Massima
Causare materialmente un evento qualificabile come fatto inadempimento reato non reca seco necessariamente – sulla base del mero nesso eziologico tra la condotta ed il ridetto evento – la rimproverabilità di tale causazione in capo al soggetto agente; questi può infatti subire la sanzione penale e percepirne la tendenziale rieducatività e potenza risocializzatrice solo laddove abbia “fatto proprio” l’illecito penale commesso anche da punto di vista psicologico, solo in tal modo potendo ragionevolmente accettare di essere “punito perché rimproverabile”. Proprio laddove la Costituzione impone la “colpevolezza”, essa ad un tempo esclude la responsabilità “oggettiva” (e, dunque, “non soggettiva”) del soggetto agente, imponendo al giudice penale l’accertamento di una pertinente responsabilità “personale” non già solo “non per fatto altrui”, ma anche e soprattutto “per fatto proprio colpevole”, come dimostra paradigmaticamente la vicenda dei rapporti tra giornalista che diffama e direttore responsabile che omette il controllo sull’articolo diffamatorio.
Crono-articolo
Nel diritto romano, la responsabilità oggettiva affiora in diverse fattispecie nella relativa, più smaccata declinazione di responsabilità per “fatto altrui”, come nel caso del “paterfamilias” per fatti illeciti commessi da membri della propria compagine familiare, massime se incapaci (e dunque non “sui iuris”: figli, schiavi); e nel caso degli armatori (“nautae“), degli albergatori (“caupones“) e dei gestori di stazioni di ricambio (“stabularii“) per danni arrecati dall’opera dei propri sottoposti.
Stante peraltro la connotazione “unitaria” dell’ordinamento giuridico romano, laddove è difficile – soprattutto nella fase più antica – isolare un diritto “penale” dal diritto civile, non va dimenticata la figura della “custodia” quale tecnica di imputazione della responsabilità in capo a chi è tenuto a restituire una data res e come tale è tenuto, per l’appunto, a custodirla (come nel caso del comodatario o nelle varie ipotesi di c.d. “recepta”: “nautarum, cauponum, stabulariorum”), dove il ruolo soggettivo della negligenza – nel caso, ad esempio, di furto da parte di terzi, che ne impedisce la restituzione – sembra comunque affievolito (ancora per diritto classico) rispetto al nucleo sostanzialmente “oggettivo” della responsabilità siccome addebitata a chi è tenuto alla restituzione, mentre solo con Giustiniano la bilancia della “custodia” finisce col pendere dal piatto della soggettività (si parla in proposito di “exacta diligentia custodiendae rei”)
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui articolo 45, comma 1, nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge “lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione”: per i delitti l’alternativa al dolo è la responsabilità da mero nesso causale e, dunque, la responsabilità oggettiva, senza che si faccia menzione della colpa.
Alla stregua poi del comma 2, nelle contravvenzioni “ciascuno risponde della propria azione od omissione, ancorché non si dimostri ch’egli abbia voluto commettere un fatto contrario alla legge”: per le contravvenzioni la regola appare dunque quella della imputabilità per mero nesso causale (“versari in re illicita”), e dunque a titolo di responsabilità oggettiva, anche laddove non venga provato il dolo.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, il cui articolo 42 viene significativamente rubricato “Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva”. Al dolo e alla responsabilità oggettiva viene dunque affiancata anche la responsabilità penale colposa e per delitto preterintenzionale.
La norma, dopo aver affermato che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà (comma 1); e che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge (comma 2), soggiunge che la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, “come conseguenza della sua azione od omissione”, così prefigurando (comma 3) la tipicità delle fattispecie di c.d. responsabilità oggettiva.
Infine, nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa, onde per le contravvenzioni è ormai previsto l’elemento psicologico, con esclusione del mero “versari in re illicita”.
Il successivo art.43 definisce poi il delitto “preterintenzionale”, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente, così prefigurandosi uno dei possibili casi tipici di responsabilità oggettiva, a meno di non voler assumere ciò che va oltre l’intenzione come colposo.
Importante anche l’art.5 in tema di c.d. errore di diritto, onde nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale, ignoranza che dunque viene assunta – in via assoluta e senza alcun temperamento – non ostativa alla sanzione penale.
In tema di circostanze, l’art.59, comma 1, prevede che, salvo che la legge disponga altrimenti, le circostanze che aggravano ovvero attenuano o escludono la pena sono valutate, rispettivamente, a carico o a favore dell’agente, anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti; dunque tanto le circostanze attenuanti quanto quelle aggravanti sono imputate in via oggettiva al soggetto agente.
Tra le varie fattispecie riconducibili alla figura della responsabilità oggettiva – oltre agli istituti delle condizioni obiettive di punibilità ex art.44, del reato aberrante ex art.82 e 83 – si staglia quella di cui all’art.57 in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, onde per i reati per l’appunto commessi col mezzo della stampa si osservano le disposizioni seguenti: 1° qualora si tratti di stampa periodica, chi riveste la qualità di direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso (tipicamente, la diffamazione ex art.595 c.p.), salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione; 2° qualora si tratti di stampa non periodica, del reato commesso risponde l’autore della pubblicazione, ovvero, se questi e’ ignoto o non e’ imputabile, l’editore, ovvero, se anche questi e’ ignoto o non e’ imputabile, lo stampatore. Stando poi al successivo art.59 le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se non sono state osservate le prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa periodica e non periodica; se sono ignote o non imputabili le persone nel detto articolo indicate, dei reati commessi col mezzo della stampa rispondono tutti coloro che in qualsiasi modo divulgano gli stampati. Affiorano figure di responsabilità oggettiva “da posizione” per fatto altrui, senza alcuna prevista rimproverabilità neanche a titolo colposo.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27, comma 1 e comma 3): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi tanto laddove il fatto oggetto di imputazione sia stato in realtà commesso da altri (c.d. responsabilità per fatto altrui), quanto nel caso in cui sia stato commesso da lui medesimo, ma in difetto di qualunque coefficiente psicologico capace appunto di fondarne la rimproverabilità (dolo o colpa).
1956
Il 23 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.3 che, se da un lato dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 57, n. 1 Cod. pen. e nell’art. 3 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47 in riferimento alla norma contenuta nell’art. 27 della Costituzione, fa comunque salva – compendiando una delle prime “sentenze-monito” – la revisione del testo dell’art. 57, n. 1 Cod. pen. da parte del Legislatore, al fine di renderlo anche formalmente più adeguato alla norma costituzionale.
La Corte si riconosce chiamata a rispondere al quesito se la responsabilità del direttore di giornale, quale la configura l’art. 57, n. 1 Cod. pen., rappresenti un caso di responsabilità personale oppure un caso di responsabilità per fatto altrui. La soluzione del quesito varrà – precisa la Corte – tanto per l’art. 57, n. 1 Cod. pen., quanto per l’art. 3 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47, il quale, pur limitandosi ad affermare (alla stessa guisa dell’art. 1 della legge 3 dicembre 1925, n. 2307) che “ogni periodico deve avere un direttore responsabile“, senza specificare ulteriormente la natura e la estensione del concetto di responsabilità del direttore di un periodico, con la menzione della formula “direttore responsabile” si ricollega alla regolamentazione giuridico-penale che di questa figura esibisce appunto l’art. 57, n. 1 del Cod. pen.
Nello svolgimento della legislazione sulla stampa – chiosa il Collegio sul crinale storico – rappresenta un momento di particolare rilievo quello nel quale il legislatore sostituì alla figura del gerente quella del direttore responsabile (art. 1, primo comma della legge 31 dicembre 1925, n. 2307). É vero che rimaneva immutato il sistema creato, ora é più di un secolo, dal Regio editto 26 marzo 1848, n. 695, in base al quale (art. 47, 2 comma) il gerente era considerato come “complice dei delitti e delle contravvenzioni commessi con pubblicazioni fatte nel suo giornale“, ma é altrettanto vero che la responsabilità (quale essa fosse), veniva posta non più a carico del gerente – una figura estranea al periodico sulla quale si esercitò nel passato una facile ironia -, ma a carico di chi del periodico é in effetti la guida e l’ispiratore.
Anche se non si può accogliere completamente la tesi della natura particolare e del carattere complesso dell’impresa giornalistica, ricondotta ad unità dal direttore, per fondarvi sopra l’altra del carattere personale della responsabilità di costui, non pare dubbio che, porre al posto di una persona del tutto estranea alla vita dell’azienda, comodo riparo di una attività sottratta in tal guisa a ogni responsabilità di fronte a terzi, una persona di particolare esperienza e capacità professionali, fornita di poteri pressoché illimitati e, per quello che attiene alla pubblicazione di notizie, interpretazioni e commenti, sottratta a ogni altro controllo, significava aver trasformato sostanzialmente il sistema dell’editto del 1848 e di avere escluso (ammesso che ciò fosse da ritenere pacifico per il periodo precedente), che si potesse vedere consacrato nell’art. 1 della legge citata del 1925 un caso di responsabilità per fatto altrui. Sicché, considerata alla luce di questo svolgimento storico, l’espressione “per ciò solo” che compare nell’art. 57, n. 1 del Cod. pen. e che ha dato tanto da fare agli interpreti, non ha inteso se non sottolineare il distacco dal sistema dell’Editto Albertino e dalla figura che vi compare del gerente, complice necessario dell’autore del reato commesso a mezzo della stampa. Si volle dire che la responsabilità del direttore si fonda sulla circostanza, propria di lui, di non aver osservato gli obblighi di vigilanza e di controllo ai quali egli é tenuto per il fatto di essere direttore, obblighi che non é necessario rintracciare puntualmente espressi in un precetto legislativo, ma che ben possono desumersi dal sistema, come in questo caso del direttore del giornale: una figura della quale sono certi i lineamenti e quindi i diritti ed i doveri.
La conseguenza che ne ritrae la Corte é che non esiste contrasto tra l’art. 57, n. 1 Cod. pen. e l’art. 27 della Costituzione. Non pare dubbio alla Corte che questo ultimo articolo consacri il principio, acquisto certo di un secolare svolgimento, che non si risponde se non per fatto proprio. Ma appunto il direttore del periodico risponde per fatto proprio, per lo meno perché tra la relativa omissione e l’evento c’é un nesso di causalità materiale, al quale si accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 Cod. pen.) sufficiente, come é opinione non contrastata, a conferire alla responsabilità il connotato della personalità. Né, inoltre, l’art. 57 così interpretato, vieta che la responsabilità del direttore di giornale venga meno tutte le volte in cui il caso fortuito o la forza maggiore, il costringimento fisico o l’errore invincibile (artt. 45, 46 e 48 Cod. pen.) vietino di affermare che l’omissione sia cosciente e volontaria (art. 42 Cod. pen. 1 comma), nessuna ragione imponendo che questi principi generali e di rigorosa osservanza trovino in questo caso sbarrato l’ingresso alla loro puntuale applicazione.
D’altra parte, prosegue la Corte, se l’art. 57, n. 1, considerato in sé e per sé, consente di giungere alla persuasione che la responsabilità, che vi é raffigurata, non é per fatto altrui (che é quanto basta ai fini del presente giudizio), un’autorevole giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che la responsabilità del direttore di un periodico é fondata sulla colpa, ed ha giustificato per tale via la compatibilità dell’art. 57, n. 1 col dettato della norma costituzionale. Certamente, che una giurisprudenza siffatta si sia costituita tanto che si possa dire ormai dominante, é una circostanza della quale non può negarsi l’importanza. La Corte, pur ritenendo di potere e di dovere interpretare con autonomia di giudizio e di orientamenti e la norma costituzionale che si assume violata e la norma ordinaria che si accusi di violazione, non può non tenere il debito conto di una costante interpretazione giurisprudenziale che conferisce al precetto legislativo il relativo, effettivo valore nella vita giuridica, se é vero, come é vero, che le norme sono non quali appaiono proposte in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci.
Tuttavia la Corte non può non rilevare le difficoltà che il testo dell’art. 57, n. 1, offre ad una interpretazione di questa sorta, pur tanto aderente alla realtà delle cose, nella qualità della pena che é di un reato doloso irrogata al reo di un reato colposo, anche se é da ritenere che ciò non trasformi il titolo della relativa responsabilità: residuo storico della vecchia figura del complice necessario, prevista dall’Editto Albertino. Il che, del resto, é confermato dalla necessità generalmente avvertita (come fanno fede ripetute proposte di riforma) di dare ad una materia, che la realtà configura in termini non equivoci, una corrispondente formulazione legislativa: della quale necessità anche la Corte sente di doversi rendere interprete.
1958
Il 4 marzo viene varata la legge n.127 che, raccogliendo le sollecitazioni della dottrina e della Corte costituzionale, modifica l’art.57 c.p.; nella nuova formulazione, salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, e’ punito, a titolo di colpa, se un reato e’ commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente 1/3.
Con riguardo alla responsabilità penale del direttore o vice direttore, sparisce l’inciso “per ciò solo” e viene aggiunto un espresso riferimento alla “colpa”, circostanza che farà dire alla dottrina e alla giurisprudenza maggioritarie come la norma sia ormai in linea con il principio di colpevolezza e di responsabilità penale “personale”, dovendosi dunque ormai assumere compatibile con la Costituzione la punizione di un “fatto proprio colpevole”.
Alla stregua del nuovo art.57 bis, nel caso di stampa non periodica, le disposizioni dell’art.57 si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione e’ ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non e’ indicato o non e’ imputabile.
Per il nuovo art.58 bis, che si occupa di procedibilità, se il reato commesso col mezzo della stampa e’ punibile a querela, istanza o richiesta, anche per la punibilità dei reati preveduti dai tre articoli precedenti (sostanzialmente, per quelli che coinvolgono soggetti diversi dall’autore della pubblicazione) e’ necessaria querela, istanza o richiesta; in proposito, la querela, la istanza o la richiesta presentata contro il direttore o vice-direttore responsabile, l’editore o lo stampatore, ha effetto anche nei confronti dell’autore della pubblicazione per il reato da questo commesso. Non si può poi procedere per i reati preveduti nei tre articoli precedenti se e’ necessaria una autorizzazione di procedimento per il reato commesso dall’autore della pubblicazione, fino a quando l’autorizzazione non e’ concessa, disposizione che tuttavia non si applica se l’autorizzazione e’ stabilita per le qualità o condizioni personali dell’autore della pubblicazione.
1985
Il 10 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4563 alla cui stregua l’omesso controllo da parte del direttore responsabile di cui all’art.57 c.p. può essere espressione tanto di consapevole volontà del soggetto agente che, dunque, “vuole” omettere di controllare, come anche di mera negligenza o di controllo operato in modo tutt’affatto superficiale.
1988
Il 24 marzo esce la sentenza “cardine” della Corte costituzionale n.364, in tema di ignoranza della legge penale ex art.5 c.p. Con questa fondamentale pronuncia la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 5 nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della ignoranza della legge penale l’ignoranza “inevitabile”, fondando tale declaratoria in modo puntuale sul principio di colpevolezza. Per la Corte il comma 1 (responsabilità penale personale) e il comma 3 (tendenza rieducativa della pena) dell’art.27 della Costituzione vanno letti in combinato disposto tra loro, muovendo dal presupposto onde il principio di colpevolezza va letto siccome avvinto al principio di legalità, costituendone anzi un precipuo aspetto, dacché il privato deve vedersi assicurata – con funzione di garanzia – la certezza di libere scelte di azione.
Proprio ciò che non accade al cospetto di fattispecie di responsabilità oggettiva, laddove campeggia il solo nesso di causalità tra condotta del soggetto agente ed evento, senza che vi si riscontri alcuna compartecipazione di tipo psicologico che invece il principio di legalità/colpevolezza, siccome costituzionalmente scolpito, impone in termini di riscontrabilità del dolo o quanto meno della colpa.
La Corte precisa peraltro come il solo nesso di causalità, senza compartecipazione psicologica, vada assunto come non sufficiente ad imputare il fatto al soggetto agente solo con riguardo agli elementi più significativi della fattispecie, ovvero quelli che esprimono il disvalore del fatto penalmente rilevante, mentre può operare con riguardo agli elementi accidentali (c.d. responsabilità oggettiva spuria); ciò pone il problema di identificare quali elementi della fattispecie vanno assunti “significativi” (con necessaria imputazione soggettiva quanto meno a titolo di colpa) e quali “accidentali”, ed a tal fine occorre porre attenzione all’offesa tipica, che esprime per l’appunto il disvalore del fatto penalmente rilevante, onde senza gli elementi “significativi” il fatto medesimo perde la propria natura illecita o viene comunque punito in modo consistentemente differente.
Prima d’esaminare se ed in quali limiti l’art. 5 c.p. deve ritenersi illegittimo, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la Corte – che inizia un’articolato percorso argomentativo sul punto – sottolinea talune premesse ideologiche, di metodo, storiche e dommatiche.
La mancata considerazione delle relazioni tra soggetto e legge penale, l’idea che nessun rilievo giuridico va dato all’ignoranza della legge penale, e, fra l’altro, il risultato di tre ben caratterizzate impostazioni ideologiche. La prima, in radicale critica alla concezione normativa del diritto, contesta che l’obbedienza o la trasgressione della legge abbia attinenza con la conoscenza od ignoranza della medesima. La seconda sottolinea che, essendo l’ordinamento giuridico sorretto da una <coscienza comune> che lo legittima e costituendo, pertanto, la trasgressione della legge <episodio> particolare, incoerente e perciò ingiustificato (attuato da chi, conoscendo e contribuendo a realizzare i valori essenziali che sono alla base dello stesso ordinamento, appunto arbitrariamente ed incoerentemente si pone in contrasto con uno dei predetti valori) non può lo stesso ordinamento condizionare l’effettiva applicazione della sanzione penale alla prova della conoscenza, da parte dell’agente, per ogni illecito, del particolare precetto violato. La terza impostazione ideologica, comunemente ritenuta soltanto politica, attiene all’illuministica <maestà> della legge, la cui obbligatorietà, si sostiene, non va condizionata dalle mutevoli <psicologie> individuali nonché dall’alea della prova, in giudizio, della conoscenza della stessa legge.
Senonchè, afferma la Corte, contro la prima tesi va osservato che, supposta l’esistenza di leggi giuridiche statali, nessun dubbio può fondatamente sorgere in ordine al principio che spetta all’ordinamento dello Stato stabilire le condizioni in presenza delle quali esso entra in funzione (e, tra queste, ben può essere prevista la conoscenza della legge che si viola). Alla seconda tesi va obiettato che, in tempi in cui le norme penali erano circoscritte a ben precisi illeciti, ridotti nel numero e, per lo più, costituenti violazione anche di norme sociali universalmente riconosciute, era dato sostenere la regolare conoscenza, da parte dei cittadini, dell’illiceità dei fatti violatori delle leggi penali; ma, oggi, tenuto conto del notevole aumento delle sanzioni penali, sarebbe quasi impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente sorretto da una <coscienza comune> tutte le volte che <aggiunge> sanzioni a violazioni di particolari, spesso <imprevedibili>, valori relativi a campi, come quelli previdenziale, edilizio, fiscale ecc., che nulla hanno a che vedere con i delitti, c.d. naturali, di comune <riconoscimento> sociale. Alla terza impostazione ideologico-politica va obiettato che, certamente, è pericoloso, per la tutela dei valori fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di volta in volta, alla prova in giudizio della conoscenza della legge penale, da parte dell’agente, l’effettiva applicabilità delle sanzioni penali ma che, tuttavia, il principio dell’irrilevanza assoluta dell’ignoranza della legge penale non discende dall’obbligatorietà della stessa legge; tant’é vero che, come é stato sottolineato di recente dalla dottrina, nei sistemi nei quali si attribuisce rilevanza all’ignoranza della legge penale non per questo la legge diviene <meno obbligatoria>.
Vero é che gli opposti principi dell’assoluta irrilevanza o dell’assoluta rilevanza dell’ignoranza della legge penale non trovano valido fondamento: ove, infatti, s’accettasse il principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giuridici a scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche per comportamenti (allorché l’ignoranza della legge sia inevitabile) non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell’ordinamento; ove, invece, si sostenesse l’opposto principio dell’assoluta scusabilità della predetta ignoranza, l’indubbio rispetto della persona umana condurrebbe purtroppo (a parte la questione della possibilità che esistano soggetti che volutamente si tengano all’oscuro dei doveri giuridici) a rimettere alla variabile <psicologia> dei singoli la tutela di beni che, per essere tutelati penalmente, si suppone siano fondamentali per la società e per l’ordinamento giuridico statale.
Sul piano metodologico – prosegue la Corte – va osservato che non é prospettiva producente ed esaustiva quella che esamini il tema dell’ignoranza della legge penale considerando il solo <istante> nel quale il soggetto oggettivamente viola la legge penale nell’ignoranza della medesima. E indispensabile, infatti, non trascurare le <cause>, remote e prossime, della predetta ignoranza e, pertanto, estendere l’indagine al preliminare stato della relazioni tra ordinamento giuridico e soggetti ed in particolare ai rapporti tra l’ordinamento, quale soggetto attivo dei processi di socializzazione di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. ed autore del fatto illecito. Se non si mancherà d’accennare a tale indagine, va, peraltro, sottolineato – precisa la Corte – che la medesima non potrà, ovviamente, esser sufficientemente approfondita in questa sede.
Dal punto di vista storico e di diritto comparato, la Corte sottolinea che il principio dell’irrilevanza dell’ignoranza di diritto non é mai stato positivamente affermato nella relativa assolutezza. Si può, anzi, affermare che la storia del principio in esame coincida con la storia delle relative eccezioni: dal diritto romano-classico, per il quale era consentito alle donne ed ai minori di 25 anni <ignorare il diritto>, attraverso i <glossa tori> ed il diritto canonico, fino alle attuali normative di diritto comparato (codici penali tedesco-occidentale, austriaco, svizzero, greco, polacco, iugoslavo, giapponese ecc.) si evidenziano tali e tante <eccezioni> all’assolutezza del principio in discussione che il codice Rocco si può sostenere sia rimasto, in materia, isolato, neppure più seguito dal codice penale portoghese. Quest’ultimo, infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il c.d. <errore intellettuale>, nel quale rientra l’errore sul divieto la cui conoscenza appare ragionevolmente indispensabile perché possa aversi coscienza dell’illiceità del fatto. Va poi ricordato per la Corte che, come rilevato da recente dottrina, il principio dell’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, concepito nella relativa assolutezza, non trova neppure convincente sistemazione dommatica. Escluso che possa prospettarsi l’esistenza d’un <dovere autonomo di conoscenza> della legge penale (ne mancherebbe, fra l’altro, la relativa sanzione) anche le tesi della presunzione iuris et de iure e della <finzione> di conoscenza della legge penale (a parte la considerazione che le medesime, mentre ritengono essenziale al reato la coscienza dell’antigiuridicità del comportamento criminoso, <presumono>, in fatto, ciò che assumono essenziale in teoria) s’inseriscono in un contesto che parte dall’opposto principio dell’essenzialità al reato della coscienza dell’illiceità e, pertanto, della <scusabilità> dell’ignoranza della legge penale.
Prima d’iniziare il confronto tra l’art. 5 c.p. e la Carta fondamentale, va ancora ricordato per il Collegio che, a seguito dell’entrata in vigore di quest’ultima, lo stesso articolo e stato oggetto di numerose, pesanti critiche. Partendo da ben note premesse sistematiche (l’imperatività della norma penale); ricordata la strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale (già nel 1930 tal principio, trasferito dal capitolo dell’imputabilità, nel quale era inserito dal codice del 1879, a quello dell’obbligatorietà della legge penale, era divenuto <cardine> del sistema); ed affermata la necessità, per la punibilità del reato, dell’effettiva coscienza, nell’agente, dell’antigiuridicità del fatto; é stata con forza sottolineata la stridente incompatibilità dell’art. 5 c.p., qualificato come <incivile>, con la Costituzione. E’ stato, tuttavia, agevole, sul versante delle premesse sistematiche, contrapporre alla tesi dell’effettiva imperatività della norma penale, la formula dell’idoneità della stessa norma a funzionare come comando e, sul versante dell’illegittimità dell’art. 5 c.p., contrapporre alla richiesta di totale abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’intero articolo l’inesistenza, nella Costituzione, d’un vincolo, per il legislatore ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d’effettiva coscienza dell’antigiuridicità. Le risposte, indubbiamente corrette, da una parte hanno, tuttavia, finito col <chiudere> ogni indagine sulla relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una determinata concretezza storica, in una particolare situazione sociale e d’altra parte hanno precluso, tranne lodevolissime eccezioni, ogni ulteriore esame della Costituzione, allo scopo di verificare se, in mancanza del precitato <vincolo> dell’effettiva presenza della coscienza dell’antigiuridicità, non esistessero altri vincoli, per il legislatore ordinario, mirati ad escludere l’incriminazione di fatti commessi in carenza di altre, anche se meno penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale. Sorge allora per la Corte spontanea la domanda: a che vale richiedere come essenziale requisito subiettivo (minimo) d’imputazione uno specifico rapporto tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni <preliminare> esame delle relazioni tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e fatto considerato nel relativo <integrale> disvalore antigiuridico viene eluso? E come é possibile risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve le osservazioni che, in proposito, saranno prospettate in seguito) del principio di colpevolezza, intesa quest’ultima come relazione tra soggetto e fatto, quando, non <rimuovendo> il principio d’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, sancito dall’art. 5 c.p., vengono <stroncate>, in radice, le indagini sulle metodiche d’incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonchè sulle <certezze> che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto, sulle garanzie che, in materia, di libertà d’azione, il soggetto attende dallo Stato?
Allo scopo d’un attento approccio all’esegesi dell’art. 27, primo comma, Cost., occorre a questo punto per il Collegio preliminarmente accennare al valore ed alla funzione che il momento subiettivo dell’antigiuridicità penale, il personale contrasto con la norma penale, assume nel sistema della vigente Costituzione: una parte della dottrina richiede anche un mutamento terminologico, valido a distinguere la concezione della colpevolezza quale fondamento etico della responsabilità penale dalla concezione che ne accentua la relativa funzione di limite al potere coercitivo dello Stato. A parte ogni questione sull’ammissibilità d’un’idea di colpevolezza che limiti senza fondare la potestà punitiva dello Stato, i richiesti mutamenti terminologici appaiono necessari ed anche urgenti; e, tuttavia, in questa sede, é preferibile mantenersi fermi alla tradizionale etichetta <colpevolezza> sia per ovvii motivi di chiarezza sia per sottolineare, pur nel variare, storicamente condizionato, delle nozioni dommatiche, la continuità dell’esigenza costituzionale del rispetto e tutela della persona alla quale viene attribuito il reato. Va, a questo proposito, sottolineato che non e stato sufficientemente posto l’accento sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato, denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell’illecito penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena. Qui – precisa la Corte – si usa il termine colpevolezza soprattutto in quest’ultima accezione mentre lo stesso termine, all’infuori della prospettiva costituzionale (nell’impossibilità di ritenere <costituzionalizzata>, come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con l’art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi dell’intera Costituzione, al fine di chiarire come l’art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza (attraverso l’esclusione d’ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa si che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi d’imputazione.
Va ancora precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Limpidamente testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia nella concezione che considera quest’ultima <fondamento>, titolo giustificativo dell’intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua particolarmente la relativa funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il <valore> della colpevolezza, la relativa insostituibilità. Per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare per il Collegio non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su <congrui> elementi subiettivi. La strutturale <ambiguità> della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d’intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioé, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella <non colpevole> e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto. A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai quali non e in grado, senza la benchè minima propria colpa, di ravvisare il dovere d’evitarli nascente dal precetto. Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto.
Le premesse precisazioni indicano la <chiave di lettura>, il quadro garantistico entro il quale inserire l’esegesi dell’art. 27, primo comma, Cost. Va intanto notato, per la Corte, che l’art. 27 Cost. non può esser adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire, spezzettata, senza collegamenti <interni>. I commi primo e terzo vanno letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono un’unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve possedere perché abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente, nel terzo comma. Delle due l’una: o il primo é in palese contraddizione con il terzo comma dell’art. 27 Cost. oppure é, appunto, quest’ultimo comma che svela, ove ve ne fosse bisogno, l’esatto significato e la precisa portata che il principio della responsabilità penale personale assume nella Costituzione. Sicché, quand’anche la lettera del primo comma dell’art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati da un’attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.
Nell’esame del merito dell’interpretazione dell’art. 27, primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori. E’ anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della norma in esame non risulta essere stata l’unico argomento dei dibattiti svoltisi, nella seduta del 18 settembre 1946, presso la 1a sottocommissione (della <Commissione per la Costituzione>) anzi, tale motivazione venne introdotta, come opinione personale del presidente della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta ed allo scopo di <mantenere> la norma (che costituiva il capoverso dell’art. 5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della relativa soppressione. Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia pur erronea, interpretazione della formula normativa potesse desumersi la legittimità di responsabilità penali senza partecipazione subiettiva. Alcuni Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero premonitrice, forti preoccupazioni sulla possibilità di equivoci nell’interpretazione della formula <La responsabilità penale é personale> e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere <configurabile> una responsabilità penale senza elemento subiettivo. La terminologia é spesso imprecisa ma la volontà certa. Si inizio, da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono casi in cui e <discutibile se si tratti di responsabilità personale o non si tratti di responsabilità penale anche per fatto altrui>. Si prosegui sottolineando che non si devono creare equivoci, anche <avuto riguardo agli artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice civile, articoli che non trovano la loro corrispondenza nel codice fascista>. Si sostenne, da altro Costituente, che la formula <La responsabilità penale é personale> fosse da mantenersi, essendo essa affermazione di libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo: <Si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio. Questo e il principio del diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di responsabilità personale significa richiamarsi ad un principio che domina nell’odierno pensiero della scienza giuridica>. Intorno ai <dubbi> (mette conto ribadirlo, non sulla necessità dell’elemento subiettivo per la responsabilità penale ma sulla possibilità che, interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere ammissibile una responsabilità senza elemento subiettivo) si chiesero <chiarimenti> sui <fatti penali commessi per ordine altrui> e, dando all’espressione <fatto altrui> un significato che includeva nel termine <fatto> anche l’elemento subiettivo, si osservò che quest’ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma materialmente il reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser chiamato a rispondere penalmente. Se chi opera materialmente, s’affermo esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l’esecuzione d’un ordine, la responsabilità non é più dell’esecutore dell’ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato l’ordine. Non é, dunque, responsabile <chi ha eseguito un ordine legittimo dell’autorità> perché manca di elemento suriettivo ed é responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all’esecutore) perché nel fatto é incluso il predetto elemento. Si replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti, affermando che <colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire>: <altrimenti risponderà colui che ha dato l’ordine e risponderà in persona propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso>. E si aggiunse che colui che esegue l’ordine <non risponde penalmente perché da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente>. Vi fu, poi, chi osservo che la responsabilità personale non é un principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell’anima, aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame da un canto perchè scontata e dall’altro perchè, ritornando sul principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che sono in colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui azioni non sono causa diretta o prossima dell’evento (<non sono direttamente colpevoli>).
Tutti i Costituenti dunque, prosegue la Corte, almeno fino a questo momento del dibattito, sostennero che la responsabilità penale personale implicava necessariamente, oltre all’elemento materiale, un requisito subiettivo e, per alcuni Costituenti, l’esistenza, in particolare, della possibilità di muovere rimprovero all’agente, potendo da lui pretendersi un comportamento diverso. Esaminando gli ulteriori interventi ci s’accorge che, soltanto quasi alla fine della discussione, mirandosi a respingere le richieste di soppressione della norma in esame, si spostò il dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma sostenendo che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla vita di Mussolini, si erano perseguiti i familiari dell’attentatore od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona che aveva consumato l’attentato e che, pertanto, la norma andava mantenuta. Da ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne usato, da chi sosteneva la motivazione politica dell’attuale primo comma dell’art. 27 Cost., come comprensivo dell’elemento subiettivo (attentare alla vita di Mussolini e agire colpevolmente) e dall’altro che tale motivazione tendeva (dichiarata per l’avvenire l’illegittimità costituzionale di sanzioni collettive) a non far ricadere su innocenti <colpe> altrui. L’intervento successivo a quello del presidente della prima sottocommissione é oltremodo eloquente in proposito: <…Proprio in questi ultimi tempi si sono viste delle persone pagare con la vita colpe che non avevano assolutamente commesso>. La motivazione politica della norma é, dunque, quella d’impedire che <colpe altrui> ricadano su chi é estraneo alle medesime. Né va dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre 1946) della stessa prima sottocommissione, allorché si tratto di sostituire il termine <colpevole> con quello di <reo>, dapprima si suggerì d’usare la parola <condannato> ma, successivamente, di fronte alla contestazione sull’inusualità del termine <condannato> fuori dalla sede processuale, si tornò, per un momento, alla parola <colpevole>, dichiarandosi espressamente: <Questa parola é più chiara, specialmente quando si parla di rieducazione del colpevole, perchè il termine di rieducazione presuppone una colpa>. Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con la norma di cui al primo comma dell’art. 27 Cost., ad escludere la responsabilità penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che alcuni Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame, sostitutivo della parola <personale> con l’espressione <solo per fatto personale> e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell’Assemblea costituente, si motivò l’emendamento, fra l’altro, affermando che si doveva armonizzare la responsabilità penale per fatto proprio con la responsabilità del direttore di giornali per reati di stampa, <cosi che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in presunzione iuris tantum>. E nella seduta pomeridiana del 27 marzo 1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora una volta, da parte d’altro autorevole presentatore, il citato emendamento, dichiarandosi: <… E qui conviene stabilire che la responsabilità penale é sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così delimitandosi quell’arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità presuntiva in materia giornalistica>. La responsabilità penale sorge, dunque, solo nell’effettiva presenza dell’elemento subiettivo: non si può mai dare per presunta la colpa. Se si tien presente che il caso della responsabilità penale del direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era considerato, nel 1946-47, dall’assoluta maggioranza della dottrina, classico caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo di collegamento con l’evento, non si può non dare il giusto rilievo all'<assicurazione> che il Presidente della prima sottocommissione, nella seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell’Assemblea, diede ai presentatori del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo, sull’inesistenza delle preoccupazioni affacciate, data la formulazione proposta dalla Commissione.
In conclusione, per la Corte va confermato che, per quanto si usino le espressioni fatto proprio e fatto altrui, che possono indurre in errore, in realtà, in tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell’art. 27 Cost., i Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d’imputazione del reato, ad escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di elementi subiettivi di collegamento con l’evento e, sul piano politico, a non far ricadere su <estranei> <colpe altrui>. E mai, in ogni caso, venne usato il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale, dell’azione cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso termine come comprensivo anche d’un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell’azione.
il significato del primo comma dell’art. 27 Cost. va chiarito, anche a parte i citati lavori preparatori, nei relativi, particolari rapporti con il terzo comma dello stesso articolo e con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost. Anzitutto, é per la Corte significativa la <lettera> del primo comma dell’art. 27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità penale é <per fatto proprio> ma la responsabilità penale é <personale>. Sicchè, chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo, per quanto, in sede penale, superato, della distinzione tra fatto proprio ed altrui (salvo a precisare l’esatta accezione, in materia, del termine <fatto>) dovrebbe almeno leggere la norma in esame come equivalente a: <La responsabilità penale é per personale fatto proprio>. Ma é l’interpretazione sistematica del primo comma dell’art. 27 Cost. che ne svela l’ampia portata. Collegando il primo al terzo comma dell’art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque s’intenda la funzione rieducativa di quest’ultima, essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la <rieducazione> di chi, non essendo almeno <in colpa> (rispetto al fatto) non ha, certo, <bisogno> di essere <rieducato>. Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò é sicuramente da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si dirà in tema d’ignoranza inevitabile della legge penale) alla predetta colpa dell’agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
Non é dato qui, per il Collegio, scendere ad ulteriori precisazioni: va soltanto chiarito che quanto sostenuto é in pieno accordo con la tendenza mostrata dalle decisioni assunte dalla Corte stessa allorché é stata chiamata a decidere sulla costituzionalità di ipotesi criminose che si assumeva non contenessero requisiti subiettivi sufficienti a realizzare il dettato dell’art. 27 Cost. Qui quella tendenza si completa e conclude. A parte un momento le affermazioni <di principio> contenute nelle citate decisioni, nessuno può disconoscere che, sempre, le sentenze, in materia, hanno cercato di ravvisare, nelle ipotesi concrete sottoposte all’esame della Corte, un qualche <requisito psichico> idoneo a renderle immuni da censure d’illegittimità costituzionale ex art. 27 Cost. Le stesse decisioni, pur muovendosi nell’ambito dell’alternativa tra fatto proprio ed altrui, non hanno mancato di ricercare spesso un qualche coefficiente soggettivo (anche se limitato) sul presupposto che il <fatto proprio> debba includere anche simile coefficiente per divenire <compiutamente proprio> dell’agente: cosi, ad esempio, nella sentenza n. 54 del 1964, nella quale si afferma che il reato in esame <presuppone nell’agente la volontà di svolgere quell’attività che va sotto il nome di ricerca archeologica e che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal necessario provvedimento amministrativo. Il fatto punito é perciò sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la sanzione penale viene comminata>: si noti che l’attività indicata, in mancanza d’evento naturalistico, integra l’intero fatto, oggettivo che, in conseguenza del riferimento ad esso della volontà dell’autore, <perciò sicuramente> costituisce <fatto proprio> dell’agente; così nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell’art. 539 c.p., si rileva come, pur in presenza dell’errore sull’età dell’offeso, la condotta del delitto di violenza carnale, essendo posta in essere volontariamente (e si badi: non esistendo, nell’ipotesi esaminata, evento naturalistico, tal condotta esaurisce il fatto, oggettivamente considerato, al quale va riferita la volontarietà) é con certezza riferibile all’autore come <fatto suo proprio>. Ed anche a proposito delle dichiarazioni <di principio> contenute nelle citate sentenze va sottolineato che, se si deve qui confermare che il primo comma dell’art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto della responsabilità per fatto altrui, va comunque precisato che ciò deriva dall’altro, ben più <civile> principio, di non far ricadere su di un soggetto, appunto estraneo al <fatto altrui>, conseguenze penali di <colpe> a lui non ascrivibili. Come e da confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per <fatto proprio> non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale (da notare che, anzi, nella fattispecie plurisoggettiva il fatto comune diviene anche <proprio> del singolo compartecipe in base al solo <favorire> l’impresa comune) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla <colpa> in senso stretto. Ed anche a proposito dell’esclusione, nel primo comma dell’art. 27 Cost., del tassativo divieto di responsabilità oggettiva, va per il Collegio precisato che (ricordata l’incertezza dottrinale in ordine alle accezioni da attribuire alla predetta espressione) se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non è coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente (c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria) si deve anche qui ribadire che il primo comma dell’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di <responsabilità oggettiva>. Diversamente va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto, per la c.d. responsabilità oggettiva pura o propria. Si noti che, quasi sempre è in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole <preventive> che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell’agente la colpa per il fatto realizzato. Ma, ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva <pura> alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere <coperti> almeno dalla colpa dell’agente perché sia rispettato da parte del disposto di cui all’art. 27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto. E non va, infine, dimenticata la sentenza n. 3 del 1956, nella quale limpidamente si afferma: <Ma appunto il direttore del periodico risponde per fatto proprio, per lo meno perché tra la sua omissione e l’evento c’é un nesso di causalità materiale, al quale s’accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 c.p.) sufficiente, come é opinione non contrastata, a conferire alla responsabilità il connotato della personalità>. A parte ogni rilievo, peraltro già sottolineato, in ordine all’alternativa tra fatto proprio ed altrui, é altamente indicativa l’affermazione per la quale al nesso di causalità materiale s’accompagna <sempre> un certo nesso psichico.
La verità é – chiosa ancora la Corte – che non va <continuata> la polemica sulla costituzionalizzazione, o meno, del principio di colpevolezza, di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado l’evidente inversione metodologica, sia consentito interpretare le norme costituzionali alla luce delle norme ordinarie (qual é, peraltro, tra le tante concettualizzazioni scientifiche, la nozione di colpevolezza che dovrebbe essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i contenuti delle norme costituzionali che determinano i requisiti subiettivi <minimi> d’imputazione, a prescindere un momento dal sistema ordinario, desunto dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., occorre verificare, di volta in volta, se le singole ipotesi criminose di parte speciale (collegate con le disposizioni di parte generale) siano o meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai requisiti minimi richiesti dalle autonomamente interpretate norme costituzionali. La stessa possibilità (che si chiarirà, fra poco, essere essenziale per il giudizio di responsabilità penale) di muovere al l’autore un <rimprovero> per la commissione dell’illecito non equivale ad accoglimento da parte della Costituzione (a costituzionalizzazione) d’una delle molteplici concezioni <normative> della colpevolezza prospettate in dottrina bensì costituisce autonomo risultato, svincolato da ogni premessa concettualistica, dell’interpretazione dei commi primo e terzo dell’art. 27 Cost., anche se, per accidens, tale <rimprovero> venga a coincidere con una delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in dottrina o desunte da un determinato sistema ordinario. A conclusione del primo approccio interpretativo del disposto di cui al primo comma dell’art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Il fatto (punibile, <proprio> dell’agente) va, dunque, nella materia che si sta trattando, costituzionalmente inteso in una larga, anche subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva, d’insieme di elementi oggettivi. La <tipicità> (oggettiva e soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle diverse ipotesi criminose, ulteriori elementi subiettivi, come il dolo ecc.) costituisce, cosi, primo, necessario <presupposto> della punibilità ed é distinta dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso.
Dal collegamento tra il primo e terzo comma dell’art. 27 Cost. risulta, altresì, insieme con la necessaria <rimproverabilità> della personale violazione normativa, l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali <dispregiati> e l’opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della dimostrata <soggettiva antigiuridicità> del fatto. Discende che, anche quando non si ritenesse la <possibilità di conoscenza della legge penale> requisito autonomo d’imputazione costituzionalmente richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla conclusione che, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere d’osservare le leggi penali (che, per i cittadini, è specificazione di quello d’osservare le leggi della Repubblica, sancito dal primo comma dell’art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere, implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od in una <subiettiva>, limitata alla colpa del fatto. Trattandosi, appunto, dell’applicazione d’una pena, da qualunque teoria s’intenda muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s’é già avvertito, non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere essere <rimproverabile>, l’impossibilita di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell’illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà dell’interessato deve necessariamente escludere la punibilità. Il vigente sistema costituzionale – chiarisce la Corte – non consente che l’obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti sorga e si violi (attraverso la commissione del fatto di reato) senza alcun riferimento, se non all’effettiva conoscenza del contenuto dell’obbligo stesso, almeno alla <possibilità> della sua conoscenza. Se l’obbligo giuridico si distingue dalla <soggezione> perché, a differenza di quest’ultima, richiama la partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere l’obbligo d’osservanza delle leggi (delle <singole>, particolari leggi) penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare la relativa violazione soltanto ai requisiti <subiettivi> attinenti al fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d’altra parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza. Quanto ora precisato già basterebbe a far ritenere l’art. 5 c.p. incostituzionale nella parte in cui impedisce ogni esame della rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell’ignoranza della (od errore sulla) legge penale. Anche quando non si sia dell’avviso che l’art. 5 c.p. operi nell’ambito della colpevolezza e lo si agganci, come nel codice Rocco, all’obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritenere contrastante con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all’ignoranza od errore sul precetto dovute all’impossibilità (non rimproverabile) di conoscerlo. Il modo più appagante per convalidare tutto ciò, precisa ancora la Corte, é quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la <possibilità di conoscere la norma penale> autonomo presupposto necessario d’ogni forma d’imputazione e che estende la sfera d’operatività di tale <presupposto> a tutte le fattispecie penalmente rilevanti, comprese le dolose. Considerando il combinato disposto del primo e terzo comma dell’art. 27 Cost. nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla <possibilità di conoscere la norma penale> va, infatti, attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti: tale <possibilità> é, infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato.
Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non esser puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelano la funzione d’orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali. Non é, infatti, senza significato che il principio di legalità, inteso come <riserva di legge statale> sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex scripta. I principi di tassatività e d’irretroattività delle norme penali incriminatrici, nel l’aggiungere altri contenuti al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire i cittadini, attraverso la <possibilità> di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione. E tutto ciò si chiarisce ancor più (come é stato sottolineato in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello <Stato di diritto>, anche il principio di riserva di legge penale e gli altri precedentemente indicati, sono espressione della contropartita (d’origine contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto, dell’obbligatorietà della legge penale: lo Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli su ciò che é vietato o comandato ma richiede dai singoli l’adempimento di particolari doveri (sui quali ci si soffermerà fra breve) mirati alla realizzazione dei precetti <principali> relativi ai fatti penalmente rilevanti.
Va qui precisato, chiosa ancora la Corte, che le garanzie di cui agli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., per loro natura formali, vanno svelate nelle loro implicazioni: queste comportano il contemporaneo adempimento da parte dello Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla formulazione, struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono essere conosciute solo allorchè si rendano <riconoscibili>. Il principio di <riconoscibilità> dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessita che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di <rilievo costituzionale> e tali da esser percepite anche in funzione di norme <extrapenali>, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare. L’osservazione dell’ <istante> in cui si viola la legge penale nell’ignoranza della medesima non può far dimenticare, come s’é avvertito all’inizio, che, <prima> del rapporto tra soggetto e <singola> legge penale, esiste un ben definito rapporto tra ordinamento e soggetto <obbligato> a non violare le norme, dal quale ultimo rapporto il primo e necessariamente condizionato. E stato osservato e ribadito, esattamente, che un precetto penale ha valore, come regolatore della condotta, non per quello che è ma per quel che appare ai consociati. E la conformità dell’apparenza all’effettivo contenuto della norma penale dev’essere assicurata dallo Stato che é tenuto a favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale dell’effettivo contenuto precettivo delle norme. Oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste, pertanto, un altro <presupposto> della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla <riconoscibilità> dell’effettivo contenuto precettivo della norma. L’oggettiva impossibilita di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi <chiunque> (non soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato) non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della personale responsabilità penale.
Il problema centrale, per il tema che consta, attiene per la Corte ai doveri <strumentali> di conoscenza delle leggi, incombenti sui c.d. destinatari dei precetti penali e, conseguentemente, ai limiti dei predetti doveri. Il passaggio dall’oggettiva possibilità di conoscenza delle leggi penali, assicurata dallo Stato all’effettiva, concreta conoscenza delle leggi stesse avviene attraverso la <mediazione>, ovviamente insostituibile, dell’attività conoscitiva dei singoli soggetti. Supposta esistente, in fatto, l’oggettiva possibilità di conoscenza d’una particolare legge penale, i soggetti privati, divenendo diretti destinatari dell’obbligo (principale) d’adempimento del precetto oggettivamente conoscibile, devono operare la predetta, insostituibile mediazione. A questo fine incombono sul privato, preliminarmente, strumentali, specifici doveri d’informazione e conoscenza: ed é a causa del non adempimento di tali doveri che é costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche chi ignora la legge penale. Gli indicati doveri d’informazione, di conoscenza ecc. costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale, di cui all ‘art. 2 Cost. La Costituzione richiede dai singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del rispetto degli interessi dell'<altrui> persona umana: ed e per la violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi non conoscendone positivamente la tutela giuridica. Posto, dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista cioè, per l’agente l’oggettiva <possibilità> di conoscere le leggi penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi. L’assoluta, <illuministica> certezza della legge sempre più si dimostra assai vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di <letture> ed interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di <entrate in vigore> di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori <seconde> mediazioni. La completa, in tutte le relative forme, sicura interpretazione delle leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni: quelle ad es. di tecnici, quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le violazioni delle norme, ecc.). Specifici, particolari doveri, nei destinatari delle leggi penali (di richiesta e controllo delle informazioni ricevute, ecc.) discendono da un sistema di norme .strumentali, la violazione delle quali già denota quanto meno una <trascuratezza> nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell’ordinamento tutto. D’altra parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle <richieste> preventive dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri. Come é stato rilevato, discende dall’ideologia contrattualistica l’assunzione da parte dello Stato dell’obbligo di non punire senza preventivamente informare i cittadini su che cosa é vietato o comandato ma da tale ideologia discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli s’informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima d’agire. La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell’ignoranza delle legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l’attenzione <dovuta>. Ma se non v’é stata alcuna violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si e dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza é <inevitabile> e, pertanto, scusabile. Non esiste, é vero, un <autonomo> obbligo di conoscenza delle singole leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia, l’esistenza in testa ai c.d. destinatari dei precetti <principali>, nei confronti di tutto l’ordinamento, di doveri <strumentali>, d’attenzione, prudenza ecc. (simili a quelli che caratterizzano le fattispecie colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di <interessi altrui>; doveri già incombenti prima della violazione delle singole norme penali, mirati, attraverso il loro adempimento e, conseguentemente, attraverso la raggiunta conoscenza delle leggi, a prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle medesime. Inadempiuti tali doveri, l’ignoranza della legge risulta inescusabile, evitabile. Adempiuti ai medesimi la stessa ignoranza, divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile, esclude, la rimproverabilità e, pertanto, la responsabilità penale.
L’effettiva possibilità di conoscere la legge penale é, dunque, ulteriore requisito subiettivo minimo d’imputazione, che si ricava dall’intero sistema costituzionale ed in particolare dagli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost. Tale requisito viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato. Non si creda, peraltro, che, ricavandosi il requisito della <possibilità> di conoscere la legge penale dall’intero sistema costituzionale (ed in particolare dai precitati articoli) esso sia estraneo all’art. 27, primo comma, Cost., quasi che quest’ultimo comma si riferisca soltanto alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle ipotesi di colpa in senso stretto, delle norme preventive che caratterizzano la colpa oltre, se mai, alla <rimproverabilità> dell’autore del reato. Vero é che l’art. 27, primo comma, Cost., dichiarando che la responsabilità penale e personale, non soltanto presuppone la <personalità> dell’illecito penale (la pena, appunto <in virtù> della <personalità> della responsabilità penale, va subita dallo stesso soggetto al quale é personalmente imputato il reato) ma compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d’imputazione. Il comma in discussione, interpretato in relazione al terzo comma dello stesso articolo ed in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., svela non soltanto l’essenzialità della colpa dell’agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica ma anche l’indispensabilità del requisito minimo d’imputazione costituito dall’effettiva <possibilità di conoscere la legge penale>, essendo anch’esso necessario presupposto della <rimproverabilità> dell’agente. Il principio della <personalità dell’illecito penale> é <totalmente> implicato dal principio della <responsabilità penale personale> espresso, appunto, dal primo comma dell’art. 27 Cost.: che l’integrale contenuto di questo comma debba esser svelato anche in base alla relativa interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso.
A questo punto va precisata – chiosa la Corte – l’interpretazione da dare all’art. 5 c.p. nel momento in cui lo si <confronta> con gli articoli della Costituzione innanzi richiamati e con l’intero sistema, in materia penale, della Carta fondamentale. Per quanto occorra allontanare le tentazioni di sopravvalutazione dell’art. 5 c.p. (e quasi impensabile, infatti, che un soggetto <imputabile>) commetta i c.d. delitti naturali nell’ignoranza della loro <illiceità> mentre l’ignoranza delle norme incriminatrici dei c.d. reati di pura creazione legislativa, tenuto conto del loro sempre crescente numero e del relativo <più intenso> dovere di conoscenza da parte dei soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono, si rivela, di regola, inescusabile) lo stesso articolo costituisce, tuttavia, norma fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali ordinarie. Le interpretazioni che dottrina e giurisprudenza offrono dell’art. 5 c.p., soprattutto allo scopo di distinguere l’irrilevante errore sul precetto dal rilevante errore sulla legge extrapenale di cui all’art. 47, terzo comma, c.p., sono tanto varie e così diverse tra loro che é impossibile tentarne una sia pur sommaria esposizione. Qui occorre prendere le mosse dalla <rigorosa> interpretazione che dello stesso articolo danno una parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità (esclusa la <parentesi> della rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni). Non é questa, infatti, la sede per procedere ad un’interpretazione <esaustiva> della norma impugnata: non, essendo invero, possibile qui chiarire, con precisione, neppure l’oggetto sul quale cade il <vizio>, che l’art. 5 c.p. sottende ed in base al quale, ove lo stesso articolo non esistesse, l’agente sarebbe scusato, vale qui riportarsi, in materia, alle dottrine che risultano in accordo con la citata <rigorosa> interpretazione dell’articolo in discussione: tali dottrine sottolineano che, incidendo l’art. 5 c.p. sul momento subiettivo dell’antigiuridicita, l’errore che, ai sensi dello stesso articolo, non scusa é quello che cade sul precetto, sull’aspetto determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che valutazione e determinazione sono inscindibili nella norma penale. Per nessuno degli aspetti dai quali viene considerato l’art. 5 c.p. si può, infatti, qui partire dalle riduttive interpretazioni che dello stesso articolo alcuni Autori offrono, pur nel lodevole tentativo di <mitigarne> il rigore: non foss’altro perchè tali interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente. Vero é che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale, tra soggetto e norma penale, vanno impostati, come impone la Costituzione, nell’ambito dell’autonomo requisito <possibilità di conoscenza della legge penale> sulla quale ci si e soffermati innanzi: allorché s’ignori la legge penale e l’ignoranza sia inevitabile la mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, diviene, ai sensi dell’art. 27, primo comma, Cost., rilevante (risultando esclusa la personalità dell’illecito e non essendo legittima la punizione in carenza del requisito della colpevolezza costituzionalmente richiesta) mentre, ove l’ignoranza della legge penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, non esclude la punizione dell’agente che versa in errore di diritto (sempre che si realizzino tutti gli altri requisiti subiettivi ed obiettivi d’imputazione) giacché, in quest’ultima ipotesi, tale mancata relazione già rivela quanto meno un'<indifferenza> dell’agente nei confronti delle norme, dei valori tutelati e dell’ordinamento tutto. Richiamato l’art. 5 c.p. alla logica dell’elemento subiettivo, della colpevolezza, che lo stesso articolo arbitrariamente mutila; rilevato il contrasto tra l’articolo in discussione e l’art. 27, primo comma, Cost. (espressivo quest’ultimo, come s’é innanzi chiarito, dell’intero sistema costituzionale in materia di elemento subiettivo del reato); la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 5 c.p. esclude, in ogni caso, che siano chiamati a rispondere penalmente coloro che versano in stato d’inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.
Allo stesso modo non é in questa sede, prosegue la Corte, consentito riferirsi all’interpretazione dell’art. 5 c.p., secondo la quale quest’ultimo, mentre dichiarerebbe irrilevante la conoscenza effettiva della legge penale, nulla disporrebbe in ordine alla possibilità di tale conoscenza. Questa tesi e degna di particolare considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla possibilità di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo dall’art. 27, primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo la necessita di considerazione d’una qualche relazione psicologica del soggetto con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti, ai principi di fondo della convivenza democratica a termini dei quali, si ribadisce, così come il cittadino é tenuto a rispettare l’ordinamento democratico, quest’ultimo é tale in quanto sappia porre i privati in grado di comprenderlo senza comprimere la loro sfera giuridica con divieti non riconoscibili ed interventi sanzionatori non prevedibili. Senonché, alla predetta interpretazione riduttiva dell’art. 5 c.p. e stato esattamente osservato che quest’ultimo, escludendo ogni efficacia scusante dell’ignoranza della legge penale, non consente alcuna distinzione attinente alla causa dell’ignoranza, in modo da ritenere l’ignoranza scusabile, a differenza di quella inescusabile, suscettibile di diverso trattamento. D’altra parte, la proposta interpretazione <adeguatrice>, ex art. 27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in stridente contrasto con l’interpretazione che il diritto vivente da all’art. 5 c.p.: non solo non s’interpreta questo articolo, soprattutto da parte della giurisprudenza di legittimità (tranne l'<eccezione> della buona fede nelle contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all’art. 5 c.p. la massima <espansione> , si é, da parte della stessa giurisprudenza, finito, praticamente, con l’addivenire ad una interpretatio abrogans dell’art. 47, terzo comma, c.p. E poiché anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza alla <positiva> buona fede nelle contravvenzioni non trova fondamento nell’attuale sistema del Codice Rocco (l’art. 5 c.p., statuendo, in ogni caso, l’irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, non consente di distinguere la disciplina giuridica delle ipotesi che danno luogo all’ignoranza <inqualificata> da quelle che la <qualificano> per esser fondate sulla <positiva> buona fede del soggetto); e poiché anche le diverse interpretazioni <evolutive> dell’art. 5 c.p., secondo le quali lo stesso articolo statuirebbe soltanto una presunzione iuris tantum e non iuris et de iure d’irrilevanza dell’ignoranza della legge penale (tutte, peraltro, degne di considerazione, in quanto mirate ad attenuare l’incostituzionale rigore della statuizione in esame) contrastano con l’interpretazione che dell’articolo in discussione da il diritto vivente; non resta, dunque, che partire qui da quest’ultima interpretazione.
Non può tacersi a questo punto per la Corte che l’art. 5 c.p. ha natura <bifronte>: da un canto nega efficacia scusante all’ignoranza della legge penale e dall’altro esclude ogni rilevanza all’errore sull’illiceità del fatto e, pertanto, alla consapevolezza della stessa illiceità. E’ stato, invero, in dottrina, precisato che l’art. 5 c.p. non disciplina l’ignoranza della legge penale in astratto ma l’ignoranza (od errore) <essenziale>, anche incolpevole, sull’illiceità d’un concreto comportamento. Si possono, é vero, attenuare gli inconvenienti che si producono a seguito del disposto di cui all’art. 5 c.p., in sede di dolo, sostenendo essenziale al medesimo, ex art. 43 c.p., la coscienza della violazione dell’interesse tutelato ed assumendo che l’art. 5 c.p. renda irrilevante soltanto la coscienza dell’illiceità penale (= punibilità) del fatto. Ma per le ipotesi colpose il soggetto agente verrebbe ad esser punito senza nemmeno la più lontana possibilità (carenza incolpevole) di conoscere la <giuridicità> delle regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali lo stesso soggetto vien punito. Va aggiunto che l’esistenza d’una norma, quale quella dell’art. 5 c.p., diretta ad escludere ogni giuridico rilievo all’ignoranza (od errore) sulla legge penale, presuppone la contrapposta possibilità, almeno teorica, che il reo, in assenza di tale norma, pretenda scusarsi: ed il reo, in tal caso, si scuserebbe adducendo il <turbamento>, prodotto dall’ignoranza della legge penale sul processo formativo della volontà del fatto. Nell’ipotesi prospettata, tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una <pretesa> d’essere scusati (nell’inesistenza dell’art. 5 c.p.) sol in base all’ignoranza , anche inescusabile, della sola punibilità del fatto (pur essendo coscienti di ledere il bene tutelato) e d’altro canto sarebbe sempre l’errore nella formazione della concreta volontà dell’illecito, al quale consegue la carenza di coscienza dell’illiceità penale del fatto, anche se dovuta all’ignoranza (od errore) sulla legge penale, a costituire la ragione della <scusa>, che appunto, lo stesso articolo esclude. Senonché, a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova che l’art. 5 c.p., nell’attuale vigore, non soltanto determina un uguale trattamento di chi agisce con la coscienza dell’illiceità (totale o soltanto penale) del fatto e di chi opera senza tale coscienza ma esclude ogni possibilità di valutazione della <causa> della mancata coscienza (della sola punibilità o dell'<intera> antiprecettività del fatto) trattando allo stesso modo errore scusabile, inevitabile ed errore inescusabile, evitabile, sull’illiceità. Punendo, in ogni caso, l’agente che versa in errore di diritto l’art. 5 c.p. presume, iuris et de iure, comunque si delimiti l’oggetto di tale errore, la <rimproverabilità> del medesimo. Vero é che l’art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a questa l’importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge penale e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto. Ma l’art. 5 c.p. <snatura>, togliendone fondamento, anche la residua materia che non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del fatto ecc.). Allorché l’agente ignora, del tutto incolpevolmente, la legge penale e, pertanto, incolpevolmente ignora l’illiceità del fatto, non mostra alcuna opposizione ai valori tutelati dall’ordinamento: può il relativo dolo costituire oggetto di rimprovero ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.? Certo, includendo nel dolo la coscienza dell’offesa (a parte ogni discussione sulla conseguente riduttiva interpretazione dell’art. 5 c.p.) si attenuano gli effetti che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione dello stesso articolo. Senonché, pur ammettendo che l’art. 5 c.p. sottragga alla colpevolezza soltanto il rapporto tra soggetto e coscienza del significato illecito <penale> del fatto e non dell’intero disvalore antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a prescindere dalla pratica <inoperatività>, in tal caso, dell’art. 5 c.p.) rimarrebbero del tutto <scoperte> le ipotesi colpose (contravvenzionali ad es.). Per assumere il soggetto agente <in colpa> dovrebbe, invece, almeno essergli offerta la <possibilità> di conoscere le norme penali che <trasformano> in doverose le regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali, nella prevedibilità ed evitabilità concreta dell’evento, si viene chiamati a rispondere: se l’agente, del tutto incolpevolmente, ignorasse le predette norme penali, la relativa <colpa> (del fatto) non dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27, primo e terzo comma, Cost. La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto, arricchita, in attuazione dell’art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale nell’ignoranza di quest’ultima, l’atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri d’informazione o d’attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla base della convivenza civile. Né si tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma di <colpa per la condotta della vita>: risalire alle <cause> dell’ignoranza della legge penale, per verificarne l’evitabilità, costituisce verifica dell’esistenza, in concreto, almeno d’un atteggiamento d’indifferenza, da parte dell’agente, nei confronti della doverosa informazione giuridica. Tale verifica non solo non viola il principio della responsabilità penale <per il singolo fatto> ma mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del particolare episodio criminoso e può, condurre, come più volte ribadito, all’esclusione della colpevolezza per il singolo fatto, nell’ipotesi d’inevitabilità dell’ignoranza.
L’art. 5 c.p. viola infine per la Corte anche l’art. 3, primo e secondo comma, Cost. In ordine alla violazione del primo comma dell’art. 3 Cost. va anzitutto ricordato (a conferma di quanto innanzi osservato in ordine all’uguale trattamento che, ai sensi dell’art. 5 c.p., riceve chi agisce con la coscienza dell’illiceità del fatto e chi invece con tale coscienza non opera) che, come ha avuto modo di rilevare recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell’ignoranza della legge penale dovuta ad impossibilita di prenderne conoscenza vien punito con una pena che, rispetto a quella cui soggiace chi commette lo stesso reato conoscendone l’illiceità, può esser diminuita soltanto entro i limiti edittali ex art. 133 c.p. o, se mai, ex art. 62 bis c.p. La diversità tra le predette situazioni (conoscenza effettiva ed impossibilita incolpevole di conoscenza della legge penale) é, invece, notevole sia sotto il profilo del disvalore sia sotto quello della <sintomaticità>. L’art. 5 c.p. viola, dunque, anche il primo comma dell’art. 3 Cost. Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell’articolo ora citato, va ribadito per il Collegio che il non poter addurre a scusa dell’ignoranza della legge penale l’obiettiva o la subiettiva (nei limiti anzidetti) impossibilita di conoscere la stessa legge equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe della predetta ignoranza. Ben é, invece, almeno possibile, come s’é già sottolineato, che lo Stato non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o <prevedibili>) alcune leggi; oppure che, malgrado ogni positiva predisposizione di determinanti soggetti all’adempimento dei predetti doveri strumentali d’informazione ecc., l’ignoranza della legge penale sia dovuta alla mancata rimozione degli <ostacoli> di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost.
In conclusione: oltre agli specifici articoli della Costituzione indicati in precedenza, l’art. 5 c.p., nell’interpretazione che del medesimo danno una parte della dottrina e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s’é sottolineato più volte, lo spirito stesso dell’intera Carta fondamentale ed i relativi, essenziali principi ispiratori. Far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della relativa, consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.
Non resta per la Corte che accennare ai criteri, ai parametri in base ai quali va stabilita l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale. E, invero, di gran rilievo impedire che, in fase applicativa, vengano a prodursi, insieme alla <vanificazione> delle risultanze qui acquisite, altre violazioni della Carta fondamentale. E’ doveroso, per prima cosa, chiarire che, ove una particolare conoscenza, da parte del soggetto agente, consenta al medesimo la possibilità di conoscere la legge penale, non e legittimo che lo stesso soggetto si giovi d’un (eventuale) errore generale, comune, sul divieto. Ciò va rilevato non perché si disconoscano i tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della dottrina mirati, attraverso l’oggettivazione, per quanto possibile, dei criteri di misura della colpevolezza, a sottolinearne l’aspetto, peraltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d’azione ma perché non é desumibile dalla Costituzione la legittimità d’una concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare il soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei prescritti elementi subiettivi) quando esista, in concreto, la possibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale, comune errore sul divieto) per il singolo agente di conoscere la legge penale e, pertanto, l’illiceità del fatto. Ammettere, allo stato attuale della normativa costituzionale ed ordinaria, il soggetto agente (che e in errore sull’illiceità del fatto per ignoranza della legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest’ultima e di non errare sulla predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto, determinato dall’altrui, generale, inevitabile ignoranza della legge penale, val quanto riconoscere all’errore comune sul divieto penale il valore di consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali. Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comportava, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall’esame di eventuali, particolari conoscenze ed <abilità> possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all’autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della legge penale escludono che l’ignoranza della legge penale vada qualificata come inevitabile. Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l’inevitabilità dell’errore sul divieto, ci si valga di <altri> criteri (c.d. <misti>) secondo i quali la predetta inevitabilità può esser determinata, fra l’altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s’é formata la deliberazione criminosa (es. <assicurazioni erronee> di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell’agente per lo stesso fatto ecc.) occorre tener conto della <generalizzazione> dell’errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quanto detto subito appresso) sarebbe caduto nell’errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell’agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dall’indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche <cognizioni> (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l’origine lassistica o compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali ecc.) é tenuto a <controllare> le informazioni ricevute. Il fondamento costituzionale della <scusa> dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’inferiorità e non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali.
La casistica relativa all'<inevitabilità> dell’errore sul divieto va conclusa con alcune precisazioni. E’ stato, in dottrina, osservato che, realisticamente, l’ipotesi d’un soggetto, sano e maturo di mente, che commetta un fatto criminoso ignorandone l’antigiuridicità é concepibile soltanto quando si tratti di reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale (es. violazione di alcune norme fiscali ecc.). E, in relazione a queste categorie di reati, sono state opportunamente prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si rappresenti la possibilità che il relativo fatto sia antigiuridico e quella in cui l’agente neppure si rappresenti tale possibilità. Or qui occorre precisare che, mentre nella prima ipotesi, esistendo, in concreto (ben più della possibilità di conoscenza dell’illiceità del fatto) l’effettiva previsione di tale possibilità, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale (essendo il soggetto obbligato a risolvere l’eventuale dubbio attraverso l’esatta e completa conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad astenersi dall’azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia dell’azione sia dell’astensione e soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s’incorre, ugualmente, nella sanzione penale); la seconda ipotesi comporta, da parte del giudice, un’attenta valutazione delle ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge penale, non s’é neppure prospettato un dubbio sull’illiceità del fatto. Or se l’assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non colpevole carenza di socializzazione dell’agente, l’ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile. Inevitabile si palesa anche l’errore sul divieto nell’ipotesi in cui, in relazione a reati sforniti di disvalore sociale e, per l’agente, socializzato oppur no, oggettivamente imprevedibile l’illiceità del fatto. Tuttavia, ove (a parte i casi di carente socializzazione dell’agente) la mancata previsione dell’illiceità del fatto derivi dalla violazione degli obblighi d’informazione giuridica, che sono, come s’é avvertito, alla base d’ogni convivenza civile deve ritenersi che l’agente versi in evitabile e, pertanto, rimproverabile ignoranza della legge penale. Come inevitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale versa chi, professionalmente inserito in un determinato campo d’attività, non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo. La casistica non può esser qui approfondita: basta aver indicato che (alla luce del fondamento costituzionale della scusa dell’inevitabile ignoranza della legge penale) allo scopo di verificare, in concreto, tale inevitabilità, da un canto e necessario (per garantire la certezza della libertà d’azione del cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. <puri> e <misti> e dall’altro canto é doveroso recuperare la spersonalizzazione, causata dall’uso preponderante di tali criteri, con l’esame delle particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto agente. La giurisprudenza va, infine, rinviata, nell’interpretazione ed applicazione del nuovo testo dell’art. 5 c.p. ai criteri generali che, in tema di responsabilità a titolo di colpa e di buona fede nelle contravvenzioni, la stessa giurisprudenza é andata via via adottando. Il nuovo testo dell’art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo che qui si va a dichiarare, risulta cosi formulato: <L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile> Non resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre all’eventuale emanazione di norme <di raccordo>) stabilire se l’ignoranza evitabile della legge penale meriti un’attenuazione di pena, come per gli ordinamenti tedesco occidentale ed austriaco, oppure se il sistema dell’ignoranza della legge penale debba restare quello risultante a seguito della qui dichiarata parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p.
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Il 13 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.1085, che dichiara costituzionalmente illegittimo l’art.626, comma 1, n.1, c.p. in tema di furto d’uso laddove non estende la disciplina da esso prevista alla mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito o forza maggiore. Per la Corte, perché l’art. 27, comma 1, Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, palesandosi altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili, e dunque anche soggettivamente disapprovati.
La norma di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. viola, per la Corte, l’art.27, primo comma, Cost., in quanto esclude che, nella specie all’esame del giudice a quo, sia applicabile la disciplina dettata per il furto d’uso. La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune. Non vi è dubbio alcuno sul fatto onde la restituzione della cosa sottratta costituisce elemento essenziale e particolarmente significativo della fattispecie di furto d’uso. Ma, altrettanto essenziale e significativa è, per la Corte, la mancata restituzione della cosa sottratta, tenuto conto dell’eventuale esclusione dell’applicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto d’uso e della conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto ordinario. Il comando legislativo, diretto al soggetto attivo del reato, si configura in questi termini: “se hai sottratto la cosa mobile altrui allo scopo di momentaneamente usarla, restituiscila immediatamente“; in altre parole: “opera, attivati a restituirla (nel qual caso otterrai una notevole riduzione di pena ed il delitto sarà perseguito soltanto a querela di parte); se, invece, non la restituirai, immediatamente dopo l’uso, si applicheranno le gravi sanzioni determinate dalla legge per il furto ordinario e non saranno invocabili restrizioni alla perseguibilità del delitto“.
Nella sistematica dei rapporti tra furto comune e furto d’uso, allo stesso modo per il quale l’effettiva restituzione della cosa sottratta (in quanto realizzazione dell’iniziale intenzione del reo) esclude l’ipotesi, e le ridotte sanzioni, del furto comune, la (volontaria) mancata restituzione della predetta cosa – salvo quanto si preciserà fra poco – esclude per la Corte il disposto relativo al furto d’uso e, conseguentemente, rende applicabili le gravi sanzioni previste per il furto comune. Non resta allora che stabilire i criteri in base ai quali valutare, nel furto d’uso, la mancata restituzione della cosa sottratta. Poiché tale mancata restituzione, nel furto d’uso, risulta essere positivamente valutata dal legislatore, essa va trattata in maniera analoga alle omissioni: la mancata restituzione va considerata, come per l’omissione, soltanto estremo oggettivo. L’analisi deve, pertanto, incentrarsi sull’esistenza del correlativo elemento subiettivo: l’elemento oggettivo della condotta negativa, per esser imputato, va integrato dai corrispondenti requisiti subiettivi e cioè dalla volontà di non restituire la cosa sottratta. Or nella specie all’esame del giudice a quo – prosegue la Corte – non soltanto non è stata dimostrata, nel soggetto attivo del fatto, la volontà di “non restituire” ma risulta provata, secondo l’assunto dello stesso giudice, l’esistenza nel reo, già al momento della sottrazione e dell’impossessamento della cosa, della contraria volontà, mai mutata, d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
La giurisprudenza e la dottrina che sono dell’avviso che sia applicabile la normativa del furto comune anche all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta – soggiunge la Consulta – interpretano l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. alla luce del sistema del vigente codice penale, nel quale non soltanto è prevista la responsabilità oggettiva ma vige il principio: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. Ed infatti, la dottrina esplicitamente afferma che, in caso di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, risponde di furto comune anche chi ha sottratto la cosa allo scopo di farne uso momentaneo e con l’intenzione d’immediatamente restituirla, a cagione della vigenza, nel codice penale del 1930, del principio ora ricordato. Senonché, tale principio contrasta per la Corte con l’art. 27, primo comma, Cost.
La sentenza n. 364 del 1988, nell’interpretare, alla luce dell’intero sistema costituzionale, il parametro ora richiamato, ha sancito che dal medesimo risulta richiesto, quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. Ed innanzi si è sottolineato che, se l’intenzione di restituire la cosa e l’effettiva sua restituzione sono altamente significativi e caratterizzanti la fattispecie tipica di furto d’uso, anche la mancata restituzione della cosa sottratta non può che essere particolarmente significativa ai fini d’escludere l’applicabilità delle ridotte sanzioni di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. e di rendere conseguentemente applicabili le gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Non può tacersi – prosegue la Corte – che ben a ragione, quasi unanimemente, dottrina e giurisprudenza concludono nel senso che, per l’applicazione del disposto relativo al furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta deve, in concreto, costituire realizzazione della particolare intenzione di restituire, già presente al momento dell’impossessamento, nell’autore del reato e non “oggettivo” evento dovuto al caso: or non si comprende perché mai la restituzione della cosa sottratta non operata, direttamente od indirettamente, dallo stesso reo non si ritiene integrare l’estremo dell’effettiva restituzione richiesto dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. ed invece la mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore, del tutto estranea alla volontà del reo, debba aver rilevanza, ai fini dell’esclusione dell’applicabilità delle disposizioni relative al furto d’uso; con l’assurda conseguenza che il soggetto agente, che fortunatamente fosse riuscito a restituire la cosa sottratta, verrebbe perseguito soltanto a querela di parte e sanzionato con le pene ridotte di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. mentre altro soggetto, con la stessa intenzione del primo in ordine alla restituzione della cosa, sol perché impedito sfortunatamente a riconsegnare la cosa sottratta, dovrebbe essere più gravemente punito per furto ordinario.
È ben vero, prosegue la Corte, che la massima: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il versari in re illicita: così, nella specie all’esame del giudice a quo, il dolo della sottrazione e dell’impossessamento della cosa mobile altrui. Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (nella specie, mancata restituzione della cosa per caso fortuito o forza maggiore) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo. Dal primo comma dell’art. 27 Cost., come è stato chiarito nella citata sentenza n. 364 del 1988, non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o, nella specie, tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento.
È ben vero che la fattispecie di furto d’uso è unitaria ed unitariamente valutata dal legislatore: in essa, oltre all’effettiva restituzione della cosa sottratta, il dolo dell’impossessamento per lo scopo di momentaneamente usare della cosa altrui e l’intenzione di restituirla immediatamente dopo l’uso sono elementi costitutivi della tipica, attenuata illiceità del furto d’uso, prima ancora di divenire, in sede di colpevolezza, elementi indispensabili per il rimprovero da muovere all’autore del delitto. L’unitarietà e la valutazione unitaria, in sede d’illiceità, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie tipica di furto d’uso, non esclude, tuttavia, che, in sede di colpevolezza, si analizzino i diversi dati, i singoli elementi che contribuiscono a contrassegnare il disvalore oggettivo del tipo: ed è in relazione a ciascuno di tali elementi che va ravvisata la rimproverabilità dell’autore del fatto perché possa concludersi per la relativa, personale responsabilità penale. Soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost.
Si è già notato che le due condotte della fattispecie tipica di furto d’uso (sottrarre e restituire) sono diversamente (l’una negativamente e l’altra positivamente) valutate dal legislatore. L’ipotesi della sottrazione e della mancata restituzione della cosa sottratta prospetta, pertanto, due condotte, entrambe negativamente valutate e fra loro strutturalmente distinte. Poiché entrambe contribuiscono ad integrare quella illiceità che, nell’escludere il furto d’uso, riconduce la medesima a quella del furto comune, per determinare se questo ultimo effetto debba prodursi è indispensabile ravvisare, in relazione a ciascuna delle due condotte (sottrazione e mancata restituzione) gli elementi subiettivi idonei a generare il rimprovero di cui all’art. 27, primo comma, Cost. L’elemento subiettivo attinente alla sottrazione od all’impossessamento della cosa altrui, ed il conseguente rimprovero relativo ai medesimi, non può estendersi alla condotta di mancata restituzione della cosa: il dolo della sottrazione e dell’impossessamento non è estensibile alla mancata restituzione, così come il rimprovero, la disapprovazione etico-sociale attinente alla sottrazione ed all’impossessamento non può esser arbitrariamente esteso alla mancata restituzione della cosa sottratta. Detta mancata restituzione, se dovuta a caso fortuito o forza maggiore, non è addebitabile al soggetto agente: il caso fortuito e la forza maggiore – non consentendo il rimprovero di colpevolezza, attinente all’oggettiva mancata restituzione della cosa sottratta, non consentendo, cioè, l’addebitabilità d’uno degli elementi che contribuiscono ad integrare la singolare illiceità (che caratterizza l’ipotesi in esame) – impediscono, di conseguenza, il rimprovero, a titolo di furto comune, dell’unitaria predetta ipotesi. Rimanendo, peraltro, dolosi e addebitabili gli altri elementi della fattispecie concreta, va applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.
Perché l’art. 27, primo comma, Cost, sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.
Dalla illegittimità costituzionale dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., consegue che soltanto un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto in ordine alla restituzione della cosa sottratta può rendere applicabile la disciplina del furto ordinario. Se il reo, sottratta la cosa con lo scopo di momentaneo uso e con l’intenzione, dopo l’uso, d’immediatamente restituirla, successivamente decidesse di non restituirla, all’iniziale contenuto volitivo caratterizzatore del furto d’uso si sostituirebbe altra intenzione, almeno parzialmente contrastante con la prima. Solo in tal caso, tenuto conto della progressione criminosa (da una fattispecie meno grave, peraltro ancora non compiutamente attuata, si passerebbe, in un unico contesto d’azione, alla realizzazione d’una fattispecie più grave) determinata dal mutamento dell’iniziale intenzione del reo, risulterebbero applicabili le sanzioni previste per il furto ordinario.
Valutando, da un diverso punto di vista, unitariamente, dato l’unico contesto d’azione, l’ipotesi della mancata restituzione della cosa sottratta dovuta al mutamento dell’iniziale intenzione del soggetto attivo del fatto, dovrebbe osservarsi che – avendo il reo, successivamente al realizzato impossessamento della cosa mobile altrui con il dolo generico del furto ordinario (che coincide con il dolo generico del furto d’uso) integrato il dolo specifico (se di dolo specifico si tratta) del furto ordinario – sarebbe stata completata la realizzazione di quest’ultimo e che, pertanto, l’iniziale intenzione del furto d’uso (scopo di momentaneo uso della cosa sottratta ed intenzione di restituire la medesima immediatamente dopo l’uso) verrebbe assorbito dalla contraria intenzione, successivamente insorta, di non restituire la cosa. È, invece, di certo costituzionalmente illegittimo, per la Corte, nell’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, chiamare a rispondere di furto ordinario il reo del quale è rimasto intatto il dolo, generico e specifico, del furto d’uso, senza che si siano aggiunti diversi, rilevanti contenuti intenzionali. Una volta verificato che l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., nel sistema delle leggi ordinarie e nel diritto vivente, contrasta con il primo comma dell’art. 27 Cost., si rende superflua l’indagine sull’eventuale contrasto della norma impugnata con gli altri parametri indicati nell’ordinanza di rimessione; tanto più che, come si è avuto modo di rilevare, la violazione dell’art. 27, primo comma, Cost. già di per sé comporta disparità di trattamento di soggetti in identica posizione.
1990
Il 7 febbraio viene varata la legge n.19, il cui art.1 modifica il comma 1 dell’art.59 del codice penale in tema di imputazione delle circostanze, onde mentre le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti (comma 1), quelle che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (comma 2), occorrendo ormai un coefficiente psicologico soggettivo per imputare al soggetto agente le circostanze aggravanti. Con l’entrata in vigore di questa novella, tutti gli elementi della fattispecie penalmente rilevante che compendiano l’illiceità penale del fatto o che comunque incidono sul pertinente trattamento sanzionatorio, ancorché accidentali, devono essere oggetto di una compartecipazione psicologica in capo al soggetto agente.
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Il 2 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Scalfari, alla cui stregua la responsabilità del direttore responsabile per omesso controllo ex art.57 c.p. ha riguardo al “reato commesso” dal giornalista da intendersi come fatto tipico ed antigiuridico, ma non necessariamente anche colpevole; onde il direttore può essere punito ex art.57 c.p. anche quando l’autore della pubblicazione diffamatoria sia rimasto ignoto.
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Il 17 agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.11494, Scalfari alla cui stregua la responsabilità del direttore (o vice direttore) responsabile di testata dopo la riforma dell’art.57 c.p. va assunta come riconducibile ad una figura autonoma (colposa) di reato, rimanendo nondimeno certamente configurabile il concorso doloso nel fatto reato commesso dal giornalista autore della pubblicazione allorché il direttore o vice direttore abbia voluto la pubblicazione pertinente nella esatta coscienza del relativo contenuto siccome lesivo dell’altrui reputazione.
1992
Il 4 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.5151 alla cui stregua, in caso di notizia ripresa da altra agenzia di stampa, si è al cospetto di una circostanza che non vale ad escludere o a limitare il dovere di controllo (ex art.57 c.p.) del direttore responsabile del periodico che si sia limitato a riprendere la ridetta notizia.
1994
Il 2 novembre esce una significativa sentenza del Tribunale di Venezia, Latini, alla cui stregua – massime in presenza di testate giornalistiche con molteplici edizioni locali – laddove affiorino sicuri elementi che siano capaci di escludere in concreto la possibilità di adempiere all’obbligo di controllo da parte del direttore responsabile, la delega è da considerarsi strumento idoneo ad escludere la responsabilità del direttore ex art.57 c.p. sempre che tale delega, attuata in una prospettiva di rafforzamento della tutela degli interessi esposti a pericolo, intervenga in favore di un soggetto che sia particolarmente qualificato.
1995
Il 24 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.61, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l’ignoranza inevitabile.
La norma oggetto di censura risente fortemente – per la Corte – di una consolidata impostazione che vede le relative lontane origini in talune disposizioni emanate per la chiamata alle armi nell’esercito sardo-piemontese. Gi nell’Istruzione per l’annuale rassegna dei soldati temporari del 19 ottobre 1839 si stabiliva, infatti, all’art. 5, che “Il pretesto d’ignoranza del tempo e luogo in cui succederà la rassegna non è ammissibile, dacché fu iscritta nel congedo illimitato analoga avvertenza“. Sicché, e contrariamente ai criteri che attualmente vigono in materia, la inescusabilità della ignoranza non scaturiva dalla notifica in forma collettiva del provvedimento di chiamata, vale a dire dalla pubblicazione della “notificanza“, ma da un avvertimento che assumeva le connotazioni di una diffida personale, in quanto iscritta nel foglio di congedo illimitato. Aspetto, quest’ultimo che presenta singolari profili di attualità, specie se si considerano i più che condivisibili auspici che il giudice a quo formula circa “una maggiore chiarezza nelle informazioni alle reclute, ad esempio con apposita visorio“, nel quale invece compare il ben più travisante avvertimento che i militari in congedo illimitato provvisorio hanno l’obbligo di presentarsi “quando riceveranno la cartolina precetto di chiamata alle armi“. Il principio delineato nella Istruzione del 1839 non perse poi la relativa validità neppure quando venne introdotta nel 1853 la vocatio ad signa per pubblico manifesto, in quanto il paragrafo 1093 del successivo Regolamento approvato con r.d. 31 marzo 1855, ebbe testualmente a prescrivere che “il pretesto d’ignoranza della chiamata sotto le armi non potrà legittimare la non presentazione o l’indugio dei militari in congedo illimitato a raggiungere il corpo“. Da qui l’avvio di un rigoroso e consolidato orientamento giurisprudenziale che, ponendo a fulcro proprio il principio di inescusabilità, era solito derivare da esso il postulato, fatto palese in antiche massime, che “l’ignoranza della chiamata sotto le armi non può servire di scusa a chi poteva e doveva tenersi informato di tutto ci che concerne il servizio militare, non essendovi disposizione di legge che imponga all’Autorità di renderlo personalmente avvertito“. Una volta ricondotta, quindi, l’ignoranza del manifesto a violazione di un dovere dello stato militare, e affermato che il dovere di tenersi al corrente della chiamata risultava in concreto violato in tutti i casi in cui se ne fosse verificata l’ignoranza, finiva per divenire conclusione pressoché obbligata quella di ritenere – come in effetti la giurisprudenza ritenne – che l’ignoranza della chiamata disposta per manifesto equivalesse in tutto e per tutto all’ignoranza della legge, cosicché, presumendosi la conoscenza di quest’ultima, allo stesso modo dovesse presumersi, iuris et de iure, la conoscenza della prima. Nonostante che al principio di inescusabilità della ignoranza, dettato dal par. 1093 del Regolamento del 1855, fosse annesso prevalentemente il valore di canone ermeneutico piuttosto che quello di autonoma fonte precettiva, la mancata riproduzione della norma nei successivi regolamenti del 1877 e del 1890 diede luogo a tali “dubbiezze e perplessità” tali da indurre le Commissioni incaricate della stesura degli attuali codici militari ad adottare la formulazione poi trasfusa nell’art. 39, al dichiarato fine – come si legge nella relazione della Commissione Ministeriale al progetto definitivo – di “togliere ogni difficoltà in materia di conoscenza dei manifesti di chiamata alle armi, intorno alla quale si è sempre tormentata la giurisprudenza alla ricerca di una norma sicura di responsabilità“. Si osservò, a tal proposito, che la norma contenuta nel progetto poteva “risolversi in una condizione di sfavore creata per il militare, per il quale si verrebbe a ritenere non applicabile il principio, affermato dalla legge penale comune, che l’errore su una legge diversa dalla penale, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato, esclude la punibilità (art. 47 cod. pen.)”. Ma si rilevò che “l’esigenza pratica” di cui innanzi si è detto “e alla quale l’esperienza impone di attribuire grandissimo valore“, consigliava il mantenimento della norma proposta, anche “per ribadire il concetto della inutilità di ogni indagine sulla effettiva conoscenza dei doveri inerenti alle molteplici manifestazioni del servizio militare, ai fini della determinazione del dolo. Si pensi, ad esempio, al caso dei rapporti tra pari grado, quando ad alcuno di essi sia conferita una superiorità in comando: non potrà il militare invocare l’ignoranza di quei doveri di sottomissione al pari grado, disposti dai regolamenti; ed è bene – si affermò – che tale concetto trovi esplicita enunciazione nella legge“. Dal testo del progetto venne invece espunto il riferimento alla “ignoranza della legge penale militare“, essendo apparso che tale previsione “costituisse la ripetizione di un principio affermato nella legge penale comune (art. 5 del c.p.) e quindi pienamente applicabile nella materia militare, dato il carattere complementare del progetto, senza bisogno di un esplicito richiamo” (v. Relazione della Commissione Ministeriale n. 41).
Dai brevi cenni offerti sulla lontana origine della norma e dai lavori preparatori del codice penale militare di pace possono dunque per il Collegio trarsi alcuni spunti utili per l’inquadramento della questione sottoposta all’esame della Corte. Il principio di inescusabilità della ignoranza della chiamata, anzitutto, fu coniato all’interno di un sistema che prescindeva dal pubblico manifesto, per saldarsi, invece, al precetto personale che insorgeva all’atto della relativa iscrizione nel foglio di congedo di ciascun militare. Introdotta, poi, la chiamata per manifesto, il principio fu mantenuto dal legislatore per l’esigenza pratica/ di impedire che il militare, accampando a propria scusa l’ignoranza dei regolamenti, potesse dedurre la non conoscenza dei doveri inerenti al proprio stato e sottrarsi, quindi, alle relative sanzioni. Espungendo, pertanto, il riferimento alla inescusabilità della ignoranza della legge penale militare proprio perché “coperto” dalla generale previsione dettata dall’art. 5 c.p., gli autori del codice militare hanno con chiarezza inteso estendere l’area di quel principio, fino a comprendervi qualsiasi fonte non primaria dalla quale possono promanare doveri inerenti allo stato militare la cui inosservanza è dalla legge prevista come reato. In relazione a quelle fonti, dunque, si evoca una indifferenza normativa circa la relativa conoscenza, al punto da rendere configurabile, per le singole fattispecie e con riferimento alla consapevolezza dei doveri che da quelle fonti promanavano, una sorta di dolus in re ipsa, malgrado la “condizione di sfavore creata per il militare” a causa della possibile elusione del principio sancito dall’art. 47 c.p. in tema di rilevanza dell’errore su legge diversa da quella penale. Da tutto ciò è quindi possibile trarre già una prima conclusione che ben potrà soccorrere come insopprimibile nucleo di riferimento attorno al quale far ruotare la disamina della fondatezza del quesito che il giudice a quo solleva: il principio della inescusabilità della ignoranza dei doveri militari, frutto, come si è visto, di una più che secolare tradizione dell’ordinamento militare italiano, trova un proprio valido aggancio e una propria coerenza sistematica soltanto se correlato alla gerarchia di valori propria dell’epoca in cui fu elaborato il codice penale militare di pace. Un’epoca, quindi, nella quale, anche a voler prescindere dalle peculiarità storiche di quel contesto, non potevano certo trovare adeguato risalto gli ineludibili e fondamentali principi che soltanto la successiva legge fondamentale dello Stato ebbe ad introdurre.
La Corte precisa a questo punto di avere avuto modo di occuparsi in più circostanze dell’art. 39 c.p.m.p. In una prima occasione (v. ordinanza n. 221 del 1987) la questione venne dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, essendosi ritenuto che entrambi i casi oggetto dei provvedimenti di rimessione si riferivano ad imputati ben a conoscenza del fatto che la chiamata dei giovani di leva avveniva per pubblici manifesti e subordinatamente anche per cartolina precetto. Successivamente (v. ordinanza n. 151 del 1988), la questione venne ancora una volta dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, ma si sottolineò come la norma impugnata, proprio perché “espressione di ben altra stagione politica“, avesse indotto la dottrina e la giurisprudenza dell’epoca ad adoperarsi “per reimpostare la problematica e l’interpretazione” della norma stessa. Anche con l’ordinanza n. 787 del 1988 la questione fu dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza ma (e il dato assume non poco risalto) la Corte non mancò di osservare che, ove nel caso di specie fossero davvero venuti in discorso l’ignoranza o l’errore sui doveri inerenti allo stato di militare, “si sarebbe effettivamente allora prospettata una questione di possibile scusabilità sia dell’ignoranza che dell’errore, che si sarebbe potuta esaminare anche in relazione alla sentenza n. 364 del 1988 di questa Corte“. Un assunto, dunque, che, seppure enunciato in forma ipotetica, rappresenta comunque un precedente del quale occorre doverosamente tenere conto. Più articolati sono i passaggi che hanno contrassegnato la sentenza n. 325 del 1989, essendo stata la questione sollevata sotto un duplice profilo riguardante, il primo, l’art. 5 del codice penale e il secondo l’art. 47, primo e terzo comma, dello stesso codice. Quanto al primo profilo, dedotto, stavolta, con espresso richiamo alla sentenza n. 364 del 1988, la Corte ritenne inammissibile la questione sul rilievo che il giudice a quo aveva omesso di precisare se e per quali motivi riteneva potersi prospettare nel caso di specie una ignoranza inevitabile “sulla portata imperativa del manifesto di chiamata“, con ciò lasciando trasparire la pertinenza della norma al tema che la questione intendeva sollevare e, dunque, la necessità di affrontare il merito ove l’ordinanza di rimessione fosse stata adeguatamente motivata sul punto. Sul secondo degli accennati profili, invece, la Corte, facendo leva su di un recente e condiviso orientamento giurisprudenziale ormai affrancatosi dalla non più giustificabile “ideologia degli autori del codice“, pervenne ad una soluzione interpretativa affermando che “l’errore sulla portata del manifesto, vertendo su un atto amministrativo, è in realtà errore sul presupposto storico per l’attuazione del dovere in concreto” e come tale da qualificare alla stregua di “errore di fatto…che incide sul dolo, secondo i principi del diritto penale militare ex art. 16 del codice penale, rendendo rilevante questo errore anche nell’area dell’art. 39 del codice penale militare di pace“. Ed è proprio su quest’ultima linea che hanno poi finito per attestarsi le più recenti pronunce, tutte di manifesta inammissibilità, relative ad altrettanti giudizi promossi sempre dal Tribunale militare di Padova (v., in particolare, le ordinanze n. 247 del 1991, n. 7 del 1992 e n. 205 del 1994).
Le sollecitazioni che il giudice a quo ha insistentemente rivolto alla Corte al fine di risolvere il quesito se ed in quali limiti debba essere riconosciuto valore scriminante alla ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare, svelano, dunque, l’esistenza di un problema di fondo cui la giurisprudenza della Corte non ha sin qui offerto adeguata soluzione. Limitare, infatti, la rilevanza dell’errore alla non conoscenza del manifesto di chiamata, inteso questo alla stregua di un mero atto amministrativo idoneo a generare null’altro che il “dovere in concreto” di presentazione alle armi, ed obliterare, per questa via, il rilievo che può assumere l’ignoranza della norma da cui promana il “dovere in astratto“, produce l’ineluttabile effetto di dar vita ad un circuito per così dire autodimostrativo che, arrestandosi all’errore finale, prescinde da quella che ne può essere la causa generatrice: l’ignoranza, appunto, della norma regolamentare che fa obbligo alle reclute, abbiano o meno ricevuto la cartolina precetto, di presentarsi comunque “nei giorni stabiliti dal manifesto, la cui pubblicazione vale per essi come precetto personale” (art. 543 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle disposizioni legislative sul reclutamento del regio esercito, Parte seconda, approvato con r.d. 3 aprile 1942, n. 1133). Orbene, nella ordinanza emessa il 21 dicembre 1993 (R.O. 161 del 1994) il Tribunale militare di Padova prospetta proprio una simile evenienza, osservando motivatamente che nel caso di specie la omessa tempestiva presentazione del militare è dipesa, in via principale, non dalla mancata conoscenza del contenuto del manifesto di chiamata, ma dal fatto di aver ignorato la normativa posta dal citato art. 543 del regolamento. Un errore, dunque, tuttora considerato incondizionatamente inescusabile dall’art. 39 c.p.m.p., di cui pertanto si chiede, ancora una volta, la declaratoria di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 5 del codice penale, come dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 364 del 1988.
Sono fin troppo note le ragioni che indussero la Corte a dichiarare, con la appena ricordata sentenza n. 364 del 1988, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 del codice penale. Si osservò, infatti, sulla base, anche, di una approfondita ricostruzione storico-sistematica dell’importante tema, condotta alla luce dei valori costituzionali che esso coinvolgeva, che dal principio sancito dall’art. 27, primo comma, della Costituzione, occorreva trarre il corollario che la legittima punibilità di un fatto dovesse “necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi pi significativi della fattispecie tipica“. Collegando poi fra loro i precetti enunciati dal primo e dal terzo comma dell’art. 27 della Carta fondamentale si dedusse “l’illegittimità costituzionale della punizione dei fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza espressi dalle norme penali“. Accanto a ciò, si ritenne che l’art. 5 del codice penale fosse in contrasto tanto con il principio di uguaglianza, derivando dalla norma un identico trattamento per situazioni fra loro dissimili, quali sono quella di “chi agisce con la coscienza della illiceità del fatto” rispetto a quella di “chi invece con tale coscienza non opera“, quanto con il principio affermato nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, ben potendo l’ignoranza della legge dipendere o da un fatto dello Stato, che “non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o .prevedibili/) alcune leggi“, o dalla “mancata rimozione degli .ostacoli” di cui alla citata previsione costituzionale. Ma assai più radicalmente, ed è questo l’aspetto che in questa sede maggiormente interessa al Collegio, si ritenne che l’art. 5 del codice penale violasse “lo spirito stesso dell’intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori“, rilevandosi a tale riguardo che “far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati“. L’ampiezza di simili principi è dunque tale da investire tutti i temi che tradizionalmente hanno ruotato attorno al precetto della inescusabilità della ignoranza della legge penale. Svilito, infatti, il già criticato dogma della presunzione assoluta di conoscenza, non ha più senso operare, ai fini che qui rilevano, sottili disamine a margine degli elementi normativi del fatto o procedere a faticose e sempre opinabili distinzioni delle fonti “esterne” alla fattispecie incriminatrice, allo scopo di verificare se le stesse possano o meno qualificarsi come integratrici del precetto penale, onde consentire il trasferimento dell’errore su quest’ultimo, in precedenza del tutto irrilevante, nell’alveo dell’errore su legge extra penale ai sensi dell’art. 47, terzo comma, del codice penale. Una volta stabilito che l’ignoranza sulla legge penale scrimina in tutti i casi in cui la stessa sia risultata inevitabile, è di tutta evidenza che un siffatto principio debba valere anche nelle ipotesi in cui l’ignoranza verta sull’eventuale presupposto normativo della fattispecie incriminatrice, non potendosi certo pervenire al paradosso di ammettere una lettura differenziata dei valori costituzionali che con la citata sentenza si è inteso preservare a seconda delle modalità tecniche attraverso le quali ogni singola fattispecie viene ad essere strutturata. L’ignoranza o l’errore, dunque, sia che esso riguardi la previsione incriminatrice in quanto tale, sia che si rifletta su una disposizione che la norma stessa richiama o pi semplicemente presuppone, assumerà comunque rilievo in tutti i casi in cui la mancata od erronea conoscenza del dato normativo, inteso questo in tutte le relative componenti, sia dipesa da cause che hanno reso inevitabile quella ignoranza o quell’errore. E se tutto ciò vale nelle interferenze che possono stabilirsi fra le leggi penali, a fortiori alle medesime conclusioni occorrerà pervenire nel caso in cui l’errore cada su una legge diversa da quella penale e riguardi non il fatto ma l’estensione del precetto.
Le conclusioni cui occorre pervenire sono a questo punto, per la Corte, evidenti. Già nella ricordata sentenza n. 325 del 1989, infatti, essa non mancò di rilevare come l’interpretazione dell’art. 39 c.p.m.p. quale limite all’efficacia scusante dell’errore su legge extra penale, pur se, “certamente rispondente alla ideologia degli autori del codice“, non potesse ritenersi più giustificabile, “sia perché contraria ai principi fondamentali del diritto penale (che sono principi di civiltà), sia perché nel nuovo ordinamento democratico, anche militare, quei principi sono collegati all’ispirazione di fondo della Costituzione che rende ormai anacronistica quella interpretazione“. Ma il punto da affrontare e definitivamente risolvere non sta nell’ignoranza del “dovere in concreto” e, dunque, del fatto inquadrabile nell’area dell’art. 47, terzo comma, del codice penale, ma nel più radicale errore, o ignoranza, che investa la stessa fonte normativa che quel dovere costituisce “in astratto“: errore di diritto, dunque, rispetto al quale l’art. 39 c.p.m.p. introduce una previsione di totale irrilevanza ed inescusabilità che si presenta del tutto impermeabile a qualsiasi tentativo di manipolazione interpretativa. Una siffatta preclusione diviene, allora, inaccettabile per le stesse considerazioni che indussero la Corte a dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 del codice penale, giacché se l’ignoranza inevitabile di una norma penale esclude la punibilità della condotta, a maggior ragione alla stessa conclusione deve condurre l’ignoranza inevitabile delle ben più flebili, variegate e certo meno conosciute e conoscibili disposizioni regolamentari sulle quali si fondano i molteplici doveri che ineriscono allo stato militare. E ci appare ancor più doveroso ove si consideri, da un lato, l’impossibilità di sottoporre a scrutinio di costituzionalità tutte le fonti non legislative dalle quali sorgono doveri militari la cui inosservanza è penalmente sanzionata (v., con riferimento proprio al r.d. 3 aprile 1942, n. 1133, l’ordinanza n. 124 del 1973); dall’altro, la fluidità di tali fonti, essendo le stesse suscettibili di mutamenti in funzione delle variabili scelte che l’autorità amministrativa è abilitata a compiere, e, sotto un ultimo ed assorbente profilo, l’impossibilità di far leva su di una supposta specificità dell’ordinamento militare per predicare il mantenimento nel sistema di una norma che, al di là di qualsiasi adeguamento sul piano applicativo, si appalesa ormai in aperto contrasto con i fondamentali valori di uno stato democratico. Se di specificità dell’ordinamento militare si vuol continuare a parlare agli effetti che qui interessano, ci sarà possibile solo nella ben diversa prospettiva di costruire su di essa una equilibrata elaborazione dei necessari canoni ermeneutici alla cui stregua condurre l’accertamento in concreto se l’ignoranza del dovere sia stata o meno inevitabile; una elaborazione, questa, rispetto alla quale dovranno essere tenuti nel massimo conto i principi che a tale riguardo la Corte ha enunciato nella più volte richiamata sentenza n. 364 del 1988 (segnatamente al n. 27), trattandosi di principi di ordine generale la cui validità deve ritenersi senz’altro trasferibile anche nell’area della norma che qui si censura. L’art. 39 del codice penale militare di pace deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l’ignoranza inevitabile.
1996
Il 15 febbraio viene varata la legge n.66 in tema di reati violenti a sfondo sessuale, che innesta nel codice penale tutta una serie di nuove fattispecie e prevede infine, all’art.609 sexies, che quando i (nuovi) delitti previsti negli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies sono commessi in danno di persona minore di anni 14, nonché nel caso del delitto di cui all’articolo 609-quinquies, il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa.
Si tratta di una disposizione che introduce una nuova figura di responsabilità oggettiva espressa, dacché si risponde anche in caso di ignoranza in ordine all’età (infraquattordicenne) della vittima nei reati contro la libertà sessuale. L’intervento normativo mira a tutelare in misura consistenza l’integrità psico fisica del minore nella relativa declinazione sessuale, integrità da assumersi non violabile neppure col consenso – non consapevole – del minore medesimo, in quanto tale connotato da immaturità.
Poiché nondimeno il disvalore della fattispecie penale si incentra tutta proprio sulla condizione di minore età della vittima, quest’ultima dovrebbe essere ben presente in capo al soggetto agente che, invece, viene punito anche se in situazione di ignoranza rispetto a tale (minore) età della persona offesa, facendo luogo ad una chiara frizione con il principio di responsabilità penale “personale”di cui all’art.27 Cost.
1997
Il 20 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.10496 che si occupa del caso in cui il direttore responsabile di un periodico sia assente per ferie: in simile fattispecie, per la Corte la pertinente valutazione di responsabilità ex art.57 c.p. deve far perno sull’esigenza che ispira tale norma, che è quella di evitare che con il mezzo della stampa vengano commessi reati, e che va contemperata con il diritto al godimento delle ferie da parte del direttore responsabile medesimo, oltre che con i principi di cui agli articoli 42 e 43 c.p. onde nessuno può essere punito se non ha commesso il fatto con coscienza e volontà.
Per la Corte, nel tempo in cui il direttore responsabile gode delle ferie, la relativa responsabilità va esclusa allorché – senza che occorra procedere siccome previsto in caso di mutamenti radicali nell’organico del giornale, ai sensi degli articoli 5 e 6 della legge 47.48 – si sia proceduto preventivamente ad individuare, nel contesto del medesimo periodico, la persona che sostituisce il direttore in modo tale che ne risulti ricostituita, seppure in via provvisoria, la struttura della compagine del giornale e sia in tal modo assicurato il controllo sulle relative pubblicazioni, con possibilità di individuare chi risponda dell’eventuale omesso controllo.
2000
Il 29 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.11958 onde, in caso di direttore responsabile ex art.57 c.p. dimissionario, persiste la relativa posizione di garanzia e – con atteggiamento assai rigoroso – egli può assumersi esonerato dalla responsabilità penale derivante dalla pubblicazione da parte del suo ex giornale di un articolo diffamatorio solo quando alle dimissioni ridette si accompagni l’effettiva cessazione delle funzioni inerenti all’incarico di coperto, tra cui per l’appunto il dovere di vigilanza sulle pubblicazioni del giornale stesso.
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Il 12 dicembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n.12960 che assume applicabile l’art.57 c.p. in tema di responsabilità omissiva (colposa) del direttore responsabile nel settore della carta stampata anche al direttore di testata televisiva. Si tratta di una pronuncia che rimarrà isolata, anche perché più che una interpretazione estensiva sembra far luogo ad una vera e propria applicazione analogica in malam partem del ridetto art.57 c.p.
2002
Il 14 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 2595, Solazzo, alla cui stregua la responsabilità penale per morte o lesioni costituenti conseguenza non voluta di un delitto doloso (art. 586 c.p.) deve assumersi configurabile – attesa la indefettibilità, nell’attuale sistema normativo, del principio di colpevolezza, tendenzialmente esclusivo di ogni forma di responsabilità oggettiva – solo a condizione che sussista un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non voluto all’autore del delitto voluto.
2003
Il 30 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.19827 alla cui stregua se il delitto di cui all’art.595, comma 3, c.p. (diffamazione a mezzo stampa) non risulta essere stato consumato per carenza dell’elemento psicologico in capo al giornalista autore, la fattispecie omissiva colposa di cui all’art.57 c.p. prevista a carico del direttore responsabile non può trovare applicazione. La pronuncia abbraccia dunque la tesi onde per “reato commesso” ex art.57 c.p. deve intendersi un fatto tipico antigiuridico ed anche colpevole imputabile al giornalista autore della diffamazione.
2004
Il 26 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 1112, Carraturo, alla cui stregua – pronunciandosi su una fattispecie relativa al reato detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione, siccome contestato al titolare di diversi esercizi commerciali – la delega di funzioni può considerarsi idonea a sollevare da responsabilità penale il delegante, in tutte le imprese, qualora sia accertata con giudizio ex ante la capacità ed idoneità tecnica del soggetto delegato, vi sia la mancata conoscenza della negligenza o sopravvenuta inidoneità del delegato e non si riscontrino ingerenze da parte del delegante nell’attività del delegato, fermo restando l’obbligo di vigilanza la cui inosservanza, attraverso la culpa in eligendo in ordine alla capacità professionale del delegato ed in vigilando sul relativo operato, profilerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva del delegante.
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Il 2 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.46786 onde il direttore responsabile risponde ex art.57 c.p. del mancato controllo sul contenuto del giornale siccome unitariamente considerato, dovendosi escludere ogni rilievo – a fini di sussistenza del pertinente reato omissivo – all’organizzazione interna dell’azienda giornalistica, in cui al redattore capo vengano conferite funzioni di coordinamento e di controllo anche sulle redazioni distaccate; ciò in quanto, a norma dell’art.57 c.p. e dell’art.3 della legge n.47.48, deve sempre esserci piena coincidenza tra la funzione di direttore o vice direttore responsabile e la pertinente funzione di garanzia, non configurandosi alcuna possibilità di delegare il potere dovere di controllo che su di essi ex lege incombe.
2006
Il 27 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.38944 alla cui stregua l’immunità ex art.68 Cost. configura una vera e propria scriminante essendo da ricondursi al diritto di critica. Si tratta di una opzione ermeneutica che finisce con il non punire il direttore responsabile di un periodico per omesso controllo ex art.57 c.p. laddove il giornalista autore della pubblicazione diffamatoria (“reato commesso”) non sia per l’appunto punibile perché beneficiario “scriminato” dall’immunità parlamentare.
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L’8 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 41962, Ferraioli, onde poiché l’art. 189 d.leg. 30 aprile 1992 n. 285, prevede quale delitto, e non più, come nel precedente codice della strada, quale contravvenzione, l’omissione dell’obbligo di fermarsi dopo un incidente stradale con danno alle persone, detta condotta può per la Corte essere punita solo se commessa con dolo; il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alle persone, che non costituisce una condizione di punibilità, sostanzialmente imputabile a titolo di responsabilità oggettiva, atteso che la sostituzione di una fattispecie dolosa ad una colposa sarebbe poco razionale laddove si ritenesse che la seconda è punita indipendentemente dalla consapevolezza da parte dell’agente di tutti gli elementi della stessa, e quindi anche delle conseguenze derivate dall’incidente stesso.
2007
Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.322, che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 609-sexies del codice penale (irrilevante ignoranza dell’età del soggetto passivo infraquattordicenne), inserito dall’art. 7 della legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), sollevata, in riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Modena.
Per la Corte, il giudice rimettente non si pone neppure il problema di verificare la praticabilità di una interpretazione secundum constitutionem della disposizione denunciata: acclarando, in specie, se sia o meno possibile ritenere che l’ipotesi dell’ignoranza inevitabile resti estranea alla regola dell’inescusabilità sancita dalla disposizione stessa. E ciò perché il principio di colpevolezza – quale delineato dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 di questa Corte – si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti. Aspetto, quest’ultimo, che viene in particolare rilievo nel caso di specie, in quanto si tratta di norma reiterata, nel passaggio dall’art. 539 cod. pen. all’art. 609-sexies cod. pen., dopo che la questa Corte aveva, con le richiamate pronunce, affermato – con riferimento al principio di personalità della responsabilità penale, di cui all’art. 27, primo comma, Cost. – l’esistenza nella tavola dei valori costituzionali di un principio di necessaria colpevolezza, ragguagliato quanto meno al “minimum” dell’ignoranza o dell’errore inevitabile: incida esso sulla norma o sugli elementi normativi del fatto, come nei casi esaminati dalle sentenza n. 364 del 1988 e n. 61 del 1995; ovvero sugli elementi del fatto stesso, come nell’ipotesi di specie.
L’ignoranza e l’errore inevitabile – per come sono stati evocati dalla sentenza n. 364 del 1988, quale coefficiente minimo indispensabile e limite estremo di rimproverabilità, e quindi di compatibilità con il principio di personalità della responsabilità penale, di cui all’art. 27, primo comma, Cost. – non possono fondarsi soltanto, od essenzialmente, sulla dichiarazione della vittima di avere un’età superiore a quella effettiva. Il giudizio di inevitabilità postula, infatti, in chi si accinga al compimento di atti sessuali con un soggetto che appare di giovane età, un “impegno” conoscitivo proporzionale alla pregnanza dei valori in giuoco, il quale non può certo esaurirsi nel mero affidamento nelle dichiarazioni del minore: dichiarazioni che, secondo la comune esperienza, possono bene risultare mendaci, specie nel particolare contesto considerato. E ciò fermo restando, ovviamente, che qualora gli strumenti conoscitivi e di apprezzamento di cui il soggetto attivo dispone lascino residuare il dubbio circa l’effettiva età – maggiore o minore dei quattordici anni – del partner, detto soggetto, al fine di non incorrere in responsabilità penali, deve necessariamente astenersi dal rapporto sessuale: giacché operare in situazione di dubbio circa un elemento costitutivo dell’illecito (o un presupposto del fatto) – lungi dall’integrare una ipotesi di ignoranza inevitabile – equivale ad un atteggiamento psicologico di colpa, se non, addirittura, di cosiddetto dolo eventuale
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Il 3 agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.31941 alla cui stregua le difficoltà organizzative (per lo più dovute alla articolazione complessa, dal punto di vista strutturale, della testata giornalistica) non sono comunque tali da esentare il direttore responsabile dagli obblighi di controllo preventivo che a lui incombono per legge; per la Corte va dunque negata efficacia esimente all’omesso controllo, da parte del direttore responsabile, su un articolo giudicato diffamatorio, laddove il pezzo giornalistico, per problemi organizzativi sia stato direttamente inviato alla redazione locale per la pubblicazione.
2008
Il 31 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.10037 onde la querela spiccata nei confronti del direttore di un periodico a titolo di concorso con l’autore della pubblicazione non esclude, ex se, la volontà di punizione del querelante, laddove evincibile dal tenore della querela, nei confronti del ridetto direttore anche ai sensi dell’art.57 c.p., e dunque per omesso controllo sulla pubblicazione diffamatoria.
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Il 15 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.15323 alla cui stregua l’immunità ex art.68 Cost. configura una causa soggettiva di esclusione della punibilità, che non si estende come tale ai compartecipi nel reato. Si tratta di una opzione ermeneutica che finisce con il punire il direttore responsabile di un periodico per omesso controllo ex art.57 c.p. anche laddove il giornalista autore della pubblicazione diffamatoria (“reato commesso”) non sia per l’appunto punibile perché beneficiario dell’immunità parlamentare.
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Il 3 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.34765 alla cui stregua, in caso di lesioni cagionate dall’aggressione di un cane di grossa taglia (nella specie, di razza pit bull), affidato dal proprietario ad un terzo (nella specie, la moglie) non in grado di controllare l’animale, consentendogli di portarlo fuori casa senza adottare le prescritte cautele (museruola, guinzaglio), deve riconoscersi la concorrente responsabilità penale del proprietario del cane, non a titolo di responsabilità oggettiva, bensì in ragione degli obblighi che gli derivano dalla posizione di garanzia collegata al fatto di essere lui l’unica persona che dispone dell’animale e che può controllarne le reazioni.
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Il 17 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.42741 onde, in tema di reati edilizi, la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, attesa la natura sanzionatoria, non può essere disposta nei confronti di soggetti estranei alla commissione del reato che siano possessori di buona fede, non essendo ammissibili criteri di responsabilità oggettiva neppure con riferimento alle sanzioni amministrative.
Per la Corte, che annulla con rinvio l’ordinanza di rigetto dell’istanza di revoca del sequestro preventivo di un manufatto abusivo, va sottolineata la necessità di tener conto in sede di rinvio anche della sentenza Cedu del 20 gennaio 2009 nel caso Sud Fondi srl c. Italia.
2009
Il 22 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.19020 onde va assunto rientrare nei poteri del giudice penale quello di ravvisare in capo al direttore responsabile di un giornale il reato di omesso controllo ex art.57 c.p., quand’anche la querela sia stata spiccata dalla vittima, nei relativi confronti, a titolo di concorso con il giornalista autore dell’articolo nel reato di diffamazione.
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Il 9 luglio esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.40446 alla cui stregua la remissione della querela proposta nei confronti del giornalista per il reato di diffamazione a mezzo stampa non estende i propri effetti nei confronti del direttore del pertinente giornale, responsabile ai sensi dell’art.57 c.p., giacché l’autonomia delle due fattispecie criminose osta al ridetto effetto estensivo, il cui presupposto è il concorso di persone nel medesimo reato.
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Il 15 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.48119 che si occupa – con riferimento alla fattispecie di omesso controllo del direttore responsabile ex art.57 c.p. – della (rigorosa) prova dell’eventuale assenza di colpa, onde il direttore responsabile può andare esente da responsabilità penale solo laddove dimostri di avere fatto quanto in relativo potere per prevenire la diffusione di notizie non corrispondenti al vero, prescrivendo ed imponendo regole e controlli, anche mediati, di accuratezza, di assoluta fedeltà e di imparzialità rispetto alla fonte notizia.
2010
Il 18 febbraio 2010 esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27735, alla cui stregua è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, sollevata in riferimento agli art. 3 e 27 cost., in quanto la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio non è una forma di responsabilità oggettiva, essendo previsto necessariamente, per la sua configurabilità, la sussistenza della c.d. «colpa di organizzazione» della persona giuridica
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*Il 5 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.13198 alla cui stregua l’immunità ex art.68 Cost. configura una causa soggettiva di esclusione della punibilità, che non si estende come tale ai compartecipi nel reato. Si tratta di una opzione ermeneutica che finisce con il punire il direttore responsabile di un periodico per omesso controllo ex art.57 c.p. anche laddove il giornalista autore della pubblicazione diffamatoria (“reato commesso”) non sia per l’appunto punibile perché beneficiario dell’immunità parlamentare.
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Il 16 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35511 che assume non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione – e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico – di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica.
2011
Il 17 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 25649, alla cui stregua l’accertamento della prevedibilità dell’evento in tema di delitti colposi, va effettuata con valutazione ex ante, giacché non può essere addebitato all’agente modello (homo ejusdem professionis et condicionis) di non avere previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere, finendosi, diversamente opinando, con il costruire una forma di responsabilità oggettiva; in conseguenza, va riconosciuta la sussistenza del vincolo causale nella condotta di chi ponga in essere un ingombro sulla carreggiata, soprattutto in strade a scorrimento veloce.
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Il 28 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44126 che ribadisce non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione – e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico – di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica. La Corte chiarisce infatti che non si è al cospetto di un medesimo testo redatto in originale e poi riprodotto in modo molteplice su supporti fisici per destinarlo alla distribuzione presso il pubblico, onde difetta nel caso della stampa telematica il requisito della riproduzione tipografica. Peraltro in caso di testata telematica il testo pubblicato su internet – in termini di luogo di effettiva esistenza e di divulgazione delle notizie in esso contenute – è presente esclusivamente nella relativa pagina di pubblicazione, pur essendo esso visualizzabile su un numero indefinito e molteplice di dispositivi hardware, onde non si realizza alcuna distribuzione su supporto fisico; peraltro, mentre la stampa tipografica può essere fruita in via immediata dal lettore, la stampa telematica, anche se venisse “versata” su un supporto fisico, richiederebbe comunque un apparato di lettura per poterla consultare da parte del singolo lettore: manca dunque anche il requisito della pubblicazione giusta destinazione al pubblico (per come la intende la legge del 1948 sulla stampa), in quanto il contenuto è uno e non viene “portato” ai potenziali lettori su molteplici supporti fisici, ma è solo visualizzabile da essi in modo molteplice e contemporaneo dai rispettivi dispositivi. Per la Corte si è dunque al cospetto di una lacuna normativa che non può essere colmata dal giudice penale attraverso una inammissibile applicazione analogica. Da questo punto di vista, il direttore responsabile di un giornale telematico può dunque essere eventualmente chiamato a rispondere per diffamazione, in concorso con l’autore della pubblicazione ed in presenza di dolo, ma non già per omissione colposa di controllo ex art.57 c.p.
2012
Il 26 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.41249, Sallusti, alla cui stregua integra l’ipotesi di concorso nel reato di diffamazione ex art.595 c.p. – e non già quella di omesso controllo prevista dall’art. 57 c.p. – la condotta del direttore responsabile di un quotidiano che disponga la pubblicazione di un articolo di contenuto diffamatorio firmato con uno pseudonimo di autore non identificabile, quando vi sia prova della consapevole adesione dello stesso direttore al contenuto dello scritto.
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Il 01 ottobre viene varata la legge n.172, il cui articolo 4, recependo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nel 2007, interviene – novellandolo – sull’art.609 sexies c.p. nel senso onde l’ignoranza dell’età dell’infraquattordicenne nei reati di violenza sessuale non rileva solo se evitabile, con conseguente necessità di un rimprovero, quanto meno a titolo di colpa, di tale ignoranza.
2015
Il 18 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 42995 alla cui stregua, nel giudizio di appello instaurato a seguito di impugnazione proposta dalla sola parte civile, il giudice è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione di regole proprie del diritto civile, le quali configurano anche ipotesi di inversione dell’onere della prova ovvero di responsabilità oggettiva.
Per la Corte va dunque nel caso di specie annullata, con rinvio al giudice civile, la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello, il quale, riformando la decisione di primo grado, aveva affermato la responsabilità dell’imputato sulla base della disposizione dettata dall’art. 2052 c.c. in tema di responsabilità per danno cagionato da animali.
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Il 17 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 31022 che si occupa del sequestro preventivo della stampa e delle testate internet, muovendo dall’art.21 Cost. che – dopo aver previsto in via generale al comma 1 la tutela del diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto ed “ogni altro mezzo di diffusione” – prevede una tutela rafforzata nei successivi comma proprio per la stampa, stante l’importanza fondamentale da annettersi al diritto ad informare e ad essere informati nelle moderne società democratiche: la conseguenza è che proprio il sequestro preventivo della stampa può essere disposto (comma 3) solo laddove espressamente autorizzato dalla legge sulla stampa. In sostanza, le fattispecie in cui può essere disposto il sequestro della stampa sarebbero tassative, e tra queste non sarebbe annoverata l’ipotesi in cui si consumi una diffamazione, per l’appunto, a mezzo stampa; tale sequestro può infatti essere previsto laddove siano violate le norme sul diritto d’autore (art.161 della legge 633.41); quando si tratti di stampa periodica che fa apologia del fascismo (art.8 della legge 645.52); quando si tratti di stampati osceni o comunque offensivi della pubblica decenza, ovvero ancora divulganti mezzi atti a procurare aborto (art.2 del Regio Decreto 561.46); infine, allorché siano violate le norme sulla registrazione delle pubblicazioni periodiche e sull’indicazione dei relativi responsabili (articoli 3 e 16 della legge 47.48: c.d. stampa clandestina). Le SSUU precisano poi che i limiti alla sequestrabilità della stampa di cui all’art.21, comma 3, Cost., riguardano non la nozione di stampa in senso tecnico, siccome descritta dall’art.1 della legge n.47.48, quanto piuttosto una nozione più ampia che ricomprende tutta l’attività di informazione svolta in modo professionale attraverso una testata giornalistica, a prescindere dai tipi di supporto utilizzati per la divulgazione. Da questa premessa discende che l’art.21 Cost. e le garanzie per la stampa da esso previste abbraccia tutta l’informazione di tipo professionale che sia veicolata anche per il tramite di una testata giornalistica on line; discorso diverso va invece fatto per quel vasto ed eterogeneo ambito di diffusione di informazioni e notizie da parte di singoli soggetti con carattere di spontaneità; in sostanza, mentre la divulgazione di informazioni con carattere di professionalità può essere considerata “stampa” ai fini della tutela costituzionalmente prevista, la diffusione di notizie a carattere spontaneo attraverso forum, blog, mailing list, social network, newsgroup, newsletter etc, pur essendo espressione applicativa del principio di libera manifestazione del pensiero ex art.21, comma 1, Cost., non rientra invece nella tutela specificamente prevista per la stampa dal comma 3 del medesimo articolo 21. Interessante la definizione che la Corte da di forum, quale bacheca telematica o area di discussione in cui qualsiasi utente (o, nel caso di forum chiuso, il solo utente registrato) è libero di esprimere il proprio pensiero rendendolo accessibile agli altri soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale; esso dunque, per struttura e finalità, non è per la Corte assimilabile ad una testata giornalistica e non è soggetto pertanto alle tutele ed agli obblighi previsti dalla legge sulla stampa; un regime analogo è riconoscibile per il blog (quale contrazione di web log, “diario in rete”), ovvero quella sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente; per i newsgroup, quali spazi virtuali in cui gruppi di utenti si trovano a discutere di argomenti di interesse comune; per le mailing list, quale metodo di comunicazione gestito per lo più da aziende ed associazioni e giusta il quale esse inviano tramite posta elettronica ad una lista di soggetti interessati e iscritti informazioni utili in ordine alle quali si esprime condivisione o si attivano discussioni o commenti. Per la Corte occorre dunque distinguere tra
- un quotidiano o un periodico che, ancorché telematico, è strutturato alla stregua di un vero e proprio giornale cartaceo tradizionale, essendo munito di un direttore responsabile e di una organizzazione redazionale (che, quando vi sia una parallela pubblicazione cartacea, sovente neppure coincidono), da intendersi soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa;
- un qualunque sito web in cui chiunque può inserire contenuti, da intendersi non soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa.
In sostanza, appare per le SSUU irragionevole ed incongruente che entrambe le fattispecie ricevano la medesima disciplina in ottica di tutela della “stampa” da essi prodotta. Fatte queste premesse, per le SSUU il concetto di stampa di cui all’art.1 della legge 47.48 va interpretato in modo evolutivo e, come tale, va fatto oggetto di una interpretazione di tipo estensivo: ciò vale con particolare riferimento proprio al concetto di “riproduzione tipografica”, che deve ormai intendersi come mera accessibilità da parte del pubblico, potendosi dunque parlare di “riproduzione tipografica” ogni qual volta l’oggetto della riproduzione, quale prodotto editoriale, sia liberamente accessibile dal pubblico, come accade anche per la stampa on line; per la Corte questa conclusione costituisce il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, che – nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l’evoluzione socio culturale e tecnologica, il senso autentico della legge .47 del 1948, ed in particolare del relativo articolo 1 – fa leva sull’applicazione di un criterio storico sistematico coerente con il dettato dell’art.21 della Costituzione. E’ una presa di posizione della Corte a SSUU che sembra tuttavia sovvertire le basi sistematiche sulla cui scorta essa, a sezioni semplici, ha negato l’estensibilità del regime di responsabilità penale di cui all’art.57 c.p. (e all’art.16 della legge 47.48) al direttore responsabile di testate on line; alla dottrina che la accoglie con favore, si contrappone quella che invece assume trovarsi al cospetto di una applicazione analogica mascherata da interpretazione estensiva, stante l’inequivoco tenore testuale della norma (art.1 della legge 47.48) che definisce la stampa come riproduzione tipografica, inestensibile dunque a mezzi di comunicazione e divulgazione diversi da essa, con conseguente procedimento analogico occulto ed in malam partem applicato alle testate on line giusta configurazione, anche per esse, delle responsabilità per omesso controllo e per clandestinità previste, rispettivamente, dagli articoli 57 del codice penale e 16 della legge 47.48.
2016
Il 21 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44986, onde l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato.
Per la Corte va assunta immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato – nel caso di specie – la responsabilità dell’imputato a titolo di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento (colpa con previsione) e non di omicidio preterintenzionale, con riferimento alla morte di una donna per soffocamento, verificatasi nel corso di un rapporto sessuale con l’imputato, che prevedeva l’adozione di comune accordo di tecniche di bondage, ossia di costrizione fisica mediante legatura.
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Il 15 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 5239 alla cui stregua, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, non configura il reato di scarico di acque reflue industriali di cui all’art. 137 d.leg. n. 152 del 2006 uno sversamento, non ragionevolmente prevedibile, provocato da negligenza del soggetto agente; non potendo pretendersi, in tale caso, la presentazione da parte di quest’ultimo di una regolare richiesta di autorizzazione; per la Corte, una diversa soluzione interpretativa finirebbe difatti con il configurare il reato in termini di mera responsabilità oggettiva.
Per la Corte, in tanto può logicamente pretendersi la presentazione di una richiesta di autorizzazione all’effettuazione dello scarico, frutto di necessario atto volitivo, in quanto lo scarico stesso sia, se non programmato, quanto meno ragionevolmente prevedibile sì che laddove, come invece appare emergere dalla sentenza, lo sversannento sia invece stato il risultato di una condotta accidentale provocata da negligenza, occorre la dimostrazione che l’interessato fosse nelle condizioni di prevedere che un tale fatto si potesse appunto ragionevolmente verificare; diversamente, infatti, non potrebbe imputarglisi la omessa richiesta dell’autorizzazione, ma, semmai la diversa condotta, perfettamente compatibile anche con l’accidentalità del fatto, del superamento dei limiti tabellari, nella specie, tuttavia, non contestata.
Non può essere seguita sul punto – precisa il Collegio – la precedente decisione della Corte che, anche in presenza di fatto accidentale, pare avere ritenuto configurabile, nella vigenza dell’art.21 della I.n. 319 del 1976, il reato di scarico senza autorizzazione sul presupposto che “la punibilità sussiste per il fatto in sé dello scarico effettuato al di fuori del limite normativo costituito dalla previa autorizzazione” (Sez. 3, n. 6954 del 06/06/1996, dep. 09/07/1996, Paggiu, Rv. 205721) atteso che in tal modo si finisce appunto per configurare il pertinente reato in termini di mera responsabilità oggettiva.
2017
Il 23 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1275 alla cui stregua, in tema di diffamazione, la testata giornalistica telematica rientra nella nozione di «stampa» di cui all’art. 1 l. 8 febbraio 1948 n. 47, in quanto funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo; per la Corte va assunta applicabile alle condotte diffamatorie riconducibili alla testata telematica le fattispecie di reato di cui agli art. 595, 3° comma, c.p. e 13, l. n. 48 del 1947, nonché quella di cui all’art. 57 c.p., per il direttore della stessa.
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Il 20 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.52743 che ribadisce la responsabilità per diffamazione ex art.595 c.p. – e non già ai sensi dell’art.57 c.p. (omesso controllo), stante il divieto di analogia in malam partem – del direttore responsabile di un periodico on line nel caso in cui l’articolo lesivo dell’onore e della reputazione di terzi sia sottoscritto da un autore che si è celato dietro uno pseudonimo (rimanendo in sostanza “anonimo”), a condizione che dalle circostanze generali possa dedursi che il direttore abbia fornito un meditato consenso alla pubblicazione del testo e abbia, così, aderito al relativo contenuto diffamatorio.
Per la Corte, più nel dettaglio, va assunta penalmente rilevante ex art.110 c.p., a titolo di concorso doloso, la condotta del direttore di un periodico on line che abbia fornito un contributo concorsuale consistente nel consenso e nella “meditata adesione” al contenuto dello scritto siccome elaborato dall’autore sotto pseudonimo; una meditata adesione che affiora dalla collocazione tipografica dell’articolo diffamatorio, dai titoli, dalle illustrazioni, dalla correlazione del relativo contenuto con il “contesto culturale” che qualifica l’edizione che lo ospita.
Il direttore deve assumersi per il Collegio comunque tenuto a controllare il contenuto delle pubblicazioni on line, vieppiù laddove si tratti di pubblicazioni anonime o la cui titolarità sia celata da pseudonimi capaci, in quanto tali, di consentire al relativo autore di sottrarsi alle conseguenze penali delle proprie espressioni, laddove lesive dell’altrui reputazione; si tratta di fattispecie in cui può affermarsi che la produzione dell’articolo diffamatorio sia “redazionale” e, come tale, ascrivibile al direttore, quale soggetto che conserva un potere effettivo di intervento sui contenuti pubblicati, finendo con il consapevolmente avallarne la diffusione. Peraltro, chiosa la Corte, a ragionare diversamente verrebbe a configurarsi una vera e propria “zona franca” al di fuori dall’usbergo precettivo dell’art.595 c.p., vieppiù grave in considerazione della non applicabilità alla fattispecie dell’art.57 c.p. (in forza appunto del divieto di analogia in malam partem), con conseguente sostanziale impunità di condotte diffamatorie commesse mediante pseudonimo (in quanto tale non associabile a nessuna persona determinata) ovvero anonime.
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L’11 dicembre esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.13398 che assume configurabile, a carico del direttore responsabile di una testata giornalistica on line – peraltro nel caso di specie anche amministratore del sito dove veniva pubblicato il giornale – la responsabilità per il reato di omesso controllo, in relazione a un articolo contenente espressioni diffamatorie che, sia pure non firmato dal relativo autore, si presenti come contenuto redazionale all’interno della pubblicazione telematica e permanga nel sito per un lungo lasso di tempo.
2018
Il 19 febbraio esca la sentenza della sezione V della Cassazione n.7885 che si occupa di un caso in cui un quotidiano online ha pubblicato la notizia di un parroco che guarda i social durante un funerale, assumendo come la fattispecie non configuri una diffamazione. Per la Corte, più in particolare, la pubblicazione di un articolo su un quotidiano online, con video allegato, riguardante un fatto rispondente al vero, non configura appunto diffamazione. Sotto altro profilo, per la Corte il direttore della testata online non può ritenersi responsabile ex art. 57 c.p. in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, non potendosi trascurare in via più generale sul punto come – secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità – il direttore di un periodico non possa essere assunto responsabile per l’omesso controllo sul contenuto delle pubblicazioni ai sensi dell’art. 57 cod. pen. (vengono richiamati i precedenti della V sezione n. 10594/13, Montanari; n. 44126/11, Hannaui; n. 35511/10, Brambilla).
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Il 30 luglio esce la sentenza del Tribunale di Roma alla cui stregua, in tema di diffamazione a mezzo stampa, il direttore di un quotidiano non risponde, nemmeno a titolo di colpa per omesso controllo ex art.57 c.p., qualora un articolo ivi pubblicato – nel cui contesto l’autore ha criticato il direttore di un telegiornale e la collega che lo conduceva in relazione ad alcuni dati esposti nell’edizione serale – risulti essere stato inserito all’ultimo nella pagina giornalistica, siccome affiora dal relativo aspetto grafico e dal breve lasso temporale intercorso tra la trasmissione televisiva e l’ordine di stampa, escludendo così la possibilità di un controllo in prima persona da parte del direttore in parola.
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Il 22 novembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n.30161, alla cui stregua, deve assumersi di natura oggettiva la responsabilità indiretta della società di intermediazione mobiliare per i danni arrecati dal promotore finanziario nello svolgimento delle incombenze affidategli; responsabilità oggettiva che trova fondamento nel principio cuius commoda eius et incommoda e si configura anche solo in presenza di un nesso di occasionalità necessaria tra esecuzione delle incombenze e danno subito dalla vittima, non essendo a tal fine indispensabile che tra preposto e preponente ricorra un rapporto di lavoro subordinato o di carattere stabile e continuativo.
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Il 29 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 8180 alla cui stregua, in tema di responsabilità del direttore di periodico ex art. 57 c.p., nel caso della pubblicazione di una lettera inviata da un lettore o da un opinionista, il direttore in parola è tenuto a esercitare con particolare rigore il controllo ad esso affidato e finalizzato ad impedire che, con il mezzo della pubblicazione, siano commessi reati, trattandosi di scritti che, diversamente dagli articoli redatti dai giornalisti, non sono filtrati da professionisti tenuti, sotto la propria responsabilità, a verificare le fonti e i contenuti dei propri contributi.
Né per la Corte la colpa per il mancato o l’inadeguato esercizio del dovere di controllo può peraltro essere esclusa dalla circostanza che la missiva sia giunta in redazione in ora tarda e nell’imminenza dell’invio alle stampe del giornale, configurandosi in tal caso l’accettazione da parte del direttore del rischio di pubblicare notizie non corrispondenti alla verità. Nel caso di specie è stata pubblicata una missiva apocrifa, recante false accuse di irregolarità nei confronti dei componenti di una commissione di concorso, nella quale il soggetto agente si è limitato a contattare l’autore della missiva al recapito telefonico riportato in calce alla stessa e ha alfine assunto verosimili i fatti ivi rappresentati per il solo fatto che l’interlocutore si è, peraltro falsamente, accreditato come figlio di un relativo collega e amico.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 6112 onde, in tema di omesso controllo ex art. 57 c.p., sussiste la responsabilità del direttore responsabile di un periodico per la pubblicazione di un titolo di copertina che travisi ed enfatizzi in termini diffamatori il contenuto di un resoconto giudiziario pubblicato all’interno della rivista; ciò in quanto – precisa la Corte – il titolo di copertina presenta attitudine offensiva autonoma e anche più insidiosa capacità diffusiva, essendo suscettibile di colpire l’attenzione del lettore «di passaggio» che potrebbe non acquistare la rivista e non accedere alle informazioni chiarificatrici contenute nell’articolo; nel caso di specie, deve per la Corte assumersi avere carattere diffamatorio il titolo di copertina di un noto periodico, laddove evoca il diretto coinvolgimento della persona offesa in un procedimento penale per corruzione riguardante, invece, un relativo collaboratore.
2019
Il 29 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 22850 alla cui stregua il delitto di diffamazione commesso dal giornalista con il mezzo della stampa si configura quale evento di quello attribuibile, ex art. 57 c.p., al direttore responsabile, la cui condotta omissiva consiste nel non aver esperito i dovuti controlli al fine di evitare che, attraverso il periodico da lui diretto, venga dolosamente lesa la reputazione di terze persone; onde, in caso di assoluzione del giornalista dall’imputazione di diffamazione perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, deve altresì escludersi alcuna responsabilità penale in capo al direttore, non essendosi verificato l’evento del pertinente reato omissivo.
2020
Il 1° aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10967 onde Il reato di cui all’art. 57 c.p. configura un’ipotesi di reato proprio, autonoma e strutturalmente caratterizzata dall’omissione della attività di controllo del direttore responsabile, al fine di evitare che, attraverso il periodico da lui diretto, venga dolosamente lesa la reputazione di terze persone – contemplata come causa di un evento non voluto -, addebitabile al direttore di stampa periodica a titolo di colpa, sicché tale reato non può configurarsi ove venga accertato che nessun reato di diffamazione è stato commesso
in tema di diffamazione a mezzo stampa, nel caso in cui l’articolo pubblicato non abbia di per sè un contenuto diffamatorio, ma sia il complesso dell’informazione, per le modalità di presentazione e, soprattutto, per i titoli che l’accompagnano, ad attribuire alla informazione un contenuto offensivo dell’altrui reputazione, del fatto lesivo non può essere chiamato a rispondere l’autore dell’articolo quando questi si sia limitato – come di regola – a fornirne il testo alla redazione del giornale, la quale abbia provveduto alla pubblicazione stabilendone essa, come appunto avviene di norma, e cioè la collocazione in una determinata pagina, il risultato da dare alla notizia, la formulazione di titoli e sottotitoli ed ogni altro particolare.
2021
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 71 onde, in materia di diffamazione a mezzo stampa, la responsabilità a titolo di colpa del direttore per l’omesso controllo sul contenuto del periodico, in riferimento al fatto diffamatorio a mezzo stampa, può dirsi esclusa solo ove si dimostri che il predetto, titolare di una posizione di garanzia, ha fatto quanto in suo potere per prevenire la diffusione di notizie non rispondenti al vero, prescrivendo e imponendo regole e controlli, anche mediati, di accuratezza, di assoluta fedeltà e di imparzialità rispetto alla fonte-notizia.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in generale della c.d. responsabilità oggettiva?
- è quanto viene riassunto nella nota massima: “qui in re illicita versatur, tenetur etiam pro casu”; si tratta dunque del mero “versari in re illicita”, e dunque del semplice aver commesso un illecito;
- una fattispecie che viene tradizionalmente ricondotta – anche sulla scorta dei relativi lavori preparatori – all’art.42 c.p., laddove afferma che, in certi casi determinati dalla legge, l’evento è posto “altrimenti” a carico dell’agente, come conseguenza della relativa azione od omissione;
- in sostanza, è stato commesso un fatto che è antigiuridico (non vi sono cause di giustificazione) e che è penalmente rilevante, configurando un inadempimento reato (evento);
- tale fatto viene imputato al soggetto agente sulla scorta del solo nesso di causalità, e dunque senza che vi concorra un rimprovero di tipo soggettivo per dolo o per colpa;
- poiché l’art.42, comma 1, prevede che la condotta del soggetto agente (declinata in senso attivo od omissivo) deve sempre essere cosciente e volontaria, non è mancata in dottrina la tesi onde la responsabilità oggettive sarebbe ontologicamente non configurabile, giacché in relazione all’evento sarebbe sempre necessaria appunto una qualche coscienza e volontà della condotta capace di fondare un rimprovero per colpa, seppure “levissima”;
- osservando tuttavia la struttura dell’art.42 c.p., il legislatore penale sembra in effetti aver voluto – in taluni casi “tipici” – imputare l’evento inadempimento reato al soggetto agente “altrimenti”, sulla scorta del mero nesso di causalità;
- si tratterebbe dunque di fattispecie tipiche ed “eccezionalissime”, se si considera che per i delitti la regola è l’imputazione dolosa e l’eccezione “ordinaria” è l’imputazione a titolo di colpa o di preterintenzione;
- del resto il concetto di “culpa levissima” appare abbastanza indeterminato, e resta comunque riferito alla condotta, e dunque all’azione od omissione giusta la quale si giunge, attraverso il nesso di causalità, ad un fatto inadempimento reato (evento) che – lungi dall’essere (quantomeno) colposo – appare attribuito al relativo autore sulla base appunto del solo nesso causale;
- in sostanza, il soggetto agente coscientemente vuole l’azione od omissione, che dunque gli appartiene come condotta, ma l’evento che da questa condotta attiva od omissiva scaturisce non può essergli rimproverato né a titolo di dolo, né a titolo di colpa, venendogli piuttosto “oggettivamente” imputato sulla scorta del solo nesso causale;
Come si pone la responsabilità oggettiva rispetto alla Costituzione?
- sussiste un evidente problema di compatibilità della responsabilità oggettiva con la Carta costituzionale, con particolare riguardo al principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art.27, comma 1, Cost. e di eccezione al principio di colpevolezza;
- in un contesto liberal-democratico che permea il c.d. “Stato di diritto”, il ridetto principio di colpevolezza e, dunque, di rimproverabilità del fatto inadempimento reato dal punto di vista soggettivo, è collegato al valore-persona;
- in sostanza, ciascun soggetto agente deve essere libero di autodeterminarsi anche nell’ottica di una condotta che viene punita dallo Stato, scegliendo come tale di farsi rimproverare un comportamento che i consociati riprovano e che essi sono disposti a sanzionare anche (nei casi più gravi) con la privazione della libertà personale;
- da questo punto di vista, il fatto che la responsabilità penale debba essere “personale” implica per larga parte della dottrina (e quantunque i lavori preparatori dell’art.27 Cost. non si palesino univoci in tal senso) non già solo, e de minimis, il divieto di qualunque responsabilità penale per fatti commessi da altri, quanto piuttosto – ed innovativamente – il divieto di qualunque responsabilità penale scevra da una qualche profilo di rimproverabilità soggettiva (“nulla poena sine culpa”) che, come tale, si atteggerebbe comunque a responsabilità per fatto “non proprio” (anche se non “altrui”), perché soggettivamente non controllabile dal soggetto agente;
- solo in questo modo la pena trova un proprio, razionale orientamento finalistico che è coerente con la tendenziale rieducatività della pena ex art.27, comma 3, Cost., potendosi (tentare di) risocializzare solo colui al quale un evento inadempimento reato risulti imputabile dal punto di vista anche soggettivo (oltre che, ovviamente, oggettivo), e gli risulti dunque rimproverabile;
- proprio muovendo da queste considerazioni di tipo sistematico la Consulta ha via via provveduto nel corso dei lustri a ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale fattispecie di originaria, codicistica responsabilità oggettiva, “rileggendole” in ottica di imprescindibile rimproverabilità soggettiva dell’agente.
Cosa distingue la responsabilità oggettiva “espressa” da quella c.d. “occulta”?
- la dottrina ha distinto 2 categorie di responsabilità oggettiva:
- la responsabilità oggettiva “espressa” o “astratta”: si tratta di quanto previsto dall’art.42, comma 3, c.p., onde un evento viene imputato all’agente sulla scorta del mero nesso di causalità con la relativa condotta, ovvero un elemento (tanto essenziale quanto accidentale ma comunque) connesso al reato venga considerato sulla base della relativa mera sussistenza, senza dunque curarsi della consapevolezza o meno che di esso abbia avuto il soggetto agente (è il caso delle c.d. condizioni oggettive di punibilità ex art.44 c.p.);
- si tratta di ipotesi che tanto il Legislatore quanto la Corte costituzionale hanno progressivamente – almeno in parte – limato e contingentato, come nella fattispecie: c.1) dell’errore di diritto: dopo la sentenza della Corte costituzionale n.364 del 1988, l’inescusabilità assoluta della ignoranza della legge penale ex art.5 c.p. è stata mitigata con riguardo alle ipotesi in cui detta ignoranza sia “inevitabile”; c.2) delle circostanze aggravanti; dopo l’intervento della legge n.19 del 1990, esse possono – ai sensi dell’art.59, comma 2, c.p. – essere valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa; c.3) del c.d. concorso anomalo ex art.116 c.p.: almeno a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n.42 del 1965, si assiste con riguardo a chi volle un reato diverso alla punizione a titolo di dolo di un atteggiamento del soggetto agente che è comunque rimproverabile per colpa;
- secondo la dottrina più accreditata, vanno ricondotte alla responsabilità oggettiva “espressa” anche altre fattispecie “tipiche” di cui al codice penale: d.1) i reati di stampa ex art.57 c.p.; d.2) la preterintenzione (art.42 e 584 c.p.) e la morte o le lesioni come conseguenza di un altro delitto (art.586 c.p.), per chi legge entrambe le fattispecie quali ipotesi di dolo misto per l’appunto a responsabilità oggettiva (e non piuttosto a colpa); d.3) l’aberratio ictus monolesiva (art.82, comma 1, c.p.), per chi ritiene che il dolo debba abbracciare non già il fatto tipico (un qualunque fatto di quel tipo) ma piuttosto il fatto storico (quel fatto specifico), onde volevo colpire Tizio, ed il fatto di aver colpito piuttosto per errore Caio mi viene appunto attribuito a titolo di responsabilità oggettiva; e l’aberratio ictus plurioffensiva (art.82, comma 2, c.p.), allorché oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, circostanza nella quale il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà, con responsabilità oggettiva per la componente di sanzione che afferisce alla “persona diversa”; d.4) l’aberratio delicti (art.83 c.p.), laddove l’imputazione a titolo di colpa per l’evento non voluto si considera fatta “quoad poenam”, onde si applica la pena prevista per l’evento colposo (se punibile come tale), evento inadempimento che viene nondimeno imputato all’agente a titolo di responsabilità oggettiva; d.5) gli stati emotivi e passionali che, assunti irrilevanti (art.90 c.p.), fanno presumere una imputabilità che in realtà non esiste, imputando dunque l’evento a titolo di responsabilità oggettiva, d.6) l’ubriachezza preordinata ex art.92, comma 2, c.p., laddove si assisterebbe ad una finzione di imputabilità dacché “se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”; d.7) la responsabilità dell’extraneus per concorso nel reato proprio (dell’intraneus: art.117 c.p.), almeno per chi – a fronte del previsto mutamento del titolo del reato – non ritiene percorribile la strada di una interpretazione costituzionalmente adeguata in senso “colpevole”; d.8) i c.d. reati aggravati o qualificati dall’evento, laddove l’evento che aggrava o qualifica l’inadempimento reato viene attribuito al soggetto agente a titolo appunto di responsabilità oggettiva (per chi lo ritiene tale, è il caso del delitto di rissa ex art.588, comma 2, c.p., laddove la morte o la lesione di taluno dei partecipanti aggrava il trattamento sanzionatorio);
- menziona a parte meritano le c.d. condizioni obiettive di punibilità ex art.44 c.p., le quali: e.1) se estrinseche (l’evento condizionante è estraneo all’offesa tipica o comunque non è tale da incentrare in sé l’offesa tipica), fanno luogo secondo la dottrina più accreditata ad una responsabilità colpevole condizionata, onde al cospetto di un fatto inadempimento reato colpevole che ha già realizzato il proprio disvalore tipico, mere ragioni di opportunità ne circoscrivono o comunque ne limitano la punibilità condizionandola appunto ad un dato evento estrinseco (ad esempio, la presenza del reo nel territorio dello Stato); e.2) se intrinseche (l’evento condizionante è intraneo rispetto all’offesa tipica e la connota: è l’ipotesi del pubblico scandalo nell’incesto ex art.564 c.p., del suicidio nell’istigazione al suicidio ex art.580 c.p., o del pericolo per la pubblica incolumità in caso di incendio di cosa propria ex art.423 c.p.), a chi tradizionalmente vi vede fattispecie appunto di responsabilità oggettiva “espressa” si contrappone chi, con interpretazione costituzionalmente orientata, preferisce scorgervi elementi costitutivi che, come tali, debbono essere abbracciati dal dolo del soggetto agente;
- diversa dalla responsabilità oggettiva “espressa” o “astratta” è la responsabilità oggettiva “occulta” o “concreta”, laddove è in sede di applicazione pratica (e dunque nel bacino processuale) che si finisce per prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa, anche solo presumendone la sussistenza e, in buona sostanza, accontentandosi dunque del mero nesso di causalità tra condotta del soggetto agente ed evento; in sostanza, nel nome per lo più di esigenze di economia sul crinale probatorio, si tende talvolta in sede giudicante a presumere – piuttosto che a rigorosamente accertare – il dolo (massime quello eventuale), anche nella relativa variante dell’errore (si presume noto qualcosa che in realtà l’agente non conosce) ovvero la colpa (si presume come prevedibile da parte dell’agente qualcosa che andrebbe concretamente acclarato come tale);
Cosa distingue la responsabilità oggettiva “pura” da quella c.d. “mista”?
- la responsabilità oggettiva è “pura” quando un evento non voluto viene imputato al soggetto agente (cui null’altro sarebbe rimproverabile);
- la responsabilità oggettiva è “mista” quando ad un evento effettivamente voluto (e, come tale, rimproverabile) se ne aggiunge uno non voluto; è il caso dei delitti aggravati da un evento non voluto, della morte o delle lesioni (non volute) come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p. e dei delitti preterintenzionali, laddove: b.1) a chi parla di dolo (per l’evento non voluto) misto a colpa (per quello non voluto) b.2) si giustappone chi invece discorre di dolo (per l’evento voluto) misto a responsabilità oggettiva (per quello non voluto) ovvero b.3) di modello autonomo di responsabilità penale.
Nell’ambito della responsabilità oggettiva c.d. “mista”, come si atteggia in particolare la fattispecie di cui all’art.586 c.p.?
- per parte della dottrina, la morte o le lesioni come conseguenza di altro delitto configura una fattispecie residuale, che scatta allorché non si applichino altre figure tipiche di delitti aggravati dall’evento (non voluto);
- per altra parte della dottrina si tratta di una ipotesi particolare di aberratio delicti plurioffensiva ex art.583 c.p. (dove ad un evento voluto se ne aggiunge uno non voluto).
Cosa occorre rammentare dei reati commessi col mezzo della stampa periodica?
- si tratta delle fattispecie disciplinate dagli articoli da 57 a 58 bis del codice penale;
- esse vengono tradizionalmente ricondotte – muovendo dalla originaria formulazione – alla figura della responsabilità oggettiva in ambito penale;
- in particolare, ab origine l’art.57 c.p. contemplava una ipotesi di responsabilità oggettiva per fatto altrui, chiamandosi a rispondere del reato eventualmente commesso dall’autore di una pubblicazione (normalmente, la diffamazione ex art.595 c.p.) sempre e comunque anche il direttore o redattore responsabile della testata;
- affiorava dunque dalla norma una responsabilità oggettiva per fatto altrui “da posizione”: quando il direttore o redattore responsabile – violando un vero e proprio obbligo di (pedissequa) sorveglianza – ometteva il controllo sul contenuto di un articolo rivelatosi poi diffamatorio, rispondeva per mero nesso causale tra omesso controllo e diffamazione e, dunque, a titolo di responsabilità oggettiva, anche allorché tale omesso controllo si rivelasse non colposo;
- anche dopo la riforma del 1958, che – con riguardo alla responsabilità penale del direttore o vice direttore responsabile – ha espunto dal testo originario dell’art.57 c.p. l’inciso “per ciò solo” e vi ha aggiunto l’espressione “a titolo di colpa”, non sono mancati plurimi profili interpretativi problematici riguardo: e.1) alla natura della ridetta responsabilità: dire “a titolo di colpa” non significa necessariamente configurare una fattispecie (psicologicamente) colposa, potendo anche solo voler dire che il fatto viene trattato sul crinale effettuale punitivo (quoad poenam) come se fosse colposo, anche se in realtà direttore o vice direttore responsabile continuano ad essere puniti per mero versari in re illicita (responsabilità oggettiva); la tesi più accreditata è quella costituzionalmente orientata, che assume dunque necessaria una vera e propria colpa del direttore o vicedirettore responsabile e dunque un autentico coefficiente soggettivo di rimproverabilità a corredo della pertinente omissione di vigilanza; e.2) al modello di illecito che si configura: potrebbe trattarsi di una fattispecie autonoma di reato (tesi dominante: è reato autonomo omissivo, distinto da quello commissivo del giornalista autore della pubblicazione, seppure a questo indefettibilmente legato da un nesso di c.d. “accessorietà genetica”, affiorando come tale solo laddove sia configurabile il fatto reato tipico del ridetto giornalista autore della pubblicazione) ovvero, in alternativa, di un concorso colposo del direttore o vicedirettore responsabile nel reato doloso commesso dall’autore dell’articolo (tesi recessiva); in realtà, il fatto che l’art.57 c.p. precisi “fuori dai casi di concorso” consente di far propendere per la tesi del reato colposo autonomo del direttore o vicedirettore responsabile, che è alternativo all’ipotesi per l’appunto del concorso (con il giornalista autore dell’articolo) nella diffamazione dolosa; inoltre, sul crinale della procedibilità, l’eventuale querela spiccata nei confronti del giornalista autore della pubblicazione non estende i propri effetti al direttore o vice direttore responsabile (come invece accade nell’ipotesi inversa: la querela spiccata nei confronti del direttore o vicedirettore responsabile di omesso controllo si estende anche al giornalista autore della pubblicazione), circostanza che fa propendere per ancora una volta perl’autonomia della fattispecie omissiva colposa del direttore o vice direttore responsabile (siccome peraltro confermato anche dal legislatore che, in sede di concessione di varie amnistie, ha sempre considerato il reato del direttore o vice direttore responsabile come fattispecie autonoma); e.3) al più autentico significato da attribuire all’espressione “reato commesso” (dal giornalista), che può essere inteso come sola offesa tipica ed antigiuridica, ancorché non sorretta (in capo al giornalista autore dell’articolo) da un coefficiente soggettivo di colpevolezza (che autorizza la punizione del direttore anche quando il giornalista sia incolpevole, non punibile e financo ignoto), ovvero come vero e proprio “reato pleno iure” comprensivo di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, oltre che di concreta punibilità; quello che è sufficientemente concorde in dottrina è che il reato commesso dal giornalista compendia l’evento del reato colposo del direttore ex art.57 c.p., che costui non ha impedito, e non configura dunque una condizione obiettiva di punibilità rispetto alla fattispecie incriminatrice che coinvolge il direttore o vice direttore responsabile; una questione che in proposito si è posta è se sia punibile ex art.57 c.p. il direttore o vice direttore responsabile laddove il giornalista autore dell’articolo diffamatorio non sia in concreto punibile a cagione dell’immunità parlamentare ex art.68 Cost.; laddove quest’ultima sia assunta, in termini di pertinente natura giuridica, quale vera e propria scriminante, essa è idonea ad eludere l’antigiuridicità del reato (diffamazione) commesso dall’autore giornalista, con l’ulteriore precipitato onde non si configura alcun “reato commesso” e finisce con l’andare assolto anche il direttore responsabile che abbia eventualmente omesso il controllo sulla pertinente pubblicazione; laddove invece l’immunità ex art.68 Cost. si configuri quale causa di non punibilità in senso stretto (si tratta della giurisprudenza più recente), chi assume che il “reato commesso” dal giornalista autore della pubblicazione diffamatoria debba essere solo tipico ed antigiuridico, ma non anche colpevole e punibile, ammette il permanere della responsabilità penale del direttore responsabile che abbia omesso il controllo ex art.57 c.p.;
- il direttore responsabile di un giornale ha un dovere di controllo sul contenuto delle pubblicazioni del periodico da lui diretto, dal quale discende la relativa responsabilità ex art.57 c.p.; di tale dovere di controllo va rintracciato con precisione il perimetro, al fine di ben delinearne il contenuto ed i limiti, e dunque quale consistenza abbia il dovere di diligenza che si può pretendere dal direttore o vicedirettore responsabile ridetto, impegnandone la pertinente responsabilità penale; solo delineando con precisione fino a quale punto il direttore o vice direttore responsabile ha l’obbligo di controllare è poi possibile procedere ad una imputazione colposa a relativo carico per omesso controllo su pubblicazioni diffamatorie, scongiurandone una responsabilità oggettiva da mera “posizione”; il delitto di diffamazione commesso dall’autore dell’articolo costituisce l’evento che il direttore responsabile deve scongiurare e che, in caso di omissione colposa, ne fonda la responsabilità penale ex art.57 c.p.: ad esso è avvinto un dovere di controllo che si declina, in capo al direttore responsabile, quale espressione della propria posizione di preminenza capace di attribuirgli un potere di censura ed una facoltà di sostituzione; per acquisizione dottrinale consolidata, peraltro, dal punto di vista “quantitativo”, più articolata e complessa si presenta la struttura organizzativa del giornale, meno si palesa esigibile da parte del direttore responsabile un controllo personale capillare e diffuso sulle singole pubblicazioni del giornale medesimo (anche se la giurisprudenza della Cassazione tende ad assumere non analogicamente mutuabili in via integrale le acquisizioni raggiunte in tema di delega di funzioni con riguardo alla materia antinfortunistica); sul crinale invece “qualitativo” il dovere di controllo del direttore si declina in termini di maggior rigore con riguardo alla veridicità delle notizie fornite dal giornalista e delle pertinenti fonti, e di minor rigore con riferimento alle valutazioni di commento ai fatti siccome operate dal giornalista medesimo;
- peculiare la disciplina in caso di stampa non periodica (art.57 bis c.p.), laddove affiora una responsabilità suppletiva e sussidiaria dell’editore o, alternativamente, dello stampatore laddove sia ignoto o comunque non imputabile l’autore della pubblicazione (risponde l’editore) o non lo sia l’editore (risponde lo stampatore); secondo la tesi più accreditata in dottrina e più compatibile con la Costituzione, si tratta di una responsabilità colposa analoga a quella del direttore o vice direttore responsabile (del resto, l’art.57 bis richiama esplicitamente la disciplina del precedente art.57), avvinta a posizioni di garanzia da essi rivestite quando la pubblicazione, per l’appunto, ha carattere non periodico.
In che modo è possibile giungere alla definitiva espunzione dal sistema di ogni fattispecie di responsabilità oggettiva?
- per parte della dottrina, maggiormente formale, occorre giocoforza un intervento del legislatore o della Corte costituzionale;
- per altra parte della dottrina, più sostanziale, è possibile procedere ad una interpretazione adeguatrice delle disposizioni che prevedono fattispecie ab origine di responsabilità oggettiva, .alla luce del principio di colpevolezza siccome ritraibile dall’art.27 Cost., onde – esemplificativamente – quando il codice penale afferma “a titolo di colpa”, tale espressione va interpretata non già nell’ottica della mera determinazione della sanzione penale (quoad poenam), quanto piuttosto come equivalente di “per colpa”, con necessità di accertare a fini punitivi la compartecipazione psicologica (colposa) del soggetto agente.