Massima
I diritti fondamentali, per essere intimamente legati alla persona umana ed alla relativa dignità, sottendono interessi che debbono (non possono non) essere tutelati dal sistema; si tratta di un catalogo di situazioni giuridiche non preventivamente definibili e via via emergenti nel corso del tempo, pur presentando il minimo comun denominatore suindicato, che ne riconduce la categoria “mobile” e “dinamica” a sostanziale unità di fondo. La relativa tutela – garantita anche a livello internazionale e sovranazionale – fa però sempre i conti, nel concreto, con la presenza di collettività organizzate e di interessi “altri” il cui presidio va contemperato rispetto a quello del portatore di ogni diritto fondamentale, come plasticamente palesa l’art.32 della Costituzione laddove affianca il diritto (alla salute) dell’individuo all’omologo, fondamentale interesse (alla salute) della collettività, ma anche l’art.8 del codice civile, laddove ragioni familiari legittimano l’azione a tutela del nome anche di soggetti diversi dal relativo portatore.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Non viene prevista una specifica disciplina per i diritti della persona, o diritti umani; all’art. 1 (e per lo straniero all’art.3) si fa solo un generico riferimento ai diritti “civili”. Un accenno – seppure nell’ambito delle norme sulla proprietà – viene fatto all’”appartenenza” delle opere dell’ingegno (art.437) e, dunque, al diritto d’autore.
1930
Il codice penale punisce all’art.594, con la reclusione, chiunque offenda l’onore (insieme dei valori morali) o il decoro (insieme di condizioni e qualità che concorrono a costituire il valore sociale) di una persona. Si tratta della fattispecie di ingiuria.
1941
Il 22 aprile esce la legge n.633 che tutela il diritto d’autore, nei relativi risvolti morali (riconoscibilità come autore di una determinata opera) e patrimoniali (possibilità di sfruttamento economico dell’opera medesima).
1942
A differenza del codice del 1865, le prime norme del codice civile (segnatamente, gli articoli da 1 a 10) prevedono specifici diritti della persona, quale ad esempio il diritto al nome, all’immagine, all’integrità psico-fisica. Con particolare riguardo a quest’ultima, l’art.5 del codice afferma che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Si tratta di un catalogo di diritti di natura assoluta che, laddove lesi da terzi, implicano diritto al risarcimento del danno patrimoniale (art.2043) e, in caso di reato – come nell’ipotesi della lesione dell’onore e del decoro di una persona ex art.594 c.p. – anche non patrimoniale (art.2059).
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che all’art.2 fa esplicito riferimento – riconoscendoli e garantendoli – ai diritti inviolabili nell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; e all’art. 3 afferma la necessità, attraverso l’eguaglianza formale e sostanziale dinanzi alla legge, che questi diritti vengano concretamente attuati.
Il 10 dicembre l’Assemblea dell’ONU adotta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
1950
Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)
1953
Il 14 settembre esce la sentenza del Tribunale di Roma sul c.d. caso Caruso: in un film a carattere autobiografico sulla vita del noto tenore, vengono riferiti – senza il consenso dei familiari – episodi e comportamenti della sua vita privata. Il Tribunale afferma che, seppure implicitamente, è previsto nell’ordinamento un diritto alla riservatezza, tutelabile per analogia secondo la disciplina del diritto all’immagine, dovendosi assumere vietata qualsiasi ingerenza estranea nella sfera della vita privata della persona e qualsiasi indiscrezione da parte di terzi su fatti e comportamenti personali che – non pubblici per loro natura – non sono destinati neppure ad essere resi pubblici.
1955
Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.
1956
Il 22 dicembre esce la sentenza della Cassazione n.4487 che conclude la vicenda giudiziaria di cui al caso Caruso e che nega decisamente la configurabilità di un autonomo diritto alla riservatezza affermando che nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia stato sancito come principio generale il rispetto assoluto all’intimità della vita privata e tanto meno come limite alla libertà dell’arte; l’interesse alla riservatezza è tutelabile solo se e quando la conoscenza delle vicende della vita altrui sia stata ottenuta con mezzi di per sé illeciti o che impongano l’obbligo del segreto e, dunque, soprattutto attraverso comportamenti che integrino gli estremi del fatto illecito. Un tema, quello della privacy, che “ben può trovare la sua soluzione senza il bisogno di inventare istituti nuovi, nel precetto generale del “neminem laedere”, come specificato per l’appunto nell’art. 2043 c.c.”. In sostanza, per la Corte non esiste un autonomo diritto alla riservatezza, ma se la privacy viene violata può essere chiesto il risarcimento del danno aquiliano, con ciò in qualche modo sottintendendosi che un “diritto” assoluto oggetto di lesione in realtà esiste.
1958
Il 13 maggio esce la sentenza della Cassazione n.1563, che fa affiorare per la prima volta il diritto all’oblio, pur negandovi tutela rispetto al caso concreto. La Corte parla di “diritto al segreto del disonore”, e dunque di diritto a che, a distanza di tempo dall’accadimento di un dato fatto, esso non venga riproposto al pubblico qualora idoneo a gettare disonore sull’interessato, quantunque tale disonore possa dipendere proprio dal fatto l’interessato a suo tempo ha posto in essere con consapevolezza.
1959
Il 21 gennaio vengono eletti i componenti della Corte EDU.
Il 23 febbraio la Corte EDU tiene la prima seduta, che dura 5 giorni.
1963
Il 5 febbraio esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-26/62) che afferma il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norma interne ai singoli Stati, neppure se posteriori.
Il 20 aprile del 1963 esce la sentenza della Cassazione n.990 (caso Petacci) che, facendo perno sull’art.2 della Costituzione, sebbene non riconosca ancora ammissibile il diritto tipico alla riservatezza, assume violativa del diritto assoluto di personalità – inteso quale diritto vantabile erga omnes alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo come singolo, con chiaro riferimento all’art.2 Cost. – la divulgazione di notizie relative alla vita privata, in assenza di un consenso almeno implicito, ed ove non sussista, per la natura dell’attività svolta dalla persona e del fatto divulgato, un preminente interesse pubblico di conoscenza.
1964
Esce la sentenza della Corte costituzionale n.14 con la quale, nel noto caso Costa / Enel, si stabilisce che le norme comunitarie hanno il medesimo rango di una fonte interna primaria, dal momento che è con una legge ordinaria che è stata data esecuzione ai Trattati istitutivi della Comunità): questo significa che una legge interna posteriore può derogare ad una norma comunitaria, secondo il criterio cronologico, e dunque in Italia non può dirsi vigente il principio di primazia del diritto comunitario.
1973
Esce la sentenza della Corte costituzionale n.183 che, al fine di garantire il primato del diritto comunitario rispetto all’ordinamento interno, afferma che una norma interna previgente viene implicitamente abrogata dalla norma comunitaria successiva, mentre nel caso opposto della norma interna contrastante sopravvenuta, essa è da intendersi incostituzionale e la relativa declaratoria spetta alla Corte costituzionale medesima, previa remissione della relativa questione da parte del giudice italiano remittente, che non può disapplicarla in via automatica.
1975
Il 27 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2129 (caso Soraya Esfandiari) che riconosce la sussistenza nell’ordinamento di un diritto alla riservatezza consistente nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano giustificati da interessi pubblici preminenti. La sentenza è importante anche perché la Corte richiama la CEDU, e in particolare gli articoli 8, paragrafo 1 sul rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, e 10, paragrafo 2, dove è consentito un limite alla libertà di manifestazione del pensiero per proteggere la reputazione o i diritti altrui, ovvero per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali.
1978
Il 9 marzo esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-106/77, caso Simmenthal) che ribadisce il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norme interne ai singoli Stati, neppure se posteriori.
1984
L’8 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 170 (caso Granital), secondo la quale gli ordinamenti interno e comunitario sono autonomi e distinti, ma tra loro coordinati secondo un principio (non gerarchico, ma) di competenza: questo autorizza il giudice interno a disapplicare in via automatica e diretta una norma interna contrastante con una norma comunitaria immediatamente applicabile (regolamento o direttiva self executing), anche se la norma interna sia sopravvenuta.
1985
Esce il 22 giugno la sentenza della I sezione della Cassazione n.3769, nota come “caso Veronesi”, che riconosce sussistere nell’ordinamento italiano – in quanto riconducibile all’art. 2 cost. e deducibile, per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome – il diritto all’identità personale, che va qualificato quale interesse giuridicamente meritevole di tutela a non veder travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc.. Nella fattispecie, dal testo di un’intervista resa ad un settimanale dal direttore dell’istituto tumori di Milano era stata estrapolata, per poi esser riprodotta in un inserto di pubblicità redazionale, un’affermazione circa la minor nocività di sigarette leggere; sulla base del principio dianzi riportato, è stata confermata la condanna generica di risarcimento del danno a carico della società produttrice delle sigarette reclamizzate, nonché dell’agenzia pubblicitaria.
1986
Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.1763 che contempera il diritto di cronaca con il diritto all’immagine in un caso in cui la ripresa di uno spettatore, colto in un atteggiamento idoneo a simbolizzare il tifoso sofferente, era stata inserita nella sigla di una trasmissione televisiva; secondo la Corte una ripresa dell’immagine di un tifoso durante una partita di calcio può essere divulgata con la cronaca dell’evento sportivo, anche con la riproduzione a distanza di tempo dell’episodio stesso, al fine di soddisfare il persistente interesse del pubblico a rivedere quell’incontro, ma non può giustificare un’utilizzazione “decontestualizzata” che venga effettuata per scopi diversi e senza alcun collegamento con l’accadimento nel corso del quale è stata fissata.
1987
Il 18 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.561 che identifica un diritto alla sessualità quale diritto inviolabile della persona, configurandosi la sessualità come un abito di vita essenziale per l’espressione e lo sviluppo della persona medesima; nel caso di specie, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di tutta una serie di disposizioni nella parte in cui non prevedono un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici
1989
Il 16 maggio esce la nota sentenza della Corte d’appello di Milano sul caso Taylor, riferito allo sfruttamento dell’immagine dell’attrice Liz Taylor (il fotogramma di un film che la ritrae viene usato a scopo pubblicitario) senza averne previamente acquisito il consenso: si tratta della prima sentenza che accenna al c.d. “prezzo del consenso”, come posta di danno patrimoniale da lucro cessante per mancata monetizzazione del consenso allo sfruttamento della propria immagine.
1990
Il 22 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.307 in tema di diritto all’integrità psico-fisica e di trattamento sanitario obbligatorio: il trattamento sanitario deve incontrare il consenso del paziente e può essere imposto (art.32 Cost.) solo quando non incida negativamente sullo stato di salute di chi vi è sottoposto (fatte salve le normali conseguenze insite in ogni intervento sanitario, da assumersi tollerabili); quando, all’opposto, incide negativamente (come nel caso delle malattie contratte a causa di vaccinazione obbligatoria profilattica), il pregiudizio va indennizzato. Si profila il conflitto – collegato alla foggia sia individuale che collettiva del diritto alla salute, ex art.32 Cost. – tra la possibilità per il legislatore di imporre un determinato trattamento sanitario (obbligatorio) finalizzato a salvaguardare la salute della collettività (come proprio nel caso delle vaccinazioni obbligatorie) ed il c.d. diritto del singolo all’autodeterminazione terapeutica, che potrebbe giustificare anche la scelta da parte del paziente (specie se gravemente malato) di non curarsi e dunque, nella sostanza, lasciarsi morire.
Il 22 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.471 che, mutando la propria giurisprudenza, ritiene costituzionalmente illegittimo l’art.696 c.p.c. nella parte in cui non consente di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell’istante, quando sia lui stesso a chiederla a fini probatori del proprio diritto al risarcimento del danno: la pronuncia implicitamente conferma la necessità del consenso del titolare per qualunque atto di disposizione del proprio corpo.
1991
Il 2 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4785 che conferma la possibilità di invocare un risarcimento del danno all’immagine, ex art.2043 c.c., allorché il volto di un personaggio noto venga sfruttato a fini pubblicitari senza averne preventivamente ottenuto (a pagamento) il consenso: c.d. prezzo del consenso.
1992
Il 4 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 1147 sul caso società Frigodaunia, che si occupa dei rapporti tra diritto di cronaca giornalistica televisiva, possibilità di effettuare test comparativi su merce (c.d. Warentests) e lesione della reputazione economica dell’imprenditore commerciale con particolare riguardo, nel caso di specie, ad una persona giuridica (società), e non ad una persona fisica: secondo la Corte l’attività del giornalista televisivo presuppone un elevato grado di prudenza, e laddove egli divulghi i risultati di un analisi chimica su determinati prodotti alimentari (nel caso di specie, pesce surgelato), diffondendo notizie obiettivamente false in grado di compromettere la commerciabilità dei prodotti analizzati, può sostenere di avere agito in buona fede soltanto se ha provveduto ad effettuare accertamenti orientati a verificare l’attendibilità del risultato pubblicizzato (nel caso di specie il giornalista televisivo ha diffuso i risultati dell’analisi chimica effettuata sui prodotti divisati travisandone il risultato, e ciò ha implicato condanna al risarcimento sia per lui che per la Rai, datore di lavoro).
Il 7 febbraio viene firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea (TUE), secondo il quale l’Unione stessa rispetta i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e quelli che risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, considerandoli principi generali del diritto comunitario.
Il 25 febbraio vede la luce la legge n.210 che prevede, sulla scia di Corte costituzionale n.307/90, un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.
1994
Il 3 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale secondo la quale – in tema di diritto all’identità personale – viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del Regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo sia ormai da ritenersi autonomo segno distintivo proprio della sua identità personale.
Il 5 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8081, secondo la quale – in caso di violazione da parte della moglie divorziata del divieto di uso del cognome del marito (art. 5, comma 2, legge 898/70) – quest’ultimo può, ai sensi dell’art. 7 cod. civ., chiedere la cessazione del fatto lesivo ed altresì agire per il risarcimento del danno. Tuttavia, mentre per l’inibitoria è sufficiente che l’attore dimostri, oltre all’uso illegittimo del proprio nome, la mera possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio (il quale può essere, quindi, meramente potenziale ovvero di ordine soltanto morale), senza specifica prova della malafede di chi lo usa, ai fini dell’azione risarcitoria devono sussistere tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi dell’illecito aquiliano, ex artt. 2043 ss. cod. civ., sicché non solo è necessaria l’esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo, se non ha carattere patrimoniale, è risarcibile, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., soltanto ove nella condotta dell’indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penalmente sanzionato ed è necessario provare la colpa o il dolo dell’autore dell’illecito.
1996
Il 7 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.978 in tema di diritto all’identità personale nel contesto della quale – assunto l’interesse sociale di uno sceneggiato televisivo sul “caso Rececconi” (noto calciatore della Lazio, ucciso nel 1977 da un gioielliere durante un falso tentativo di rapina ideato per scherzo dalla vittima) – viene respinta la domanda di distruzione del filmato, proposta dal gioielliere e dalla moglie di questi che avevano dedotto ledere esso il loro diritto, appunto, all’ identità personale. Secondo la Corte tale diritto, si configura quale diritto soggettivo perfetto, fondato sull’ art. 2 Cost. che sottende un interesse di tipo “positivo” alla fedele rappresentazione di sé stessi: l’interesse a non vedere modificato, alterato o comunque offuscato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, per come esso si è già estrinsecato nell’ambiente sociale circostante o per come si presume – da dati univoci ed oggettivi – che esso vi si estrinsecherà. Tale diritto può tuttavia essere limitato in conseguenza dell’ esercizio di altri diritti fondamentali, anch’ essi costituzionalmente garantiti, con particolare riferimento al diritto di cronaca, tutelato dall’ art. 21 Cost., che può liberamente esplicarsi e prevalere su quello all’ identità personale, ove ricorrano cumulativamente le seguenti condizioni: a) l’ utilità sociale della notizia; b) la verità dei fatti divulgati; c) la forma civile dell’ esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio.
Il 28 marzo esce un parere della Corte di Giustizia CE che fa registrare una querelle in ordine alla possibilità o meno per la Comunità Europea di aderire alla CEDU.
Il 29 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione in tema di diritto di satira, immagine caricaturale e diffamazione (caso Craxi), con la quale viene riconosciuta la illiceità di una vignetta satirica che ritrae un noto personaggio politico perché, unitamente al titolo di un contestuale servizio giornalistico coinvolgente il medesimo personaggio, viene assunta diffamatoria.
Il 31 dicembre viene varata la legge n. 675 sul trattamento dei dati personali (privacy), che suggella il passaggio da una concezione proprietaria della riservatezza ad un’altra più al passo con l’avanzare delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i cui effetti sociali impongono di considerare i dati personali, più che qualcosa di “proprio”, qualcosa di “controllabile” (aggiornamento, integrazione, cancellazione), nell’ottica di una democrazia diffusa. Di rilievo la invocabilità del danno patrimoniale ai sensi dell’art.2050 c.c. (il trattamento di dati è considerato esercizio di attività pericolosa) e quello non patrimoniale ai sensi dell’art. 2043 c.c.
1997
Esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.9705 che richiede, ai fini dell’intervento chirurgico, che il medico ottenga preventivamente il consenso esplicito, specifico e consapevole del paziente (c.d. consenso informato).
1998
Il 9 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3679 che prende in considerazione un nuovo profilo del diritto di riservatezza, recentemente definito anche come diritto all’oblio, inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata, salvo che per eventi sopravvenuti il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione.
Il 22 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 13563 in tema di diritto di satira, che precisa che i fatti oggetto della satira per sottrarsi ai limiti del diritto di cronaca (verità, interesse pubblico, continenza) vanno espressi in modo apertamente difforme dalla realtà, dovendosi invece ritenere sottoposti a tali limiti ove propalati in modo apparentemente attendibile, con particolare riguardo al limite della verità.
1999
Il 3 e 4 giugno, durante il Consiglio europeo di Colonia, emerge la necessità di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza che siano garantiti a tutti i cittadini dell’Unione.
Il 23 novembre entra in vigore la legge costituzionale n.2 che riscrive l’art.111 Cost. e prevede esplicitamente che l’Italia garantisce la ragionevole durata del processo, secondo i dettami dell’art.6, par.1, della CEDU.
2000
Il 17 febbraio esce una pronuncia del Tribunale di Roma, sezione XI (giudice Schettini) che – partendo dal diritto a diventare genitori (interesse giuridicamente rilevante) – assume valido il contratto atipico di sostituzione di maternità (c.d. fecondazione artificiale eterologa) se il contratto ha oggetto determinato e non sia previsto corrispettivo per la donna che mette a disposizione l’utero per la gestazione.
Il 3 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2367 importante in tema di diritti fondamentali delle persone giuridiche e di relativa lesione: dopo aver ribadito le tre condizioni utili al fine di invocare l’esimente del diritto di cronaca (verità oggettiva, “pertinenza” ovvero interesse pubblico alla notizia, continenza), la Corte afferma che danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni non coincidenti: il primo (cerchio grande) comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sibbene di riparazione, mentre il secondo (cerchio piccolo) consiste nella c.d. pecunia doloris. Dalla distinzione tra danno non patrimoniale e danno morale discende che, comprendendo il primo anche gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità.
Il 30 maggio esce la sentenza della Corte EDU sul caso soc. Belvedere Alberghiera / Italia, che muove dal presupposto onde non occorre, in astratto, verificare se nell’ordinamento italiano un istituto di pura creazione giurisprudenziale, come l’occupazione appropriativa, assuma una configurazione assimilabile a quella di una disposizione di legge per acclararne il conflitto con la CEDU, essendo sufficiente in proposito prendere atto di come la giurisprudenza sviluppatasi in materia abbia condotto ad applicazioni contraddittorie, ventilando per ciò solo – in concreto – risultati arbitrari ed imprevedibili, tali da privare gli interessati (ablati) di una tutela efficace dei relativi diritti e da porsi per tale via in frizione con il principio di legalità, convenzionalmente inteso, fissato all’art.1, Protocollo 1, alla CEDU. Peraltro, soggiunge la Corte, attraverso l’occupazione appropriativa la PA si avvantaggia di una situazione illegittima, e specie laddove esclude la restituzione del bene al privato ablato nonostante l’annullamento in sede giurisdizionale degli atti dell’espropriazione illegittima, si pone ancora una volta in contrasto con il principio di legalità siccome tracciato dalla Convenzione e dal relativo I Protocollo addizionale. Infine, la Corte afferma che l’occupazione appropriativa corrisponde ad uno spossessamento del privato proprietario senza titolo, e non già ad una espropriazione cui difetti soltanto il pagamento di un’equa indennità per poterla considerare legittima: da ciò discende per la Corte che – in applicazione dell’art.41 della CEDU – la migliore forma di riparazione per il privato ablato è costituita dalla restituzione del bene da parte della PA, oltre al risarcimento dei danni (assumendo l’equa indennità mero valore recessivo). Si tratta di una pronuncia della Corte che investe, più che un caso di occupazione appropriativa, una ipotesi di c.d. occupazione usurpativa, a cagione dell’annullamento del progetto di opera pubblica in sede giurisdizionale e di conseguente venir meno (col progetto medesimo) della dichiarazione di pubblica utilità fondante la procedura espropriativa: laddove tuttavia la Corte stigmatizza il contegno dello Stato italiano che ha denegato al privato la restituzione del bene ablato, la dottrina vede già con riguardo a questa sentenza l’affermazione di principi applicabili alla ipotesi (meno grave) dell’occupazione appropriativa pura. In quel medesimo 30 maggio esce la coeva ed omologa sentenza della Corte EDU sul caso Carbonara e Ventura / Italia, che dichiara ancora una volta l’occupazione appropriativa o espropriazione indiretta in frizione con il primo Protocollo Addizionale alla CEDU in tema di tutela della proprietà privata, con le medesime argomentazioni di cui al caso Belvedere Alberghiera. Si muove dal difetto di precise disposizioni normative a disciplinare l’occupazione appropriativa, e da un diritto vivente della Cassazione italiana incompatibile con il principio di legalità di cui alla CEDU per avere esso dato luogo ad applicazioni contraddittorie e tali da non rispettare quella esigenza di principi accessibili, precisi e prevedibili che soli possono dirsi idonei a garantire ai privati proprietari interessati una efficace tutela dei relativi diritti, con l’aggravante onde la PA si avvantaggia di una situazione si sostanziale illegalità per acquisire la proprietà del bene. La sentenza si occupa anche della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno in caso di occupazione appropriativa: il momento in cui avviene la irreversibile trasformazione del fondo appare non individuabile con sufficienti margini di esattezza, finendo col rendere incerto lo stesso dies dal quale decorre appunto il termine prescrizionale, e da questo punto di vista la Corte EDU si pone in contrasto con le acquisizioni della Corte costituzionale di cui alla sentenza 188.95, che aveva invece assunto costituzionalmente legittima la configurazione del dies a quo per il decorso del termine prescrizionale, affidata alla ragionevole discrezionalità del legislatore.
Il 26 ottobre esce la sentenza della Corte EDU nel caso Kudla c. Polonia: già il fatto che lo Stato resti inerte e non preveda un rimedio interno atto a garantire al danneggiato la riparazione per la irragionevole durata del processo implica violazione della CEDU, dal momento che l’art.13 della stessa CEDU garantisce un rimedio nazionale a qualunque persona sia stata lesa nei relativi diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione.
Il 7 dicembre viene proclamata per la prima volta a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza.
2001
Il 24 marzo esce la legge n.127 che delega il Governo ad emanare un testo unico in materia di trattamento dei dati personali.
Il 23 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.7027 che, con riguardo a trattamento chirurgico e consenso del paziente, assume che il medico può intervenire senza consenso solo laddove il paziente sia incosciente, valorizzando il principio dello stato di necessità (pericolo attuale di un danno grave alla persona).
Il 18 ottobre viene pubblicata la legge costituzionale n.3 che, tra le altre cose, modifica il testo dell’art.117 della Costituzione: la potestà legislativa deve essere esercitata:
- nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario: il che fa dire a parte della dottrina che la frizione di una norma interna con una norma comunitaria comporta (nuovamente) vizio di costituzionalità e competenza alla relativa declaratoria solo della Corte costituzionale (previa remissione della relativa questione di legittimità costituzionale);
- nel rispetto dei vincoli derivanti dai Trattati internazionali, e dunque anche dalla CEDU.
Il 19 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione che inaugura il proprio orientamento in tema di pubblicazione dell’interrogazione parlamentare diffamatoria e diritto all’onore: si parte dal presupposto che esiste una disciplina pubblicistica delle interrogazioni – quali atti ispettivi del Parlamento rispetto al Governo – e che esiste un interesse pubblico a conoscere il testo sia dell’interrogazione del parlamentare che della risposta del Governo; muovendo da questa premessa, deve quindi ritenersi costituire legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità per danni, la pubblicazione di un’interrogazione parlamentare il cui contenuto sia diffamatorio: nel quale caso il requisito della verità del fatto, è da intendere rispettato solo se corrisponda al vero la riproduzione del testo dell’interrogazione medesima, integralmente o per riassunto, priva essendo di rilievo, agli stessi fini, l’eventuale falsità del suo contenuto (che il giornalista non ha il dovere di verificare). La legittimità del diritto di cronaca in tale modo esercitato presuppone che il giornalista riproduca l’interrogazione parlamentare “asetticamente”, ossia in forma impersonale ed oggettiva, a modo di “semplice testimone”; se invece, abbandonando la posizione di imparziale narratore del fatto-interrogazione, dimostri, con commenti o altro, di approvare o di aderire, comunque, al suo contenuto diffamatorio, non potrà che farsi applicazione della regola generale che presiede all’esercizio del diritto di cronaca dovendo allora il giornalista provare, per andare esente da responsabilità, la verità intrinseca del fatto riferito, l’interesse pubblico alla relativa conoscenza, la correttezza formale dell’esposizione.
2002
Il 2 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.11573 che si occupa del danno non patrimoniale alla persona giuridica in caso di c.d. Legge Pinto, affermandolo in astratto configurabile (anche se non nel caso di specie) proprio per lesione di diritti fondamentali dell’ente: tale danno (non patrimoniale) non trova definizione nella legge n. 89 del 2001, e nemmeno nel codice civile, il quale si limita a contemplarne la risarcibilità nei casi espressamente previsti (art. 2059), e, pertanto, va identificato con stretta aderenza al valore letterale della relativa espressione, comprendendo tutti gli effetti pregiudizievoli che non tocchino il patrimonio e che non siano suscettibili di un apprezzamento di mercato, includendo dunque tanto il danno morale, consistente in sofferenze, turbamenti, menomazioni dell’equilibrio psichico, quanto il danno che, pur non coinvolgendo la sfera dei sentimenti, degli affetti e della psiche, né comportando un nocumento riscontrabile in termini monetari, si evidenzi come compromissione di posizioni soggettive, parimenti tutelate, quali sono i diritti immateriali della personalità. La persona giuridica, prosegue la Corte, per sua natura non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione, sicché l’irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica alla condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente od indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d’incertezza connessa alla pendenza della causa. La Corte conclude nel senso che – rispetto alle controversie con oggetto esclusivamente economico – il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui anch’essa è portatrice.
2003
Il 30 giugno viene varato il decreto legislativo n.196 che, raccogliendo la delega conferita al Governo dal Parlamento con legge n.127/01, introduce il codice in materia di protezione dei dati personali, che detta una disciplina più ampia e più specifica in materia di diritto alla privacy.
Il 30 ottobre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso Belvedere Alberghiera / Italia, che fa applicazione questa volta dell’art.41 della CEDU, onde “se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. Nel caso di specie, in difetto di intervenuta restituzione dell’immobile al legittimo proprietario privato, la Corte EDU quantifica l’equa soddisfazione dovuta al medesimo. La società Belvedere Alberghiera aveva infatti insistito nella richiesta della restitutio in integrum, ma la Corte, stante la evidente impossibilità sul piano pratico di provvedervi direttamente essa stessa – e muovendo dall’assunto onde, se il diritto italiano non permette o non permette perfettamente di eliminare le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte medesima ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che le sembri più appropriata – opta per il risarcimento del danno in assenza di restituzione del bene; peraltro, l’illegalità dello spossessamento del privato ablato induce la Corte a quantificare tale indennizzo in misura corrispondente al valore del bene non già alla data della relativa occupazione illegittima, ma al pertinente valore attuale, valore cui vanno aggiunte ulteriori somme a titolo di mancato godimento del terreno a decorrere dallo spossessamento, di deprezzamento dell’immobile, di mancato guadagno nell’attività dell’albergatore dal 1987 al 2032 (con una proiezione futura del mancato guadagno di 45 anni rispetto alla data dell’occupazione). Sempre la Corte EDU condanna nel caso di specie lo Stato italiano al risarcimento del danno morale (richiesto nel caso di specie dalla società ricorrente in 30 mila euro in caso di restitutio in integrum, e in 100 mila euro in caso di mancata restitutio in integrum, e concretamente riconosciuto dalla Corte secondo equità in 25 mila euro) motivando in ordine al riconoscimento del danno morale con un richiamo al caso Comingersoll c. Portogallo, n. 35382/97, a giustificazione dell’estensibilità alle persone giuridiche della riparazione pecuniaria del pregiudizio morale.
L’11 dicembre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso Carbonara e Ventura / Italia, che anche qui fa (ormai) applicazione dell’art.41 della CEDU nel pertinente caso di occupazione appropriativa (accessione invertita o espropriazione indiretta) e di connessa violazione dell’articolo 1 del Protocollo addizionale n. 1 sul diritto di proprietà: stante la mancata restituzione dell’area acquisita illegalmente dall’Amministrazione e proprio a motivo dell’illiceità di tale acquisizione, l’indennizzo a carico dello Stato italiano deve necessariamente riflettere il valore pieno ed integrale del bene. Più in specie, la Corte afferma che la liquidazione del danno materiale arrecato al privato a seguito di un’illegittimità nella procedura espropriativa non deve limitarsi al valore che la proprietà ablata aveva alla data (remota) della relativa occupazione, dovendosi rapportare il detto valore del bene allo stato attuale in cui esso si trova, tenendo conto anche delle eventuali potenzialità di sviluppo urbanistico del suolo di che trattasi, e dunque dei relativi, attuali valori di mercato.
2004
Il 19 febbraio esce la legge n.40 che vieta la fecondazione artificiale eterologa (c.d. “utero in affitto”) ed ammette solo quella omologa (articolo 4, comma 3).
2005
Il 20 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.8291 sul caso Englaro, ove si affronta per la prima volta la questione dell’eutanasia in un caso nel quale il padre, in qualità di tutore della figlia interdetta, aveva proposto ricorso per cassazione avverso il decreto della corte d’appello con cui, in sede di reclamo, era stata rigettata la sua istanza di autorizzazione alle interruzione delle cure di alimentazione artificiale della figlia medesima in stato vegetativo permanente irreversibile per effetto di un trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale occorso nel 1992. La questione concerne in particolare i limiti all’intervento del tutore (rappresentante legale) quando il soggetto in stato vegetativo non sia, appunto, in condizioni di intendere e di volere e parte dala natura di diritto personalissimo del diritto alla salute: rifiutare le cure è un scelta squisitamente soggettiva, che parte dalle proprie convinzioni etico-religiose e che dunque ha addentellati extra-giuridici. Il tutore svolge un ufficio di diritto privato e non può in modo incondizionato scegliere per l’incapace tra la vita e il lasciarsi morire; il consenso che egli esprime ai medici soffre un doppio limite: a) agire nell’esclusivo interesse dell’incapace (best interest), come imposto dall’art.6 della Convenzione di Oviedo; b) decidere non in sostituzione dell’incapace, ma con l’incapace, avendo sempre a preciso parametro la dignità della relativa persona e tenendo conto dei relativi desiderata, del suo stile di vita, delle sue convinzioni etiche e religiose palesati da adulto anteriormente all’insorgere della causa dell’incapacità, come imposto dall’art.5 del decreto legislativo n.211/03, che si occupa di sperimentazione clinica e che richiede il consenso del rappresentante legale fondato sulla presunta volontà dell’adulto incapace che quegli rappresenta.
Il 30 giugno esce la sentenza della Corte EDU sul caso Bosphorus Hava Yollari Turizm Ve Ticaret Anonim Sirketi c. Irlanda che vara – in tema di tutela dei diritti convenzionali – il c.d. meccanismo di presunzione basato sull’equivalenza onde gli Stati restano responsabili ai sensi della Cedu per le misure adottate per dare osservanza ai propri obblighi internazionali, anche quando tali obblighi discendono dall’appartenenza a un’organizzazione internazionale cui hanno trasferito parte della propria sovranità, compresa come è ovvio l’Unione europea. Simili misure sono giustificate quando l’organizzazione in questione protegge i diritti fondamentali, con riguardo sia alle garanzie sostanziali assicurate che ai meccanismi per il controllo della relativa osservanza, in maniera che possa essere considerata almeno equivalente – ovverosia non identica, bensì “comparabile” – a quella garantita dalla Cedu. In sostanza, se si ritiene che una siffatta protezione equivalente sia assicurata (per esempio, dall’Unione europea), varrà la presunzione che uno Stato non si sia sottratto agli obblighi della Cedu quando si limita con dette misure a dare esecuzione agli obblighi derivanti da simile organizzazione internazionale cui ha aderito. Per la Corte EDU detta presunzione può tuttavia essere ribaltata se, nelle circostanze del caso concreto, si ritenga che la protezione dei diritti garantiti dalla Cedu sia rimasta manifestamente carente. Tale presunzione inoltre vale subordinatamente alla duplice condizione: a) che le autorità nazionali non godano di alcun margine di apprezzamento in ordine alle modalità di esecuzione o attuazione degli obblighi internazionali di protezione “equivalente” dei diritti convenzionali; b) che sia stato in concreto possibile lo spiegamento dell’intero potenziale dei meccanismi di controllo previsti dal diritto europeo.
Il 7 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.271 che, vagliando la legittimità di una legge regionale (Emilia Romagna), afferma che le norme statali in materia di protezione dei dati personali si pongono come limite invalicabile per le Regioni: non si è più al cospetto di una “proprietà” della privacy come diritto ad essere lasciati soli, quanto piuttosto di un diritto all’autodeterminazione informativa, da intendersi quale potere di controllo del titolare sulle informazioni che lo riguardano, che si estrinseca in tutta una serie di diritti (possibilità di accedere ai dati, di chiederne integrazione e/o aggiornamento ovvero la cancellazione).
Il 29 ottobre esce la legge n.229 che detta disposizioni a tutela dell’integrità psico-fisica ed in particolare in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie.
2006
Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione che inaugura l’orientamento pretorio sul c.d. diritto di cronaca giudiziaria: può considerarsi lecito divulgare, a mezzo stampa, notizie lesive dell’onore e della reputazione senza la necessità per il cronista di previa verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni in quanto ciò che conta, nel caso di cronaca giudiziaria, è l’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza del fatto narrato, essendo sufficiente verificare le seguenti condizioni: la verità (oggettiva o anche soltanto putativa) della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (c.d. continenza). La verità dei fatti dev’essere controllata dal giornalista non solo con riferimento all’attendibilità della fonte della notizia, ma anche con un lavoro di accertamento e di rispetto della verità sostanziale dei fatti. Più nel dettaglio tuttavia, e nell’ambito della cronaca giudiziaria il diritto-dovere del giornalista di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati, non può passare attraverso il controllo della verità del fatto dichiarato o dell’attendibilità del dichiarante e ciò in quanto richiedere al giornalista di controllare la verità delle dichiarazioni rilasciate in sede giudiziaria significherebbe pretendere dallo stesso l’onere di indagini analoghe a quelle giudiziarie, così creando le premesse per impedire o rendere assolutamente disagevole la cronaca giudiziaria, poiché solo all’esito della sentenza definitiva potrebbe considerarsi la verità delle dichiarazioni rese; onde con riferimento alla cronaca giudiziaria la Corte enuncia il principio secondo cui il criterio della verità sostanziale della notizia – condizione affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore e della reputazione possa considerarsi espressione del lecito diritto di cronaca – non riguarda il contenuto della dichiarazione e l’attendibilità del dichiarante, la “verità” dovendo intendersi piuttosto riferita al (solo) fatto rappresentato e cioè al fatto che vi sia stata effettivamente quella dichiarazione in sede giudiziaria, con indicazione del contesto giudiziario nel quale è stata resa, se ciò è necessario per fornire completezza di informazione al lettore.
Il 16 dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Roma sul caso Welby in tema di diritto all’autodeterminazione terapeutica: anche a volerne ammettere l’esistenza (diritto alla consapevole ed informata autodeterminazione in ordine alla scelta della terapia cui sottoporsi, compresa la possibilità di interrompere la terapia salvavita), si tratta di un diritto non concretamente esercitabile perché non vi sono norme che ne disciplinino l’esercizio, in rapporto al c.d. accanimento terapeutico.
2007
Il 4 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12929 in tema di lesione di diritti fondamentali di una persona giuridica e di conseguente risarcimento del danno non patrimoniale, in particolare, all’immagine: secondo la Corte poiché anche nei confronti della persona giuridica (ed in genere dell’ente collettivo) è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o del’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e tra tali diritti rientra appunto l’immagine della persona giuridica o dell’ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile (oltre ovviamente al danno patrimoniale), se verificatosi, e se dimostrato, anche il danno non patrimoniale costituito – come danno c.d. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, nel che si esprime la relativa immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cassazione n.12929/2007). Ne discende che anche le persone giuridiche – tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, quali un Comune – possono essere lese in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l’assenza di fisicità, quali i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale e personale, che nel caso di specie si compendia peraltro in un danno da illecito contrattuale (inadempimento a contratto di appalto).
Il 16 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.21748 sul caso Englaro: la salute non è più semplice “assenza di malattia”, ma stato di completo benessere psico-fisico, ed è questo il reale oggetto del diritto alla salute; da questo punto di vista, che è fondamentalmente soggettivo e passa per l’esperienza e le percezioni del singolo paziente, il suo diritto alla autodeterminazione terapeutica non incontra limiti, anche quando da esso consegua il sacrificio del bene della vita. La Corte nell’occasione ribadisce il principio personalistico che anima la nostra Costituzione: la persona umana è valore etico in sé ed ogni intervento solidaristico e sociale è in funzione di essa, non potendo strumentalizzarla per fini eteronomi; il “rispetto della persona umana” è tarato sul singolo individuo e sul proprio fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche, che ne orientano la volontà e le scelte. Da questo punto di vista il rifiuto terapeutico non va visto in senso positivo, come un volere la morte (eutanasia), quanto piuttosto in senso negativo, come un non volere essere curati, e quindi nel lasciar fare la malattia, sulla scorta di una scelta personalistica consapevole, informata, autentica ed attuale (il soggetto capace di intendere e di volere, dispone del bene salute, non del bene vita); quando il consenso del malato viene meno, cessa anche l’obbligo giuridico per il medico di praticare o continuare la terapia, dovendo egli rispettare la volontà della persona del paziente, e non incorrendo in responsabilità proprio in forza di quella sorta di novazione dell’obbligo per cui al pregresso obbligo di curare si sovrappone (in difetto del consenso del paziente) il “nuovo” obbligo di non curare o interrompere la cura. La pronuncia torna poi sui limiti del potere del tutore di prestare il proprio consenso all’interruzione della terapia in rappresentanza dell’incapace, partendo dal principio della pluralità dei valori che connota il nostro ordinamento costituzionale e dal principio di autodeterminazione e di libertà di scelta che connota il rapporto medico-paziente: quest’ultimo, ormai in stato vegetativo, può aver espresso quando era ancora capace di intendere e di volere la propria concezione che lega la dignità della propria persona e la rappresentazione di sé sulla quale costruisce la sua esistenza alla “vita di esperienza” e, quindi, alla “coscienza”, assumendosi contrario a (far sopravvivere il corpo alla mente attraverso le terapie, e dunque) a protrarre la vita indefinitamente ove si fosse venuto a trovare in una condizione, per l’appunto, vegetativa; il tutore è chiamato a ricostruire la decisione ipotetica che l’interdetto assumerebbe se fosse capace di intendere e di volere, esprimendo non un proprio giudizio, ma il giudizio che presuntivamente esprimerebbe il paziente dinanzi ad una situazione in cui, sulla base di un rigoroso apprezzamento clinico, lo stato vegetativo sia irreversibile e non sussista alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici anche internazionali, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, benché flebile, recupero della coscienza: si tratta di un caso estremo in cui il potere di rappresentanza del tutore, orientato a tutelare la vita del rappresentato, gli consente di prestare il consenso alla interruzione delle cure onde consentire al rappresentato medesimo di esercitare il proprio “diritto alla salute”, siccome qui inteso dalla Cassazione.
Il 24 ottobre vengono pubblicate le sentenze n.348 e 349 della Corte costituzionale, secondo le quali in primo luogo le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, costituiscono parametro di costituzionalità delle leggi ordinarie (in virtù dell’art.117 Cost.), purché a loro volta non contrastino con una norma costituzionale. Ciò perché la modifica dell’art.117 della Costituzione ed il relativo richiamo, a partire dal 2001, ai trattati internazionali, implica che una norma di legge ordinaria che violi un qualunque trattato internazionale, e quindi anche la CEDU, deve ormai considerarsi incostituzionale (prima la violazione di un trattato implicava incostituzionalità della norma solo in caso di violazione dei trattati internazionali nelle materie di cui agli articoli 10 e 11 Cost.). Sempre secondo la Corte il giudice italiano è da intendersi quale giudice comune della CEDU, dovendo garantirne l’applicazione in ambito interno secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte EDU; il giudice nazionale deve in primo luogo tentare una interpretazione convenzionalmente orientata delle norme interne, e laddove tale operazione non riesca, deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art.117 Cost. (e laddove si tratti di diritti umani protetti già a livello consuetudinario, dell’art.10 Cost.).
L’8 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.23314 in tema di diritto di satira secondo la quale la satira presenta la peculiarità di esprimersi con il paradosso e con la metafora surreale, e ciò la sottrae al parametro della verità rendendola eterogenea rispetto alla cronaca; mentre la cronaca ha la finalità di fornire informazioni su fatti e persone ed è perciò soggetta al vaglio del riscontro storico (verità), la satira assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume. Per questa ragione, mentre l’aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell’onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti, che invece esprimono la ridetta capacità offensiva.
Il 12 dicembre viene proclamata una seconda volta a Strasburgo, in versione adattata, la Carta di Nizza da parte di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.
Il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, che apporta ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea; con la sua entrata in vigore, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1 novellato, del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di Trattati e Protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea, con conseguente disapplicabilità delle norme interne contrastanti. I paragrafi 2 e 3 dell’art.6, anch’essi novellati, consentono nella sostanza alla Unione Europea di aderire alla CEDU; quando ciò dovesse accadere (con la procedura di cui al protocollo n.8 annesso al Trattato), i diritti fondamentali CEDU non saranno comunque, secondo l’interpretazione dottrinale, comunitarizzati tout court, ma la relativa tutela verrà considerata quale principio generale del diritto dell’Unione, così come già avviene per le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri.
2009
Il 10 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione che riepiloga le coordinate del c.d. diritto di cronaca giudiziaria: in particolare, quando la notizia diffusa da un giornalista consiste nella cronaca di una dichiarazione resa in sede giudiziaria, non può ritenersi che il giornalista sia tenuto a svolgere specifiche indagini sull’attendibilità del dichiarante poichè tale valutazione riguarda il merito della dichiarazione e la sua rispondenza a verità. Per il giornalista, invece, sussiste solo l’obbligo di accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa e il contesto in cui ciò sia avvenuto, con l’indicazione, in particolare, della fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore o l’ascoltatore possa chiaramente intendere se la dichiarazione abbia già avuto il vaglio processuale da parte del magistrato e se ne dovrà avere altri. Peraltro non può dirsi che se i giornalisti divulgano atti di indagine ovvero il contenuto di un avviso di garanzia o di un’ordinanza di custodia cautelare, essi non potrebbero vantare un diritto di cronaca per il non essere tali atti, all’epoca delle pubblicazioni predette, ancora stati resi pubblici e, pertanto, per essere ancora non divulgabili stante il preciso divieto degli artt. 114 e 329 c.p.p. : secondo la Corte, anche questa tesi non è fondata perché la ridetta segretezza incide semmai sul profilo penale della violazione del segreto istruttorio e non sull’oggetto dello specifico processo civile, che verte sulla dedotta responsabilità per diffamazione.
Il 24 luglio viene pubblicata la sentenza n. 239 della Corte costituzionale che decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti. Richiamando il proprio precedente n.349 del 2007, la Corte ribadisce che spetta agli organi giurisdizionali di merito l’eventuale opera interpretativa dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo; solo ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, la Corte può essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge in relazione all’art.117 Cost..
Il 26 novembre viene pubblicata la sentenza n. 311 della Corte costituzionale, che spiega come l’art.117 Cost. nella nuova versione del 2001 abbia forgiato un rinvio mobile del nostro diritto interno alle norme di diritto internazionale pattizie, con le conseguenze già descritte dalle sentenze 348 e 349 del 2007: il giudice interno non può disapplicare la norma interna contrastante con la CEDU ma – ove fallita l’operazione di relativa interpretazione orientata – deve rimettere alla Corte costituzionale la pertinente questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost.
Il 4 dicembre viene pubblicata la sentenza n. 317 della Corte costituzionale con la quale essa dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato; la Corte dichiara di non poter consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela convenzionale inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale: il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti. Nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso per la Corte, come peraltro già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il riferimento primario, ma spetta anche alla Corte nell’esercizio della propria attività interpretativa delle norme costituzionali.
Il 01 dicembre entra in vigore il Trattato di Lisbona.
2010
Viene pubblicata il 2 marzo dal Consiglio di Stato la sentenza della sezione IV n.1220, secondo la quale l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha comportato la diretta applicabilità nell’ordinamento interno della CEDU (c.d. comunitarizzazione della CEDU, oltre che della Carta di Nizza), con possibilità per il giudice italiano di disapplicare le eventuali norme interne contrastanti.
2011
Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.113 che assume costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 46, par. 1, Cedu, l’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU.
2012
Il 5 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.78 che scandaglia la legittimità costituzionale dell’art.2, comma 61 della legge n.10.11 in tema di decorrenza della prescrizione per la ripetizione di interessi anatocistici indebiti: si tratta di una norma con efficacia retroattiva (perché interpretativa) che, secondo la Corte, lede in primo luogo il principio di ragionevolezza delle norme cristallizzato all’art.3 Cost.. Invero, non può dirsi sussistente una incertezza in ordine all’interpretazione dell’art.2935 c.c., neppure ratione materiae, vista la presa di posizione della Cassazione a SSUU che ha fatto riferimento in genere alla chiusura del rapporto contrattuale con la banca e, in specie (apertura di credito), all’eventuale pagamento con natura solutoria. Inoltre, secondo la Corte la disposizione di legge censurata non attribuisce un significato all’art.2935 c.c. tra quelli in astratto possibili (natura interpretativa), ma ha sostanziale natura innovativa in quanto prevede che, limitatamente ai contratti bancari in conto corrente, il diritto può essere fatto valere non dal momento del pagamento, ma dal momento della mera annotazione in conto corrente della singola posta. Peraltro, il correntista può sempre agire per far dichiarare, ai sensi dell’art.1422 c.c. (imprescrittibilità dell’azione di nullità), la nullità del titolo su cui la singola annotazione illegittima si basa e per ottenere la rettifica di tali annotazioni illegittime sul relativo conto: questo conferma che la legge censurata non si è intesa riferire alla prescrizione dei diritti di contestazione cartolare (rettifica ed eliminazione) delle annotazioni a lui sfavorevole, ma proprio al diritto alla ripetizione dell’indebito che, a differenza dell’azione di nullità, proprio ai sensi dell’art. 1422 c.c. è invece esplicitamente soggetta a prescrizione. Peraltro, ad essere violato è lo stesso principio di eguaglianza in quanto il contratto di conto corrente viene reso parzialmente asimmetrico per le parti che ne sono protagoniste, a tutto svantaggio del cliente correntista che si vede ridurre il tempo che ha a disposizione per far valere il proprio diritto alla ripetizione dei non dovuti interessi anatocistici. Inoltre, la Corte assume la norma censurata costituzionalmente illegittima anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost., in relazione all’art.6 della CEDU (norma interposta, come esplicitamente affermato dalle precedenti sentenze della Corte n.348 e 349 del 2007), con particolare riguardo ai principi della preminenza del diritto e del processo equo: è vero che il legislatore – al di fuori della materia penale, per la quale vige l’art.25 della Costituzione – gode di un limitato spazio di intervento in via retroattiva, ma esso deve essere giustificato da motivi di interesse generale; tali motivi di interesse generale vanno valutati dal legislatore nazionale e dalla Corte costituzionale con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento che la Corte EDU riconosce, con la sua giurisprudenza, ai singoli ordinamenti statali. Proprio la non rintracciabilità, nel caso di specie, dei detti motivi di interesse generale sospinge la Corte costituzionale a ritenere illegittima la norma censurata anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost. Infine, la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo per connessione anche il secondo periodo della norma censurata, laddove impedisce la restituzione degli importi già versati dai correntisti alle banche.
* Il 6 dicembre esce la sentenza della Corte EDU sul caso Michaud c. Francia che ribadisce – in tema di tutela dei diritti convenzionali – il c.d. meccanismo di presunzione varato nel c.d. caso Bosphorus e basato sull’equivalenza, onde gli Stati restano responsabili ai sensi della Cedu per le misure adottate per dare osservanza ai propri obblighi internazionali, anche quando tali obblighi discendono dall’appartenenza a un’organizzazione internazionale cui hanno trasferito parte della propria sovranità, compresa come è ovvio l’Unione europea. Simili misure sono giustificate quando l’organizzazione in questione protegge i diritti fondamentali, con riguardo sia alle garanzie sostanziali assicurate che ai meccanismi per il controllo della relativa osservanza, in maniera che possa essere considerata almeno equivalente – ovverosia non identica, bensì “comparabile” – a quella garantita dalla Cedu. In sostanza, se si ritiene che una siffatta protezione equivalente sia assicurata (per esempio, dall’Unione europea), varrà la presunzione che uno Stato non si sia sottratto agli obblighi della Cedu quando si limita con dette misure a dare esecuzione agli obblighi derivanti da simile organizzazione internazionale cui ha aderito. Per la Corte EDU detta presunzione può tuttavia essere ribaltata se, nelle circostanze del caso concreto, si ritenga che la protezione dei diritti garantiti dalla Cedu sia rimasta manifestamente carente. Tale presunzione inoltre vale subordinatamente alla duplice condizione: a) che le autorità nazionali non godano di alcun margine di apprezzamento in ordine alle modalità di esecuzione o attuazione degli obblighi internazionali di protezione “equivalente” dei diritti convenzionali; b) che sia stato in concreto possibile lo spiegamento dell’intero potenziale dei meccanismi di controllo previsti dal diritto europeo.
2013
Il 10 giugno esce la sentenza delle SSUU n.14502 che riconosce la situazione soggettiva dello straniero in tema di respingimenti come diritto umano fondamentale ed indegradabile ad interesse legittimo per effetto dell’esercizio del pubblico potere da parte della PA (c.d. diritto “resistente”), ai sensi degli articoli 2, 10, comma 2, e 3 Cost; difetta infatti in seno all’ordinamento il potere di ridurre o di estinguere tale diritto, onde l’atto amministrativo che pretendesse di spiegare un simile effetto degradatorio deve assumersi adottato in carenza di potere; il diritto resta dunque intatto, e la giurisdizione appartiene al GO.
*Il 17 giugno esce la sentenza delle SSUU n.15115 che ribadisce la situazione soggettiva dello straniero in tema di respingimenti atteggiarsi a diritto umano fondamentale ed indegradabile ad interesse legittimo per effetto dell’esercizio del pubblico potere da parte della PA (c.d. diritto “resistente”), ai sensi degli articoli 2, 10, comma 2, e 3 Cost; difetta infatti in seno all’ordinamento il potere di ridurre o di estinguere tale diritto, onde l’atto amministrativo che pretendesse di spiegare un simile effetto degradatorio deve assumersi adottato in carenza di potere; il diritto resta dunque intatto, e la giurisdizione appartiene al GO.
2014
Il 4 marzo esce la sentenza della II sezione della Corte EDU sul caso Grande Stevens, che afferisce alla applicabilità a procedimenti sanzionatori di natura amministrativa (nel caso di specie, attivati dalla Consob) di regole di natura “penale”, con particolare riguardo al c.d. giusto processo; si fa riferimento ai procedimenti formalmente amministrativi ma di natura sostanzialmente penale per importare – con riferimento ai medesimi – gli stessi principi basilari che regolano il c.d. giusto processo penale (contraddittorio, imparzialità del giudice, diritto di difesa). Viene stigmatizzata in particolare la violazione del principio del contraddittorio ricondotta, tra l’altro, all’assenza di una norma procedimentale che preveda la possibilità, per i soggetti sottoposti al procedimento, di presentare controdeduzioni avverso i contenuti della relazione conclusiva contenente la proposta sanzionatoria. La Corte estende poi il principio giuridico del ne bis in idem, sinora limitato alle sanzioni penali, anche a quelle amministrative: è un abuso dello Stato istruire un processo penale (poi conclusosi con l’assoluzione), contro chi è già stato condannato in via amministrativa dopo una procedura promossa dalla Consob.
Il 28 aprile viene varata la legge n.67 il cui articolo 2, comma 3, delega il Governo ad emanare norme in tema di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili.
Il 13 maggio viene pubblicata la sentenza della Corte di Giustizia UE sul caso Google Spain (C-131/12): il diritto fondamentale alla riservatezza e all’oblio viene assunto prevalente rispetto al diritto del pubblico di accedere a determinate informazioni ed all’interesse economico del gestore di un motore di ricerca; la Corte assume meritevole di tutela la pretesa di un soggetto a non vedere comparire tra gli elenchi dei risultati del motore di ricerca le pagine web che ospitano contenuti che lo riguardano, qualora questi gli arrechino pregiudizio e sia trascorso un lasso di tempo dalla pubblicazione della notizia da non giustificare più la permanenza nel pubblico dominio di queste informazioni, e ciò anche nel caso in cui la pagina Internet indicizzata contenente l’informazione non venga rimossa dal sito “sorgente” (in altre parole, il contenuto in questione resta consultabile in rete e si crea il solo ostacolo di renderlo più difficilmente raggiungibile per gli utenti). In tal modo la Corte riconosce il diritto della persona all’oblio in relazione a contenuti in rete che la riguardano, e ciò alla luce della direttiva 95/46/CE in materia di trattamento dei dati personali, in forza della quale il gestore del servizio di motore di ricerca (nel caso di specie, Google) viene assunto titolare del trattamento dei dati; su di esso, come tale, grava l’obbligo di evitare che certe pagine web vengano elencate negli indici delle ricerche se i contenuti ospitati sono ritenuti non più giustificati da finalità attuali di cronaca (ovvero da ruolo pubblico ricoperto dal titolare e dal conseguente interesse preponderante del pubblico a sapere). Tuttavia la semplice richiesta all’ISP (Internet Service Provider) ad opera della parte interessata non fa sorgere in capo allo stesso, secondo la Corte, alcun obbligo di attivazione, restando sempre necessario il vaglio di una autorità – amministrativa o giudiziaria – che valuti l’equo contemperamento tra l’interesse pubblico ad avere accesso alla notizia e quello privato a che ciò non avvenga.
Il 10 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.162 in materia di fecondazione artificiale eterologa che – in tema di “diritto a diventare genitori” – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili; secondo la Corte Il divieto per le coppie sterili di ricorrere all’eterologa è privo di adeguato fondamento costituzionale e “la scelta di tali coppie di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli” è “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi”. Secondo la Corte “la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile” riguarda “la sfera più intima ed intangibile della persona umana” e quindi “non può che essere incoercibile”. Inoltre, quel divieto ha creato “un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica”, perché chi poteva permetterselo è andato all’estero per effettuare l’eterologa, mentre chi non aveva i mezzi ha dovuto rinunciare.
2015
Il 4 marzo esce l’ordinanza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.2 che ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 106 c.p.a. e 396 c.p.c., in relazione agli articoli 117, comma 1, 111 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza (ormai in giudicato) quando ciò sia necessario ai sensi dell’art.46, par.1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.
Il 5 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.96 che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche. Per la Corte – la cui pronuncia costituisce anche una forma di indiretta tutela della salute dello stesso nascituro – si registra in primo luogo un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni e ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e Pavan contro Italia), il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) − quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In altri termini, precisa la Corte, il sistema normativo cui danno luogo le disposizioni censurate non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la relativa salute; ne deriva, per la Corte, la violazione anche dell’art. 32 Cost. in cui incorre la normativa in esame, stante l’evidente mancato rispetto del diritto alla salute della donna, senza peraltro che il vulnus così arrecato a tale diritto alla salute della donna possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto. La normativa denunciata costituisce allora, per la Corte, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento, palesandosi lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria, nella parte in cui non consente, e dunque esclude, che, nel quadro di disciplina della legge in esame, possano ricorrere alla PMA le coppie affette da patologie siffatte, adeguatamente accertate, per esigenza di cautela, da apposita struttura pubblica specializzata; ciò al fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del medesimo “criterio normativo di gravità” già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978. Una volta accertato che, in ragione dell’assolutezza della riferita esclusione, le disposizioni in questione si pongono in contrasto con parametri costituzionali la Corte non può dunque sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio dichiarandone l’illegittimità (viene richiamata la precedente sentenza n. 162 del 2014), essendo poi compito del legislatore – nell’esercizio della relativa discrezionalità – introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa).
L’11 novembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, C-505/14, Klauser, sui rapporti tra giudicato nazionale ed aiuti di Stato, secondo la quale il diritto dell’Unione osta, in particolari circostanze come quelle di cui al procedimento principale, a che l’applicazione di una norma di diritto nazionale volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata impedisca al giudice nazionale – il quale abbia rilevato che i contratti oggetto della controversia sottopostagli costituiscono un aiuto di Stato, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, attuato in violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, terza frase, TFUE – di trarre tutte le conseguenze di questa violazione a causa di una decisione giurisdizionale nazionale, divenuta definitiva, con cui, senza esaminare se tali contratti istituiscano un aiuto di Stato, è stata dichiarata la loro permanenza in vigore; in sostanza si profila la possibilità di superare il giudicato interno laddove il diritto europeo lo imponga.
2016
Il 15 gennaio viene varato il decreto legislativo n.7, recante disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67. Si tratta di un provvedimento importante che in primo luogo abroga l’art.594 c.p. e dunque sopprime la tutela penale dell’onore e del decoro della persona sul crinale dell’ingiuria, introducendo nel contempo le c.d. sanzioni pecuniarie civili: in sostanza, in presenza di comportamenti dolosi si applicano i rimedi civili delle restituzioni e soprattutto del risarcimento del danno, cui si aggiunge una somma di denaro che il responsabile deve pagare non già al danneggiato, quanto piuttosto alla cassa delle ammende, e che viene appunto definita sanzione pecuniaria civile. Più nel dettaglio, ai sensi dell’art.4 del provvedimento, se si offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero con scritti o disegni diretti alla persona offesa, si soggiace ad una sanzione pecuniaria civile da Euro 100,00 ad 8.000,00., applicata dal giudice civile al quale la persona offesa si sia rivolta per farsi risarcire il danno. Si è al cospetto dunque di una sorta di danno punitivo che il colpevole paga allo Stato, e non al danneggiato.
Il 2 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4114 che in un caso di sanzioni irrogate dalla Consob riconosce la validità dei principi enunciati dalla Corte EDU nel caso Grande Stevens, ma limitatamente alla applicabilità del giusto processo; muovendo da questo presupposto, nega l’applicabilità alle sanzioni amministrative del principio del c.d. favor rei e della retroattività della lex mitior, tipicamente penalistico, applicando piuttosto il diverso principio tempus regit actum, per cui si applica la sanzione amministrativa vigente al momento dell’applicazione, anche se non era vigente al momento del fatto.
Il 27 aprile viene varato il Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).
Il 24 giugno esce la sentenza della I sezione n.13161 della Cassazione in tema di diritto all’oblio, che precisa che esso, ove violato, fa sorgere il diritto al risarcimento del danno; occorre muovere dal fatto che si è al cospetto, nella sostanza, di un l’illecito trattamento di dati personali che tuttavia viene specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca, e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, quanto piuttosto nel mantenimento del diretto ed agevole accesso ad un risalente servizio giornalistico pubblicato diverso tempo addietro e della relativa diffusione sulla rete, con conseguente pregiudizio per i soggetti coinvolti.
Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 193 che si occupa del principio di retroattività della legge più favorevole con riguardo a sanzioni che, pur essendo para-penali, hanno natura amministrativa (viene scandagliato l’art.1 della legge 689/81 proprio laddove non prevede la retroattività in mitius delle sanzioni amministrative): secondo la Corte, il sistema della CEDU siccome interpretato dalla Corte EDU non impone agli Stati membri, e in particolare all’Italia, di prevedere tale retroattività in mitius delle sanzioni amministrative, analogamente a quanto accade per quelle di matrice penale pura. Quando la legge interna prevede tale retroattività – con riferimento a talune sanzioni amministrative – si tratta per la Corte di lex specialis che tiene conto degli interessi tutelati e della efficacia dissuasiva della sanzione: si tratta di scelte di politica legislativa che non possono essere sindacate dalla Corte costituzionale se non quando ci si trovi dinanzi a manifesta irragionevolezza o ad arbitrio. La sentenza si inserisce in un contrasto di giurisprudenza che dura a partire dal caso Varvara (Varvara c. Italia, del 29 ottobre 2013, dove il problema, per quel che qui rileva, riguardava la confisca urbanistica, assunta dalla Cassazione di natura amministrativa e dunque non retroattiva, mentre per i giudici di Strasburgo essa ha natura penale con conseguente operatività della retroattività favorevole): se la Corte EDU ritiene che la retroattività in mitius appartiene al novero delle garanzie fondamentali e sia come tale applicabile anche alle sanzioni amministrative (oltre che a quelle penali pure), di diverso avviso si mostra la Corte costituzionale, secondo la quale la retroattività in mitius delle sanzioni amministrative non è imposta né dagli articoli 6 e 7 della CEDU (per il tramite dell’art.117 Cost.), né dall’art.3 della Carta.
Il 7 settembre esce la sentenza delle SSUU n. 17674 che riconosce la giurisdizione del GA, in sede esclusiva, sulle controversie relative alla sussistenza, in concreto, di diritti incisi dal potere autoritativo nel caso di atti e comportamenti in violazione di norme che regolano il procedimento e la programmazione, pianificazione e organizzazione del territorio, nell’interesse dell’intera collettività nazionale. La Corte afferma non sussistere un principio in base al quale in materia di diritti fondamentali il giudice naturale sia quello ordinario, ma al contrario occorre valutare la sussistenza o meno di un potere pubblico.
Il 30 settembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.19599 che si occupa di un peculiare caso di diritto all’identità personale, con particolare riguardo alla genitorialità. Nel caso di specie, una coppia omosessuale femminile sposata in Spagna vara un proprio progetto genitoriale che prevede che una delle due donne della coppia metta a disposizione l’ovocita e l’altra proceda alla gestazione utilizzando il gamete maschile donato da un terzo ignoto: dell’atto di stato civile compendiantesi nell’atto di nascita viene chiesto il riconoscimento e la trascrizione in Italia e la Corte è chiamata a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico; il problema, secondo la Corte, non è quello di valutare la compatibilità dell’atto da riconoscere con una o più norme interne – quand’anche imperative o inderogabili – ma di scandagliare se tale riconoscimento contrasti con la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo siccome affioranti dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nonché dalla CEDU: muovendo da questo presupposto, l’atto di nascita viene assunto riconoscibile e trascrivibile in Italia (anche se qui operazioni simili non sono ammesse). Secondo la Corte è ammissibile anche in Italia l’affermazione secondo cui si può essere figlio di due madri, in quanto l’art.269, comma 3, c.c., laddove si dice che è madre (solo) colei che ha partorito il bimbo, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale.
L’8 novembre esce la sentenza della Grande Camera della CEDU sul caso ONG Magyar Helsinki Bizottsàg c. Hungary che riconosce il diritto di accesso ai documenti come un presupposto del diritto fondamentale alla libertà di esprimere il proprio pensiero e per alimentare il dibattito pubblico su materie di interesse generale.
Il 17 novembre esce l’ordinanza della sezione IV del Consiglio di Stato che rimette nuovamente alla Corte costituzionale (sulla scia dell’Adunanza Plenaria 2/15), in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 Cost., la questione di costituzionalità degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395 e 396 Cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.
Il 9 dicembre esce il parere della I sezione del Consiglio di Stato n. 2581 che riconosce alle associazioni non riconosciute che abbiano nel proprio statuto l’espressa finalità di fornire assistenza legale gratuita alle persone senza fissa dimora, ovvero la promozione di iniziative volte ad affermare e promuovere i diritti fondamentali delle persone senza fissa dimora e svantaggiate, la legittimazione ad impugnare un’ordinanza contingibile ed urgente con la quale il sindaco di un Comune abbia fatto divieto nel territorio comunale di porre in essere forme di accattonaggio, con qualunque modalità, in ogni spazio pubblico o aperto al pubblico ed abbia disposto altresì l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Il 21 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.286 la quale, dopo aver premesso che – sebbene non abbia trovato corpo in una disposizione espressa – non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa di una norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio, afferma come il superamento della concezione patriarcale della famiglia e la piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale – garantito anche dalla CEDU – che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impongano l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori, ove questi lo prevedano di comune accordo, dichiarando incostituzionali le norme che tale fattispecie non consentono, imponendo l’automatica estensione al figlio, in ogni caso, del solo cognome del padre. Lo stesso giorno esce anche la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, cause riunite C-203/15 e C-698/15 – Tele2 Sverige AB e a., secondo la quale l’art. 15, par. 1, della Direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, letto alla luce degli artt. 7, 8 e 11 nonché dell’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale preveda, per finalità di lotta contro la criminalità, una conservazione generalizzata e indifferenziata dell’insieme dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di tutti gli abbonati e utenti iscritti, riguardante tutti i mezzi di comunicazione elettronica; osta altresì ad una normativa nazionale la quale disciplini la protezione e la sicurezza dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, e segnatamente l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare, nell’ambito della lotta contro la criminalità, tale accesso alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre detto accesso ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, e senza esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione.
2017
Il 23 gennaio esce la ordinanza della VI sezione della Cassazione n.1727 che rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art.4 della legge n.89 del 2011 (legge Pinto) nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equo indennizzo per irragionevole durata del processo al passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale che ha definito il processo presupposto.
Il 24 gennaio esce la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, che – in un caso di maternità surrogata in Russia da parte di una coppia di italiani – afferma la compatibilità con la CEDU dell’allontanamento da parte dello Stato italiano di un bambino nato a seguito di c.d. “utero in affitto” (vietato dalla legge 40/04) per assenza del legame genitoriale (con i “genitori” cittadini italiani). Nel caso di specie la coppia di italiani ottiene il bimbo grazie alla collaborazione di una donna russa, ma poi non riesce ad ottenere la trascrizione dell’atto di nascita in Italia e, a causa anche di alcuni presunti falsi a rilevanza penale, dopo 6 mesi il bimbo viene rimandato in Russia: la Corte EDU – pur ammettendo l’ingerenza – nel caso di specie nega la violazione da parte dello Stato italiano del diritto alla vita privata e familiare, anche perché mancano legami biologici tra la coppia e il bimbo, ed è ciascun singolo Stato a disciplinare sul piano giuridico quando possano dirsi esistenti legami di tipo “familiare”, tenuto anche conto del fatto che, a cagione del breve lasso di tempo in cui hanno con lui convissuto, non si profilano pregiudizi per il minore.
Il 25 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1890 che ribadisce come in caso di procedimenti sanzionatori Consob debbano assumersi dequotati i principi del giusto processo, del diritto di difesa e della imparzialità del giudice. Sempre Il 25 gennaio esce la sentenza della V Sezione della Corte di Giustizia UE in causa C-367/15 che prevede che chi ha subito danni per abusivo sfruttamento della proprietà intellettuale può chiedere il risarcimento in modo tradizionale (provando il danno) ovvero ottenere, senza bisogno di prova alcuna, il pagamento di una somma pari al doppio della remunerazione adeguata che avrebbe ricevuto laddove avesse autorizzato l’uso dell’opera (c.d. prezzo del consenso). Ancora il 25 gennaio esce la sentenza delle SSUU n. 1946 in tema di parto anonimo e di diritto a conoscere le proprie origini: secondo la Corte, anche se non vi è ancora una disciplina legislativa attuativa, per effetto della Corte costituzionale n.278.13, il figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale ha diritto di interpellare la madre che abbia dichiarato, alla sua nascita, di voler rimanere anonima, al fine di chiederle se vuole revocare questa scelta, rimanendo fermo che in caso negativo non potrà costringerla a revocarla e a svelare la propria identità. L’interpello alla madre deve avvenire con modalità procedimentali assicurando la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna.
Il 2 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2695 secondo la quale, in caso di corruzione, il danno all’immagine di un Comune va liquidato a carico, oltre che dei funzionari corrotti (dipendenti pubblici), anche dell’imprenditore privato corruttore.
Il 9 febbraio esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU nel caso Solarino c. Italia ove viene affermato il principio per cui il diritto all’unità familiare non è rispettato tutte le volte in cui lo Stato, attraverso i suoi organi giurisdizionali, si ingerisca arbitrariamente nelle relazioni parentali agendo con misure di protezione senza valutare gli interessi in gioco.
Il 15 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4020 che interviene in tema di riconoscimento dei figli stabilendo la prevalenza del favor veritatis, ossia la prevalenza della verità biologica su quella legale, quale base della responsabilità genitoriale, anche alla luce dell’importanza della discendenza biologica e della connessa identità personale. Il legislatore ha stabilito le modalità procedurali per la tutela di tali diritti fondamentali della persona, bilanciando gli interessi delle diverse parti e modulandoli secondo il differente grado di tutela ritenuto indispensabile per il figlio, soggetto più debole.
Il 16 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 4180 con la quale viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della L.24 marzo 2001, n. 89 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 134, – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, par. 1, e 13 della CEDU, nella parte in cui subordina al passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto la proponibilità della domanda di equo indennizzo, sostanzialmente chiedendo un temperamento al divieto di chiedere l’indennizzo durante la pendenza del giudizio presupposto.
Il 9 marzo esce la sentenza della II sezione della Corte di Giustizia UE (C-398/15) in tema di diritto all’oblio, la quale afferma che non esiste il diritto all’oblio per i dati personali contenuti nel registro delle imprese. Tuttavia, gli Stati membri possono prevedere, caso per caso, che l’accesso dei terzi a tali dati sia limitato.
Il 7 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5686 onde, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n.348 e 349 del 2007 e n.181 del 2011, emesse anche per conformare il diritto interno ai principi della CEDU, il serio ristoro che l’art. 42, co. 3, Cost. riconosce al sacrificio della proprietà per motivi d’interesse generale si identifica con il valore venale del bene; ribadito che la distinzione tra suoli edificabili e non edificabili non è tuttavia venuta meno, la Corte ribadisce che deve ritenersi ormai superato l’istituto dell’occupazione appropriativa, per la necessità di interpretare il diritto interno, in consonanza col principio enunciato dalla Corte EDU, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”; l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente. L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante, ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno. Invero, il provvedimento ex art. 42 biscit. è volto a ripristinare (con effetto “ex nunc“) la legalità amministrativa violata – costituendo, pertanto, una “extrema ratio”per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito, sicché è necessario che venga adottato tempestivamente e, comunque, prima che si formi un giudicato anche solo sull’acquisizione del bene o sul risarcimento del danno, venendo altrimenti meno il potere attribuito dalla norma all’Amministrazione.
Il 14 marzo esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE sulla causa C-157/15 caso Achbita,onde il divieto di indossare sul luogo di lavoro il velo islamico, derivando da una norma interna di una società privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ma potrebbe concretizzare, in base ad un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo, apparentemente neutro, da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.
Il 15 marzo esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, II sezione, C-536/15, che si occupa del diritto alla privacy, affermando che – indipendentemente dal relativo luogo di stabilimento nella UE (ad esempio in Francia) – l’impresa che fornisca elenchi abbonati e servizi di consultazione accessibili al pubblico opera in un quadro normativo armonizzato che consente di assicurare in tutta l’Unione lo stesso rispetto dei requisiti in materia di tutela dei dati personali degli abbonati (sicché, nell’esempio fatto, un cittadino francese sa che vedrà tutelata la propria riservatezza anche in altri Stati membri).
Il 17 marzo esce la sentenza della Sezione I penale n.13124 che ribadisce gli approdi giurisprudenziali in tema di modalità di computo dello spazio minimo individuale ex art. 3 CEDU e art. 35-ter ord.pen., a tenore del quale, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti detentivi inumani e degradanti, il calcolo della superficie minima (3 mq) di cui ciascun occupante la cella detentiva debba poter fruire, deve essere effettuato al netto delle aree destinate ad ospitare i servizi igienici ovvero di quelle occupate dagli arredi fissi e dal letto.
Il 6 aprile esce la sentenza della CEDU, sez. V, A.P., Garçon e Nicot c. Francia, che si occupa del diritto alla identità sessuale in rapporto al diritto alla integrità fisica: per la Corte, con riguardo ad un soggetto transessuale, condizionarne il riconoscimento dell’identità sessuale e conseguentemente la rettifica del sesso sui documenti ad un’operazione di cambio del sesso o alla sterilizzazione, laddove l’interessato non desideri sottoporvisi, equivale per la Corte a subordinare il pieno esercizio del diritto al rispetto della privacy (collegato al documento di riconoscimento rettificato) alla rinuncia a quello all’integrità fisica, potendosi al più sottoporre l’interessato a visita medica per accertare la disforia di genere e la relativa, reale identità sessuale.
Il 18 aprile esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Milano che, facendo applicazione della sentenza n. 96 del 2015 della Corte Costituzionale, ammette una coppia alla procreazione medicalmente assistita preceduta da diagnosi genetica preimpianto in presenza di una situazione in cui vi è la possibilità di intraprendere una gravidanza con un embrione affetto da patologia irreversibile dovuta a trasmissione ereditaria autosomica dominante, costituendo tale situazione un serio rischio per la salute psichica della madre.
Il 5 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 10906 onde un rapporto sessuale tra due persone consenzienti (e tra l’altro, pacificamente, non riconducibile ad alcuna attività di prostituzione) non può assimilarsi ad un rapporto contrattuale al fine di individuare in esso l’obbligo di ciascuno di informare l’altro del proprio stato di fertilità o meno (ed il correlato, presunto diritto ad esserne informati), ostando a ciò il diritto alla riservatezza della persona che è invece, senza dubbio, tutelato dall’ordinamento. Quanto quindi all’illecito aquiliano, se una persona fornisce alla persona con cui intende compiere un atto sessuale completo una informazione non corrispondente al vero in ordine al proprio attuale stato di fertilità o infertilità, nulla ne può derivare in termini risarcitori, per il combinato disposto dell’articolo 1227, comma 2, e dell’articolo 2056, comma 1, c.c., rientrando nell’ordinaria diligenza di ciascuna persona sessualmente matura adoperarsi per evitare conseguenze notoriamente legate alle proprie potenzialità generative.
L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU n. 11142 che riconosce la giurisdizione del GO (e non, dunque, del GA) sulla domanda del privato che si duole della pericolosità per la salute o per altri diritti fondamentali della persona con riguardo alla intollerabilità delle immissioni provenienti dai rifiuti, dagli impianti di trattamento degli stessi già raccolti e dalle relative discariche, in relazione alle concrete modalità tecniche di esercizio del relativo ciclo produttivo, risolvendosi le condotte dei soggetti deputati allo smaltimento (ed oggetto di contestazione) nella materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa; la giurisdizione per la Corte è del GO anche allorquando non siano dettate particolari modalità esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti della P.A. che hanno organizzato il servizio; tale decisione non può assumersi influenzata dal fatto che tutte le controversie concernenti l’organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani sono devolute alla giurisdizione del GA già in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 1, del d.l. 23 maggio 2008, n. 90 (norma che – sebbene abrogata dall’art. 4, allegato 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – è stata riprodotta dall’art. 133, comma 1, lettera p) del medesimo d.lgs.).
Il 19 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione che qualifica come non emulativo l’atto del proprietario che, pur arrecando pregiudizio al proprietario finitimo, sia mosso dall’intento di proteggere la propria privacy; l’atto emulativo presuppone, infatti, lo scopo esclusivo di nuocere o recare pregiudizio ad altri in assenza di qualsivoglia utilità per il proprietario, non potendo essere ricondotto a tale categoria l’atto comunque rispondente ad un interesse di quest’ultimo.
Il 26 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 127 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 del c.p.c., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza del GA quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU. La Corte evidenzia come, a differenza che nel processo penale ove vigono imprescindibili esigenze di tutela di libertà fondamentali, non esiste nel nostro sistema – anche guardando agli obblighi derivanti dalla CEDU – un obbligo di prevedere un tale rimedio nei casi de quibus, in ciò confortata dal fatto che, a livello statistico, i Paesi aderenti alla Convenzione che riconoscono una tale possibilità non costituiscono nemmeno la maggioranza.
Il 7 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 14167 che, con riferimento al diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche, ribadisce la necessaria volontà collaborativa della madre a svelare la propria identità, diversamente perdurando un limite legittimamente invalicabile al diritto del figlio medesimo. Quel giorno esce anche la sentenza della I sezione della Cassazione n. 14158 che ammette la possibilità di proporre reclamo alla Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c., avverso il provvedimento con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda di autorizzazione, proposta dall’amministratore di sostegno, ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, stante la natura decisoria del provvedimento in oggetto in grado di incidere su diritti personalissimi.
L’11 luglio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 17139 che, in materia di diritto al nome, dichiara non essere automatica l’assunzione del cognome paterno quando il riconoscimento avvenga in un momento in cui il minore abbia maturato nel cognome materno precedentemente assunto un autonomo segno distintivo della relativa identità personale. Scopo primario della norma è infatti garantire il benessere psico-fisico del minore e non rendere la relativa posizione quanto più simile possibile a quella del figlio di coppia coniugata.
Il 13 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 180 che esclude che per la rettificazione di attribuzione di sesso sia sempre indispensabile il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione dei caratteri sessuali primari, sottolineando, piuttosto, la necessità di una scrupolosa e approfondita indagine non solo sulla serietà e univocità dell’intento, ma anche sull’intervenuta, oggettiva transizione dell’identità di genere.
Il 21 luglio esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Milano che, in applicazione della sentenza n. 96 del 2015 della Corte Costituzionale, riconosce ad una coppia il diritto alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi preimpianto ed il connesso diritto – nel caso in cui la struttura sanitaria pubblica di riferimento non sia in grado di garantire in forma diretta tale prestazione – ad essere indirizzati dalla stessa struttura pubblica (che si dovrà far carico di ciò) verso una diversa struttura (pubblica o privata convenzionata) attrezzata per simili trattamenti, con oneri a carico del SSN: ciò al fine di garantire l’effettiva tutela dei diritti altrimenti frustrati nel loro concreto operare.
Il 27 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 22602 che, ai fini della nomina di un amministratore di sostegno, afferma la necessità che il soggetto amministrando presenti un rischio di inadeguata tutela dei propri interessi, altrimenti ledendosi il diritto fondamentale all’autodeterminazione e alla dignità della persona. Non è quindi possibile – secondo la Corte – disporre l’amministrazione di un soggetto pienamente lucido che vi si opponga o che possa godere della protezione dei propri familiari o, ancora, che abbia già attivato un sistema di deleghe idonee allo scopo.
Il 26 ottobre esce la sentenza della Corte EDU nella causa Azzolina e altri c. Italia che (con riguardo a quanto avvenuto nel 2001 nella Caserma di Bolzaneto, a margine del G8 di Genova) condanna l’Italia per gli atti di tortura compiuti da alcuni membri delle forze dell’ordine che non erano stati puniti nei processi interni a causa della mancanza nell’ordinamento italiano di una idonea fattispecie incriminatrice.
Il 14 novembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 26867 onde non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
Il 29 novembre esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-265/16 nel caso VCAST Limited / RTI SpA con la quale si riconosce in contrasto con il diritto UE una norma che consente ad un’impresa privata di fornire ai propri clienti un servizio di registrazione da remoto su cloud di opere (programmi televisivi) coperte dal diritto d’autore, senza il consenso del titolare del diritto.
Il 1° dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Napoli che, in tema di provvedimenti cautelari richiesti da una società volti alla cancellazione del proprio nome dall’elenco della centrale rischi con effetto retroattivo, ha chiarito che gli artt. 4 ss., 9 e 43 d.lgs. n. 196/2003 (c.d. Codice privacy), a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 214/2011, non si applicano alle persone giuridiche, trovando per esse applicazione solo le norme del Titolo X (Comunicazioni elettroniche), con conseguente impossibilità di invocare il rimedio cautelare previsto dall’art. 152 d.lgs. n. 196/2003.
Il 12 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 29811 che, in materia di diritto d’autore, si sofferma sulla portata di tale diritto e dei relativi risvolti applicativi, soprattutto rispetto ad operazioni di “sincronizzazione”, ossia di manipolazione ad uso riproduttivo di opere musicali: tale modalità di impiego dell’opera rientra a pieno titolo – secondo la Corte – tra le prerogative del titolare del diritto d’autore, a nulla rilevando la tipologia e il contenuto del supporto su cui si esplica tale manipolazione e non concretizzandosi un caso di utilizzazione rientrante nell’accezione di “pubblica esecuzione”. In pari data esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato che fissa i limiti del coinvolgimento di un militare in un partito politico; vista la speciale disciplina costituzionale e i diversi diritti in gioco (libertà di pensiero, imparzialità delle forze armate), se non si può vietare ai militari di iscriversi a partiti politici, risulta incompatibile con il loro status l’assunzione di cariche interne poiché ciò indurrebbe il militare a manifestare attivamente la sua linea politica, ingenerando dubbi sull’imparzialità delle forze armate, sancita dalla Carta fondamentale.
Il 14 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 30125 che, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 180, esclude che per la rettificazione di attribuzione di sesso sia sempre indispensabile il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione dei caratteri sessuali primari, sottolineando, piuttosto, la necessità di una scrupolosa e approfondita indagine non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere.
Il 18 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 che, tornando sui casi di maternità surrogata e sulla conseguente possibilità di riconoscere il figlio così generato, sancisce l’assenza di presunzioni a riguardo: stante la particolare delicatezza dei variegati interessi in gioco, spetta al giudice valutare comparativamente le diverse istanze e decidere secondo quello che, di volta in volta, emerga essere l’interesse del minore. La Corte nel caso di specie dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, censurata dal giudice a quo nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
Il 22 dicembre viene varata la legge n. 219 recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (c.d. biotestamento) che – ponendosi l’obbiettivo di promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico – valorizza in primo luogo il c.d. consenso informato (art.1); vi è poi previsto che, in caso di persone incapaci o interdette, sia il tutore la persona deputata ad esprimere il consenso alle cure con i relativi limiti (art. 3); viene prevista infine la possibilità che, tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata o consegnata personalmente presso l’ufficio di stato civile, ciascun soggetto maggiorenne capace possa esprimere le proprie Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) o nominare un soggetto che potrà assumere tali decisioni (art. 4). Più nel dettaglio con riguardo a quest’ultimo punto, ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacita’ di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, indicando in tal caso una persona di fiducia, detta “fiduciario”, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie; il fiduciario deve a propria volta essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere ed accetta la pertinente nomina attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo all’uopo, che e’ allegato alle DAT; al fiduciario viene rilasciata una copia delle DAT, e può rinunciare alla nomina con atto scritto, che va comunicato al disponente; l’incarico del fiduciario può essere revocato anche dal disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalita’ previste per la nomina e senza obbligo di motivazione; laddove le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente; in caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile. Il medico e’ tenuto (ai sensi dell’art.1, comma 6, della legge) a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo andando esente, in conseguenza di ciò, da responsabilità civile o penale (ma il paziente, per parte sua, non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, richieste a fronte delle quali il medico non ha obblighi professionali). Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria devono assicurare al paziente le cure necessarie, nel rispetto tuttavia della volontà del paziente medesimo ove le relative condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla. Il medico e’ dunque tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. In caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, la decisione viene rimessa al giudice tutelare. Quanto alla forma, le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti per ivi provvedervi, andando esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Nel caso infine in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare, mentre con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento; nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme testé previste, esse essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni.
Il 23 dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Roma che riconosce al figlio minore il diritto a non veder pubblicata la propria immagine sui social ad opera della di lui madre che, in caso di prosecuzione di un tale comportamento a tratti ossessivo, viene condannata con l’applicazione di un’astreinte
2018
Il 3 gennaio esce la sentenza del TAR Umbria n. 16 onde la domanda di mutamento del cognome, pur rivestendo carattere eccezionale ed essendo ammissibile soltanto in presenza di particolari situazioni collegate ad interessi meritevoli di tutela dei soggetti istanti, può essere motivata anche da intenti soggettivi ed atipici, purché appunto meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità e certezza degli elementi identificativi della persona e del relativo status giuridico e sociale; tale domanda, laddove spiccata da un terzo rispetto al titolare del cognome da mutarsi, non può essere respinta per il solo fatto che non vi sia un rapporto di parentela o similare tra l’interessato alla modificazione del cognome e il titolare del cognome.
Il 16 gennaio esce la sentenza del TAR Toscana n. 66 onde l’intento di perpetuare il cognome di un ramo familiare e la relativa fruizione, per ragioni affettive e per il significato che quel cognome riveste nella comunità sociale in cui il richiedente è inserito, ben può concorrere a costituire l’interesse individuale legittimante l’accoglimento dell’istanza di cambiamento/aggiunta, in difetto di contrarie ragioni di pubblico interesse, ovvero di prevalenti posizioni di controinteresse, il tutto da valutarsi secondo le circostanze del caso concreto.
Il 25 gennaio esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia UE in causa C‑473/16 che – decidendo su un caso di un cittadino nigeriano che nell’aprile 2015 ha presentato domanda d’asilo in Ungheria, dichiarando di temere di essere perseguitato nel suo Paese d’origine a causa della propria omosessualità – riconosce come un’ingerenza sproporzionata nella vita privata la pratica di sottoporre a perizia psicologica un migrante al fine di accertarne il proprio orientamento sessuale e così valutare la relativa domanda d’asilo.
Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2070 che, abbandonando il precedente orientamento di segno contrario, riconosce – nel caso in cui l’erronea esecuzione dell’intervento di interruzione della gravidanza determini una nascita indesiderata – non solo il danno alla salute della madre ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della libertà di autodeterminazione, diritto che una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 194 del 1978 consente di ricollegare ad una visione complessiva del bene salute, inteso come benessere psicofisico della persona; inoltre, la Corte evidenzia come la tutela invocata in simili fattispecie prescinde del tutto dalle condizioni di salute della neonata, riconoscendosi dunque autonome, negative ricadute esistenziali (risarcibili) nella vita dei genitori quale conseguenza della violazione del loro diritto a non dar seguito alla gestazione, teoricamente esercitato nell’ambito dei tempi e delle modalità disciplinate dalla normativa della L. n. 194 del 1978, e praticamente non esercitato in conseguenza del colpevole inadempimento dei medici e/o della struttura sanitaria a ciò preposti.
Il 31 gennaio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 2357 che, ricordando che il diritto di critica è diretta emanazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, ribadisce la non punibilità o, in ambito civilistico, la non assoggettabilità a condanna per risarcimento del danno – ai sensi della scriminante di cui all’art. 51 c.p. – di chi esercita tale diritto costituzionale, purché siano rispettati i tre presupposti noti: il prevalente interesse al racconto, anche quando sia riferibile solo ad una determinata categoria di soggetti; la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, che non devono assumere carattere di lesività del decoro e dell’immagine del soggetto cui si fa riferimento (c.d. continenza); e, da ultimo, l’esatta corrispondenza fra quanto realmente accaduto e la narrazione che ne viene fatta (c.d. verità).
Il 22 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.4382 che rimette alle SSUU questioni afferenti al rifiuto di trascrivere nei registri dello stato civile la duplice paternità di minori riconosciuta all’estero, stante la relativa complessità e rilevanza con riguardo da un lato agli interessi superiori dei minori medesimi, e dall’altro la nozione di ordine pubblico.
Il 23 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione in tema di riconoscimento della protezione umanitaria. La Corte afferma che al cittadino straniero che abbia realizzato un’adeguata integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.
Il 20 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 6963 ancora in materia di diritto di un soggetto adottato a conoscere le proprie origini. In particolare, la Corte afferma che, raggiunta l’età di 25 anni, o 18 anni se sussistono gravi e comprovati motivi, il soggetto ha diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelli delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto.
Il 23 marzo esce l’importante ordinanza della II sezione della Cassazione n.7260 in tema di ritardo diagnostico, malattia ad esito certamente infausto e lesione del diritto del paziente di autodeterminarsi, nel senso di determinare liberamente i propri percorsi esistenziali sulla base del riscontrato stato di salute (anche in relazione alla eventuale perdita di chance). La Corte rappresenta nell’incipit in diritto che il profilo critico di principale rilievo delle doglianze avanzate dalle ricorrenti (parenti del paziente ormai deceduto) appare riconducibile alla contestazione della decisione del giudice a quo nella parte in cui ha ritenuto non adeguatamente allegate e comprovate, dalle attrici medesime, le circostanze di fatto concernenti il danno consistito nell’imposizione, a carico di X, di una condizione esistenziale di materiale impedimento a scegliere ‘cosa fare‘ nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, ovvero di programmare il suo essere persona e, dunque, l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito; e tanto, in conformità agli arresti della giurisprudenza della Corte, correttamente richiamati dai giudici d’appello (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23846 del 18/09/2008). Le censure in esame – prosegue la Corte attirano dunque l’attenzione sulla contestata legittimità del passaggio della sentenza impugnata in cui si evidenzia il difetto di (necessaria) allegazione, in cui sarebbero incorse le attrici, per non avere le stesse dedotto alcunché “in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso” (id est, se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute). In relazione a tale ultimo punto, dev’essere per la Corte preliminarmente osservato come, dall’esame delle deduzioni contenute negli scritti difensivi delle originarie attrici, risulta che le stesse ebbero ad allegare, sin dall’iniziale instaurazione del giudizio, tanto la denuncia, da parte di X, di forti dolori alla base dell’emitorace destro in occasione della prima visita radiologica cui lo stesso fu sottoposto dalla dott.ssa Y, quanto la costante accusa della ridetta rilevante e persistente sintomatologia dolorosa in occasione delle diverse visite specialistiche effettuate dal dott. Z. Deve pertanto ritenersi che le circostanze di fatto consistenti nella sopportazione di una condizione esistenziale di ‘forte’ o ‘rilevante’ dolore fisico (e dunque di materiale apprezzabile sofferenza) sin dal primo contatto con i convenuti, fossero state debitamente dedotte in giudizio dalle originarie attrici. Proprio con riguardo a tali (incontestate) circostanze di fatto, le originarie attrici ebbero ad argomentare la rimproverabilità del comportamento colposo dei medici convenuti, per avere gli stessi compromesso – non avviando tempestivamente il paziente ai doverosi approfondimenti diagnostici -, non tanto (o non solo) l’evitabilità dell’evento letale, quanto (e soprattutto) le possibilità di un apprezzabile prolungamento della vita residua (quale possibile effetto di un’eventuale terapia avviata in epoca anteriore), o anche solo la qualità di tale ridotta prospettiva esistenziale, che non sarebbe stata certamente pregiudicata da una tempestiva (e dunque anteriore) conoscenza, da parte del paziente, delle proprie effettive e reali condizioni di salute. Tanto premesso, per la Corte – fermo il riscontro di tali puntuali allegazioni circostanziali (da ritenere, peraltro, altresì comprovate, ex art. 115 c.p.c., trattandosi di fatti e circostanze nei cui confronti non risultano mai opposte specifiche contestazioni di controparte), – occorre convenire con le ricorrenti principali là dove denunciano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto indispensabile, al fine di procedere alla valutazione delle relative rivendicazioni risarcitorie, la specifica deduzione, da parte delle attrici, di quali sarebbero state “le scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso“, non potendo accedersi a una considerazione in re ipsa del danno denunciato. Sul punto, osserva il Collegio come la corte territoriale sia incorsa in un evidente equivoco, atteso che il danno nella specie denunciato dalle attrici non può in nessun modo farsi consistere nella perdita di specifiche possibilità esistenziali alternative, necessariamente legate alle particolari scelte di vita non potute compiere dal paziente (un discorso solo impropriamente, e in larga misura erroneamente, tradotto con l’equivoco richiamo al tema della perdita di chances), bensì con la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un quantum (eventualmente traducibile in termini percentuali) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (secondo la definizione elementare della chance comunemente diffusa nei discorsi sulla responsabilità civile), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto; e dunque quale situazione soggettiva suscettibile di darsi ben prima (al di qua) di qualunque (arbitraria) scelta per- sonale che si voglia già compiuta, o di là da compiere; e ancora, al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta. Il senso della compromissione della ridetta situazione soggettiva di libertà – chiosa ancora la Corte – appare d’immediata comprensione non appena si rifletta sulla circostanza per cui, non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali che il velo d’ignoranza illecitamente indotto dalla colpevole condotta dei medici convenuti ha per sempre impedito che si attuassero come espressioni di una scelta personale. Poiché anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose. Rilievo che vale a tradursi in una specifica percezione del sé quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale; e tanto, proprio nel momento della più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine. La tutela (risarcitoria) della situazione soggettiva in esame si risolve pertanto, per la Corte, nell’immediata protezione giuridica di una specifica forma dell’autodeterminazione individuale (quella che si esplica nella particolare condizione della vita affetta da patologie ad esito certamente infausto) e, dunque, del valore supremo della dignità della persona in questa relativa, ulteriore dimensione prospettica; una situazione soggettiva che deve ritenersi fatalmente e direttamente violata dal colpevole ritardo diagnostico della patologia ad esito certamente infausto di cui si sia reso autore il sanitario chiamato a risponderne. Deve ritenersi – chiosa ancora la Corte – che, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto – nonché il dato (di per sé, peraltro, non indispensabile) della condizione di materiale (rilevante o, comunque, apprezzabile) sofferenza del paziente derivante dalla ridetta patologia – la conseguente violazione del diritto del paziente di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una simile condizione di vita, vale a integrare la lesione di un bene già di per sé autonoma- mente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa. Dalle indicate premesse la Corte fa discendere l’accertamento dell’avvenuta falsa applicazione, ad opera della Corte d’appello di Roma, degli artt.1218 e 2043 c.c., là dove la stessa ha ritenuto che, alla luce delle evidenze incontestate, non potesse farsi luogo all’accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalle attrici (odierne ricorrenti), sul presupposto che le stesse si sarebbero sottratte all’assolvimento degli oneri di necessaria allegazione argomentativa e probatoria in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute. Rrileva poi il Collegio con riguardo al ricorso incidentale del medico come quegli – nel rivendicare l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha trascurato di considerare l’inesigibilità di una capacità interpretativa della documentazione radiografica in esame, o la legittimità dell’affidamento nella competenza dei colleghi radiologi che avevano provveduto alla previa creazione e interpretazione di detta documentazione – dimostri di non aver integralmente còlto la ratio effettiva della decisione fatta propria dal giudice a quo, dovendosi sul punto ribadire come la corte territoriale abbia ravvisato lo specifico profilo di rimproverabilità del di lui comportamento, non già in relazione alla mancata comprensione di ciò che era com- prensibile, bensì nell’aver trascurato – dinanzi al carattere, per così dire, ‘muto’ della documentazione radiografica – i segnali clinici (e, in primo luogo, il significativo rilievo della persistente, inspiegata, sintomatologia dolorosa accusata dal paziente) che apparivano tali da imporre, secondo un criterio di normalità, una più scrupolosa prudenza nell’approfondimento della ricerca delle relative cause, non avviando il paziente al compimento di quelle ulteriori forme di accertamento specialistico che gli avrebbero consentito (come di fatto in seguito avvenuto) una più tempestiva diagnosi delle cause effettive della sofferenza nella specie avvertita con tanta persistente continuità. Sulla base del complesso delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del ricorso principale proposto la Corte dispone, con l’accoglimento del ricorso principale, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, cui viene rimesso di provvedere, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, al riscontro della consistenza effettiva del danno denunciato dalle originarie attrici, in applicazione del seguente principio di diritto: la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di chances connesse allo svolgimento di singole specifiche scelte di vita non potute compiere, ma nella lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto (da parte dei sanitari convenuti), l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa.
Il 2 maggio esce la sentenza della Grande sezione della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-331/16 e C-366/16 onde l’art. 27, par. 2, Dir. 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, dev’essere interpretato nel senso che il fatto che il cittadino dell’UE o il cittadino di un paese terzo, familiare di detto cittadino, che chiede il rilascio di un permesso di soggiorno in uno Stato membro, sia stato in passato destinatario di una decisione di esclusione dal beneficio dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1, sez. F, della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, non consente alle autorità competenti di tale Stato membro di considerare automaticamente che la sua semplice presenza sul territorio di tale Stato costituisca, indipendentemente dall’esistenza di un rischio di recidiva, una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società, tale da giustificare l’adozione di misure di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. La constatazione dell’esistenza di una tale minaccia deve essere fondata su una valutazione, da parte delle autorità competenti dello Stato membro ospitante, del comportamento personale dell’interessato, che prenda in considerazione le conclusioni della decisione di esclusione dal beneficio dello status di rifugiato e gli elementi su cui essa è fondata, in particolare la natura e la gravità dei crimini o degli atti che gli sono contestati, il livello del suo coinvolgimento personale in essi, l’eventuale esistenza di motivi di esonero da responsabilità penale e l’esistenza di una condanna penale. Tale valutazione globale deve anche tenere conto del tempo trascorso dalla presunta commissione di tali crimini o atti nonché del comportamento successivo di tale persona, e in particolare considerare se tale comportamento manifesti la persistenza di un atteggiamento che attenti ai valori fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 T.U.E., in un modo che potrebbe turbare gravemente la tranquillità e la sicurezza fisica della popolazione. Il solo fatto che il comportamento passato di tale individuo s’inserisca nel contesto storico e sociale specifico del suo paese di origine, che non può riprodursi nello Stato membro ospitante, non osta a tale constatazione. Conformemente al principio di proporzionalità, le autorità competenti dello Stato membro ospitante devono inoltre bilanciare la tutela dell’interesse fondamentale della società di cui trattasi con gli interessi della persona di cui trattasi, relativi all’esercizio della sua libertà di circolazione e di soggiorno in quanto cittadino dell’Unione nonché al suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. Inoltre, l’art. 28, par. 1, Dir. 2004/38 deve essere interpretato nel senso che, quando le misure previste comportano l’allontanamento dell’interessato dallo Stato membro ospitante, quest’ultimo deve tenere conto della natura e della gravità del comportamento di tale persona, della durata e, se del caso, della legalità del suo soggiorno in tale Stato membro, del tempo trascorso dal comportamento contestatole della sua condotta durante tale periodo, del grado della sua attuale pericolosità per la società, nonché della solidità dei legami sociali, culturali e familiari con detto Stato membro. L’art. 28, par. 3, lett. a), Dir. 2004/38 deve essere interpretato nel senso che esso non si applica al cittadino dell’UE che non gode di un diritto di soggiorno permanente nello Stato membro ospitante, ai sensi dell’art. 16 e dell’art. 28, par. 2, di tale direttiva.
Il 18 maggio viene varato il decreto legislativo n. 51 di attuazione della direttiva (UE) 2016/680/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio. Vengono previste alcune nuove ipotesi di reato legate al trattamento dei dati personali. L’art. 43 prevede il delitto di “trattamento illecito di dati”, modellato sulla falsariga della fattispecie oggetto di incriminazione dal parte dell’art. 167 del codice della privacy (varato con D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196): salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dall’articolo 5, comma1”, che prevede i casi di liceità del trattamento, “se dal fatto deriva nocumento” (comma 1). La pena della reclusione da uno a tre anni è comminata dal comma 2, nel caso in cui, fermo restando il dolo specifico, il trattamento dei dati sia effettuato in violazione dell’art. 7, che disciplina il trattamento di categorie particolari di dati personali, o dell’art. 8, comma 4, che vieta la profilazione finalizzata alla discriminazione di persone fisiche sulla base di categorie particolari di dati personali, a condizione che dal fatto derivi nocumento. L’art. 44 incrimina la “falsità in atti e dichiarazioni al Garante”: salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni “chiunque, in un procedimento dinanzi al Garante riguardante il trattamento dei dati di cui all’articolo 1, comma 2”, “o nel corso di accertamenti riguardanti i medesimi dati, dichiara o attesta falsamente notizie o circostanze o produce atti o documenti falsi”. L’art. 45 prevede una peculiare figura di “inosservanza di provvedimenti del Garante”: è comminata la reclusione da tre mesi a tre anni nei confronti di “chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento adottato dal Garante ai sensi dell’articolo 143, comma1, lettera c), del Codice, in un procedimento riguardante il trattamento dei dati di cui all’articolo 1, comma 2”. Da segnalare, infine, che, ai sensi dell’art. 46, la condanna per uno dei delitti dinanzi indicati comporta la pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art. 36, commi 2 e 3, c.p.
Il 25 maggio entra in vigore il Regolamento UE n. 2016/679, sulla protezione dei dati “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” (c.d. RGPD), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea il precedente 4 maggio 2018. Il Regolamento regola anche il diritto all’oblio: in particolare, l’art. 17 di detto regolamento eurounitario: -al comma 1, prevede che l’interessato ha il diritto di richiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano, in particolare in relazione a dati personali resi pubblici quando l’interessato era un minore, se sussiste uno dei seguenti motivi: “a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento; c) l’interessato si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2; d) i dati personali sono stati trattati illecitamente; e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione di cui all’articolo 8, paragrafo 1“; – e, al successivo comma 3, precisa i casi in cui il trattamento dei dati è necessario: “a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione; b) per l’adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell’articolo 9, paragrafo 3; d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento; e) per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.”
Il 31 maggio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 14007 che, negando la sussistenza di ragioni contrarie all’ordine pubblico e sottolineando la prevalenza del principio del superiore interesse del minore, conferma la sentenza del giudice di merito che accorda la trascrizione nei pubblici registri dell’adozione reciproca di due bambini nati da due cittadine francesi residenti in Italia e regolarmente unite in matrimonio nello Stato d’origine.
L’11 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 18287 in tema di criteri di attribuzione e determinazione dell’assegno di divorzio che, risolvendo un contrasto da poco insorto tra le sezioni semplici, afferma come il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto. Secondo la Corte, la soluzione prospettata è largamente coerente con il quadro della legislazione dei paesi dell’Unione europea. Il confronto, pur non essendo la materia nè di competenza dell’Unione Europea nè oggetto di diversa disciplina convenzionale, non può essere eluso, in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi. La comparazione con alcuni ordinamenti europei (in particolare quello francese e tedesco) evidenzia, in particolare, la natura specificamente perequativo-compensativa attribuita all’assegno di divorzio correlata alla previsione della temporaneità dell’obbligo in quanto prevalentemente finalizzato a colmare la disparità economico patrimoniale determinatasi con lo scioglimento del vincolo. Possono, tuttavia, porsi in luce alcuni principi comuni, posti in luce dai lavori svolti dalla Commissione Europea del diritto di famiglia (C.E.F.L.), sorta al fine di armonizzare i principi che regolano il diritto di famiglia in considerazione della competenza del diritto dell’Unione Europea in ordine alla giurisdizione, al riconoscimento ed alla circolazione delle decisioni in materia di scioglimento dell’unione coniugale e responsabilità genitoriale. Si è riscontrata, in particolare, la tendenziale eliminazione del divorzio per colpa che, anche all’interno del nostro ordinamento, trova riscontro nella progressiva riduzione dell’importanza del c.d. criterio risarcitorio fin dall’accertamento dell’addebito in sede di separazione; la natura consensuale del divorzio e la preminenza del principio di autoresponsabilità anche in sede di regolazione dell’assegno le cui caratteristiche sono da cogliere nell’ancoraggio ad un criterio perequativo-assistenziale in funzione di riequilibrio della posizione dell’ex coniuge più svantaggiato (sistema francese); nel favor verso un sistema di riequilibrio economico-patrimoniale realizzato con la ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare cui consegue l’eccezionalità dell’assegno di divorzio (sistema tedesco) ed infine nella temporaneità della disposizione, in quanto finalizzata alla ricomposizione di un quadro di parità economico patrimoniale. Rileva la Corte che sia le linee di tendenza comuni che le differenze di regime giuridico sono ispirate dal medesimo obiettivo della pari dignità degli ex coniugi. In questa priorità si coglie l’esclusivo elemento di continuità tra i postulati costituzionali dell’unione matrimoniali e la finalità dell’assegno di divorzio. La conferma della centralità del principio di uguaglianza effettiva tra i coniugi anche alla luce dell’esame comparatistico delle legislazioni di paesi occidentali trova riscontro effettivo nel VII Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, nell’art. 5. Nella norma viene stabilito che: “I coniugi godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell’interesse dei figli”. Il principio è un’evoluzione di quanto già contenuto nell’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948. Nell’articolo è indicato che uomini e donne hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. Emerge, in conclusione, corrispondenza tra la collocazione dell’assegno di divorzio nell’alveo degli artt. 2, 3 e 29 Cost. con la conseguente preminenza della funzione perequativa ad esso attribuibile ed il quadro europeo e convenzionale di riferimento. Gli elementi che appaiono in contrasto con tale quadro, ovvero l’eccezionalità del ricorso all’assegno e la temporaneità dello stesso non scalfiscono la comune provenienza dal principio di parità effettiva. In particolare la mancanza di temporaneità trova puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio in presenza di fatti sopravvenuti mentre il riconoscimento dell’assegno per importi poco elevati ed in unzione perequativa riguarda una percentuale molto modesta delle controversie in tema di divorzio. L’attenzione deve rivolgersi, al fine di rendere effettiva la funzione perequativa dell’assegno al rigoroso accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, dovendo trovare giustificazione causale negli indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6 ed in particolare nel contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge. Di tale contributo la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell’assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria. La sostanziale assenza di preclusioni, salvo l’allegazione di mutamenti di fatto, nel procedimento di revisione, rende reversibile e modificabile sine die la determinazione originaria in ordine all’assegno di divorzio, escludendo anche sotto tale profilo, i rischi della c.d. cripto indissolubilità.
Il 25 luglio escono due sentenze gemelle della sezione I della Cassazione nn. 19779 e 19780 sul diritto degli ascendenti ad instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Secondo la Corte, ai sensi dell’art. 317-bis c.c., nel testo novellato dall’art. 42 del D.Lgs. n. 154 del 2013, al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, definendo essi procedimenti che dirimono comunque conflitti tra posizioni soggettive diverse e nei quali il minore è “parte”, sicché il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 Cedu, dall’art. 24,comma2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317 bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art.315 bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico.
Il 27 agosto esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia n. 2024 che riconosce la legittimità del diniego opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di accesso presentata da un coniuge, in pendenza di una separazione, per conoscere i dati fiscali e patrimoniali dell’altro. Secondo il TAR, il codice di rito prevede, in questi casi, strumenti che li rendono conoscibili tutelando i diritti processuali di entrambe le parti, ossia l’accessibilità solo previa autorizzazione del Presidente del Tribunale. In materia si registra però un contrasto giurisprudenziale tra diversi TAR che invece ritengono tali dati accessibili secondo la normativa ordinaria sul diritto d’accesso ex legge 241/90.
Il 29 agosto esce la sentenza della sezione I della Cassazione n. 21362 secondo cui i dati personali di un soggetto sottoposto ad indagini penali e poi estromesso, essendo stata la sua posizione stralciata, non vanno cancellati dall’archivio della polizia, perché l’eliminazione può essere ordinata solo nell’ipotesi in cui si tratti di dati inesatti o illegittimamente acquisiti, mentre, se gli stessi sono stati legittimamente acquisiti, il Ministero può procedere solo all’aggiornamento dell’iscrizione, mediante l’annotazione del provvedimento di archiviazione adottato dal giudice.
Il 30 agosto esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 39293 che ritiene utilizzabili, senza alcuna necessità di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, le videoriprese eseguite da privati mediante telecamera esterna installata sulla loro proprietà, che consentono di captare ciò che accade nell’ingresso, nel cortile e sui balconi del domicilio di terzi, i quali, rispetto alle azioni che ivi si compiono, non possono vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza, trattandosi di luoghi, che, pur essendo di privata dimora, sono liberamente visibili dall’esterno, senza ricorrere a particolari accorgimenti.
Il 4 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 24198 in tema di responsabilità della P.A. per mancata assistenza della forza pubblica per il rilascio di un immobile abusivamente occupato. La Corte afferma che la discrezionalità della P.A. non può mai spingersi, se non stravolgendo ogni fondamento dello Stato di diritto, a stabilire se dare o non dare esecuzione ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria, a maggior ragione quando questo abbia ad oggetto la tutela del diritto di proprietà riconosciuto dalla Costituzione e dalla CEDU. È pertanto colposa la condotta dell’Amministrazione dell’interno che, a fronte dell’ordine di sgombero di un immobile abusivamente occupato vi aut clam, trascuri per sei anni l’attuazione del provvedimento di sequestro con contestuale ordine di sgombero impartito dalla Procura della Repubblica.
Il 18 ottobre esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia nella causa C-149/17 onde l’art. 8, parr. 1 e 2, Dir.2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, in combinato disposto con l’art. 3, par. 1, della stessa, da un lato, e l’art. 3, par. 2, Dir. 2004/ 48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, dall’altro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale, interpretata dal giudice nazionale competente, in forza della quale il titolare di una connessione internet, attraverso cui siano state commesse violazioni del diritto d’autore mediante una condivisione di file, possa non essere considerato responsabile qualora indichi almeno un suo familiare che avesse la possibilità di accedere alla suddetta connessione, senza fornire ulteriori precisazioni quanto al momento in cui la medesima connessione è stata utilizzata da tale familiare e alla natura dell’utilizzo che quest’ultimo ne abbia fatto.
Il 5 novembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.28084, che rimette alle SSUU la definizione dei criteri di bilanciamento tra il c.d. diritto all’oblio e il diritto di cronaca, assumendola questione di massima di particolare importanza. Si tratta del delicato assetto dei rapporti tra diritto all’oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero, alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, ed occorre individuare univoci criteri di riferimento che consentano di conoscere i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto a richiedere che una notizia che lo riguarda, legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, di precisare in che termini l’interesse pubblico alla ripubblicazione di vicende personali faccia recedere il diritto all’oblio in favore del diritto di cronaca. L’esame dei motivi sottende allora, come la stessa Corte afferma, la ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale, nell’ordinamento interno e in quello sovranazionale, in materia di bilanciamento del diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e del diritto all’oblio, posto a tutela della riservatezza della persona, tematica che ha formato oggetto, diretto o indiretto, di alcune decisioni della Prima e della Terza Sezione della Corte, di seguito menzionate, che costituiscono il primo passo per una compiuta riconsiderazione sistematica che tenga conto delle diverse interrelazioni in materia. Nel caso sotteso al ricorso, per la Corte, non viene in rilievo la problematica del diritto all’oblio in relazione: alla realizzazione di archivi di notizie, digitalizzati e resi fruibili on line; alla ristampa di un giornale del passato (come talvolta avviene in occasione degli anniversari delle fondazioni); alla memorizzazione di dati nei motori di ricerca e nelle c.d. reti sociali. Ipotesi queste, di crescente interesse nella vita sociale, ma sulle quali non si è ancora formata una compiuta elaborazione nella giurisprudenza di legittimità. Fatta questa premessa, rammenta la Corte che il diritto di cronaca, secondo l’unanime insegnamento della giurisprudenza di legittimità, è un diritto pubblico soggettivo, da comprendersi in quello più ampio concernente la libera manifestazione di pensiero e di stampa, sancito dall’art. 21 Cost., e consiste nel potere-dovere, conferito al giornalista, di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita sociale. E sono decorsi ormai oltre 40 anni da quando la Corte costituzionale (cfr. sent. 30 maggio 1977, n. 94) ha statuito che: “i grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di interesse pubblico“. Il diritto di cronaca, tuttavia, non può essere considerato senza limiti. Tali limiti sono stati riassunti in due sentenze che costituiscono ancora oggi imprescindibile punto di riferimento nella materia in esame: la sentenza n. 8959 del 30/06/1984 delle Sezioni Unite Penali e la sentenza n. 5259 del 18/10/1984 della Prima Sezione Civile della Corte. In particolare, in quest’ultima è stato affermato che il diritto di cronaca «è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; c) forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti. La forma della critica non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni. In tali ipotesi l’esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato» (Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984). Peraltro, rammenta ancora la Corte come giurisprudenza successiva (cfr., tra le tante, Sez. III, sent. n. 8963 del 29/8/1990, sent. n. 23366 del 15/12/2004 e sent. n. 2271 del 4/2/2005) abbia avuto modo di precisare che i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti, tra loro strettamente connessi, in composizione variabile a seconda che si eserciti un diritto di cronaca o un diritto di critica giornalistica. Invero, nella cronaca, assume carattere determinante la verità dei fatti narrati, mentre, nella critica, è centrale la rilevanza sociale dell’argomento trattato e la correttezza delle espressioni utilizzate. Ciò in quanto il diritto di critica si distingue dal diritto di cronaca per il fatto di consistere nell’espressione di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica, ma che ha, per sua natura, carattere congetturale e soggettivo. E la giurisprudenza di legittimità penale – chiosa ancora la Corte – ha di recente chiarito anche la differenza tra cronaca e storia (Sez. 1, n. 13941 del 08/01/2015 – dep. 02/04/2015): la prima presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione e, se si riconosce l’interesse pubblico ad una notizia tempestiva, non può non ammettersi che l’esigenza di velocità possa comportare un qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica sulla verità della notizia e sulla bontà della fonte dalla quale si è appresa. La storia, invece, ha ad oggetto fatti o comportamenti distanti nel tempo e, quanto più sono lontani nel tempo i fatti narrati, tanto meno si giustifica il menzionato sacrificio dell’accuratezza della verifica (per quanto nessuna storia raccontata può essere del tutto imparziale, essendo operazione soggettiva anche la semplice operazione di connessione. Orbene, i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti che – nel consentire la legittima intrusione nella vita privata altrui in nome del superiore interesse pubblico all’informazione – assumono rilevanza: non soltanto come fattori legittimanti l’iniziale diffusione della notizia, ma anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l’antigiuridicità delle successive rievocazioni. Dunque, l’esercizio del diritto all’oblio è collegato, in coppia dialettica, al diritto di cronaca. L’interesse del singolo all’anonimato assurge a “diritto” esclusivamente allorquando: non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata “falsa” in quanto non aggiornata o, infine, quando l’esposizione dei fatti non sia stata commisurata all’esigenza informativa ed abbia recato un vulnus alla dignità dell’interessato. In coerenza con le suddette premesse concettuali, proprio la III Sezione della Corte, nell’ormai lontano 1998, ha esplicitamente riconosciuto il diritto all’oblio, qualificandolo come «…giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata» (Sez. 3, Sentenza n. 3679 del 09/04/1998). In detta pronuncia è stato precisato che, per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, non è sufficiente la sussistenza del requisito dell’interesse pubblico circa il fatto narrato, ma è necessaria anche l’attualità della notizia. E – rammenta la Corte – sempre la medesima Sezione, più di recente: -in riferimento alla trasposizione on line degli archivi storici delle maggiori testate giornalistiche ed alla digitalizzazione di banche dati istituite per finalità di ricerca (Sentenza n. 5525 del 05/04/2012), ha riconosciuto in capo al soggetto, titolare dei dati personali, il diritto alla contestualizzazione e all’aggiornamento della notizia, in relazione alla finalità di trattamento dei dati, in quanto «la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera» e, dunque, astrattamente idonea a ledere l’identità personale del soggetto interessato; alla luce del principio di verità e di correttezza, è stato così ampliato il concetto di oblio: quest’ultimo può essere considerato non soltanto in senso negativo e passivo, come diritto (per così dire statico) alla cancellazione dei propri dati, ma anche in senso positivo ed attivo, come diritto (per così dire dinamico) volto alla contestualizzazione, all’aggiornamento ovvero all’integrazione dei dati contenuti nell’articolo, per mezzo di un collegamento «ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l’evoluzione della vicenda»; -in tema di diffamazione a mezzo stampa (Sentenza n. 16111 del 26/06/2013), ha affermato che il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali non siano pubblicamente rievocate trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza. Del delicato rapporto tra diritto di cronaca e diritto all’oblio – chiosa ancora la Corte – ha avuto modo di occuparsi di recente anche la Prima Sezione Civile che: -in relazione all’archiviazione on line delle notizie effettuata dalle testate giornalistiche, con sentenza n. 13161 del 24 giugno 2016, alla luce della sentenza della Corte di giustizia del 13 maggio 2014, ha riconosciuto in presenza di determinate condizioni, la prevalenza del diritto all’oblio rispetto al diritto all’informazione. In particolare – è stato precisato – la persistenza, in un giornale on-line, di una risalente notizia di cronaca «appare, per l’oggettiva e prevalente componente divulgativa, esorbitare dal mero ambito del lecito trattamento d’archiviazione o memorizzazione on-line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali» configurandosi come violazione del diritto all’oblio, quando, in ragione del tempo trascorso «doveva reputarsi recessiva l’esigenza informativa e conoscitiva dei lettori cui la divulgazione presiedeva»; -e, in tema di trattamento dei dati personali, con ordinanza n. 19761 del 09/08/2017, ha affermato che: ai sensi dell’art. 8 della CEDU nonché degli artt. 7 e 8 della c.d. Carta di Nizza, l’interessato non ha diritto ad ottenere la cancellazione dei dati iscritti in un pubblico registro ed è legittima la loro conservazione quando essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Le linee direttrici del delicato bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio sono state di recente ripercorse in un ulteriore importante arresto sempre dalla Sezione Prima della Corte (cfr. Ordinanza n. 6919 del 20/03/2018), la quale – dopo aver richiamato i principali precedenti in materia della giurisprudenza di legittimità, della Corte di Giustizia UE (in particolare, nella sentenza 13/5/2014, C-131/12, Google Spain; nonché nella sentenza 9/3/2017, C-398, Manni) e della Corte EDU (in particolare, nella sentenza 19/10/2017, Fuschsmann c/o Germania); nonché il «reticolo di norme nazionali (artt. 2 Cost., 10 c.c., 97 legge n. 633 del 1941) ed europee (artt. 8 e 10 comma 2 CEDU, 7 e 8 della Carta di Nizza)» dal richiamato quadro normativo e giurisprudenziale ha desunto che: «il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali); 3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico». Osserva a questo punto il Collegio che dalla lettura della menzionata ordinanza n. 6919 del 20/03/2018 (e dalla giurisprudenza delle Corti europee) non è dato evincere se i presupposti indicati – peraltro di diversa natura, essendo i primi tre una specificazione del requisito della pertinenza, il quarto di carattere riepilogativo ed il quinto di ordine procedurale – siano richiesti in via concorrente ovvero, come sembra alla Corte stessa, in via alternativa. Invero, ove mai si ritenesse che tutti gli indicati presupposti debbano essere compresenti, in considerazione dell’improbabilità della circostanza diritto all’oblio sarebbe destinato a prevalere sul diritto di cronaca soltanto in casi davvero residuali. D’altra parte, successivamente alla menzionata ordinanza (e precisamente lo scorso 25 maggio 2018), è entrato in vigore il Regolamento UE n. 2016/679, sulla protezione dei dati “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” (c.d. RGPD), che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea lo scorso 4 maggio 2018 e che regola anche il diritto all’oblio. Il bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio incide allora – conclude la Corte – sul modo di intendere la democrazia nella nostra attuale società civile, che, da un lato fa del pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica un suo pilastro fondamentale; e, dall’altro, non può prescindere dalla tutela della personalità della singola persona umana nelle sue diverse espressioni. Sembra al Collegio che, soltanto partendo dal caso concreto, sia possibile definire: quando possa effettivamente configurarsi un interesse pubblico alla conoscenza di fatti (tali non essendo le insinuazioni di dubbi e le voci incontrollate); quando, nonostante il tempo trascorso dai fatti, detto interesse possa essere considerato ancora attuale; in che termini, sulla sussistenza di detto interesse, possa incidere la gravità e la rilevanza penale del fatto, la completezza (o la incompletezza) della notizia del fatto, la finalità di trattamento del dato (se, ad es., per fini di ricerca scientifica o storica, per fini statistici, per fini di informazione o per altri motivi, ad es. di marketing), la notorietà (o la mancanza di notorietà) della persona interessata, la chiarezza della forma espositiva utilizzata (anche evitando l’accorpamento e l’accostamento di notizie false a notizie vere). Il delicato assetto dei rapporti tra diritto all’oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero assume così – alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale ed europeo, il primo dei quali come di recente innovato, a garanzia del generale principio della certezza del diritto – i contorni della questione di massima di particolare importanza, parendo ormai indifferibile l’individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sé relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, precisare in che termini sussiste l’interesse pubblico a che vicende personali siano oggetto di (ri) pubblicazione, facendo così recedere il diritto all’oblio dell’interessato in favore del diritto di cronaca.
Il 22 novembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 212 che dichiara inammissibili o rigetta diverse questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili. Secondo la Corte, infatti, che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama. Va sottolineato, spiega la Consulta, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del D.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono. È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del D.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che “Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile”. In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis). D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la L. n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del D.P.R. n. 396 del 2000). Inoltre, la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
Il 3 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 31196 che ritiene ammissibile la richiesta di riconoscimento della maternità della madre biologica di un minore nato da parto anonimo e dichiarato adottabile. Secondo la Corte, tale richiesta sarebbe inammissibile allorquando, a seguito della dichiarazione di adottabilità del minore, segua l’affidamento preadottivo
Il 18 dicembre esce la sentenza della V sezione penale della Cassazione n. 57020 secondo cui, l’offesa alla reputazione altrui propagata tramite web, essendo quest’ultimo uno strumento percepibile da un ampio pubblico di utenti, integra una delle ipotesi aggravate del reato di diffamazione.
2019
L’8 gennaio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 372 che esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 615-bis c.p. laddove non siano stati ripresi comportamenti della vita privata sottratti all’osservazione dall’esterno. Afferma infatti la Corte che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi.
Lo stesso giorno esce la sentenza della I sezione penale della Cassazione n. 474 che, in caso di sottoposizione del detenuto al regime carcerario ex art. 41-bis, afferma essere in vigore un doppio binario. Il direttore dell’istituto penitenziario può negare ai Garanti locali il colloquio semplice (non riservato, ex art. 18 ord. pen.) col detenuto, solo quando reputa ledibili gli interessi statali sottesi al più rigoroso regime carcerario.
Il 14 gennaio esce la sentenza della VI sezione penale della Cassazione n. 1562 che, in tema di compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi dall’art. 3 della Cedu, una superficie calpestabile di tre metri quadrati per ogni detenuto in una cella collettiva rappresenta la soglia minima pertinente ai fini della valutazione delle condizioni carcerarie, in caso di sovraffollamento grave.
Il 22 gennaio escono due sentenze gemelle della sezione V penale della Cassazione nn. 2905 e 2942 che riconoscono alla pagina Facebook le stesse garanzie di inviolabilità del domicilio reale, con conseguente parità di tutele e, quindi, di reati configurabili in caso di intrusione illecita da parte di terzi non espressamente autorizzati e nei limiti di tale autorizzazione.
Il 24 gennaio esce la sentenza della I sezione del TAR Piemonte n. 77 che, in tema di legittimazione delle associazioni di categoria, richiede, in primo luogo, che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale e che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli appartenenti alla categoria.
Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della CEDU sul caso n. 62257/15 che riconosce la legittimità dell’ordine di imposto da un giudice al ricorrente di sottoporsi al test del DNA in una causa civile nella quale era in discussione il riconoscimento della paternità.
Il 31 gennaio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 14 in tema di bilanciamento tra il diritto di sciopero degli avvocati e servizio giustizia. Secondo la Corte, quando la disposizione censurata (come nel caso di specie) pone regole destinate a disciplinare l’esercizio del diritto all’astensione degli avvocati dalle udienze, spiegando pertanto un effetto diretto sull’esercizio dell’attività giurisdizionale, trova applicazione il criterio, più volte affermato dalla Corte, secondo cui «come la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato, “il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale” (sentenza n. 174 del 2005; ordinanza n. 44 del 2006)» (sentenza n. 272 del 2008; nello stesso senso, più recentemente, sentenze n. 91 del 2018 e n. 65 del 2014). Non può pertanto essere invocato a parametro di costituzionalità l’art.97 della Costituzione. Viene ribadito (sentenze n. 180 del 2018 e n. 171 del 1996) che «l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo», in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà, palesandosi nondimeno necessario un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che l’art. 1, secondo comma, lettera a), della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione». Tale bilanciamento è realizzato, spiega la Consulta, da una parte, quanto alla disciplina primaria, dal censurato art. 2, comma 5, che prescrive che il preavviso di astensione collettiva non può essere inferiore a dieci giorni e che nella relativa comunicazione deve essere indicata altresì una durata compatibile con la tutela dei diritti fondamentali, sì da garantire le prestazioni indispensabili, nonché ben determinata con la fissazione del termine iniziale e finale; d’altra parte, trovano applicazione le ulteriori più specifiche prescrizioni dettate dal codice di autoregolamentazione, che ha natura di normativa subprimaria (sentenza n. 180 del 2018) e che è stato ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con la citata delibera del 13 dicembre 2007; in particolare, l’art. 2, comma 4, del codice di autoregolamentazione prevede innanzi tutto che «[c]iascuna proclamazione deve riguardare un unico periodo di astensione» e deve essere preceduta da un preavviso minimo di dieci giorni; inoltre, il comma 1 dell’art. 4 prescrive che tra la proclamazione e l’effettuazione dell’astensione non può intercorrere un periodo superiore a sessanta giorni; con questa perimetrazione resta tipizzata la fattispecie di legittima astensione collettiva: una singola proclamazione seguita a breve – non prima di dieci giorni e non dopo sessanta giorni – da un unico (e quindi continuativo) periodo di astensione. La circostanza, poi, che distinte proclamazioni di astensione collettiva, in sequenza temporale, siano riferibili a uno stesso stato di agitazione della categoria non rileva di per sé, essendo ben possibile il progressivo aggiustamento dell’azione di contrasto posta in essere dalla categoria per conseguire (dal Governo o dal legislatore) il risultato cui essa mira; la possibile ripetizione dell’astensione collettiva trova comunque un limite nella più articolata modulazione temporale prevista dal codice di autoregolamentazione, il cui art. 2, comma 4, prescrive che l’astensione non può superare otto giorni consecutivi, con l’esclusione dal computo della domenica e degli altri giorni festivi; inoltre, con riferimento a ciascun mese solare, non può comunque essere superata la durata di otto giorni, anche se si tratta di astensioni aventi a oggetto questioni e temi diversi; in ogni caso tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni. Il limite mensile massimo di otto giorni e l’intervallo minimo di quindici giorni riguardano appunto la possibile sequenza di altrettante distinte proclamazioni riferite a singoli intervalli di astensione collettiva. La circostanza che una singola proclamazione (come quella che in concreto rileva nel giudizio a quo), risulti preceduta da altre, nel contesto di uno stesso stato di agitazione della categoria, e possa essere seguita da altre analoghe comporta che, oltre al limite del preavviso minimo di dieci giorni (e massimo di sessanta), devono essere rispettati anche gli altri due limiti concorrenti: la durata complessiva (per sommatoria) non superiore a otto giorni nel mese e l’intervallo non inferiore a quindici giorni tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva. Inoltre, l’art. 4, comma 4-quater, della legge n. 146 del 1990 – disposizione espressamente applicabile anche nei casi di astensione collettiva di cui all’art. 2-bis e quindi anche a quella degli avvocati – prevede, innanzi alla Commissione di garanzia, l’attivazione del «procedimento di valutazione del comportamento delle organizzazioni sindacali» che proclamano lo sciopero o vi aderiscono; l’intervento della Commissione può inoltre essere sollecitato dalla «richiesta delle parti interessate, delle associazioni degli utenti rappresentative ai sensi della legge 30 luglio 1998, n. 281, delle autorità nazionali o locali che vi abbiano interesse», ma può altresì essere promosso a iniziativa della Commissione stessa, in ipotesi anche a seguito di segnalazione dello stesso giudice che abbia fissato il processo per un giorno poi risultato ricadente nel periodo di astensione collettiva; disposizione questa che può venire in rilievo proprio nell’evenienza estrema di una sequenza molto prolungata di ripetute astensioni collettive, come temuto dalla Corte d’appello rimettente, che prefigura, in astratto, la possibilità che in un anno potrebbero esserci plurimi periodi di astensione collettiva fino a oltre un terzo di tutte le giornate lavorative; la Commissione sarebbe così chiamata a valutare – o rivalutare – l’idoneità delle prescrizioni del codice di autoregolamentazione con riferimento a una fattispecie siffatta, ove mai in ipotesi ricorrente (art. 13 della legge n. 146 del 1990); rimane, infine, come clausola di chiusura, l’attivazione, anche su segnalazione della Commissione, del potere pubblico di ordinanza, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 146 del 1990 – di cui parimenti è prevista espressamente l’applicazione a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori –, «[q]uando sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’articolo 1». Questa complessiva rete di protezione – da una parte, i limiti (di legge e autoregolamentari), che valgono in generale, e, dall’altra, anche il possibile intervento della Commissione di garanzia e, nei casi estremi, del potere pubblico – assicura la congruità del bilanciamento, in riferimento agli evocati parametri, tra il diritto degli avvocati di astensione collettiva e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, di cui all’art. 1 della legge n. 146 del 1990, per la protezione dei quali devono essere erogate in ogni caso le prestazioni indispensabili. La Corte conclude quindi per la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità prospettate dal remittente.
Il 21 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 20 in tema di bilanciamento tra diritto d’accesso civico e diritto alla riservatezza dei dirigenti pubblici. Anzitutto viene ribadito quanto la Corte (segnatamente, con sentenza n. 269 del 2017) ha già in passato rilevato onde i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima – la Carta dei Diritti Fondamentali UE – costituisce pertanto «parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale»; sicché, fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della relativa conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della relativa compatibilità con la CDFUE; in tali casi – fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 – va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes della Corte costituzionale, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale medesima giudica alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato; un orientamento che va confermato anche nel caso di specie, nel quale principi e diritti fondamentali enunciati dalla CDFUE intersecano, come meglio si chiarirà, principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Peraltro, tra i parametri interposti rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., vengono evocati, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti in particolare dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, e ciò non induce la Corte a modificare l’orientamento ricordato, i principi previsti dalla ridetta Direttiva presentandosi, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella «Spiegazione relativa all’art.8 – Protezione dei dati di carattere personale», che «[q]uesto articolo è stato fondato sull’articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull’articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all’esercizio del diritto alla protezione dei dati personali». La disciplina legislativa censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato; da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti: un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza della Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente; nell’epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a relativa protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali; si tratta dei noti principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul pertinente diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati. Dall’altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017) e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e controlla; principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del resto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013; nel diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE). I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall’altro, proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare; non erra, pertanto, il giudice a quo quando segnala la peculiarità dell’esame cui deve essere soggetta la disciplina legislativa che egli si trova ad applicare, e quando sottolinea che tale esame va condotto dalla Corte costituzionale. La “prima parola” che la Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco; resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana generando, del resto, ed in generale, un concorso di rimedi giurisdizionali, con conseguente arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, con esclusione di ogni preclusione; la Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale; ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità – di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 – che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti. La Corte ribadisce di avere sempre la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018); nel caso di specie, essa ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza. Si è in presenza, in particolare, di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni. In valutazioni di tale natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014), nella specifica materia in oggetto, del resto, anche la giurisprudenza europea seguendo le medesime coordinate interpretative. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti (sentenze 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri, e 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert); nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali (punto 85). La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha – del resto – influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in materia di protezione dei dati personali, concluso con l’emanazione di un unico corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n. 2016/679/UE, divenuto efficace successivamente ai fatti dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, ma tenuto in debita considerazione dal giudice a quo, che detta le regole fondamentali per il trattamento dei dati personali, nozione che include anche la trasmissione, la diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione dei dati (art. 4, comma 1, numero 2); i principi che devono governare il trattamento sono sanciti – in particolare – nell’art. 5, comma 1, del citato regolamento (che contiene una disciplina sostanzialmente sovrapponibile a quella delineata dall’art. 6 della ricordata direttiva 95/46/CE) e, tra di essi, assumono particolare rilievo quelli che consistono: nella limitazione della finalità del trattamento (lettera b) e nella «minimizzazione dei dati», che si traduce nella necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento (lettera c). Ancora, un riferimento al necessario bilanciamento tra diritti si trova nelle premesse al regolamento n. 2016/679/UE (considerando n. 4), ove si legge che «[i]l diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità». In definitiva dunque la disciplina europea, pur riconoscendo un ampio margine di regolazione autonoma e di dettaglio agli Stati membri con riguardo a certe tipologie di trattamento (tra i quali quello connesso, appunto, all’esercizio del diritto di accesso: art. 86 del regolamento), impone loro il principio di proporzionalità del trattamento medesimo che, come accennato, rappresenta il fulcro della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia; in virtù di tutto quanto precede, lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato dai principi di derivazione europea, laddove sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione. Allo stato, secondo la Consulta, il d.lgs. n. 97 del 2016 costituisce il punto d’arrivo del processo evolutivo che ha condotto all’affermazione del principio di trasparenza amministrativa, che consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni; la legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come progressivamente modificata, allo scopo di abbattere il tradizionale schermo del segreto amministrativo, ha disciplinato il diritto di accesso ai documenti amministrativi, costruendolo quale strumento finalizzato alla tutela di colui che ne abbia interesse avverso atti e provvedimenti della pubblica amministrazione incidenti sulla sua sfera soggettiva: viene dunque inaugurato, per non essere più abbandonato, un modello di trasparenza fondato sulla “accessibilità” in cui i dati in possesso della pubblica amministrazione non sono pubblicati, ma sono conoscibili da parte dei soggetti aventi a ciò interesse, attraverso particolari procedure, fondate sulla richiesta di accesso e sull’accoglimento o diniego dell’istanza da parte dell’amministrazione. A tale sistema viene però affiancato, attraverso progressive modifiche normative, un regime di “disponibilità”, in base al quale tutti i dati in possesso della pubblica amministrazione, salvo quelli espressamente esclusi dalla legge, devono essere obbligatoriamente resi pubblici e, dunque, messi a disposizione della generalità dei cittadini; in questa prospettiva, il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) offre una prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche […]» (art. 11, comma 1). Oggetto di tale forma di trasparenza non sono più il procedimento, il provvedimento e i documenti amministrativi, ma le «informazioni» relative all’organizzazione amministrativa e all’impiego delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle retribuzioni dei dirigenti e di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico-amministrativo; un modello confermato dalla successiva legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), con la quale la trasparenza amministrativa viene elevata anche al rango di principio-argine alla diffusione di fenomeni di corruzione; la cosiddetta “legge anticorruzione”, tuttavia – affacciandosi possibili tensioni tra le esigenze di trasparenza, declinata nelle forme della «accessibilità totale», e quelle di tutela della riservatezza delle persone – stabilisce limiti generali alla pubblicazione delle informazioni, che deve infatti avvenire «nel rispetto delle disposizioni in materia […] di protezione dei dati personali» (art. 1, comma 15), e delega il Governo ad adottare un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità (art. 1, comma 35). La delega è stata esercitata con l’approvazione del d.lgs. n. 33 del 2013, il cui art. 1 enumera finalità che riecheggiano quelle già enunciate dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 (contestualmente abrogato): in particolare, l’accessibilità totale alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, sempre con la garanzia della protezione dei dati personali, mira adesso anche allo scopo di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Si giunge, infine, all’approvazione del d.lgs. n. 97 del 2016, ove, pur ribadendosi che la trasparenza è intesa come «accessibilità totale», il legislatore muta il riferimento alle «informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni», sostituendolo con quello ai «dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs. n. 97 del 2016, modificativo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)», la stessa novella estendendo ulteriormente gli scopi perseguiti attraverso il principio di trasparenza, aggiungendovi la finalità di «tutelare i diritti dei cittadini» e «promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa». In base alle disposizioni generali del d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni procedono all’inserimento, nei propri siti istituzionali (in un’apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente»), dei documenti, delle informazioni e dei dati oggetto degli obblighi di pubblicazione, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente e immediatamente, senza autenticazione né identificazione (art. 2, comma 2); uutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e riutilizzarli (art. 3, comma 1); le amministrazioni non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche all’interno della sezione «Amministrazione trasparente» (art. 9). Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali “comuni”, diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (questi ultimi, come tali, sottratti agli obblighi di pubblicazione), comportano perciò la loro diffusione attraverso siti istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web, e anche il loro riutilizzo, nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali. In particolare, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti (art. 7-bis, comma 1). Si tratta perciò di modalità di pubblicazione che privilegiano la più ampia disponibilità dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ivi inclusi quelli personali; di questi ultimi, solo quelli sensibili e giudiziari vengono sottratti alla pubblicazione, in virtù di tale loro delicata qualità, mentre per gli altri dati resta il presidio costituito dall’obbligo, gravante sull’amministrazione di volta in volta interessata, di rendere inintelligibili quelli «non pertinenti», in relazione alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza. Va precisato – chiosa la Corte – che, nel presente giudizio di legittimità costituzionale, è all’esame una disposizione in cui è invece il legislatore ad aver effettuato, ex ante e una volta per tutte, la valutazione circa la pertinenza, rispetto a quelle finalità, della pubblicazione di alcuni dati personali di natura reddituale e patrimoniale concernenti i dirigenti amministrativi e i loro stretti congiunti; lo stesso legislatore ne ha dunque imposto la diffusione, assoggettando, con il censurato comma 1-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, anche i dirigenti all’obbligo di pubblicazione, con le modalità appena descritte, dei dati di cui alle lettere c) ed f) del precedente comma 1, risultando la Corte investita del compito di decidere se, ed eventualmente in quale misura, questa scelta legislativa superi il test di proporzionalità, come più sopra descritto. Nella versione originaria, l’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già imponeva alle amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo ai titolari di incarichi politici di livello statale, regionale e locale. I documenti e le informazioni da pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano): a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo percepiti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982, ossia, per quanto qui d’interesse, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso. I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi. La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione; in tal modo, la totalità della dirigenza amministrativa viene sottratta al regime di pubblicità congegnato dall’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 2013 – che per essi prevedeva la pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque denominati – ed è stata attratta nell’orbita dei ben più pregnanti doveri di trasparenza originariamente riferiti ai soli titolari di incarichi di natura politica. In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013); resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche. Proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; la disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del 2016 già contemplava la pubblicità dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale, proprio per agevolare la possibilità di un controllo diffuso, da parte degli stessi destinatari delle prestazioni e dei servizi erogati dall’amministrazione, posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse pubbliche; il regime di piena conoscibilità di tali dati risulta peraltro proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati, trattandosi infatti di consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti – di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione. Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13 Cost.) evocati dal rimettente, in disparte la stringatezza delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure, non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio la sicurezza o la libertà degli interessati, danneggiandone la dignità personale: si tratta, infatti, dell’ostensione di compensi o rimborsi spese direttamente connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale. Precisa poi la Corte che a diverse conclusioni – e dunque alla pertinente declaratoria di fondatezza della questione sollevata dal giudice a quo e della conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale – deve invece pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali; anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è infatti ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale: si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato e che offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare. Occorre in particolare valutare se e in che misura – al netto di talune operazioni di preventiva scrematura, pure imposte dalla legge – la conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia necessaria e proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza; da questo punto di vista, la disposizione censurata non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano, violando perciò l’art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca l’imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso). L’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione; la norma impone la pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (senza considerare coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali (nel parere reso il 3 marzo 2016 sullo schema di decreto legislativo che, successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha introdotto la disposizione censurata); non erra allora il giudice rimettente laddove, considerata tale massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza. La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a determinati fini (nel nostro caso particolare, ai fini di informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini, sotto questo profilo, la disposizione in esame finendo per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del 2013). Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione; tutt’al contrario, la stessa autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti. Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare poi il carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici; l’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità. Si tratta di un rischio peraltro evidenziato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati personali dovuto all’automatizzazione, la Corte EDU si è soffermata sulla stretta relazione esistente tra tutela della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati personali, interpretando anche quest’ultima come tutela dell’autonomia personale da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera, sentenze 16 febbraio 2000, Amann contro Svizzera, e 6 aprile 2010, Flinkkilä e altri contro Finlandia); In una significativa pronuncia (sentenza 8 novembre 2016, Magyar contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati personali per fini di interesse pubblico non può essere ridotto alla “sete di informazioni” sulla vita privata degli altri («The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism»: § 162). Anche sotto il secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test di proporzionalità, configurandosi senz’altro soluzioni alternative a quella prescelta dal legislatore, tante quanti sono i modelli e le tecniche immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte esigenze di riservatezza e trasparenza, entrambe degne di adeguata valorizzazione, ma nessuna delle due passibile di eccessiva compressione. Alcune di tali soluzioni – privilegiate, peraltro, in altri ordinamenti europei – sono state ricordate anche dal giudice rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo competente; quest’ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una disciplina (art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, contenente «Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», e tuttora vigente) che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque, non con le modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate. Non spetta alla Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore; e tuttavia la Corte medesima non può non rilevare sin d’ora – e in attesa di una revisione complessiva della disciplina – che vi è una manifesta sproporzione del congegno normativo approntato rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalità dei titolari d’incarichi dirigenziali. La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati: il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale; eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione. La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio». A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti. Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare. Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti. Non prevedendo invece una consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. Infine, concludono i Giudice delle Leggi, in attesa di un nuovo intervento del legislatore, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore. Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati; tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4); le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente. L’attribuzione a tali dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute. L’intervento della Corte non può che limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata, dei profili di più evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che appaiano, prima facie, indispensabili; appartiene poi alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali. In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Questioni intriganti
Quanti sono i diritti della personalità?
- Esiste un unico ed indifferenziato diritto della personalità, che si manifesta in molti modi, e che consente via via la scoperta di sempre nuove, relative epifanie attraverso la clausola generale ed aperta dell’art. 2 Cost.; ad ogni singola manifestazione del diritto della personalità corrisponde un interesse giuridicamente tutelabile, ma il diritto della personalità resta uno e l’interesse che lo sottende non è la somma, ma la sintesi dei vari interessi (anche quelli ad oggi ancora ignoti) che lo compendiano (teoria monista, preferita dalla giurisprudenza);
- Esistono vari diritti della personalità, siccome espressamente previsti e disciplinati dalla legge, ed eventuali lacune di tutela possono essere colmate per via di interpretazione estensiva o di analogia iuris (teoria pluralista).
Che caratteristiche hanno i diritti della personalità?
- sono assoluti, opponibili erga omnes (compreso lo stesso titolare e portatore, che non può auto-ledere la propria persona);
- sono indisponibili, talvolta in modo assoluto (vita, integrità fisica), talaltra in modo relativo (laddove possa operare la scriminante del consenso dell’avente diritto, art.50 c.p., che deve comunque rispettare il limite della dignità della persona);
- sono intrasmissibili agli eredi (anche se vi è chi ammette una successione particolare, diversa da quella patrimoniale, in capo ai congiunti, in termini di tutela della persona del de cuius);
- sono imprescrittibili, ma si prescrive l’azione di risarcimento del danno in caso di relativa lesione;
- si tratta di caratteristiche tradizionali che vanno tuttavia rimodulate sulla base delle più recenti concezioni del “diritto alla salute”, specie con riguardo alla possibilità di interrompere i trattamenti terapeutici o di alimentazione come ormai previsto dalla legge n.219.17 sul c.d. “biotestamento” e sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT);
Quale tipo di tutela presidia i diritti della personalità?
- la tutela preventiva, inibitoria ovvero ex art.700 c.p.c.;
- la tutela successiva, compensativa, ex art.2043, 2059 e 2058 c.c.
Quale è la disciplina degli atti di disposizione del proprio corpo?
- sono ammessi se non cagionano una diminuzione permanente dell’integrità psico-fisica e se non sono contrari a legge, ordine pubblico e buon costume (art.5 c.c.); anche in questo caso occorre tuttavia tenere conto della recente legge n.219.17 in tema di “biotestamento” e di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT);
- sono validi se riguardano parti del corpo riproducibili (unghie, capelli), ma in caso di assunta obbligazione, essi sono comunque incoercibili;
- sono validi inter vivos – se, gratuiti, operati per spirito di solidarietà e non comportanti una diminuzione permanente dell’integrità corporea – le donazioni di sangue, di midollo osseo, di rene a fini di trapianto (per il rene ex legge 458/67, previa autorizzazione giudiziale); post mortem è invece possibile donare anche gli altri organi (legge 91/99), purché non vi si sia stata in vita espressa dichiarazione contraria e non vi sia l’opposizione dei familiari;
- è dubbio se siano ammessi quando implicano l’intero corpo quale oggetto di disposizione, come nella sterilizzazione a fini contraccentivi o nella sperimentazione farmacologica o medico-chirurgica.
Quali questioni extra-codicistiche involge il nome?
- la qualificazione: a) è oggetto di un interesse dello Stato quale misura di polizia sociale (teoria pubblicistica, ormai abbandonata); b) è oggetto di un diritto di proprietà del titolare (teoria privatistica, ormai recessiva); c) compendia un diritto della personalità quale porzione del patrimonio morale e simbolo che riassume la personalità circolante del portatore (tesi accreditata);
- l’oggetto della eventuale lesione, che si sostanzia: a) nella portata identificativa del nome (viene leso il solo diritto al nome, ingenerando confusione); b) la funzione epidittica o dimostrativa del nome (viene leso, per il tramite del diritto al nome, anche l’onore del titolare);
- le tipologie di possibile usurpazione del nome, che può atteggiarsi: a) in senso stretto (A si attribuisce il nome di B o lo attribuisce a terzi); b) in senso lato (A utilizza in modo anomalo il nome di B, ad esempio lo designa come personaggio di un’opera dell’ingegno, di un film o di uno spettacolo teatrale); c) nulla, quando il nome viene legittimamente usato (atti giudiziali, cronaca giornalistica o altro);
- l’evoluzione: per “nome” ad esempio deve intendersi ormai anche il domaine name.
Quali questioni extra-codicistiche involge il diritto all’immagine?
- la definizione di immagine, quale proiezione palese e concreta della personalità dell’individuo;
- la necessità di integrare la disciplina del codice civile con gli articoli 96 e 97 della legge sul diritto d’autore (e con l’art.21 della legge sui marchi): in particolare l’art.96 disciplina il consenso del titolare, che può essere anche implicito;
- il fatto che il risarcimento del danno (se provato) va garantito per la sola abusiva riproduzione dell’immagine, a prescindere dall’ulteriore danno all’onore, al decoro e alla reputazione del titolare;
Cosa accomuna il diritto all’immagine, quello all’identità personale e quello alla riservatezza?
Questi tre diritti possono tutti trovare un limite, ai sensi dell’art.21 della Costituzione:
- nel diritto di cronaca, quale diritto di raccontare accadimenti reali (narrazione) per mezzo della stampa, in considerazione del relativo interesse per l’opinione pubblica; deve trattarsi di accadimenti veri (anche solo putativamente, purché la fonte sia stata diligentemente accertata), ed esposti in modo civile (continenza) obiettivo e proporzionato allo scopo informativo, facendo sempre riferimento alla dignità della persona di cui si parla;
- nel diritto di critica, quale diritto di esprimere motivati dissensi su opinioni altrui (giudizio), che – involgendo in modo appunto “critico” opinioni di terzi – assorbe dai limiti già propri del diritto di cronaca, in particolare, quello della continenza espositiva e della pertinenza ai fatti oggetto di giudizio rispetto all’interesse pubblico;
- nel diritto di satira, che è un sottoinsieme rispetto al diritto di critica in cui il giudizio viene espresso mediante immagini caricaturali o comunque in maniera comica e paradossale; se quanto ne risulta è apertamente difforme dalla realtà, i limiti tradizionali scemano, mentre se si dà apparente attendibilità, va rispettato soprattutto il limite della verità del fatto oggetto di giudizio satirico.
Cosa compendia il c.d. “prezzo del consenso”?
- si tratta di una voce di danno patrimoniale legata al diritto alla riservatezza (ma anche al diritto all’immagine) che corrisponde al valore di scambio che avrebbe avuto il consenso prestato dal titolare alla pubblicazione di determinate notizie che lo riguardano (ovvero alla pubblicazione della sua immagine), laddove detto consenso fosse stato preventivamente chiesto;
- in sostanza, è un danno da mancato sfruttamento economico delle notizie afferenti alla propria persona (ovvero della propria immagine), che corrisponde ad una società dove il valore di scambio ha ormai quasi del tutto soppiantato il valore d’uso anche di beni intimamente connessi alla persona umana;
- secondo la dottrina peraltro la cessione di notizie private può considerarsi lecita solo se il cedente è persona nota, che monetizza la mancata stipulazione di un contratto vantaggioso.
Quali questione pone la lesione dei diritti fondamentali dell’Ente, stante la relativa assenza di fisicità?
- una questione storica: fino agli anni 90 si è ritenuto che per diritti fondamentali della “persona” dovessero intendersi solo quelli della persona fisica a cagione del coefficiente psicologico ad essi ascritto in modo quasi consustanziale; solo quando, sul crinale patologico, si è superata la concezione del danno “personale” come mera pecunia doloris, ritenendo il danno morale solo una possibile voce di danno non patrimoniale, si è iniziato a configurare un danno da lesione di diritti fondamentali dell’ente, con particolare riferimento all’onore, alla reputazione, all’immagine (anche commerciale);
- una questione di generale limitazione dell’oggetto: a parte i casi tipici di danno ambientale e di danno da irragionevole durata del processo, si tratta fondamentalmente della lesione del diritto all’immagine e alla reputazione dell’ente, con conseguente diminuzione della considerazione per l’ente stesso e per le persone fisiche che vi agiscono; ciò, nel caso in cui si tratta di ente pubblico, implica anche una possibile responsabilità di tipo amministrativo laddove la lesione del diritto all’immagine ed il conseguente danno siano attribuibili ad un dipendente (pubblico); il danno va liquidato in via equitativa ex art.1226 c.c., ma con riguardo a taluni indici quali la gravità oggettiva del fatto, la diffusività presso la collettività, l’entità della tangente percepita, l’appostamento di apposite spese per “raddrizzare” l’immagine dell’ente incrinata, la riduzione del senso di legalità presso i cittadini;
- una questione commercialistica specifica di lesione della reputazione economica dell’ente che può derivare: a) da un atto di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.; b) da un più generico fatto illecito ex art.2043 c.c.. In questo settore si parla di discredito per l’impresa e di denigrazione per i relativi prodotti, con riguardo ai quali ultimi è da ricordare la giurisprudenza sui c.d. Warentests, ovvero dei servizi giornalistici che presuppongono (implicitamente) o diffondono (direttamente) delle informazioni che riguardano prodotti tra loro fungibili, con particolare riguardo agli esiti di verifiche comparative tra i prodotti stessi: qui la prudenza del giornalista (specie televisivo) deve essere molto elevata dovendosi egli limitare a notizie (oltre che vere, di interesse pubblico ed espresse con continenza) assunte attraverso l’ausilio di esperti che utilizzino metodi rigorosi e attendibili, e successivamente verificate in via ulteriore dal giornalista stesso.