non introdurre nel decreto il principio del favor rei «sia per la sospetta irragionevolezza dell’introduzione di detto principio con riferimento solo ad alcune disposizioni, sia per evitarne l’applicazione a tutti i procedimenti ancora sub iudice», con conseguente «rischio di ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso».
La prima ragione è ictu oculi infondata: è semmai la mancata generalizzata previsione della retroattività delle modifiche sanzionatorie in melius a essere sospetta di irragionevolezza, e bisognosa pertanto di una specifica giustificazione in termini di necessità di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti. Tali controinteressi non possono, d’altra parte, identificarsi semplicemente nell’esigenza di evitare «ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso», posto che l’influenza della lex mitior sui procedimenti sanzionatori non ancora conclusi al momento della relativa entrata in vigore è la conseguenza necessaria del principio di retroattività della lex mitior stessa.
Né la scelta del legislatore di posporre l’entrata in vigore delle modifiche al regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 al momento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari della Banca d’Italia e della CONSOB appare essa stessa sorretta dalla finalità di tutelare cogenti controinteressi di rango costituzionale, di importanza assimilabile a quella che legittimò, nella valutazione delle citate sentenze n. 72 del 2008 e n. 236 del 2011, la deroga alla retroattività delle disposizioni più favorevoli in materia di prescrizione del reato introdotte dalla legge n. 251 del 2005 con riferimento ai giudizi pendenti in grado di appello (ove si trattava di evitare, per effetto della maturazione dei più brevi termini di prescrizione introdotti dalla nuova disciplina, la dispersione di tutte le attività processuali svolte nei giudizi già conclusi in primo grado, rispetto a fatti che continuavano a essere considerati come reato e a essere puniti con la medesima pena in vigore al momento della loro commissione).
I menzionati regolamenti della Banca d’Italia e della CONSOB, infatti, concernono pressoché esclusivamente la procedura di accertamento della sanzione, e non influiscono sulla configurazione degli illeciti, né – se non in misura marginalissima – sulla modalità di determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, che qui viene direttamente in considerazione.
Conseguentemente, la scelta del legislatore del 2015 di derogare alla retroattività dei nuovi e più favorevoli quadri sanzionatori risultanti dal d.lgs. n. 72 del 2015 sacrifica irragionevolmente il diritto degli autori dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore. Mutato apprezzamento che riflette, evidentemente, la consapevolezza del carattere non proporzionato di un minimo edittale di centomila euro.
Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve per la Corte essere estesa in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla mancata previsione – da parte del censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 – della retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle corrispondenti sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter (Manipolazione del mercato) del d.lgs. n. 58 del 1998.
Tale illecito è, infatti, corredato da un quadro sanzionatorio identico a quello previsto dall’art. 187-bis, rispondente esso pure a un’evidente logica punitiva, già riconosciuta come tale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, paragrafi 94-101), dalla Corte di giustizia UE (Grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson e altri, in causa C-537/16, paragrafi 34-35) e dalla stessa Corte di cassazione (sezione quinta civile, sentenza 30 ottobre 2018, n. 27564).
Anche rispetto alla disciplina sanzionatoria dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 187-ter, d’altra parte, la deroga al principio della retroattività della lex mitior apportata dal legislatore delegato non supera il vaglio positivo di ragionevolezza, per le medesime ragioni già evidenziate a proposito del parallelo illecito di cui all’art. 187-bis. Dal che, per l’appunto, la necessità di dichiarare la illegittimità costituzionale della disciplina transitoria dettata dalla disposizione censurata anche nella parte in cui essa esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in melius apportate alle sanzioni previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter.
* * *
Il 10 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.112, che – in materia di illeciti connessi al c.d. insider trading e di proporzionalità delle sanzioni amministrative – dispone preliminarmente la separazione del giudizio promosso dalla Corte di cassazione, sezione II civile, con l’ordinanza di remissione, riservando a separata pronuncia la decisione delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Ciò in quanto la Corte ritiene di dover promuovere, con separata ordinanza, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.
La Corte, nel medesimo tempo, dichiara invece l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; dichiara altresì, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.
In materia penale, la Corte rammenta in primis come la propria giurisprudenza consideri costituzionalmente illegittime pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
Sanzioni amministrative manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE. La confisca per equivalente del «prodotto» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d. lgs. n. 58 del 1998 e dei «beni utilizzati» per commetterli conduce per la Corte a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione.
Il rischio di eccessi punitivi conseguenti alla previsione dell’obbligatorietà della confisca del «prodotto» degli illeciti amministrativi in questione e dei «beni utilizzati» per commetterli era stato del resto da tempo rilevato dalla Corte e dalla stessa CONSOB, tanto che il legislatore – mediante la legge n. 163 del 2017 – aveva delegato il Governo a rivedere la disposizione ora censurata, prevedendo la confisca del solo «profitto» derivato dagli illeciti in questione. La dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua della disposizione censurata non è, d’altra parte, in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, che impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ricavato dagli illeciti in questione.
Come già si è osservato, prosegue la Corte, il nucleo essenziale delle censure sollevate dal giudice a quo concerne il carattere sproporzionato della sanzione costituita dalla confisca per equivalente del «prodotto» dell’illecito di insider trading e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e la correlativa, eccessiva incidenza del medesimo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.
La giurisprudenza della Corte ha avuto varie occasioni di confrontarsi con il quesito se, e in che limiti, sia possibile un sindacato di legittimità costituzionale sulle tipologie e sulla misura di sanzioni amministrative alla luce del criterio di proporzionalità della sanzione. Tuttavia, l’angolo visuale pressoché esclusivo dal quale tali questioni sono state affrontate è stato soltanto quello del divieto di automatismi legislativi nell’applicazione della sanzione medesima: divieto che costituisce soltanto uno dei profili che vengono in considerazione nella questione oggi all’esame della Corte stessa.
Numerose – e assai più variegate nella tipologia di valutazioni effettuate dal Collegio – sono, invece, le pronunce che concernono la parallela questione del sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale, sulla quale conviene per la Corte anzitutto brevemente soffermarsi, con ciò operandosi da parte del Collegio una sorta di parallelismo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative.
Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza della Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato. Tale discrezionalità si estende in linea di principio al quomodo così come al quantum della pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, secondo comma, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni giuridici presidiati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi.
Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso, che viene in questa sede in considerazione.
Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato, nella giurisprudenza della Corte, anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondano diverse reazioni sanzionatorie; con conseguente atteggiarsi del giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato attorno al confronto tra la previsione sanzionatoria censurata e quella apprestata per altra figura di reato di pari o addirittura maggiore gravità, assunta quale tertium comparationis (sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974, nonché – sotto il duplice profilo del contrasto con gli artt. 3 e 8 Cost. – sentenze n. 327 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997).
La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, terzo comma, Cost. – e in particolare del necessario orientamento alla rieducazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce la Corte (a partire dalle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere la Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016).
Ciò nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla relativa rieducazione (sentenza n. 68 del 2012).
Nella stessa ottica – prosegue la Corte – debbono, d’altra parte, essere lette le numerose pronunce che hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, del codice penale, in ragione dell’esigenza di evitare l’irrogazione in concreto di pene sproporzionate per eccesso, giusta divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del 2017, nn. 106 e 105 del 2014 e n. 251 del 2012).
La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 Cost. – è inoltre alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza della Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963).
Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla relativa concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.
Occorre a questo punto vagliare per il Collegio se, ed eventualmente in che limiti, tali principi possano essere ritenuti applicabili anche alla materia, che viene qui in considerazione, delle sanzioni amministrative.
La Corte afferma di avere esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente “punitivo” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale. Ciò è accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del 2019).
Una tale estensione non è avvenuta, invece, in relazione ai principi in materia di responsabilità penale stabiliti dall’art. 27 Cost. (sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013). Tali principi – a cominciare dalla necessaria funzione rieducativa della pena – appaiono infatti strettamente connessi alla logica della pena privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, attorno alla quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzionatorio penale, e che resta sempre più o meno direttamente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate pene di natura diversa, come rimedio di ultima istanza in caso di inadempimento degli obblighi da esse derivanti.
Cionondimeno, prosegue il Collegio, non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative. Come anticipato, la Corte ha già, in numerose occasioni, invocato tale principio – anche in relazione a misure delle quali veniva espressamente negata la natura “punitiva” (come nel caso deciso dalla sentenza n. 22 del 2018) – a fondamento di dichiarazioni di illegittimità costituzionale di automatismi sanzionatori, ritenuti non conformi al principio in questione proprio perché esso postula «l’adeguatezza della sanzione al caso concreto»; adeguatezza che «non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sentenza n. 161 del 2018; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 268 del 2016 e n. 170 del 2015).
Il principio di proporzionalità della sanzione possiede, peraltro, potenzialità applicative che eccedono l’orizzonte degli automatismi legislativi, come dimostra proprio la giurisprudenza relativa alla materia penale appena rammentata, e i cui principali approdi sono estensibili anche alla materia delle sanzioni amministrative, rispetto alla quale – peraltro – il principio in parola non trae la propria base normativa dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., bensì dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione.
Non erra, pertanto, il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto degli artt. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e nell’art. 17 CDFUE i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale.
A tali basi normative parrebbe altresì affiancarsi, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE. Ancorché il testo di tale disposizione faccia riferimento alle «pene» e al «reato», la Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente considerato applicabile tale principio all’insieme delle sanzioni – penali e amministrative, queste ultime anch’esse di carattere “punitivo” – irrogate in seguito alla commissione di un fatto di manipolazione del mercato, ai fini della verifica del rispetto del diverso principio del ne bis in idem (Corte di giustizia, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo 56).
Ciò in coerenza con la Spiegazione relativa all’art. 49 CDFUE, ove si chiarisce che «[i]l paragrafo 3 riprende il principio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità»: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di sanzioni amministrative applicate dalle istituzioni comunitarie.
Lo stesso art. 49, paragrafo 3, CDFUE è stato del resto recentemente invocato dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione a fondamento dell’affermazione secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente come i “punitive damages” eventualmente disposti da una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di proporzionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordinamento (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601).
La stessa giurisprudenza della Corte EDU ha, in alcune sentenze su cui ha giustamente richiamato l’attenzione la parte privata, ritenuto illegittime – al metro dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU – confische amministrative aventi ad oggetto l’intero ammontare di denaro che non era stato dichiarato alla dogana, e non soltanto l’importo dei diritti doganali evasi.
E ciò proprio in relazione al carattere manifestamente sproporzionato di simili misure rispetto ai pur legittimi fini perseguiti dallo Stato, in relazione alla concreta gravità degli illeciti che di volta in volta venivano in considerazione, tenuto conto anche del fatto che le misure ablative in questione si sommavano alle sanzioni pecuniarie irrogate per l’omessa dichiarazione delle somme (Corte EDU, sentenze 31 gennaio 2017, Boljević contro Croazia; 26 febbraio 2009, Grifhorst contro Francia, paragrafi 87 e seguenti; 5 febbraio 2009, Gabrić contro Croazia paragrafi 34 e seguenti; 9 luglio 2009, Moon contro Francia, paragrafi 46 e seguenti; 6 novembre 2008, Ismayilov contro Russia).
È, dunque, sulla base di tali principi che deve essere scrutinata la legittimità costituzionale della disposizione censurata, che impone la confisca alternativa, diretta o per equivalente, del «prodotto» o del «profitto» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d.lgs. n. 58 del 1998, oltre che dei «beni utilizzati» per commettere gli illeciti medesimi.
Secondo le consolidate coordinate penalistiche, delle quali il lessico utilizzato nella disposizione censurata è debitrice, «prodotto» di un illecito è «il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquistate mediante il reato» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 marzo 2008, n. 26654). In altre parole, costituiscono «prodotto» tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale, “derivano” dalla commissione dell’illecito medesimo. È pertanto «prodotto» del reato il documento contraffatto, il nastro contenente la registrazione di una conversazione illegittimamente intercettata, la cosa acquistata da chi ne conosceva l’origine delittuosa.
In questa logica, il «prodotto» di un illecito come l’abuso di informazioni privilegiate – che consiste, nel relativo nucleo essenziale, nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi possieda un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico potrebbe determinare una variazione del prezzo di tali strumenti – non può che essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 aprile 2018, n. 8590).
Il «profitto» è, invece, l’utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito. Nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo “guadagno” (in termini finanziari, la “plusvalenza”) ovvero, come nel caso di specie, il “risparmio di spesa” che l’agente abbia tratto dall’operazione.
Nelle ipotesi di vendita di strumenti finanziari sulla base di un’informazione privilegiata, il «profitto» conseguito non potrà invece che identificarsi nella “perdita evitata” in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti, conseguente alla diffusione dell’informazione medesima; e dunque andrà calcolato sulla base della differenza tra il corrispettivo ottenuto dalla vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore. Conclusione, questa, suggerita anche da un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, avuto riguardo in particolare al Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione: regolamento il cui art. 30, paragrafo 2, lettera b), impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere «la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati».
Quanto infine ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, in tema di abusi di mercato essi – lungi dal poter essere identificati nei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, come negli esempi di scuola del grimaldello o della stampante di monete false – non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore.
Da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del «profitto» ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del «prodotto» – identificato nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei «beni utilizzati» per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore.
Tali forme di confisca assumono pertanto una connotazione “punitiva”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.
Muovendo da questa prospettiva del resto, prosegue il Collegio, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente affermato la natura “punitiva” – e non meramente ripristinatoria – della misura, funzionalmente analoga a quella ora in considerazione, del «disgorgement» applicato dalla Security Exchange Commission (SEC) in materia di abusi di mercato; e ciò proprio in quanto tale misura – estendendosi all’intero risultato della transazione illecita – eccede, di regola, il valore del vantaggio economico che l’autore ha tratto dalla transazione stessa (Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza 5 giugno 2017, Kokesh contro Security Exchange Commission).
Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante) componente “punitiva” insita nella confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice edittale è essa pure di eccezionale severità, potendo giungere sino ad un massimo (oggi) di 5 milioni di euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di 10 volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito.
A giudizio della Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.
Simili risultati sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo, in cui l’autore di una condotta di insider trading è stato punito con una sanzione pecuniaria di 200.000 euro, che si è aggiunta alla confisca per equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di un’informazione privilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro, a fronte di un vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione. A conti fatti, la componente “punitiva” di tale complessiva sanzione – risultante dalla somma tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto tratto dall’operazione – è qui pari a circa tredici volte tale profitto: un coefficiente che non può che apparire manifestamente eccessivo rispetto ai legittimi scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che vieta l’insider trading.
Nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell’art 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 all’epoca sollevata, la Corte aveva del resto già riconosciuto che quello delle «conseguenze ultra modum che possono scaturire, in determinati contesti, dalla previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei beni strumentali alla commissione dell’illecito» costituisce un «problema in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore» (sentenza n. 252 del 2012), al quale tuttavia la Corte non ritenne in quell’occasione di poter porre direttamente rimedio in considerazione della peculiare formulazione del petitum allora sottopostole.
L’ammonimento della Corte non era sfuggito alla CONSOB, la quale – come giustamente rammentato dalla difesa della parte privata – aveva richiamato il legislatore, nella propria Relazione annuale per il 2012, all’opportunità di riformare «l’attuale disciplina della confisca obbligatoria (art. 187-sexies), suscettibile di rivelarsi […] particolarmente afflittiva e non proporzionata all’effettiva gravità dell’illecito accertato», auspicando l’introduzione di coefficienti di graduabilità del quantum della sanzione, in grado di assicurarne la commisurazione individualizzata in relazione alla gravità concreta dell’illecito medesimo.
A tale sollecitazione il legislatore ha in effetti risposto con la legge n. 163 del 2017, che, all’art. 8, comma 3, lettera g), ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 «in modo tale da assicurare l’adeguatezza della confisca, prevedendo che essa abbia ad oggetto, anche per equivalente, il profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014»: formulazione, questa, che non fa più alcuna menzione né del «prodotto» dell’illecito, né dei «beni utilizzati» per commetterlo, considerati evidentemente forieri di eccessi sanzionatori.
A fronte poi della predisposizione da parte del Governo di uno schema di decreto che eliminava bensì la previsione della confisca dei «beni utilizzati» per commettere l’illecito, ma non quella del «prodotto» dell’illecito medesimo, il Commissario della CONSOB, sentito il 17 luglio 2018 in audizione dalle Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera, auspicò l’accoglimento da parte del legislatore delegato della «posizione già espressa dal Parlamento e fatta propria dalla CONSOB», prevedendo «la confisca limitatamente al profitto delle violazioni in materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione, di cui agli artt. 187-bis e 187-ter» del d.lgs. 58 del 1998.
Il legislatore delegato non ha, tuttavia, accolto tale auspicio, riconfermando nel novellato art. 187-sexies del d. lgs. n. 58 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 107 del 2018, la confiscabilità tanto del «profitto» quanto del «prodotto» dell’illecito, con ciò riproponendo nella nuova disposizione i vizi che affliggevano quella previgente.
La diversa struttura dell’odierna questione di legittimità costituzionale rispetto a quella decisa con la menzionata sentenza n. 252 del 2012 consente, ora, alla Corte di porre rimedio a tali vizi di legittimità costituzionale, attraverso una pronuncia di carattere parzialmente ablativo in grado di ovviare alle conseguenze «ultra modum» che discendono dalla disciplina censurata.
Né – chiosa ancora il Collegio – l’odierna pronuncia incontra alcun ostacolo nel diritto dell’Unione europea, il quale non impone la confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo. Come anticipato, infatti, il vigente Regolamento n. 596/2014 richiede soltanto agli Stati membri – all’art. 30, paragrafo 2, lettera b) – di prevedere «la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati». Come risulta anche dalle diverse versioni linguistiche del testo («the disgorgement of the profits gained or losses avoided», in inglese; «la restitution de l’avantage retiré de cette violation ou des pertes qu’elle a permis d’éviter», in francese; «den Einzug der infolge des Verstoßes erzielten Gewinne oder vermiedene Verluste», in tedesco; «la restitución de los beneficios obtenidos o de las pérdidas evitadas», in spagnolo), il regolamento in parola allude senza equivoco al solo “vantaggio economico” (in termini di guadagno o di perdita evitata) ottenuto dal compimento di un’operazione in condizioni di asimmetria informativa e in violazione di un dovere di astensione – per effetto del possesso di un’informazione privilegiata – rispetto alla generalità degli operatori nel mercato degli strumenti finanziari.
Da quanto precede – conclude la Corte – consegue l’illegittimità costituzionale della previsione della confisca obbligatoria del «prodotto» dell’illecito amministrativo e dei «beni utilizzati» per commetterlo, in ragione del relativo contrasto con gli artt. 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE.
Il giudice a quo parrebbe, invero, circoscrivere il petitum alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della sola previsione della loro confisca per equivalente. Al riguardo, va tuttavia considerato per la Corte che l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in oggetto – esattamente posto in luce dall’ordinanza di rimessione – non dipende dal fatto che la misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di valore equivalente; quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di procedere alla confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo. Va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 187-sexies, del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e non del solo «profitto».
La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve poi essere estesa per la Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del d.lgs. n. 107 del 2018, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto» dell’illecito, e non del solo profitto, per contrasto con tutti i parametri invocati nell’ordinanza di rimessione.
Nonostante la già ricordata disposizione della legge delega n. 163 del 2017 (supra, punto 8.4.), che delegava il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 limitando l’oggetto della confisca ivi prevista al solo «profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014», il d.lgs. n. 107 del 2018 ha invece confermato la confisca obbligatoria, in via alternativa, del «profitto» o del «prodotto» dell’illecito, espungendo soltanto il riferimento ai «beni utilizzati» per commetterlo, presente nella versione previgente. In tal modo, il legislatore delegato ha riprodotto, seppure parzialmente, una disposizione che si espone ai medesimi vizi di legittimità costituzionale che affliggono la disciplina previgente. Anche tale disposizione deve pertanto essere dichiarata, in via consequenziale, costituzionalmente illegittima in parte qua.
* * *
Il 14 giugno viene varato il decreto legge n.53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica.
* * *
L’8 agosto viene varata la legge n.77, che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.53; dalla relativa nuova formulazione dell’art. 2, comma 1, affiora il nuovo comma 6.bis dell’art.12 del decreto legislativo 286.98 (in tema di immigrazione e soccorso a naufraghi), onde – salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale – il comandante di una nave e’ tenuto ad osservare la normativa internazionale e i divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai sensi dell’articolo 11, comma 1-ter ed in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, si applica al comandante della nave ridetto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 150.000 a euro 1.000.000, con responsabilità solidale di cui all’articolo 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che si estende all’armatore della nave.
E’ poi sempre disposta la confisca della nave utilizzata per commettere la violazione, procedendosi immediatamente a sequestro cautelare. A seguito di provvedimento definitivo di confisca, sono imputabili all’armatore e al proprietario della nave gli oneri di custodia delle imbarcazioni sottoposte a sequestro cautelare. All’irrogazione delle sanzioni, accertate dagli organi addetti al controllo, provvede il Prefetto territorialmente competente e si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.
All’atto della firma, il Presidente della Repubblica fa notare che – per effetto di un emendamento che ha modificato il decreto legge originario da lui firmato a giugno – la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 nel massimo, fino a un milione di euro per il comandante della nave che trasporta migranti.
Una pena che per il Capo dello Stato si profila sproporzionata, draconiana, con sanzione che non risulta peraltro più subordinata alla reiterazione della condotta; il decreto non ha poi introdotto alcun criterio che distingua tra le varie tipologie di navi.
Al Capo dello Stato non appare ragionevole – ai fini della sicurezza dei cittadini e della certezza del diritto – fare a meno di queste indicazioni e affidare alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità. Viene anche menzionata la recente sentenza della Corte costituzionale n.112 che afferma una pena così elevata essere paragonabile ad una sanzione penale, con la conseguenza onde il decreto non rispetta la necessaria proporzionalità tra sanzioni e pertinente comportamenti.
* * *
Il 24 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.222, ancora una volta in tema di doppio binario sanzionatorio con particolare riguardo alle fattispecie fiscali di omesso versamento dell’IVA; la pronuncia dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, e all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Bergamo con ordinanza all’uopo.
La censura fondamentale prospettata dal rimettente, che assume il contrasto dell’art. 649 cod. proc. pen. con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU (e implicitamente all’art. 50 CDFUE), è per la Corte inammissibile, dal momento che l’ordinanza di rimessione non chiarisce adeguatamente le ragioni per le quali non sarebbero soddisfatte nel caso di specie le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio per l’omesso versamento di IVA, così come enunciate dalla giurisprudenza europea evocata.
Il rimettente si limita infatti, precisa la Corte, a sottolineare la natura “punitiva” della sanzione amministrativa irrogata all’imputato ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, nonché l’identità storico-naturalistica del fatto (l’omesso versamento del debito IVA) astrattamente oggetto tanto di sanzione penale, quanto di sanzione amministrativa: circostanza, quest’ultima, che vale indubbiamente a distinguere l’illecito qui all’esame da quelli penalmente sanzionati dagli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 e 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, caratterizzati da condotte prodromiche o comunque diverse rispetto alla mera evasione del tributo.
Tuttavia, la recente giurisprudenza tanto della Corte EDU, quanto della Corte di giustizia dell’Unione europea, da cui il rimettente prende le mosse, non afferma affatto che la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa integri, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem.
Come già la Corte ha avuto modo di rammentare (sentenza n. 43 del 2018), infatti, nella citata sentenza A e B contro Norvegia la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti – amministrativo e penale – che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto; legame che deve essere ravvisato, in particolare: quando le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito.
Al contempo – come sottolineato ancora dalla sentenza n. 43 del 2018 – «si dovrà valutare», ai fini della verifica della possibile lesione dell’art 4 Prot. n. 7 CEDU, «se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto».
Ad approdi in larga misura analoghi è pervenuta la Grande sezione della Corte di giustizia, nelle 3 sentenze coeve del 20 marzo 2018 rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri, in cause C-596/16 e C-597/16, Di Puma e CONSOB, e in causa C-524/15, Menci, quest’ultima relativa alla materia tributaria e, come già rilevato, emessa proprio in seguito a rinvio pregiudiziale proposto dall’odierno giudice a quo, vale a dire dal Tribunale di Bergamo.
A parere del supremo giudice dell’Unione, infatti, la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE non si verifica a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione. La sostanziale coincidenza di tali criteri rispetto a quelli enunciati dalla Corte di Strasburgo è, del resto, espressamente sottolineata dalla Corte di giustizia, che richiama il principio generale, posto dall’art. 52, paragrafo 1, CDFUE, dell’equivalenza delle tutele assicurate dalla Carta rispetto a quelle approntate dalla CEDU e dei suoi protocolli (sentenza Menci, paragrafi 61-62).
Alla luce dei criteri appena rammentati, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza Menci, conclude nel senso che la disciplina italiana in materia di omesso versamento di IVA, riservando la perseguibilità in sede penale alle sole violazioni superiori a determinate soglie di imposta evasa e attribuendo tra l’altro rilevanza, in sede penale, al volontario pagamento del debito tributario e delle sanzioni amministrative, appare conformata in modo tale da «garantire» – sia pure «con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio» – che «il cumulo di procedimenti e di sanzioni che essa autorizza non eccede quanto è strettamente necessario ai fini della realizzazione dell’obiettivo» di assicurare l’integrale riscossione dell’IVA (paragrafo 57).
In tal modo, la Corte di giustizia da un lato suggerisce al giudice del procedimento principale che il complessivo regime sanzionatorio e procedimentale previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento di IVA non si pone in contrasto, in linea generale, con il ne bis in idem riconosciuto dalla Carta, pur facendo salva la diversa conclusione cui il giudice del rinvio dovesse pervenire in applicazione dei criteri enunciati in via generale dalla Corte; e, dall’altro, affida allo stesso giudice nazionale il compito di verificare che, nel caso concreto, «l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso» (sentenza Menci, paragrafo 64).
La questione sottoposta all’esame della Corte sottende, invece, un giudizio di radicale contrarietà al ne bis in idem – così come riconosciuto tanto dall’art. 4 Prot. n. 7, quanto dall’art. 50 CDFUE – dell’attuale sistema di “doppio binario” sanzionatorio e procedimentale, così come previsto in astratto dalla legislazione italiana in materia di omesso versamento di IVA; contrarietà che produrrebbe sempre e necessariamente la violazione del diritto in parola allorché il contribuente, già definitivamente sanzionato in via amministrativa, venga sottoposto a un procedimento penale per la medesima violazione.
Una simile conclusione – contraria, vale la pena di ribadire, a quella raggiunta dalla sentenza Menci, sia pure «con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio» – avrebbe però meritato per la Corte una più puntuale dimostrazione da parte del giudice a quo, alla luce dei criteri enunciati dalle due Corti europee nelle sentenze appena rammentate.
In merito anzitutto alle finalità delle due sanzioni – il primo dei criteri enunciati da entrambe le Corti europee –, l’ordinanza di rimessione si limita ad affermarne apoditticamente l’identità di scopo, senza però chiarire in particolare le ragioni per cui dovrebbe escludersi che la minaccia di una sanzione detentiva per l’evasione di importi IVA annui superiori – oggi – a 250.000 euro, in aggiunta a una sanzione amministrativa pecuniaria calcolata in misura percentuale rispetto all’importo evaso, possa perseguire i legittimi scopi di rafforzare l’effetto deterrente spiegato dalla mera previsione di quest’ultima, di esprimere la ferma riprovazione dell’ordinamento a fronte di condotte gravemente pregiudizievoli per gli interessi finanziari nazionali ed europei, nonché di assicurare ex post l’effettiva riscossione degli importi evasi da parte dell’Amministrazione grazie ai meccanismi premiali connessi all’integrale saldo del debito tributario.
Nessuna parola spende poi l’ordinanza di rimessione sul requisito – enunciato dalla Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia – della necessaria prevedibilità per l’interessato della duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni. Prevedibilità che è, peraltro, in re ipsa, dal momento che la legislazione italiana stabilisce chiaramente la sanzionabilità in via amministrativa della violazione ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 da un lato, e in via penale ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente – nella formulazione attuale – agli omessi versamenti di importo superiore ai 250.000 euro, dall’altro.
Il giudice a quo afferma sì l’eccessiva onerosità, per l’imputato del giudizio a quo, del cumulo tra procedimento amministrativo e procedimento penale – ciò che determinerebbe in effetti la violazione del ne bis in idem secondo la giurisprudenza di entrambe le Corti europee –, ma non fornisce alcuna plausibile motivazione dell’assunto.
Invero, l’ordinanza di rimessione si limita a richiamare gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 – relativi alla specialità tra sanzioni amministrative e penali, all’assenza di pregiudizialità tra procedimento amministrativo e procedimento penale, e alla sospensione dell’esecuzione delle sanzioni amministrative in pendenza di procedimento penale – per poi asserire che la disciplina in questione, non essendo idonea a inibire l’avvio o la prosecuzione del procedimento penale dopo la definitività della sanzione amministrativa, risulterebbe in contrasto con il ne bis in idem.
In tal modo, il giudice a quo trascura però di considerare che, secondo la giurisprudenza delle due Corti europee, l’eccessiva onerosità per l’interessato dei procedimenti amministrativo e penale deve essere esclusa allorché essi risultino avvinti da una stretta connessione sostanziale e temporale. In particolare, il rimettente omette di dare conto delle numerose disposizioni normative, ulteriori rispetto agli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000, che regolano i rapporti tra procedimento amministrativo e procedimento penale in materia tributaria.
Al di là di un fugace accenno all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, relativo alla causa di non punibilità costituita dalla volontaria estinzione del debito tributario e della sanzione amministrativa – nella specie non applicabile per mancato integrale pagamento di dette somme da parte dell’imputato –, il rimettente trascura di descrivere gli ulteriori istituti premiali introdotti dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), quali la concessione di termine per adempiere al pagamento del residuo debito tributario rateizzato (art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 74 del 2000) o gli effetti dell’adempimento del debito erariale sulla confisca (art. 12-bis del medesimo testo normativo), e di saggiarne la portata, in termini di introduzione di elementi di raccordo tra adempimento del debito tributario da un lato, e svolgimento ed esito del processo penale, dall’altro lato.
Neppure il giudice a quo si confronta con le disposizioni, estranee al corpus normativo del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevedono obblighi di comunicazione degli illeciti tributari da parte della Guardia di Finanza all’autorità giudiziaria (art. 331 cod. proc. pen.) e, specularmente, da parte dell’autorità giudiziaria alla Guardia di Finanza (art. 36 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, recante «Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi») e all’Agenzia delle entrate (art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza pubblica», come modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato»), miranti ad assicurare una sostanziale contestualità dell’avvio dell’accertamento tributario e di quello penale.
Non vengono, poi, considerate le disposizioni che consentono forme di circolazione del materiale probatorio raccolto dall’indagine penale all’accertamento tributario e viceversa (art. 63, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, recante «Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto», e art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e, specularmente, art. 220 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).
Nemmeno risulta richiamata la giurisprudenza relativa all’utilizzabilità del materiale istruttorio raccolto in ciascun procedimento, quale elemento di prova e fonte di convincimento da parte del giudice che istruisce l’altro procedimento (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 14 novembre 2012, n. 19859 e 20 marzo 2013, n. 6918, in relazione alla possibilità che gli elementi probatori acquisiti nel procedimento penale siano posti dal giudice tributario a base del proprio convincimento; sentenze 3 dicembre 2010, n. 24587 e 22 maggio 2015, n. 10578, relative alla possibilità che la sentenza penale irrevocabile, pur non spiegando efficacia di giudicato, possa essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario; nonché, per converso, sezione terza penale, sentenze 24 settembre 2008-21 ottobre 2008, n. 39358, 28 ottobre 2015-18 gennaio 2016, n. 1628 e 23 ottobre 2018-5 dicembre 2018, n. 54379, tutte relative alla possibilità che gli elementi probatori acquisiti nel processo tributario facciano ingresso nel processo penale, ex art. 234 o 238-bis cod. proc. pen., quali prove valutabili ai sensi degli artt. 187 e 192 cod. proc. pen.).
Ancora, il giudice a quo omette di spiegare per quale motivo l’irrogazione di una pena detentiva – destinata con ogni verosimiglianza, peraltro, a essere condizionalmente sospesa – risulterebbe sproporzionata rispetto alla gravità del reato (consistente, nella specie, nell’omissione del versamento di 282.495,76 euro dovuti a titolo di IVA), se combinata con la sanzione amministrativa già applicata (pari in concreto al 30 per cento dell’imposta evasa), con conseguente violazione del ne bis in idem nei confronti dell’imputato.
Nessun argomento spende, infine, il giudice a quo sulla questione della riconducibilità o meno delle sanzioni penali previste in materia di evasione di IVA al “nocciolo duro” del diritto penale, rispetto al quale – secondo la sentenza A e B contro Norvegia della Corte europea dei diritti dell’uomo – più rigoroso dovrebbe essere il vaglio di compatibilità del “doppio binario” sanzionatorio con la garanzia convenzionale del ne bis in idem.
Le segnalate lacune determinano per la Corte un’insufficiente motivazione tanto della non manifesta infondatezza della questione prospettata, quanto della pertinente rilevanza (in quest’ultimo senso, sentenza n. 43 del 2018).
Le censure formulate con riferimento all’art. 3 Cost. dipendono strettamente, nella rispettiva trama motivazionale, da quelle prospettate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU e all’art. 50 CDFUE. Nella prospettiva del rimettente, l’art. 649 cod. proc. pen. darebbe infatti luogo a una «disparità di trattamento» nonché a un «problema di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento» sostanzialmente per le medesime ragioni per le quali dovrebbe ravvisarsi l’incompatibilità tra la disposizione censurata e il ne bis in idem, alla luce delle indicazioni fornite dalla sentenza Menci.
La carente motivazione su tale ultima censura, poc’anzi sottolineata, non può che riverberarsi – conclude la Corte – sulle censure ex art. 3 Cost., declinate come ancillari rispetto alla prima, determinandone parimenti l’inammissibilità.
2020
Il 9 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 17506 che, richiamando il risalente insegnamento delle Sezioni Unite n. 8488 del 1998, ricordano che le sanzioni amministrative accessorie – a differenza di quelle definite dalla dottrina sanzioni “in senso stretto” (che assumono con primarietà la “punizione” del contravventore, come quelle pecuniarie) – assolvono direttamente o indirettamente una funzione “riparatoria” dell’interesse pubblico violato, e sono definite, perciò, “specifiche”, ovvero ripristinatorie, o interdittive. Queste sanzioni si affiancano alle pene criminali, quando il fatto considerato comporti offesa, ad un tempo, del valore tutelato dalla norma penale e dell’interesse pubblico a tale valore correlato. Tale sistema binario di deterrenza è volto a dare una risposta efficace, contemporaneamente repressiva e preventiva, rispetto a fatti poli-offensivi, ovvero dotati di una particolare pericolosità per la convivenza sociale e per gli interessi pubblici.
Partendo da tale postulato, afferma il Collegio che la natura amministrativa della sanzione non muta quando il potere di applicarla venga attribuito al giudice, giacché essa conserva i connotati che contraddistinguono la sua peculiare essenza, incentrata tutta sulla tutela di un interesse di spettanza della pubblica amministrazione.
Con particolare riferimento alla sanzione accessoria della revoca di patente, osserva altresì la Corte che la tesi da ultimo esposta trova ulteriore conferma nel fatto che quando la vis attractiva della competenza del giudice penale viene meno per estinzione del reato, la competenza rimane radicata in capo al prefetto. Viene cioè restituita all’amministrazione la legittimazione all’applicazione della sanzione.
Dunque, alla stregua dei parametri normativi di riferimento, presupposti e finalità delle sanzioni stradali accessorie c.d. interdittive escludono che ad esse possa essere attribuita la natura di pene accessorie o di effetto penale della sentenza di condanna.
* * *
Il 10 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 145 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), c.p.c., sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilisce: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».
L’art. 709-ter cod. proc. civ. demanda, nel primo comma, al giudice del procedimento in corso il potere di risolvere le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale ovvero alle modalità dell’affidamento. Tali “controversie” sono costituite da disaccordi e contrasti che insorgono di frequente tra i genitori quando si tratta di individuare le modalità attuative dell’affidamento, ossia le forme di esercizio della responsabilità genitoriale ogni qual volta sia stato pronunciato un provvedimento di affidamento.
Nelle ipotesi in cui vengano accertate, poi, gravi inadempienze rispetto agli obblighi contenuti nei provvedimenti sull’esercizio della potestà genitoriale o sull’affidamento della prole o, in alternativa, il compimento di atti che arrechino pregiudizio al minore ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il medesimo giudice può non soltanto modificare i provvedimenti in vigore, ma anche pronunciare, a carico del genitore inadempiente, le misure sanzionatorie di cui ai numeri da 1) a 4) della stessa disposizione.
Proprio da questi poteri demandati all’autorità giudiziaria dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. si evince che lo scopo principale della norma è quello di superare le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – in linea con le finalità generali della stessa legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso – anche ove tale diritto sia riconosciuto in un provvedimento di carattere giurisdizionale che disciplina le modalità di affidamento, per tutti gli aspetti diversi da quelli economici, e il diritto/dovere di visita del genitore non collocatario, ossia profili afferenti a obbligazioni complesse di carattere infungibile, incidenti su diritti di carattere non patrimoniale.
Le evidenziate difficoltà si correlavano soprattutto alla sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, da questa Corte (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico. Per queste ultime, invece, oltre all’esecuzione per espropriazione forzata, sono previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela del diritto di credito quali, ad esempio, il sequestro o il pagamento diretto da parte di terzi ai sensi dell’art. 156 del codice civile, e la possibilità ex art. 545 cod. proc. civ. di pignorare il trattamento stipendiale anche al di là del limite generale del cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli artt. 570 e 570-bis cod. pen.
Quanto alla «sanzione amministrativa pecuniaria», dell’importo ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dalla disposizione censurata in parte qua, la stessa realizza innanzi tutto – sul modello di altri sistemi processuali – una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende in via esclusiva dalla volontà dell’obbligato e l’esecuzione indiretta si realizza, previa necessaria istanza di parte, attraverso un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo prevedendo, in mancanza dello stesso, l’obbligo di corrispondere una somma in favore dello Stato. In ciò tale modello si accosta nella finalità – pur divergendo nel meccanismo processuale – alle misure di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare introdotte successivamente dall’art. 614-bis cod. proc. civ., ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che – poi divenute misure di coercizione indiretta – hanno invece vocazione generale, consentono l’esercizio di un potere d’ufficio del giudice e prevedono la corresponsione delle somme liquidate in favore dell’altra parte.
L’ordinanza di rimessione richiamava, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., il divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU secondo cui «[n]essuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».
Tale garanzia – operante anche per l’Italia stante l’invalidità, ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, della riserva a suo tempo presentata – è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo in modo da non correlarsi esclusivamente alla qualificazione, nel diritto interno degli Stati contraenti, di una sanzione come penale, nel senso che possono assumere rilievo, in via alternativa, la natura della misura e la gravità delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere. Una sanzione può pertanto essere qualificata come sostanzialmente penale, ove ciò possa desumersi, alternativamente, dalla natura dell’infrazione (rispetto alla quale occorre considerare il carattere e la struttura della norma trasgredita, ad esempio verificando se essa si caratterizza in termini di generalità dei destinatari o valutando la caratura degli interessi che essa tutela), ovvero dalla natura e dalla gravità della sanzione.
È noto che inizialmente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha declinato in una prospettiva prevalentemente processuale il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, affermando che lo stesso tutela l’individuo non tanto contro la possibilità di essere sanzionato due volte per il medesimo reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato, non importa se con esito assolutorio o di condanna (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
In seguito, tuttavia, nella giurisprudenza della stessa Corte si è registrata una significativa evoluzione nell’interpretazione della portata del divieto convenzionale di bis in idem rispetto ai procedimenti sanzionatori misti, evoluzione che è stata suggellata dalla pronuncia della grande camera, resa il 15 novembre 2016 in relazione al caso A. e B. contro Norvegia, la quale – avvicinandosi armonicamente a quelle che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, erano le declinazioni del medesimo divieto, per come espresso dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – ha affermato che sottoporre a processo penale una persona già sanzionata a livello amministrativo con l’applicazione di una sanzione sostanzialmente penale non viola di per sé il divieto di bis in idem, purché tra i due procedimenti vi sia una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, nel quadro di un approccio unitario e coerente e le risposte sanzionatorie cumulate non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato.
Ne deriva che i due procedimenti possono non solo essere avviati, ma anche concludersi con l’irrogazione di due distinte sanzioni purché ricorrano, congiuntamente, le seguenti condizioni: le sanzioni perseguano finalità differenti ed abbiano in concreto ad oggetto profili diversi della medesima condotta antisociale; la duplicità dei procedimenti costituisca una conseguenza prevedibile della condotta; vi sia un’interazione probatoria tra i procedimenti, realizzata mediante la collaborazione tra le autorità preposte alla definizione degli stessi; ricorra una stretta connessione sul piano temporale tra i due procedimenti, pur non strettamente paralleli, tale da non assoggettare l’incolpato ad un “eterno giudizio” per il medesimo fatto; la sanzione comminata nel primo procedimento sia tenuta in considerazione nell’altro, in modo che venga rispettata una proporzionalità complessiva della pena.
Pertanto, la previsione di un duplice binario sanzionatorio per il medesimo fatto non viola il principio di ne bis in idem allorché si tratti di procedimenti paralleli e integrati sotto l’aspetto sia sostanziale che temporale.
Il principio del ne bis in idem ha quindi finito con l’acquisire una forte connotazione sostanziale pur non perdendo quella processuale, posto che presuppone l’esistenza di un duplice procedimento.
Inoltre, il principio del ne bis in idem trova, sebbene ivi non espressamente contemplato, saldo fondamento nella Costituzione.
Come incisivamente sottolineato dalla sentenza n. 200 del 2016 della Consulta, tale principio si correla agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto «è immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire» ed è volto a evitare che il singolo possa essere esposto ad una spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto.
Sotto un distinto profilo, non può trascurarsi che nell’ordinamento nazionale il medesimo principio, inteso secondo un connotato anche sostanziale, si salda, seppur a livello di normazione primaria, con il generale canone di specialità espresso non solo per i reati dall’art. 15 cod. pen., ma, con riferimento ai rapporti tra sanzioni amministrative e sanzioni penali dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), finalizzato ad impedire tendenzialmente una “doppia incriminazione” sostanziale per il medesimo fatto. Il principio di specialità tra sanzioni amministrative e penali è inoltre ribadito dall’art. 19 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), avente anch’esso lo scopo di evitare che un identico fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto, tanto come illecito amministrativo, quanto come illecito penale.
Pertanto, costituisce principio cardine del nostro sistema quello per il quale un doppio binario sanzionatorio rappresenta non già una regola, bensì un’eccezione, che però deve trovare giustificazione in esigenze di complementarità del trattamento punitivo complessivo.
Anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la previsione di un duplice binario sanzionatorio non confligge con il principio di ne bis in idem ove: la normativa di riferimento persegua un obiettivo di interesse generale, tale da giustificare il cumulo di procedimenti e di sanzioni, che devono avere uno scopo complementare; contenga norme che garantiscano un coordinamento che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare derivante per i soggetti interessati da un cumulo di procedimenti; preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario in relazione alla gravità del reato di cui si tratti.
Pertanto, sulla portata del principio del divieto di bis in idem si registra ormai una convergenza coerente, in una prospettiva di tutela multilivello dei diritti, della giurisprudenza di questa Corte con quella delle Corti europee.
L’applicazione nella fattispecie in esame di tale principio e dei limiti in cui possa ritenersi legittimo il doppio binario sanzionatorio, dà fondamento e corpo al dubbio di legittimità costituzionale espresso dal giudice rimettente con la prima questione.
Ed infatti, da una parte alla sanzione contemplata dall’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., anche se espressamente definita amministrativa, deve riconoscersi natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem, in virtù dei criteri enunciati dalla Corte EDU sin dalla pronuncia Engel contro Paesi Bassi.
Assume rilievo in tal senso, in primo luogo, la gravità della sanzione pecuniaria irrogabile sino ad un importo massimo di 5.000 euro; gravità che deve essere invero valutata nello specifico contesto di misure irrogate in ambito familiare, diverso da quello del diritto dell’impresa o altresì da quello di significative violazioni in materia tributaria.
La natura pubblicistica e deterrente della sanzione è inoltre evidente per la circostanza che la stessa è disposta non in favore dell’altra parte, bensì della Cassa delle ammende.
Inoltre, sussisterebbe anche l’idem factum della condotta sanzionata in sede penale, con le pene di cui all’art. 570 cod. pen., e di quella sanzionata in sede civile, con la «sanzione amministrativa pecuniaria», ove appunto si ritenesse – come, pur plausibilmente, assume il giudice rimettente – che tra gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore» possa rientrare anche l’inadempimento dell’obbligo di pagamento dell’assegno di mantenimento della prole.
Benché rientri nella discrezionalità del legislatore prevedere, in deroga del principio di specialità, un apparato sanzionatorio articolato su più misure complementari e integrate – penali, amministrative, civili – il cui controllo di legittimità sia affidato a giudici diversi, occorre però che sussista un “nesso sufficientemente stretto in sostanza e in tempo” (un «lien matériel et temporel suffisamment étroit», secondo la citata sentenza della Corte EDU) tale da formare un “insieme coerente” in una logica di complementarietà per il raggiungimento di un obiettivo complessivo di repressione dell’idem factum.
Invece nella fattispecie in esame si avrebbe, in primo luogo, che, sul piano della sussistenza del nesso sostanziale, non sarebbe identificabile una funzione differenziata, quand’anche parzialmente, nelle due sanzioni previste, le quali invece risulterebbero parimenti accomunate dalla stessa finalità di deterrenza, a carattere special-preventivo, volta a indurre il genitore al pagamento dell’assegno di mantenimento in favore della prole, senza che sia necessario attivare gli strumenti del processo esecutivo civile. Le sanzioni, penale e “amministrativa”, risulterebbero essere del tutto sovrapponibili e non già complementari.
Inoltre mal si concilia con il criterio di stretta connessione nella sostanza un completamento solo eventuale – e quindi, in fondo, casuale – del trattamento sanzionatorio complessivo perché da una parte, a fronte della perseguibilità d’ufficio del reato di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006 (e oggi di quello di cui all’art. 570-bis cod. pen.), l’applicazione della sanzione amministrativa presuppone che ci sia un ricorso del genitore che, nel contesto di una controversia insorta in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento, lamenti l’inadempimento dell’altro genitore obbligato al pagamento dell’assegno di mantenimento per la prole. D’altra parte il giudice, pur a fronte di tale comprovato inadempimento, non sarebbe comunque obbligato ad irrogare la sanzione pecuniaria “amministrativa”, potendo limitarsi – come prevede la disposizione censurata – ad ammonire il genitore inadempiente o a condannarlo al risarcimento del danno; misure che, pur avendo una connotazione latamente punitiva, non hanno natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem.
In secondo luogo, la sanzione “amministrativa” contemplata dal secondo comma, numero 4), dell’art. 709-ter cod. proc. civ., per come è costruita, non consente di ritenere prevedibile, per il soggetto che pone in essere la condotta, la duplice risposta sanzionatoria in applicazione di norme chiare e precise; ciò implica che non dev’esservi discrezionalità nell’irrogazione delle sanzioni, potendo solo in tal modo il soggetto agente sapere che, se porrà in essere una condotta illecita, incorrerà non soltanto nella sanzione penale, ma anche in quella pecuniaria “amministrativa”. Al contrario, l’irrogazione della sanzione “amministrativa” di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ. dipende da una serie di variabili correlate alla volontà del genitore che lamenti l’inadempimento dell’altro genitore. Solo a seguito del ricorso del primo, nel contesto di una procedura di separazione o scioglimento degli effetti civili del matrimonio, è possibile per il giudice adito l’emanazione di una misura di contrasto dell’inadempimento nell’esercizio della responsabilità genitoriale o nelle modalità dell’affidamento; misura che, peraltro, nel quadro di quelle contemplate dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ., potrebbe – come già sottolineato – essere, anche a fronte di una medesima condotta, quella diversa dell’ammonimento o del risarcimento del danno.
Né la rilevata assenza di una stretta connessione tra le sanzioni penale e “amministrativa”, potrebbe essere superata dalla sola possibilità di comminare un trattamento sanzionatorio complessivo proporzionale alla gravità del fatto. La proporzionalità di quest’ultimo, pur costituendo un criterio di preminente importanza, non può rappresentare l’unica ragione giustificatrice, in assenza di una stretta connessione sotto il profilo sostanziale, della duplice repressione di un medesimo fatto. La possibilità di irrogare una sanzione proporzionata costituisce, invero, un posterius rispetto alla valutazione in ordine alla connessione stretta tra diverse sanzioni per lo stesso fatto.
Si ha quindi che il possibile contrasto tra la disposizione censurata e il principio del ne bis in idem – che, per le ragioni appena indicate, insorgerebbe ove la prima fosse interpretata nei termini indicati dal giudice rimettente – conduce univocamente verso un’interpretazione alternativa che sia costituzionalmente orientata nel senso di escludere la duplice sanzione dell’idem factum in assenza di una “stretta connessione in sostanza e nel tempo”.
Nella fattispecie in esame può ben ritenersi che la sanzione pecuniaria “amministrativa” introdotta dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006 (con la previsione dell’art. 709-ter cod. proc. civ.) sia simmetrica e parallela a quella prevista dal successivo art. 3 e non già complementare a quest’ultima.
Come già sopra anticipato, tale legge ha previsto, all’art. 1, la regola generale dell’affidamento condiviso dei minori e dell’esercizio tendenzialmente congiunto della potestà genitoriale rimettendo al giudice ogni decisione in caso di disaccordo. La stessa disposizione ha novellato l’art. 155 cod. civ. sui provvedimenti riguardo ai figli e ha introdotto, in particolare, l’art. 155-bis cod. civ., che regola l’affidamento a un solo genitore e l’opposizione all’affidamento condiviso, e l’art. 155-ter cod. civ. sulla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.
A fronte di nuovi diritti e nuovi obblighi, spesso di fare infungibile, e in assenza (all’epoca) di misure indirette per favorirne l’esecuzione (le misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. sarebbero state introdotte solo alcuni anni dopo), lo stesso legislatore ha approntato, all’art. 2, uno specifico e mirato strumento processuale di tutela, costituito appunto dall’art. 709-ter cod. proc. civ..
Parallelamente lo stesso legislatore ha rafforzato, all’art. 3, la già esistente tutela penale a fronte di una tipica obbligazione pecuniaria suscettibile di esecuzione forzata, oltre che di altre misure di garanzia della responsabilità patrimoniale, quale è quella avente ad oggetto l’assegno di mantenimento della prole nelle procedure di separazione dei coniugi e di scioglimento degli effetti civili del matrimonio. L’art. 3, infatti, prevede per la «violazione degli obblighi di natura economica» l’applicazione dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e quindi le pene contemplate dall’art. 570 cod. pen.
Questo parallelismo tra l’art. 2, che ha introdotto l’art. 709-ter cod. proc. civ., e l’art. 3, che ha rafforzato l’art. 12-sexies citato, consente di escludere, in forza del canone dell’interpretazione conforme, che le due norme si intersechino e che la condotta sanzionata come reato dall’art. 3 della legge n. 54 del 2006 con le pene dell’art. 570 cod. pen. possa essere sanzionata anche con la pena pecuniaria “amministrativa” dell’art. 2.
La disposizione censurata ha dunque la sua ratio e la sua giustificazione nell’esigenza di assicurare una tutela effettiva rispetto all’adempimento di una serie di obblighi di carattere prevalentemente infungibile nei confronti della prole, per i quali prima dell’emanazione della stessa mancavano efficaci strumenti di attuazione e di coazione.
Per converso gli aspetti patrimoniali del rapporto tra i genitori e la prole, relativi all’assegno di mantenimento, non hanno mai posto significativi problemi attuativi, in quanto le relative pronunce sono eseguibili nelle forme del processo esecutivo per espropriazione (anche mediante un pignoramento dei crediti del debitore) e presidiate in sede penale dal reato di cui all’art. 570-bis cod. pen. e finanche – ove il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento ridondi in deprivazione dei mezzi di sussistenza – da quello di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., deve quindi essere interpretato nel senso che il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento della prole, nella misura in cui è già sanzionato penalmente, non è compreso nel novero delle condotte inadempienti per le quali può essere irrogata dall’autorità giudiziaria adita la sanzione pecuniaria “amministrativa” in esame. Le condotte suscettibili di tale sanzione sono infatti “altre”, ossia le tante condotte, prevalentemente di fare infungibile, che possono costituire oggetto degli obblighi relativi alla responsabilità genitoriale e all’affidamento di minori.
L’ordinanza di rimessione, assumendo la natura sostanzialmente penale, in virtù dei criteri elaborati dalla già ricordata giurisprudenza della Corte EDU, della misura contemplata dalla disposizione censurata, dubitava, inoltre, della compatibilità della stessa con l’art. 25, secondo comma, Cost., nella parte in cui sanziona anche gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», per violazione del canone di determinatezza in ordine alla individuazione dei comportamenti sanzionabili.
Il principio di legalità di cui all’invocato parametro costituzionale, che trova applicazione anche per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente punitiva, non risulta violato dalla disposizione censurata.
Il secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. – come già rilevato – individua in via alternativa le condotte che possono giustificare l’applicazione delle sanzioni ivi previste, le quali possono consistere in gravi inadempienze, da riferirsi agli obblighi concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriale o l’affidamento dei minori; ovvero in atti che comunque arrechino pregiudizio al minore; o anche in atti che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento.
La giurisprudenza di legittimità – premesso che l’art. 709-ter cod. proc. civ. attribuisce al giudice la facoltà di applicare una o più tra le misure previste dalla stessa norma nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti «che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» – ha precisato che l’uso della congiunzione disgiuntiva evidenzia che avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali relative alle modalità di affidamento dei figli è un fatto che giustifica di per sé l’applicazione di una o più tra le misure previste, anche in mancanza di un pregiudizio in concreto accertato a carico del minore.
È possibile quindi individuare i comportamenti sanzionabili in quelle condotte – da ricondurre a “inadempienze o violazioni” di prescrizioni dettate in un provvedimento giurisdizionale, pur non apparentemente “gravi” – che abbiano arrecato alla prole un danno, anche non patrimoniale, accertabile e valutabile secondo gli ordinari criteri.
È stato infatti costantemente ribadito il principio secondo cui il ricorso a un’enunciazione sintetica della norma incriminatrice, piuttosto che a un’analitica enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza purché, mediante l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, sia possibile attribuire un significato chiaro, intelligibile e preciso alla previsione normativa.
È peraltro compatibile con il principio di determinatezza l’uso, nella formula descrittiva dell’illecito sanzionato, di una tecnica esemplificativa oppure di concetti extragiuridici diffusi o, ancora, di dati di esperienza comune o tecnica, tanto più ove, come nella fattispecie considerata, l’opera maieutica della giurisprudenza, specie di legittimità, consenta di specificare il precetto legale.
* * *
Il 10 dicembre esce la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo su ricorso n. 68954/13, alla stregua della quale non sussiste la violazione dell’art. 6 CEDU allorquando la decisione con cui un’autorità amministrativa indipendente (AGCOM) applica una sanzione di natura sostanzialmente penale sia contestabile dinanzi ad un tribunale dotato di piena giurisdizione e, quindi, di fronte ad un’autorità giudiziaria imparziale e indipendente.
2021
Il 19 gennaio esce la sentenza della III sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la sorveglianza amministrativa che segue l’esecuzione della pena è una misura preventiva, non una sanzione, onde l’insussistenza di una violazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4, Prot. n. 7 CEDU.
* * *
Il 2 febbraio esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE (C-481/19).
La Corte ha chiarito come l’art. 14, par. 3, Dir. 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l’art. 30, par. 1, lett. b),Reg. UE n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la Dir. 2003/6 e le Dir. 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione, letti alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale.
* * *
Il 4 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 4439, onde va esclusa la violazione del principio del “ne bis in idem” nel caso in cui, a fronte di una contestazione per dichiarazione infedele, siano contemporaneamente irrogate una sanzione amministrativa tributaria ed una sanzione penale, purché i due procedimenti siano strettamente connessi dal punto di vista materiale e temporale.
* * *
Il 9 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 5048 secondo cui non è ravvisabile la violazione del “ne bis in idem” come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo allorché le due sanzioni rappresentano misure complementari, dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, che determinano una sanzione penale “integrata” prevedibile e nel suo complesso del tutto proporzionata al disvalore del fatto
* * *
Il 16 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 68, secondo cui va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
I quesiti sottoposti allo scandaglio della Corte evocano la tematica dei limiti alla cosiddetta retroattività delle sentenze di accoglimento di questioni di legittimità costituzionale. Nella loro analisi, è indispensabile muovere da una preliminare ricognizione del panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento.
L’art. 30 della legge n. 87 del 1953 enuncia, come è noto, due regole in tema di effetti nel tempo delle pronunce di accoglimento. La prima, di ordine generale, è quella posta dal terzo comma, per cui, dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, «[l]e norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione».
Come questa Corte ha da tempo posto in luce, tale disposizione costituisce fedele traduzione del principio ricavabile dall’art. 136, primo comma, Cost., letto in combinazione con l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale): principio in base al quale le sentenze di accoglimento producono i loro effetti anche sui rapporti sorti precedentemente, purché, però, non definitivamente “chiusi” sul piano giuridico; dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti» (sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235 del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966).
Soluzione, questa, coerente con l’esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, oggi censurato, pone, tuttavia, una regola specifica e distinta con riguardo alla materia penale, stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta di regola suggerita dalle peculiarità della materia considerata e dalla gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà personale o su altri interessi fondamentali dell’individuo. In omaggio al favor libertatis e al favor rei, il legislatore ha inteso conferire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice effetti analoghi a quelli derivanti dal fenomeno dell’abolitio criminis, di cui all’art. 2, secondo comma, del codice penale, ossia la retroattività favorevole illimitata, che implica il travolgimento del giudicato.
La disposizione ha trovato eco e ulteriore sviluppo, sul versante processuale, nell’art. 673 del codice di procedura penale del 1988, ove si prevede che, nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice – così come in quello della sua abrogazione –, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto della legge come reato, e adotta i provvedimenti conseguenti.
Per effetto di una terna di pronunce delle sezioni unite penali della Corte di cassazione (sentenze 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821; 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858; 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107), è venuta, peraltro, a consolidarsi, nella giurisprudenza di legittimità, una interpretazione ampia (in precedenza controversa) dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, quanto al tipo di declaratoria di illegittimità costituzionale che infrange il giudicato.
Tale attitudine viene, cioè, riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova, in tutto o in parte, la norma incriminatrice, producendo un’abolitio criminis, ma anche a quella che si limiti ad incidere (in senso mitigativo) sul trattamento sanzionatorio (ad esempio, eliminando una circostanza aggravante o rimodulando la cornice edittale): ipotesi nella quale il condannato in via definitiva può ottenere la sostituzione della pena inflittagli con quella conforme a Costituzione tramite lo strumento dell’incidente di esecuzione, sempre che la pena stessa non sia già stata interamente eseguita.
Tale soluzione ermeneutica poggia sull’affermazione di principio per cui l’istanza di legalità della pena «è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice […] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla […] Carta fondamentale».
Nel bilanciamento, tale esigenza prevale sul valore, pure di rilievo costituzionale, espresso dal giudicato a presidio di esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 18821 del 2014).
Nell’ipotesi considerata non può quindi invocarsi l’avvenuto esaurimento del rapporto: il limite di impermeabilità del giudicato alla sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata è qui costituito piuttosto dalla irreversibilità degli effetti del giudicato stesso, in quanto ormai “consumati”, come nel caso di condannato che abbia già scontato integralmente la pena.
Per contro, fin quando l’esecuzione della pena è in atto, «gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 42858 del 2014). Garante della legalità della pena in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se richiesto ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., di ricondurre la pena inflitta nei binari della legittimità costituzionale.
La base normativa di tale intervento è offerta appunto – secondo le sezioni unite – dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953: disposizione alla quale deve riconoscersi un perimetro operativo più esteso rispetto a quello dell’art. 673 cod. proc. pen. (che, nel prevedere la revoca della sentenza di condanna, evoca la sola declaratoria di illegittimità costituzionale che rimuova il reato).
Il riferimento generico alla «norma dichiarata incostituzionale», contenuto nella disposizione del 1953, si presterebbe, infatti, a richiamare qualsiasi tipologia di norma penale, comprese, quindi, quelle che incidono sull’entità del trattamento sanzionatorio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze n. 37107 del 2015, n. 42858 del 2014 e n. 18821 del 2014).
Si tratta di interpretazione che questa Corte ha avuto modo di qualificare, in più occasioni, come «non implausibile» (sentenze n. 43 del 2017, n. 57 del 2016 e n. 210 del 2013) e che appare, in ogni caso, senz’altro configurabile, allo stato attuale, in termini di diritto vivente.
Viene però oggi in rilievo un ulteriore e distinto problema: l’estensione, cioè, del campo applicativo della norma censurata – in nome dello stesso principio – con riguardo al tipo di sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale (non solo la sanzione penale, ma anche la sanzione amministrativa qualificabile come penale ai sensi della CEDU).
Sul presupposto che tale ulteriore risultato non fosse viceversa conseguibile in via di interpretazione, questa Corte è già stata chiamata in precedenza a verificare se la connessa limitazione della sfera di operatività dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 rechi un vulnus agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU).
Ciò, a seguito di un incidente di costituzionalità sollevato nell’ambito di un giudizio di opposizione all’esecuzione di cartelle esattoriali per il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, applicata con sentenza irrevocabile sulla base di una norma dichiarata poi costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (con conseguente reviviscenza delle più miti sanzioni amministrative previste dalla normativa anteriore).
Con la sentenza n. 43 del 2017 le questioni sono state dichiarate, peraltro, non fondate. Questa Corte ha osservato che l’attrazione di una sanzione amministrativa nella materia penale in virtù dei “criteri Engel” trascina con sé tutte e soltanto le garanzie previste dalla CEDU, come elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: giurisprudenza nella quale non si rinviene l’affermazione di un principio analogo a quello affermato dalla norma censurata (che impedisca, cioè, l’esecuzione di una sanzione sostanzialmente penale inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale).
Il legislatore nazionale, dal canto suo, può bene apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle previste dalla Convenzione, riservandole alle sole sanzioni qualificate come penali dall’ordinamento interno. È vero – si osserva nella citata sentenza – che questa Corte ha «occasionalmente» riferito l’art. 25, secondo comma, Cost. anche a misure diverse dalle pene in senso stretto: ma lo ha fatto limitatamente al «contenuto essenziale» del precetto costituzionale (il principio di irretroattività della norma sfavorevole) e «in riferimento a misure amministrative incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino».
Si è rilevato, infine, che per le sanzioni penali è prevista una fase esecutiva, che – nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità – vede attribuito al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della pena: il che non accadeva, invece, per le sanzioni amministrative di cui allora si discuteva, la cui esecuzione obbediva a principi affatto differenti, essendo il relativo giudice investito della sola cognizione del titolo esecutivo.
Il problema della sorte delle sanzioni amministrative applicate con sentenza irrevocabile sulla base di disposizioni dichiarate successivamente incostituzionali è stato riportato, tuttavia, all’attenzione degli interpreti dalla vicenda che è alla radice dell’odierno incidente di legittimità costituzionale: vale a dire dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del meccanismo di applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, nei casi di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime, previsto dall’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dall’art. 1, comma 6, lettera b), numero 1), della legge 23 marzo 2016, n. 41 (Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274).
Con la sentenza n. 88 del 2019, questa Corte ha ritenuto che tale automatismo sanzionatorio – esteso in modo indiscriminato a tutte le fattispecie di omicidio e lesioni personali stradali (gravi o gravissime), ricorressero o meno le circostanze aggravanti previste dagli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., che qualificano negativamente i fatti sul piano della colpevolezza e in rapporto alle quali sono previste pene distinte e graduate – vulnerasse i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
L’automatica applicazione della revoca della patente poteva giustificarsi, in effetti, solo per le ipotesi più gravi e più severamente punite di cui al secondo e al terzo comma, sia dell’art. 589-bis, sia dell’art. 590-bis cod. pen. (essersi posti alla guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti): sotto tale livello, doveva essere lasciata invece al giudice la possibilità di effettuare una «valutazione individualizzante», sulla base delle circostanze del caso concreto; in particolare, nel senso di consentirgli, «secondo la gravità della condotta del condannato», sia di disporre la sanzione amministrativa della revoca, sia di applicare quella, «meno afflittiva», della sospensione della patente per la durata massima prevista dal secondo e dal terzo periodo del medesimo comma 2 dell’art. 222 cod. strada.
Il citato art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada è stato dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna o patteggiamento della pena per i reati dianzi indicati, «il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.».
Di seguito a ciò, numerose persone, la cui patente di guida era stata revocata con sentenza passata in giudicato sulla base della norma dichiarata incostituzionale – e, tra esse, anche il ricorrente nel giudizio a quo – si sono rivolte al giudice dell’esecuzione, chiedendogli di “rimodulare” tale sanzione alla luce della pronuncia di questa Corte: ossia, in pratica, di sostituire la revoca della patente con la semplice sospensione.
Ad avviso dell’odierno rimettente, ove si facesse applicazione della sentenza n. 88 del 2019, il ricorrente sarebbe effettivamente meritevole della sostituzione, essendo stato giudicato per un fatto di omicidio stradale semplice, con addebiti di colpa di lieve entità. Tuttavia, l’istanza non potrebbe essere accolta, stante la riferibilità dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 alle sole sanzioni penali, in ragione del suo tenore letterale.
Il giudice a quo torna, di conseguenza, ad interrogare questa Corte sulla legittimità costituzionale, in parte qua, di tale disposizione con riguardo ad una più ampia platea di parametri, invitandola a rivedere le conclusioni cui era pervenuta nella sentenza n. 43 del 2017, alla luce, sia della particolare natura della sanzione di cui si discute nella specie, sia dei mutamenti della giurisprudenza costituzionale intervenuti dopo la precedente pronuncia.
Ciò posto, e salvo quanto si osserverà più avanti in ordine alla esatta delimitazione del thema decidendum, le questioni sollevate appaiono in grado di superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
Risultano superabili, in particolare, i dubbi legati ad un eventuale difetto di competenza del giudice a quo a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, anche sulla richiesta di sostituzione della sanzione amministrativa accessoria. Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenza n. 136 del 2008; ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000).
Nella specie, il rimettente motiva in ordine alla propria competenza, rilevando che, se pure la revoca della patente disposta dal giudice penale necessita, per la sua esecuzione, di un provvedimento del prefetto (art. 224, comma 2, cod. strada), tale provvedimento rappresenta – come rilevato anche da questa Corte nella sentenza n. 88 del 2019 – mero recepimento della statuizione giudiziale. Di conseguenza, il compito di vigilare sulla perdurante rispondenza della sanzione amministrativa al principio di legalità, per tutto il corso della sua esecuzione, non potrebbe spettare se non allo stesso giudice penale: lo stretto nesso di dipendenza del provvedimento amministrativo dal giudicato penale non consentirebbe la revoca del primo senza la parziale caducazione del secondo.
Si tratta di tesi che, di là dai possibili margini di valutazione degli argomenti che la sostengono, appare, comunque sia, non manifestamente implausibile. Essa risulta, peraltro, implicitamente avvalorata dalle sentenze, di cui presto si darà conto, con le quali la Corte di cassazione – pronunciando su ricorsi proposti avverso provvedimenti di giudici dell’esecuzione – ha escluso la possibilità di modificare il giudicato in applicazione della sentenza n. 88 del 2019, ma solo in ragione della ritenuta estraneità della sanzione della revoca della patente al cono applicativo dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, senza porre affatto in discussione la competenza del giudice dell’esecuzione a pronunciare sulla relativa istanza.
L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto un distinto profilo, connesso al fatto che la sanzione, su cui si controverte nella specie, non potrebbe essere ritenuta – contrariamente a quanto assume il rimettente – ancora in corso di esecuzione: condizione, questa, indispensabile – come si è visto – affinché l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 possa trovare applicazione, nella lettura più lata patrocinata dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo la difesa dell’interveniente, l’esecuzione della sanzione della revoca della patente si risolverebbe e si esaurirebbe nel provvedimento prefettizio di rimozione del titolo abilitativo alla guida: provvedimento che, nella specie, è già stato adottato. Sarebbe, dunque, impensabile che il giudice dell’esecuzione possa sostituire la revoca della patente con la misura della sospensione – la quale presuppone che l’interessato sia munito di valido titolo di abilitazione alla guida – facendo “rivivere” un titolo che è già stato ormai definitivamente rimosso.
L’eccezione non è fondata. Come correttamente osserva il giudice a quo, al provvedimento di revoca della patente, adottato a seguito della condanna penale, si accompagna un ulteriore effetto: quello, cioè, di precludere il conseguimento di una nuova patente di guida prima del decorso di un determinato periodo di tempo, pari, nei casi ordinari, a cinque anni dalla revoca (art. 222, comma 3-ter, primo periodo, cod. strada); termine che, nella specie, non è ancora spirato.
Sul punto, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale le disposizioni, contenute nei commi 3-bis e 3-ter del citato art. 222 cod. strada, che stabiliscono i termini per il conseguimento di una nuova patente dopo la revoca, riguardano la disciplina amministrativa di settore e restano estranee alla sfera della giurisdizione penale. La revoca della patente è, infatti, nella sostanza, una sanzione interdittiva della circolazione alla guida dei veicoli a motore. Essa è la risultante di due componenti: la perdita del titolo abilitativo già posseduto (con conseguente necessità di ripetere l’esame di abilitazione alla guida, diversamente che nel caso della sospensione) e l’inibizione al conseguimento di un nuovo titolo prima di un certo tempo.
Tanto è vero che l’art. 222, comma 2, ultimo periodo, cod. strada stabilisce espressamente che – di seguito alla comunicazione della sentenza di condanna o di patteggiamento – il prefetto deve emettere, nei confronti dell’interessato, «provvedimento [non soltanto] di revoca della patente [ma anche] di inibizione alla guida sul territorio nazionale, per un periodo corrispondente a quello per il quale si applica la revoca della patente».
Questa componente inibitoria fa pienamente parte del contenuto della sanzione, rappresentandone un aspetto qualificante. Avrebbe poco senso, infatti, revocare la patente al condannato, se questi potesse conseguirne una nuova subito dopo: col risultato che la revoca diverrebbe, di fatto, una sanzione più lieve della sospensione (la quale inibisce la guida per tutta la sua durata, pur lasciando il condannato nella titolarità della patente). Al contrario, la sospensione è la sanzione più mite, anche (e soprattutto) perché la sua durata è inferiore a quella dell’inibizione al conseguimento di una nuova patente dopo la revoca.
L’art. 222, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. strada prevede, infatti, solo limiti temporali massimi (quattro anni nel caso di omicidio stradale, due anni nel caso di lesioni personali stradali gravi o gravissime), sotto i quali il giudice può discrezionalmente sospendere la patente anche per periodi di tempo nettamente più contenuti.
È giocoforza, di conseguenza, concludere che, fin quando è pendente il termine per il conseguimento di un nuovo titolo abilitativo, l’esecuzione della sanzione perdura.
Occorre, però, a questo punto, portare l’attenzione sulle premesse ermeneutiche che fondano i quesiti.
Come già accennato, il rimettente esclude in modo motivato che la norma censurata si presti a una interpretazione adeguatrice, la quale attragga nel suo ambito applicativo sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”, quale, in assunto, la revoca della patente. Il tenore letterale della norma, nella parte in cui fa riferimento alla «sentenza irrevocabile di condanna» e ai suoi «effetti penali», lascerebbe, infatti, intendere come essa attenga alle sole «sanzioni formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali».
Il giudice a quo ricorda pure come l’estensibilità della norma censurata alle sanzioni amministrative aventi natura penale agli effetti della CEDU fosse stata affermata incidentalmente dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione nell’ordinanza 10 novembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1782, senza, tuttavia, che tale soluzione venisse recepita da questa Corte nella sentenza n. 43 del 2017.
Ciò è avvenuto, peraltro, in un panorama nel quale la citata pronuncia del giudice di legittimità appariva isolata e in contrasto con una – sia pur remota e altrettanto isolata – decisione della Corte di cassazione civile (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 20 gennaio 1994, n. 458).
La situazione appare però ora mutata, per effetto della giurisprudenza formatasi proprio sullo specifico problema oggetto del giudizio a quo: quello, cioè, della legittimazione del giudice dell’esecuzione a modificare la statuizione della sentenza irrevocabile di condanna relativa alla revoca della patente, per adeguarla alla sentenza n. 88 del 2019.
La Corte di cassazione si è, infatti, già ripetutamente espressa al riguardo, rilevando come il problema si risolva nello stabilire se la revoca della patente – di là dalla qualificazione nominalistica di «sanzione amministrativa accessoria» – possa essere fatta rientrare, o no, nel novero degli «effetti penali» della condanna, di cui la norma censurata impone la cessazione. A tal fine, la Corte di cassazione ha ritenuto «utilizzabili i noti parametri Engel, tratti dalla sedimentata giurisprudenza di Strasburgo, per cui la sanzione può essere definita penale – al di là del nomen attribuito dal legislatore interno – in rapporto all’analisi concreta delle finalità perseguite e del grado di afflittività, nel senso che lì dove risulti prevalente la finalità punitiva (rispetto a quella preventiva) o lì dove risulti particolarmente elevato il grado di afflittività, la misura in questione va attratta nel cono delle garanzie penalistiche».
Tale affermazione, contenuta in una pronuncia di poco anteriore all’ordinanza di rimessione (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 novembre 2019-17 gennaio 2020, n. 1804), e ripresa, testualmente o nella sostanza, in plurime decisioni successive (Corte di cassazione, sezione feriale penale, sentenza 20-24 agosto 2020, n. 24023; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-10 giugno 2020, n. 17834; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17508; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17506; sezione prima penale, 26 febbraio-30 aprile 2020, n. 13451), equivale al riconoscimento che la norma censurata – già interpretata in modo estensivo dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base della ratio legis, quanto al tipo di declaratoria di incostituzionalità che incide sul giudicato – si presta a una lettura di analoga fatta anche quanto al novero delle sanzioni attinte dalla declaratoria di incostituzionalità, tale da ricomprendere, in particolare, le sanzioni amministrative con caratteristiche punitive al metro dei “criteri europei”.
Senonché, con specifico riguardo alla revoca della patente, la Corte di cassazione ha poi risposto in senso negativo alla domanda che essa stessa si era posta: ha negato, cioè, che – contrariamente a quanto sostiene l’odierno rimettente – la revoca della patente possa ritenersi sanzione di natura sostanzialmente penale sulla base di quei criteri, traendo da ciò la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non sarebbe abilitato a sostituirla con la sospensione a modifica del giudicato.
La revoca della patente avrebbe, infatti, una finalità preventiva, e non già repressiva: costituirebbe una misura a tutela della sicurezza della circolazione stradale, inibendo la guida di veicoli a motore a soggetti che, con la loro condotta, si sono dimostrati pericolosi, «con estraneità funzionale agli aspetti meramente afflittivi della pena» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020, sulla cui scia tutte le altre sentenze dianzi citate).
L’inibizione è, d’altra parte, circoscritta ad un ambito temporale limitato, decorso il quale è possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo alla guida: onde neppure il «grado di afflittività» della sanzione sarebbe tale da giustificare il superamento del dato nominalistico (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020; in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 25 settembre-22 dicembre 2020, n. 37034; sezione feriale penale, n. 24023 del 2020; sezione prima penale, sentenza n. 13451 del 2020).
In sostanza, dunque, la giurisprudenza di legittimità – rovesciando entrambe le premesse interpretative da cui muove il giudice a quo – da un lato riconosce, ormai con plurime pronunce, che la norma censurata si presta ad essere applicata anche alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”; ma dall’altro nega, in modo altrettanto costante, che la revoca della patente abbia una simile natura, e conseguentemente esclude che il giudice dell’esecuzione sia abilitato ad effettuare l’operazione cui il rimettente intenderebbe procedere nel caso di specie.
In questo quadro, i quesiti di costituzionalità vengono a concentrarsi sul trattamento riservato alla specifica sanzione amministrativa accessoria che viene in rilievo nel giudizio a quo: sanzione alla quale – di là dal riferimento del dispositivo dell’ordinanza di rimessione all’indistinta platea delle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” – appaiono, in effetti, nella sostanza riferite le censure del rimettente.
Nella motivazione dell’ordinanza, egli afferma, infatti, in modo assai più puntuale, di dubitare della legittimità costituzionale della norma denunciata «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rideterminare una sanzione amministrativa accessoria – la cui applicazione è demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali – oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale che ne abbia mutato di fatto la disciplina».
Locuzione, questa, che richiama dappresso la sanzione prevista dall’art. 222 cod. strada. Alcune delle censure, d’altra parte, appaiono calibrate avendo specificamente di mira la revoca della patente. Ciò è palese con riguardo alla denunciata violazione degli artt. 35 e 41 Cost., posto che la compressione del diritto al lavoro e della libertà di iniziativa economica non rappresenta certamente un connotato generale delle sanzioni amministrative.
Ma altrettanto può dirsi per i riferimenti – operati nel formulare le censure di violazione degli artt. 3 e 136 Cost. – all’attitudine della sanzione amministrativa a colpire diritti fondamentali della persona di rango più elevato rispetto ai beni incisi da talune sanzioni penali (quale il patrimonio).
È significativo, infine, il fatto che tra gli elementi di novità che dovrebbero indurre questa Corte a rivedere la soluzione adottata con la sentenza n. 43 del 2017 il rimettente indichi, anzitutto, la particolare natura della sanzione di cui si discute nel caso di specie.
Così delimitato il thema decidendum, questa Corte è dell’avviso che non sia, in realtà, possibile negare che la revoca della patente, disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., abbia connotazioni sostanzialmente punitive (sia pur non disgiunte da finalità di tutela degli interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore, secondo uno schema tipico delle misure sanzionatorie consistenti nell’interdizione di una determinata attività).
Viene in particolare rilievo, al riguardo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa allo specifico tema. La Corte EDU ha preso più volte posizione, infatti, sulla natura penale, agli effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte a seguito dell’accertamento di infrazioni connesse alla circolazione stradale. Da tali pronunce emerge un orientamento sostanzialmente univoco, alla luce del quale – ancorché le misure in discorso siano configurate nel diritto interno come misure amministrative finalizzate a preservare la sicurezza stradale – esse si connotano come di natura convenzionalmente penale quando l’inibizione alla guida si protragga per un lasso di tempo significativo, tanto più, poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna penale (Corte EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard contro Svizzera; sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia; decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso, le misure stesse ad assumere, per il loro grado di severità, un carattere punitivo e dissuasivo (Corte EDU, sentenza 21 settembre 2006, Maszni contro Romania).
In quest’ottica, si è ritenuto rientrare nella «materia penale» il ritiro della patente per la durata di diciotto mesi (Corte EDU, decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): lasso di tempo ben più breve dei cinque anni per i quali si protrae – nella più favorevole delle ipotesi – la revoca della patente disposta ai sensi dell’art. 222 cod. strada.
La Corte di Strasburgo ha ripetutamente qualificato come di natura penale, agli effetti della Convenzione, persino la misura della decurtazione dei punti della patente, in quanto idonea a determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida. Al riguardo, i giudici europei hanno posto in evidenza come sia «incontestabile che il diritto di condurre un veicolo a motore si rivela di grande utilità per la vita corrente e l’esercizio di una attività professionale»: di modo che, «anche se la misura è considerata dal diritto interno comune come una misura amministrativa preventiva non appartenente alla materia penale, è giocoforza constatare il suo carattere punitivo e dissuasivo» (Corte EDU, sentenza 5 ottobre 2017, Varadinov contro Bulgaria; sentenza 23 settembre 1998, Malige contro Francia; analogamente, sentenza 6 ottobre 2011, Wagner contro Lussemburgo).
Anche guardando il fenomeno in una prospettiva meramente “interna”, non può, peraltro, disconoscersi che ci si trovi al cospetto di una sanzione dalla carica afflittiva particolarmente elevata e dalla spiccata capacità dissuasiva.
Non poter condurre veicoli a motore per cinque anni può rappresentare – specie per un soggetto che, come il ricorrente nel giudizio a quo, esercita l’attività di autotrasportatore – una sanzione, in concreto, più temibile della stessa pena principale di un anno e sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, che gli è stata inflitta per il reato commesso.
È significativo, d’altronde, che – avendo riguardo alla misura di identico contenuto prevista dal precedente codice della strada (art. 91, settimo comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, recante «Testo unico delle norme sulla circolazione stradale»), il quale, però, si asteneva dal qualificarla come «amministrativa» – le sezioni unite della Corte di cassazione non avessero esitato a configurare la revoca (come pure la sospensione) della patente disposta dal giudice penale quale «pena accessoria», analoga all’interdizione o sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte (tipiche pene accessorie disciplinate dagli artt. 30, 31 e 35 cod. pen.), rilevando come essa, «comprimendo con inevitabile danno economico la libertà di circolazione – tanto sentita da questa società – e reprimendo nella maniera più acconcia lo scorretto esercizio di essa», costituisse «mezzo di prevenzione speciale idoneo ed efficace, più della stessa pena principale, cui aggiunge forza intimidatrice» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 1990-12 febbraio 1991, n. 2246).
In quest’ottica, si deve ritenere che l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – in quanto interpretato, come vuole la consolidata giurisprudenza di legittimità, nel senso di escluderne l’applicabilità in relazione alla sanzione amministrativa considerata – venga a porsi in contrasto con l’art. 3 Cost.
Come già ricordato, nella sentenza n. 43 del 2017 questa Corte ha ritenuto che l’inapplicabilità della norma censurata alle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” non violasse nemmeno tale parametro, stante la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle prefigurate dalla CEDU, riservandole alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno.
E sebbene – si era rilevato – la giurisprudenza costituzionale avesse «occasionalmente» esteso alle sanzioni amministrative l’art. 25, secondo comma, Cost., il fenomeno era rimasto però circoscritto al nucleo essenziale del precetto costituzionale (il divieto di retroattività in malam partem) e a misure incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino.
Per le sanzioni amministrative – diversamente che per quelle penali – non è, d’altra parte, prevista una fase esecutiva che attribuisca al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della misura.
Successivamente alla sentenza n. 43 del 2017, il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha però conosciuto nuovi e rilevanti sviluppi, tali da rendere non più attuali le affermazioni contenute in tale pronuncia.
Superando precedenti decisioni di segno contrario, questa Corte ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo – in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) – larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali: sia quello basato sull’art. 25 Cost. – irretroattività della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018) – sia quello basato su altri parametri, e in particolare sull’art. 3 Cost. – retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenza n. 112 del 2019) −.
Di rilievo, agli odierni fini, appare soprattutto la sentenza n. 63 del 2019, con cui questa Corte ha esteso alle sanzioni amministrative “punitive” il principio di retroattività della lex mitior, ritenendo tale operazione «conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali», la quale «“[…] impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006)”».
Laddove, infatti, «la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicar[la] […], qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento.
E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale» (sentenza n. 63 del 2019).
Ma, se così è, a maggior ragione va escluso – come per le sanzioni penali – che taluno debba continuare a scontare una sanzione amministrativa “punitiva” inflittagli in base a una norma dichiarata costituzionalmente illegittima: dunque, non già oggetto di semplice “ripensamento” da parte del legislatore, ma affetta addirittura da un vizio genetico, il cui accertamento impone, senza possibili eccezioni, di lasciare immune da sanzione, o di sanzionare in modo più lieve, chiunque dopo di esso commetta il medesimo fatto.
Al riguardo, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la sentenza n. 63 del 2019 non sarebbe, in realtà, pertinente, non essendosi in alcun modo occupata del tema del giudicato.
Il principio di legalità costituzionale della pena, cui si riconnette la norma oggi censurata, è “più forte” di quello di retroattività in mitius, il quale, nel caso di successione di leggi modificative, incontra, di regola, in base alla normativa codicistica, il limite della definitività della pronuncia di condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen.).
Alla luce del diritto vivente formatosi in sede di interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – come si è visto (supra, punto 2.2. del Considerato in diritto) – tale limite non opera invece nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che rimoduli il trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza che la pena risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato.
L’esito del bilanciamento tra i contrapposti valori non può, peraltro, ribaltarsi per le sanzioni amministrative a connotazione punitiva, particolarmente quando si tratti di sanzione quale la revoca della patente di guida. A questo proposito, viene in risalto la più recente giurisprudenza di questa Corte sulla cosiddetta “successione impropria” tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative punitive conseguente agli interventi di depenalizzazione.
Essa ha posto adeguatamente in evidenza, ai fini dell’operatività del divieto di retroattività sfavorevole, come un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa possa risultare, in concreto, più afflittivo rispetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017).
Se è vero, infatti, che la sanzione penale «si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa»; e se è vero, altresì, «che la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa», nondimeno, «l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato: ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione più recente».
A rendere maggiormente severo il regime sanzionatorio amministrativo può contribuire, d’altro canto, anche il fatto che la sanzione amministrativa, diversamente dalla pena, resta sottratta a istituti che ne evitano la concreta esecuzione, quale, in specie, la sospensione condizionale (sentenza n. 223 del 2018).
Con riguardo all’ipotesi che qui interessa, non appare, in effetti, costituzionalmente tollerabile che taluno debba rimanere soggetto per cinque anni, anziché per un periodo di tempo nettamente minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore – con tutte le limitazioni che ciò comporta nella vita contemporanea, compresa, nel caso di specie, l’impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa – inflittagli sulla base di una norma che, all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è stata riconosciuta contrastante con la Costituzione.
Ciò, quando invece il condannato a una, anche modesta, pena pecuniaria potrebbe giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l’importo.
Quanto, infine, all’argomento addotto dalla sentenza n. 43 del 2017, afferente all’assenza, per le sanzioni amministrative, di una fase esecutiva che veda il relativo giudice garante della legalità della pena, tale argomento non vale, comunque sia, nella fattispecie oggi in esame, una volta che si accrediti la competenza del giudice a quo.
L’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada.
Le censure formulate in rapporto agli altri parametri costituzionali restano assorbite.
* * *
L’8 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 146, alla stregua della quale va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia (Testo A)», sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bari.
Prima di vagliare l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale, precisa la Corte, è necessario brevemente ricostruire i tratti essenziali della confisca prevista dalla norma censurata, anche e soprattutto alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato le modalità di applicazione di essa ad opera del giudice, all’interno della quale ha assunto un rilievo decisivo il contributo fornito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Già nella vigenza dell’art. 19 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), di cui la norma censurata recepisce i contenuti operandone una sostanziale novazione, la confisca per lottizzazione abusiva (o altrimenti detta “urbanistica”) è stata ritenuta una sanzione amministrativa che consegue a una sentenza che accerti la sussistenza dei presupposti del reato in questione, anche prescindendo dall’adozione di una sentenza di condanna (ordinanza n. 187 del 1998).
Tale regime di accessorietà è con tutta evidenza finalizzato ad assicurare che la misura ablatoria possa garantire le finalità perseguite dal legislatore attraverso la previsione del reato di lottizzazione abusiva, consistenti nella salvaguardia della funzione pianificatoria e della sua riserva in capo all’autorità comunale.
Proprio in ragione del fatto che «la lottizzazione abusiva [è] una forma di intervento sul territorio ben più incisiva, per ampiezza e vastità, di quanto non sia la costruzione realizzata in difformità o in assenza di concessione, con compromissione molto più grave, nel primo caso, della programmazione edificatoria del territorio stesso» (sentenza n. 148 del 1994), essa si rivela rivolta a tutelare un bene giuridico di particolare rilievo, perché attinente non solo alla tutela del paesaggio e dell’ordinato sviluppo urbanistico rispetto a forme isolate e puntuali di aggressione, ma anche e soprattutto alla salvaguardia della stessa funzione pianificatoria comunale, intesa come momento terminale e ineludibile della complessiva strategia di programmazione delle forme di intervento sul territorio.
In base a tali presupposti, la confisca prevista dalla norma censurata è stata inizialmente interpretata e applicata nel senso che essa, anche con riguardo ai terzi acquirenti delle aree illegittimamente frazionate o dei beni abusivamente costruiti, potesse essere disposta automaticamente dal giudice per il solo fatto obiettivo costituito dal carattere abusivo dell’opera, prescindendo così tanto da un accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico del reato, quanto – ed è il punto che viene qui particolarmente in evidenza – da una verifica della necessaria proporzionalità della misura ablatoria.
Entrambi questi profili sono stati presi in esame dalla Corte di Strasburgo, che, nelle pronunce rese nel caso Sud Fondi srl e altri contro Italia (decisione 30 agosto 2007 e sentenze 20 gennaio 2009 e 10 maggio 2012), ha ritenuto che le modalità applicative della confisca fossero, nelle vicende allora al suo esame, in contrasto sia con l’art. 7 CEDU, perché la natura punitiva della stessa richiede che venga accertato dal giudice un grado di partecipazione almeno colposo per l’autore materiale del reato, sia con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Rispetto a quest’ultimo, in particolare, la Corte EDU ritenne, allora, la portata generalizzata della confisca sproporzionata rispetto allo scopo da essa perseguito, connesso al ripristino della conformità dell’area alle prescrizioni urbanistiche, aggiungendo che «[s]arebbe stato ampiamente sufficiente prevedere la demolizione delle opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e dichiarare inefficace il progetto di lottizzazione» (sentenza 20 gennaio 2009, paragrafo 140).
A seguito di tali pronunce, la giurisprudenza di legittimità, pur tenendo ferma la qualifica della confisca urbanistica come sanzione amministrativa (e la conseguente legittimità della sua applicazione pur in assenza di un provvedimento formale di condanna ad opera del giudice), ha introdotto plurimi correttivi volti ad adeguare le modalità applicative della stessa ai principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quanto al primo aspetto, si è ritenuto che la confisca debba essere subordinata all’accertamento della partecipazione psichica e personale del soggetto all’illecito penale, dovendo così riscontrarsi nella condotta dei soggetti colpiti dalla misura ablativa (inclusi i terzi acquirenti dei beni) un profilo almeno colposo, sotto gli aspetti dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza (ex multis, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 8 ottobre 2009, n. 39078).
Questa Corte, con la sentenza n. 49 del 2015, ha ulteriormente chiarito che «[s]ia che la misura colpisca l’imputato, sia che essa raggiunga il terzo acquirente di mala fede estraneo al reato, si rende perciò necessario che il giudice penale accerti la responsabilità delle persone che la subiscono, attenendosi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell’effettivo apprezzamento compiuto».
Quanto, poi, alla verifica della proporzionalità della confisca, si è ritenuto – innovando rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale – che il giudice possa limitare l’intervento ablativo alle sole aree e agli eventuali manufatti direttamente interessati dall’illegittima attività lottizzatoria (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 2 ottobre 2008, n. 37472 e 15 aprile 2013, n. 17066).
Con la sentenza 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia, che il rimettente pone a fondamento delle sue censure, la Corte EDU è tornata a ravvisare un contrasto tra le modalità di applicazione della confisca nelle vicende che avevano dato origine a quei ricorsi e l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, con particolare riguardo al rispetto della necessaria proporzionalità tra i mezzi impiegati nel limitare il godimento dei beni e lo scopo, di per sé legittimo, perseguito dal legislatore mediante la previsione dell’illecito lottizzatorio e della connessa sanzione di natura reale.
In tale pronuncia, la Corte EDU ha ritenuto che quel principio non fosse stato rispettato, perché al giudice nazionale – chiamato ad applicare in modo automatico la confisca per lottizzazione abusiva, con l’unica eccezione che questa riguardi i terzi in buona fede – non era stato consentito di valutare gli strumenti più adatti alle circostanze del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo perseguito dal legislatore con i diritti di coloro i quali sono colpiti dalla sanzione.
Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, la sentenza in esame per contro indica, quali elementi che «possono essere presi in considerazione», «la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione delle opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che essa può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti, o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione» (paragrafo 301).
Della necessità di un adeguamento delle modalità applicative della confisca per lottizzazione abusiva ai contenuti della sentenza G.I.E.M. si è per tempo fatta carico la giurisprudenza di legittimità, che ha innanzi tutto ribadito la necessità che il giudice verifichi la pertinenza delle aree e delle eventuali opere confiscate a quelle direttamente interessate dall’attività lottizzatoria, ciò che richiede un accertamento effettuato dal giudice del merito basato su dati materiali oggettivi e supportato da adeguata e specifica motivazione, sindacabile anche in sede di legittimità (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 26 febbraio 2019, n. 8350 e 4 aprile 2019, n. 14743).
Tale orientamento ha trovato ulteriore conferma nel principio per cui in caso di declaratoria di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per intervenuta prescrizione all’esito del giudizio di impugnazione, il giudice d’appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis del codice di procedura penale, a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca urbanistica anche al fine di verificare il rispetto del principio di proporzionalità della sua applicazione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 30 aprile 2020, n. 13539).
La recessività dell’orientamento secondo cui la confisca è una sanzione da applicarsi automaticamente, rispetto alla quale il giudice è privo di qualsiasi potere di valutarne l’an e il quomodo, è dimostrata anche dal fatto che essa può essere evitata laddove, prima che la sentenza che accerti la sussistenza dei presupposti della lottizzazione abusiva diventi definitiva, sia intervenuta l’integrale demolizione di tutte le opere eseguite in attuazione dell’intento lottizzatorio, unitamente alla eliminazione dei pregressi frazionamenti e delle loro conseguenze, così che la riconduzione dell’area lottizzata alle condizioni precedenti all’abuso sia effettiva e integrale (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 22 aprile 2020, n. 12640, e sezione quarta penale, sentenza 25 marzo 2021, n. 11464).
L’applicazione della confisca urbanistica ad opera del giudice risente peraltro, in un’ottica di tendenziale residualità, delle concorrenti, legittime determinazioni dell’autorità amministrativa titolare del potere di programmazione urbanistica ed edilizia.
Con riguardo alla fase che precede l’adozione della misura giudiziale in discussione, infatti, assumono rilievo i provvedimenti adottati dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale ai sensi dell’art. 30, commi 7 e 8, del d.P.R. n. 380 del 2001. Ove venga accertata dall’amministrazione una lottizzazione a scopo edificatorio priva della necessaria autorizzazione, tali provvedimenti comportano, tra l’altro, il divieto di disporre dei suoli e delle opere con atti tra vivi e l’acquisizione delle aree lottizzate al patrimonio disponibile del Comune, con l’ulteriore conseguenza della loro necessaria demolizione, la cui effettività è anche assistita, in caso di inerzia del Comune, dall’intervento in funzione sostitutiva della Regione (art. 31, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Al di là di quanto previsto dall’art. 30, commi 7 e 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista dell’adozione della misura ablatoria ad opera del giudice, possono inoltre assumere rilievo i provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa prima del passaggio in giudicato della sentenza, i quali, pur non producendo effetti riguardo all’accertamento del reato di lottizzazione, sono ritenuti nondimeno idonei a impedire l’applicazione della confisca ad opera del giudice, come il riconoscimento ex post della conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici vigenti (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 26 febbraio 2019, n. 8350).
Anche dopo il passaggio in giudicato, infine, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’amministrazione conserva una piena potestà di programmazione e di gestione del territorio, fermo restando che dall’adeguamento successivo dell’area e degli edifici acquisiti per effetto della confisca ovvero dall’adozione di nuovi strumenti urbanistici non può farsi derivare un “retro-trasferimento” della proprietà in favore dei privati già destinatari dell’ordine di confisca, restando piuttosto il Comune legittimato a trasferire a titolo oneroso la proprietà dei terreni e dei manufatti a tutti o a parte dei precedenti proprietari, ove tale valutazione sia assistita da una finalità legittima (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 29 ottobre 2019, n. 43880).
Nella considerazione sistematica della confisca urbanistica e della sua proporzionalità non può, infine, non essere evidenziato che ai terzi acquirenti destinatari della misura ablativa comunque applicata dal giudice resta aperta la strada, nei confronti dei responsabili diretti dell’illecito lottizzatorio, dell’azione risarcitoria (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 24 gennaio 2017, n. 3606).
Così come, sempre sul piano della tutela civilistica degli acquirenti, non può non rilevarsi che gli atti di acquisto di beni oggetto di lottizzazione abusiva sono nulli, con tutte le conseguenze che da tale qualificazione discendono in termini di ripetizione dell’indebito oggettivo e dell’eventuale risarcimento del danno.
Poste tali necessarie premesse, si può tornare ad esaminare l’eccezione di inammissibilità avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Tale eccezione non può essere accolta.
L’Avvocatura imputa al rimettente di non aver preso in considerazione un’alternativa ermeneutica che tuttavia esso evidentemente esclude, poiché la eccepita illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 non è fondata sulla pretesa impossibilità di scongiurare l’applicazione della confisca nel caso in cui vi sia un una riconduzione dello stato dei luoghi e delle opere a quello precedente l’intervenuta lottizzazione, ma sulla diversa preclusione della possibilità di condizionare la confisca all’adeguamento parziale delle opere abusive alle prescrizioni urbanistiche e tecnico-edilizie violate nella realizzazione dell’intento lottizzatorio.
Muovendo dall’individuazione di tale motivo di censura nei confronti della disposizione in esame, la Corte rimettente ha quindi consapevolmente escluso una diversa interpretazione della stessa, idonea in ipotesi a renderla conforme al quadro dei principi costituzionali e convenzionali asseritamente violati. Ciò, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, esclude l’inammissibilità della questione (da ultimo, sentenze n. 59 e n. 32 del 2021, n. 123 e n. 11 del 2020, n. 189 e n. 12 del 2019).
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 sollevata dalla Corte d’appello di Bari deve essere comunque ritenuta inammissibile per un distinto ordine di ragioni.
Come si è detto, il rimettente pone a fondamento delle censure la necessità che l’applicazione della confisca urbanistica possa essere graduata dal giudice mediante la previsione di un onere di adeguamento parziale delle opere realizzate alle legittime prescrizioni urbanistiche, così da porre rimedio alla sproporzione determinata dal sacrificio che i terzi acquirenti subirebbero dall’esecuzione della confisca come sanzione da disporsi in via automatica, pur in presenza di difformità solo parziali rispetto all’originario piano di lottizzazione e di un grado lieve di partecipazione colposa alla realizzazione dell’illecito.
Questa Corte ha già chiarito che la natura amministrativa della sanzione in esame non è di per sé incompatibile con il fatto che essa debba essere irrogata nel rispetto di quanto prevede l’art. 7 CEDU per le sanzioni di natura punitiva, considerato che ciò corrisponde alla necessità di salvaguardare l’effettività delle garanzie convenzionali e i connessi profili sostanziali di tutela, senza con questo sacrificare la discrezionalità del legislatore nel configurare gli illeciti amministrativi come autonomi dal diritto penale, nel rispetto del principio di sussidiarietà (sentenza n. 49 del 2015 e ordinanza n. 187 del 2015, in riferimento alla sentenza n. 487 del 1989).
Tale doppio binario garantisce che «il recepimento della CEDU nell’ordinamento giuridico si muov[a] nel segno dell’incremento delle libertà individuali, e mai del loro detrimento (sentenza n. 317 del 2009)» (sentenza n. 68 del 2017), così da consentire ad essa di operare «quale strumento preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l’effettività» (sentenza n. 49 del 2015).
Analogamente, seppure «non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative» e che la confisca, per la sua incidenza sulla sfera patrimoniale del singolo, sia vincolata anche al rispetto del principio di proporzionalità di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU (sentenza n. 112 del 2019), è nondimeno doveroso ritenere che questo si atteggi in modo diverso, offrendo corrispondentemente una tutela di diversa intensità, a seconda della struttura delle fattispecie sanzionatorie e delle finalità da esse perseguite.
Così, l’impossibilità di prescindere – nella valutazione di adeguatezza della sanzione al caso specifico – dalla «concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sentenza n. 161 del 2018), se da un lato conduce a ritenere non più conforme al quadro costituzionale e convenzionale che l’applicazione della confisca urbanistica avvenga in modo automatico e indifferente alle circostanze del caso di specie, dall’altro lato, tuttavia, non implica che ciò debba necessariamente condurre all’attribuzione al giudice di uno strumento – come quello di cui il rimettente auspica l’introduzione – idoneo a trasformare alla radice la sanzione della confisca urbanistica e ad attenuarne la portata e gli effetti rispetto al reato di lottizzazione abusiva cui essa accede, sovvertendone così la funzione individuata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.
Del resto, la stessa sentenza G.I.E.M., in linea di continuità con i precedenti prima richiamati, annovera la confisca per lottizzazione abusiva tra le misure ricadenti nel perimetro del secondo paragrafo dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, ai sensi del quale resta in capo agli Stati il diritto «di emanare leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende» (paragrafo 291).
Come si è già detto al punto 3.1., la lottizzazione abusiva è contrassegnata, nel sistema degli illeciti urbanistici, da un grado di offensività particolarmente elevato, in quanto attenta alla stessa funzione programmatoria urbanistica e perché è idonea a dar luogo a un’alterazione strutturale (e in taluni casi irreversibile) delle caratteristiche morfologiche e funzionali del territorio, atteso che «mette [il Comune] di fronte al fatto compiuto di insediamenti disordinati e privi dei requisiti di vivibilità, ossia potenzialmente privi di servizi e delle infrastrutture necessarie al vivere civile» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 17 luglio 2020, n. 4604).
Proprio queste caratteristiche si pongono a fondamento del complesso sistema sanzionatorio che circonda tale fattispecie e che vede il giudice intervenire in via tendenzialmente suppletiva, mediante l’adozione della misura ablatoria, solo laddove a tale esito non si sia giunti per effetto della previa adozione, da parte del Comune, dei provvedimenti previsti dall’art. 30, commi 7 e 8, del d.P.R. n. 380 del 2001 e delle altre, eventuali, determinazioni dell’autorità amministrativa richiamate supra, al punto 3.4.2.
Tale specifico concorso di strumenti (amministrativi e giudiziale) volti al ripristino dell’interesse pubblico leso dall’abusivo intervento lottizzatorio denota peraltro l’impossibilità di applicare a quest’ultimo forme di sanatoria riconosciute dalla legislazione urbanistica, come quella contenuta nell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, riferita a differenti interventi abusivi e vincolata al requisito della “doppia conformità”.
Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 148 del 1994, ha chiarito come il diverso regime tra le due fattispecie «si fonda su peculiarità di fatto in ordine alle situazioni apprezzate dal legislatore che, lungi dall’essere determinate dalle norme denunziate, attengono all’entità degli interessi urbanistici compromessi nei due casi».
Per le medesime ragioni, non appare in alcun modo utilmente invocabile quale tertium comparationis – contrariamente a quanto sembra ritenere la Corte d’appello rimettente – la fattispecie prevista dall’art. 98, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, consente al giudice che accerti la violazione delle prescrizioni del Capo IV dello stesso testo unico il potere, in alternativa, di ordinare la demolizione delle opere ovvero di «imparti[re] le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse, fissando il relativo termine».
A fronte di tale articolato e differenziato quadro normativo e dello specifico trattamento sanzionatorio previsto per la lottizzazione abusiva, il rimettente chiede che, per il tramite dell’invocata possibilità di disporre un adeguamento parziale in luogo della confisca di cui alla disposizione censurata, si introduca un nuovo strumento del tutto eccentrico rispetto al sistema degli illeciti urbanistici.
Un simile intervento additivo, in disparte il problema della sua effettiva riconducibilità alle indicazioni contenute nella richiamata sentenza G.I.E.M., si rivela comunque estraneo all’ambito di intervento di questa Corte, perché comporterebbe l’immissione nell’ordinamento di una «novità di sistema» (sentenze n. 103 del 2021, n. 250 del 2018 e n. 250 del 2012; ordinanza n. 266 del 2014), che richiede «soluzioni normative che mai potrebbero essere apprestate in questa sede, implicando […] scelte di modi, condizioni e termini che non spetta alla Corte stabilire» (sentenza n. 148 del 1994).
Sarebbe infatti necessario disciplinare il raccordo tra autorità amministrativa e autorità giurisdizionale, quanto meno al fine di valutare il tipo di interventi ripristinatori e la loro conformità alle regole della pianificazione urbanistica, anche in considerazione del fatto che «il giudice penale non ha competenza “istituzionale” per compiere l’accertamento di conformità delle opere agli strumenti urbanistici» (sentenza n. 370 del 1988; analogamente, sentenza n. 196 del 2004).
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, sollevata dalla Corte d’appello di Bari, deve pertanto essere dichiarata inammissibile.
Questioni intriganti
Quale rapporto “patologico” avvince le sanzioni amministrative “para-penali” e quelle penali tout court nella più recente giurisprudenza europea?
- il problema è quello di verificare fino a che punto sanzioni di natura apparentemente – e formalmente – “amministrativa”, abbiano in realtà surrettizia natura sostanzialmente penale;
- in questi casi, alle sanzioni pseudo-amministrative andrebbe applicato lo statuto che, massime in termini di garanzie per il destinatario della sanzione, è previsto per le sanzioni penali;
- ciò sulla base di taluni canoni applicati per la prima volta dalla Corte EDU nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976, passati per questo alla storia (giuridica) come c.d. “criteri Engel”;
- nel nostro sistema giuridico sono tuttavia previste fattispecie in cui – al fine di garantire una risposta repressiva più efficace al cospetto di determinati “fatti inadempimento” particolarmente gravi – va applicata per legge tanto una sanzione amministrativa, quanto una sanzione penale;
- si parla in proposito di c.d. “doppio binario sanzionatorio” onde, al cospetto di un medesimo fatto (inadempimento), prende il via (su impulso del competente PM) un processo penale idoneo ad esitare in una sentenza di condanna per il commesso reato e, ad un tempo, si dà l’abbrivio (da parte della competente PA) ad un procedimento amministrativo dal quale può alfine scaturire una sanzione (del pari) amministrativa;
- ciò accade in particolare in materia tributaria (si pensi all’omissione dei versamenti IVA) e in materia di c.d. violazioni finanziarie (si pensi al c.d insider trading);
- il problema si pone nelle fattispecie in cui non sia operativo il principio di specialità tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, inscritto all’art.9 della legge 689.81;
- è su questa problematica di fondo che si innesta la operatività della c.d. “legalità convenzionale” e della c.d. “legalità eurounitaria”, e dunque del principio di legalità siccome declinato, rispettivamente, dalla CEDU e dalla Corte di Giustizia UE, per le quali può essere “materia penale” anche quella che per diritto interno è mera “materia amministrativa”, con rischio di un bis in idem che finisce col porre in netta frizione quanto previsto (e deciso, a mezzo dei propri giudici) dallo Stato italiano rispetto a quanto previsto (e deciso, a mezzo delle proprie Corti) dalla CEDU o dal diritto unionale (in particolare, dalla Carta di Nizza: CDFUE);
- una questione di “legalità europea” – massime con riferimento alla CEDU (c.d. legalità “convenzionale”– si pone anche con riguardo al canone della c.d. retroattività della legge penale sopravvenuta più favorevole, che in Italia non coinvolge le sanzioni (formalmente) amministrative (legge 689.81), e che potrebbe invece coinvolgerle laddove esse dovessero essere considerate “sostanzialmente penali”, in forza dell’art.7 della CEDU, ovvero dell’art.50 della CDFUE, e delle garanzie in dette norme inscritte; la questione riguarda tanto la c.d. retroattività in mitius della eventuale legge sopravvenuta più favorevole, quanto – più in radice – la ineseguibilità di una sanzione amministrativa “sostanzialmente penale” che si ritrovi, per legge sopravvenuta, sprovvista della relativa base legale;
- la Corte costituzionale ha tuttavia affermato sul punto come il nostro sistema ordinamentale interno si differenzi da quello convenzionale (CEDU) dacché mentre quest’ultimo applica le garanzie penalistiche a tutte le misure c.d. afflittive, non distinguendo tra misure “amministrative – penali in senso lato” e “penali in senso stretto”, il sistema ordinamentale italiano si basa su tale distinzione, diversificando il pertinente regime al cospetto di sanzioni che, pur afflittive, presentano natura sostanzialmente “penale” o, alternativamente, amministrativa;
- dopo varie prese di posizione della Corte EDU (si pensi alla nota pronuncia Grande Stevens del 2014) e della Corte costituzionale italiana, si è giunti ad un assetto onde la presenza di eventuali sanzioni amministrative “para-penali” in concorso con sanzioni penali tout court non può essere sempre considerata sintomo di un vietato “bis in idem”, essendo quest’ultimo scongiurato quando tra i due procedimenti / provvedimenti esista un nesso sia materiale che temporale sufficientemente stretto (“sufficiently close connection in substance and time“) da far assumere le rispettive misure inscriversi in un meccanismo integrato di sanzioni previsto dal pertinente diritto interno, connotato da proporzionalità e tale da non gravare in misura eccessiva sul destinatario.