<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>I diritti fondamentali, per essere intimamente legati alla persona umana ed alla relativa dignità, sottendono interessi che debbono (non possono non) essere tutelati dal sistema; si tratta di un catalogo di situazioni giuridiche non preventivamente definibili e via via emergenti nel corso del tempo, pur presentando il minimo comun denominatore suindicato, che ne riconduce la categoria “mobile” e “dinamica” a sostanziale unità di fondo. La relativa tutela – garantita anche a livello internazionale e sovranazionale - fa però sempre i conti, nel concreto, con la presenza di collettività organizzate e di interessi “</em>altri<em>” il cui presidio va contemperato rispetto a quello del portatore di ogni diritto fondamentale, come plasticamente palesa l’art.32 della Costituzione laddove affianca il diritto (alla salute) dell’individuo all’omologo, fondamentale interesse (alla salute) della collettività, ma anche l’art.8 del codice civile, laddove ragioni familiari legittimano l’azione a tutela del nome anche di soggetti diversi dal relativo portatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong></p> <p style="text-align: justify;">Non viene prevista una specifica disciplina per i diritti della persona, o diritti umani; all’art. 1 (e per lo straniero all’art.3) si fa solo un generico riferimento ai diritti “<em>civili</em>”. Un accenno – seppure nell’ambito delle norme sulla proprietà – viene fatto all’”<em>appartenenza</em>” delle opere dell’ingegno (art.437) e, dunque, al diritto d’autore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il codice penale punisce all’art.594, con la reclusione, chiunque offenda l’onore (insieme dei valori morali) o il decoro (insieme di condizioni e qualità che concorrono a costituire il valore sociale) di una persona. Si tratta della fattispecie di ingiuria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1941</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 aprile esce la legge n.633 che tutela il diritto d’autore, nei relativi risvolti morali (riconoscibilità come autore di una determinata opera) e patrimoniali (possibilità di sfruttamento economico dell’opera medesima).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">A differenza del codice del 1865, le prime norme del codice civile (segnatamente, gli articoli da 1 a 10) prevedono specifici diritti della persona, quale ad esempio il diritto al nome, all’immagine, all’integrità psico-fisica. Con particolare riguardo a quest’ultima, l’art.5 del codice afferma che gli <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/602.html">atti di disposizione del proprio corpo</a> sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/603.html">integrità fisica</a>, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/604.html">ordine pubblico</a> o al <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/605.html">buon costume</a>. Si tratta di un catalogo di diritti di natura assoluta che, laddove lesi da terzi, implicano diritto al risarcimento del danno patrimoniale (art.2043) e, in caso di reato – come nell’ipotesi della lesione dell’onore e del decoro di una persona ex art.594 c.p. – anche non patrimoniale (art.2059).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che all’art.2 fa esplicito riferimento – riconoscendoli e garantendoli - ai diritti inviolabili nell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; e all’art. 3 afferma la necessità, attraverso l’eguaglianza formale e sostanziale dinanzi alla legge, che questi diritti vengano concretamente attuati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 dicembre l’Assemblea dell’ONU adotta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1950 </strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1953</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 settembre esce la sentenza del Tribunale di Roma sul c.d. caso <em>Caruso</em>: in un film a carattere autobiografico sulla vita del noto tenore, vengono riferiti – senza il consenso dei familiari – episodi e comportamenti della sua vita privata. Il Tribunale afferma che, seppure implicitamente, è previsto nell’ordinamento un diritto alla riservatezza, tutelabile per analogia secondo la disciplina del diritto all’immagine, dovendosi assumere vietata qualsiasi ingerenza estranea nella sfera della vita privata della persona e qualsiasi indiscrezione da parte di terzi su fatti e comportamenti personali che – non pubblici per loro natura – non sono destinati neppure ad essere resi pubblici.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1955</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1956</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 dicembre esce la sentenza della Cassazione n.4487 che conclude la vicenda giudiziaria di cui al caso <em>Caruso</em> e che nega decisamente la configurabilità di un autonomo diritto alla riservatezza affermando che nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia stato sancito come principio generale il rispetto assoluto all’intimità della vita privata e tanto meno come limite alla libertà dell’arte; l’interesse alla riservatezza è tutelabile solo se e quando la conoscenza delle vicende della vita altrui sia stata ottenuta con mezzi di per sé illeciti o che impongano l’obbligo del segreto e, dunque, soprattutto attraverso comportamenti che integrino gli estremi del fatto illecito. Un tema, quello della privacy, che “<em>ben può trovare la sua soluzione senza il bisogno di inventare istituti nuovi, nel precetto generale del "neminem laedere", come specificato per l’appunto nell’art. 2043 c.c.</em>”. In sostanza, per la Corte non esiste un autonomo diritto alla riservatezza, ma se la <em>privacy</em> viene violata può essere chiesto il risarcimento del danno aquiliano, con ciò in qualche modo sottintendendosi che un “<em>diritto</em>” assoluto oggetto di lesione in realtà esiste.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">1958</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 maggio esce la sentenza della Cassazione n.1563, che fa affiorare per la prima volta il diritto all’oblio, pur negandovi tutela rispetto al caso concreto. La Corte parla di “<em>diritto al segreto del disonore</em>”, e dunque di diritto a che, a distanza di tempo dall’accadimento di un dato fatto, esso non venga riproposto al pubblico qualora idoneo a gettare disonore sull’interessato, quantunque tale disonore possa dipendere proprio dal fatto l’interessato a suo tempo ha posto in essere con consapevolezza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1959</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio vengono eletti i componenti della Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 febbraio la Corte EDU tiene la prima seduta, che dura 5 giorni.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1963</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 febbraio esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-26/62) che afferma il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norma interne ai singoli Stati, neppure se posteriori.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile del 1963 esce la sentenza della Cassazione n.990 (caso <em>Petacci</em>) che, facendo perno sull’art.2 della Costituzione, sebbene non riconosca ancora ammissibile il diritto tipico alla riservatezza, assume violativa del diritto assoluto di personalità - inteso quale diritto vantabile <em>erga omnes</em> alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell'uomo come singolo, con chiaro riferimento all’art.2 Cost. - la divulgazione di notizie relative alla vita privata, in assenza di un consenso almeno implicito, ed ove non sussista, per la natura dell'attività svolta dalla persona e del fatto divulgato, un preminente interesse pubblico di conoscenza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1964</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce la sentenza della Corte costituzionale n.14 con la quale, nel noto caso Costa / Enel, si stabilisce che le norme comunitarie hanno il medesimo rango di una fonte interna primaria, dal momento che è con una legge ordinaria che è stata data esecuzione ai Trattati istitutivi della Comunità): questo significa che una legge interna posteriore può derogare ad una norma comunitaria, secondo il criterio cronologico, e dunque in Italia non può dirsi vigente il principio di primazia del diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce la sentenza della Corte costituzionale n.183 che, al fine di garantire il primato del diritto comunitario rispetto all’ordinamento interno, afferma che una norma interna previgente viene implicitamente abrogata dalla norma comunitaria successiva, mentre nel caso opposto della norma interna contrastante sopravvenuta, essa è da intendersi incostituzionale e la relativa declaratoria spetta alla Corte costituzionale medesima, previa remissione della relativa questione da parte del giudice italiano remittente, che non può disapplicarla in via automatica.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2129 (caso <em>Soraya Esfandiari</em>) che riconosce la sussistenza nell’ordinamento di un diritto alla riservatezza consistente nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano giustificati da interessi pubblici preminenti. La sentenza è importante anche perché la Corte richiama la CEDU, e in particolare gli articoli 8, paragrafo 1 sul rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, e 10, paragrafo 2, dove è consentito un limite alla libertà di manifestazione del pensiero per proteggere la reputazione o i diritti altrui, ovvero per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1978</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce una sentenza della Corte di Giustizia CEE (C-106/77, caso <em>Simmenthal</em>) che ribadisce il principio della primazia del diritto comunitario, la cui vigenza non può essere derogata da norme interne ai singoli Stati, neppure se posteriori.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1984</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 170 (caso <em>Granital</em>), secondo la quale gli ordinamenti interno e comunitario sono autonomi e distinti, ma tra loro coordinati secondo un principio (non gerarchico, ma) di competenza: questo autorizza il giudice interno a disapplicare in via automatica e diretta una norma interna contrastante con una norma comunitaria immediatamente applicabile (regolamento o direttiva <em>self executing</em>), anche se la norma interna sia sopravvenuta.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1985</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 22 giugno la sentenza della I sezione della Cassazione n.3769, nota come “<em>caso Veronesi</em>”, che riconosce sussistere nell’ordinamento italiano - in quanto riconducibile all’art. 2 cost. e deducibile, per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome - il diritto all’identità personale, che va qualificato quale interesse giuridicamente meritevole di tutela a non veder travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc.. Nella fattispecie, dal testo di un’intervista resa ad un settimanale dal direttore dell’istituto tumori di Milano era stata estrapolata, per poi esser riprodotta in un inserto di pubblicità redazionale, un’affermazione circa la minor nocività di sigarette leggere; sulla base del principio dianzi riportato, è stata confermata la condanna generica di risarcimento del danno a carico della società produttrice delle sigarette reclamizzate, nonché dell’agenzia pubblicitaria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1986</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.1763 che contempera il diritto di cronaca con il diritto all’immagine in un caso in cui la ripresa di uno spettatore, colto in un atteggiamento idoneo a simbolizzare il tifoso sofferente, era stata inserita nella sigla di una trasmissione televisiva; secondo la Corte una ripresa dell'immagine di un tifoso durante una partita di calcio può essere divulgata con la cronaca dell'evento sportivo, anche con la riproduzione a distanza di tempo dell'episodio stesso, al fine di soddisfare il persistente interesse del pubblico a rivedere quell'incontro, ma non può giustificare un'utilizzazione “<em>decontestualizzata</em>” che venga effettuata per scopi diversi e senza alcun collegamento con l'accadimento nel corso del quale è stata fissata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.561 che identifica un diritto alla sessualità quale diritto inviolabile della persona, configurandosi la sessualità come un abito di vita essenziale per l’espressione e lo sviluppo della persona medesima; nel caso di specie, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di tutta una serie di disposizioni nella parte in cui non prevedono un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la nota sentenza della Corte d’appello di Milano sul caso Taylor, riferito allo sfruttamento dell’immagine dell’attrice Liz Taylor (il fotogramma di un film che la ritrae viene usato a scopo pubblicitario) senza averne previamente acquisito il consenso: si tratta della prima sentenza che accenna al c.d. “<em>prezzo del consenso</em>”, come posta di danno patrimoniale da lucro cessante per mancata monetizzazione del consenso allo sfruttamento della propria immagine.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.307 in tema di diritto all’integrità psico-fisica e di trattamento sanitario obbligatorio: il trattamento sanitario deve incontrare il consenso del paziente e può essere imposto (art.32 Cost.) solo quando non incida negativamente sullo stato di salute di chi vi è sottoposto (fatte salve le normali conseguenze insite in ogni intervento sanitario, da assumersi tollerabili); quando, all’opposto, incide negativamente (come nel caso delle malattie contratte a causa di vaccinazione obbligatoria profilattica), il pregiudizio va indennizzato. Si profila il conflitto - collegato alla foggia sia individuale che collettiva del diritto alla salute, ex art.32 Cost. - tra la possibilità per il legislatore di imporre un determinato trattamento sanitario (obbligatorio) finalizzato a salvaguardare la salute della collettività (come proprio nel caso delle vaccinazioni obbligatorie) ed il c.d. diritto del singolo all’autodeterminazione terapeutica, che potrebbe giustificare anche la scelta da parte del paziente (specie se gravemente malato) di non curarsi e dunque, nella sostanza, lasciarsi morire.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.471 che, mutando la propria giurisprudenza, ritiene costituzionalmente illegittimo l’art.696 c.p.c. nella parte in cui non consente di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell’istante, quando sia lui stesso a chiederla a fini probatori del proprio diritto al risarcimento del danno: la pronuncia implicitamente conferma la necessità del consenso del titolare per qualunque atto di disposizione del proprio corpo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4785 che conferma la possibilità di invocare un risarcimento del danno all’immagine, ex art.2043 c.c., allorché il volto di un personaggio noto venga sfruttato a fini pubblicitari senza averne preventivamente ottenuto (a pagamento) il consenso: c.d. prezzo del consenso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 1147 sul caso <em>società Frigodaunia</em>, che si occupa dei rapporti tra diritto di cronaca giornalistica televisiva, possibilità di effettuare test comparativi su merce (c.d. <em>Warentests</em>) e lesione della reputazione economica dell’imprenditore commerciale con particolare riguardo, nel caso di specie, ad una persona giuridica (società), e non ad una persona fisica: secondo la Corte l’attività del giornalista televisivo presuppone un elevato grado di prudenza, e laddove egli divulghi i risultati di un analisi chimica su determinati prodotti alimentari (nel caso di specie, pesce surgelato), diffondendo notizie obiettivamente false in grado di compromettere la commerciabilità dei prodotti analizzati, può sostenere di avere agito in buona fede soltanto se ha provveduto ad effettuare accertamenti orientati a verificare l’attendibilità del risultato pubblicizzato (nel caso di specie il giornalista televisivo ha diffuso i risultati dell’analisi chimica effettuata sui prodotti divisati travisandone il risultato, e ciò ha implicato condanna al risarcimento sia per lui che per la Rai, datore di lavoro).</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio viene firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea (TUE), secondo il quale l’Unione stessa rispetta i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e quelli che risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, considerandoli principi generali del diritto comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 febbraio vede la luce la legge n.210 che prevede, sulla scia di Corte costituzionale n.307/90, un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale secondo la quale – in tema di diritto all’identità personale – viene dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 165 del Regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo sia ormai da ritenersi autonomo segno distintivo proprio della sua identità personale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8081, secondo la quale - in caso di violazione da parte della moglie divorziata del divieto di uso del cognome del marito (art. 5, comma 2, legge 898/70) - quest'ultimo può, ai sensi dell'art. 7 cod. civ., chiedere la cessazione del fatto lesivo ed altresì agire per il risarcimento del danno. Tuttavia, mentre per l'inibitoria è sufficiente che l'attore dimostri, oltre all'uso illegittimo del proprio nome, la mera possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio (il quale può essere, quindi, meramente potenziale ovvero di ordine soltanto morale), senza specifica prova della malafede di chi lo usa, ai fini dell'azione risarcitoria devono sussistere tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano, ex artt. 2043 ss. cod. civ., sicché non solo è necessaria l'esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo, se non ha carattere patrimoniale, è risarcibile, ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., soltanto ove nella condotta dell'indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penalmente sanzionato ed è necessario provare la colpa o il dolo dell’autore dell’illecito.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.978 in tema di diritto all’identità personale nel contesto della quale – assunto l'interesse sociale di uno sceneggiato televisivo sul "<em>caso Rececconi</em>" (noto calciatore della Lazio, ucciso nel 1977 da un gioielliere durante un falso tentativo di rapina ideato per scherzo dalla vittima) – viene respinta la domanda di distruzione del filmato, proposta dal gioielliere e dalla moglie di questi che avevano dedotto ledere esso il loro diritto, appunto, all' identità personale. Secondo la Corte tale diritto, si configura quale diritto soggettivo perfetto, fondato sull' art. 2 Cost. che sottende un interesse di tipo “<em>positivo</em>” alla fedele rappresentazione di sé stessi: l’interesse a non vedere modificato, alterato o comunque offuscato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, per come esso si è già estrinsecato nell’ambiente sociale circostante o per come si presume – da dati univoci ed oggettivi – che esso vi si estrinsecherà. Tale diritto può tuttavia essere limitato in conseguenza dell' esercizio di altri diritti fondamentali, anch' essi costituzionalmente garantiti, con particolare riferimento al diritto di cronaca, tutelato dall' art. 21 Cost., che può liberamente esplicarsi e prevalere su quello all' identità personale, ove ricorrano cumulativamente le seguenti condizioni: a) l' utilità sociale della notizia; b) la verità dei fatti divulgati; c) la forma civile dell' esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 marzo esce un parere della Corte di Giustizia CE che fa registrare una <em>querelle</em> in ordine alla possibilità o meno per la Comunità Europea di aderire alla CEDU.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione in tema di diritto di satira, immagine caricaturale e diffamazione (caso <em>Craxi</em>), con la quale viene riconosciuta la illiceità di una vignetta satirica che ritrae un noto personaggio politico perché, unitamente al titolo di un contestuale servizio giornalistico coinvolgente il medesimo personaggio, viene assunta diffamatoria.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 dicembre viene varata la legge n. 675 sul trattamento dei dati personali (<em>privacy</em>), che suggella il passaggio da una concezione proprietaria della riservatezza ad un’altra più al passo con l’avanzare delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i cui effetti sociali impongono di considerare i dati personali, più che qualcosa di “<em>proprio</em>”, qualcosa di “<em>controllabile</em>” (aggiornamento, integrazione, cancellazione), nell’ottica di una democrazia diffusa. Di rilievo la invocabilità del danno patrimoniale ai sensi dell’art.2050 c.c. (il trattamento di dati è considerato esercizio di attività pericolosa) e quello non patrimoniale ai sensi dell’art. 2043 c.c.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.9705 che richiede, ai fini dell’intervento chirurgico, che il medico ottenga preventivamente il consenso esplicito, specifico e consapevole del paziente (c.d. consenso informato).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3679 che prende in considerazione un nuovo profilo del diritto di riservatezza, recentemente definito anche come diritto all’oblio, inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata, salvo che per eventi sopravvenuti il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 13563 in tema di diritto di satira, che precisa che i fatti oggetto della satira per sottrarsi ai limiti del diritto di cronaca (verità, interesse pubblico, continenza) vanno espressi in modo apertamente difforme dalla realtà, dovendosi invece ritenere sottoposti a tali limiti ove propalati in modo apparentemente attendibile, con particolare riguardo al limite della verità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 e 4 giugno, durante il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Consiglio_europeo">Consiglio europeo</a> di <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Colonia_(Germania)">Colonia</a>, emerge la necessità di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza che siano garantiti a tutti i cittadini dell'Unione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 novembre entra in vigore la legge costituzionale n.2 che riscrive l’art.111 Cost. e prevede esplicitamente che l’Italia garantisce la ragionevole durata del processo, secondo i dettami dell’art.6, par.1, della CEDU.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 febbraio esce una pronuncia del Tribunale di Roma, sezione XI (giudice Schettini) che – partendo dal diritto a diventare genitori (interesse giuridicamente rilevante) – assume valido il contratto atipico di sostituzione di maternità (c.d. fecondazione artificiale eterologa) se il contratto ha oggetto determinato e non sia previsto corrispettivo per la donna che mette a disposizione l’utero per la gestazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2367 importante in tema di diritti fondamentali delle persone giuridiche e di relativa lesione: dopo aver ribadito le tre condizioni utili al fine di invocare l’esimente del diritto di cronaca (verità oggettiva, “pertinenza” ovvero interesse pubblico alla notizia, continenza), la Corte afferma che danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni non coincidenti: il primo (cerchio grande) comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sibbene di riparazione, mentre il secondo (cerchio piccolo) consiste nella c.d. <em>pecunia doloris</em>. Dalla distinzione tra danno non patrimoniale e danno morale discende che, comprendendo il primo anche gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 maggio esce la sentenza della Corte EDU sul caso <em>soc. Belvedere Alberghiera / Italia</em>, che muove dal presupposto onde non occorre, in astratto, verificare se nell’ordinamento italiano un istituto di pura creazione giurisprudenziale, come l’occupazione appropriativa, assuma una configurazione assimilabile a quella di una disposizione di legge per acclararne il conflitto con la CEDU, essendo sufficiente in proposito prendere atto di come la giurisprudenza sviluppatasi in materia abbia condotto ad applicazioni contraddittorie, ventilando per ciò solo – in concreto – risultati arbitrari ed imprevedibili, tali da privare gli interessati (ablati) di una tutela efficace dei relativi diritti e da porsi per tale via in frizione con il principio di legalità, convenzionalmente inteso, fissato all’art.1, Protocollo 1, alla CEDU. Peraltro, soggiunge la Corte, attraverso l’occupazione appropriativa la PA si avvantaggia di una situazione illegittima, e specie laddove esclude la restituzione del bene al privato ablato nonostante l’annullamento in sede giurisdizionale degli atti dell’espropriazione illegittima, si pone ancora una volta in contrasto con il principio di legalità siccome tracciato dalla Convenzione e dal relativo I Protocollo addizionale. Infine, la Corte afferma che l’occupazione appropriativa corrisponde ad uno spossessamento del privato proprietario senza titolo, e non già ad una espropriazione cui difetti soltanto il pagamento di un’equa indennità per poterla considerare legittima: da ciò discende per la Corte che – in applicazione dell’art.41 della CEDU – la migliore forma di riparazione per il privato ablato è costituita dalla restituzione del bene da parte della PA, oltre al risarcimento dei danni (assumendo l’equa indennità mero valore recessivo). Si tratta di una pronuncia della Corte che investe, più che un caso di occupazione appropriativa, una ipotesi di c.d. occupazione usurpativa, a cagione dell’annullamento del progetto di opera pubblica in sede giurisdizionale e di conseguente venir meno (col progetto medesimo) della dichiarazione di pubblica utilità fondante la procedura espropriativa: laddove tuttavia la Corte stigmatizza il contegno dello Stato italiano che ha denegato al privato la restituzione del bene ablato, la dottrina vede già con riguardo a questa sentenza l’affermazione di principi applicabili alla ipotesi (meno grave) dell’occupazione appropriativa pura. In quel medesimo 30 maggio esce la coeva ed omologa sentenza della Corte EDU sul <em>caso Carbonara e Ventura / Italia</em>, che dichiara ancora una volta l’occupazione appropriativa o espropriazione indiretta in frizione con il primo Protocollo Addizionale alla CEDU in tema di tutela della proprietà privata, con le medesime argomentazioni di cui al caso Belvedere Alberghiera. Si muove dal difetto di precise disposizioni normative a disciplinare l’occupazione appropriativa, e da un diritto vivente della Cassazione italiana incompatibile con il principio di legalità di cui alla CEDU per avere esso dato luogo ad applicazioni contraddittorie e tali da non rispettare quella esigenza di principi accessibili, precisi e prevedibili che soli possono dirsi idonei a garantire ai privati proprietari interessati una efficace tutela dei relativi diritti, con l’aggravante onde la PA si avvantaggia di una situazione si sostanziale illegalità per acquisire la proprietà del bene. La sentenza si occupa anche della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno in caso di occupazione appropriativa: il momento in cui avviene la irreversibile trasformazione del fondo appare non individuabile con sufficienti margini di esattezza, finendo col rendere incerto lo stesso <em>dies</em> dal quale decorre appunto il termine prescrizionale, e da questo punto di vista la Corte EDU si pone in contrasto con le acquisizioni della Corte costituzionale di cui alla sentenza 188.95, che aveva invece assunto costituzionalmente legittima la configurazione del <em>dies a quo</em> per il decorso del termine prescrizionale, affidata alla ragionevole discrezionalità del legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 ottobre esce la sentenza della Corte EDU nel caso <em>Kudla c. Polonia</em>: già il fatto che lo Stato resti inerte e non preveda un rimedio interno atto a garantire al danneggiato la riparazione per la irragionevole durata del processo implica violazione della CEDU, dal momento che l’art.13 della stessa CEDU garantisce un rimedio nazionale a qualunque persona sia stata lesa nei relativi diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 dicembre viene proclamata per la prima volta a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 marzo esce la legge n.127 che delega il Governo ad emanare un testo unico in materia di trattamento dei dati personali.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.7027 che, con riguardo a trattamento chirurgico e consenso del paziente, assume che il medico può intervenire senza consenso solo laddove il paziente sia incosciente, valorizzando il principio dello stato di necessità (pericolo attuale di un danno grave alla persona).</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre viene pubblicata la legge costituzionale n.3 che, tra le altre cose, modifica il testo dell’art.117 della Costituzione: la potestà legislativa deve essere esercitata:</p> <ul style="text-align: justify;"> <li>nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario: il che fa dire a parte della dottrina che la frizione di una norma interna con una norma comunitaria comporta (nuovamente) vizio di costituzionalità e competenza alla relativa declaratoria solo della Corte costituzionale (previa remissione della relativa questione di legittimità costituzionale);</li> <li>nel rispetto dei vincoli derivanti dai Trattati internazionali, e dunque anche dalla CEDU.</li> </ul> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione che inaugura il proprio orientamento in tema di pubblicazione dell’interrogazione parlamentare diffamatoria e diritto all’onore: si parte dal presupposto che esiste una disciplina pubblicistica delle interrogazioni – quali atti ispettivi del Parlamento rispetto al Governo – e che esiste un interesse pubblico a conoscere il testo sia dell’interrogazione del parlamentare che della risposta del Governo; muovendo da questa premessa, deve quindi ritenersi costituire legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità per danni, la pubblicazione di un’interrogazione parlamentare il cui contenuto sia diffamatorio: nel quale caso il requisito della verità del fatto, è da intendere rispettato solo se corrisponda al vero la riproduzione del testo dell’interrogazione medesima, integralmente o per riassunto, priva essendo di rilievo, agli stessi fini, l’eventuale falsità del suo contenuto (che il giornalista non ha il dovere di verificare). La legittimità del diritto di cronaca in tale modo esercitato presuppone che il giornalista riproduca l’interrogazione parlamentare “<em>asetticamente</em>”, ossia in forma impersonale ed oggettiva, a modo di “<em>semplice testimone</em>”; se invece, abbandonando la posizione di imparziale narratore del fatto-interrogazione, dimostri, con commenti o altro, di approvare o di aderire, comunque, al suo contenuto diffamatorio, non potrà che farsi applicazione della regola generale che presiede all’esercizio del diritto di cronaca dovendo allora il giornalista provare, per andare esente da responsabilità, la verità intrinseca del fatto riferito, l’interesse pubblico alla relativa conoscenza, la correttezza formale dell’esposizione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.11573 che si occupa del danno non patrimoniale alla persona giuridica in caso di c.d. Legge Pinto, affermandolo in astratto configurabile (anche se non nel caso di specie) proprio per lesione di diritti fondamentali dell’ente: tale danno (non patrimoniale) non trova definizione nella legge n. 89 del 2001, e nemmeno nel codice civile, il quale si limita a contemplarne la risarcibilità nei casi espressamente previsti (art. 2059), e, pertanto, va identificato con stretta aderenza al valore letterale della relativa espressione, comprendendo tutti gli effetti pregiudizievoli che non tocchino il patrimonio e che non siano suscettibili di un apprezzamento di mercato, includendo dunque tanto il danno morale, consistente in sofferenze, turbamenti, menomazioni dell’equilibrio psichico, quanto il danno che, pur non coinvolgendo la sfera dei sentimenti, degli affetti e della psiche, né comportando un nocumento riscontrabile in termini monetari, si evidenzi come compromissione di posizioni soggettive, parimenti tutelate, quali sono i diritti immateriali della personalità. La persona giuridica, prosegue la Corte, per sua natura non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione, sicché l’irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica alla condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente od indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d’incertezza connessa alla pendenza della causa. La Corte conclude nel senso che - rispetto alle controversie con oggetto esclusivamente economico – il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui anch’essa è portatrice.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il decreto legislativo n.196 che, raccogliendo la delega conferita al Governo dal Parlamento con legge n.127/01, introduce il codice in materia di protezione dei dati personali, che detta una disciplina più ampia e più specifica in materia di diritto alla privacy.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 ottobre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso <em>Belvedere Alberghiera / Italia</em>, che fa applicazione questa volta dell’art.41 della CEDU, onde “<em>se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa</em>”. Nel caso di specie, in difetto di intervenuta restituzione dell’immobile al legittimo proprietario privato, la Corte EDU quantifica l’equa soddisfazione dovuta al medesimo. La società Belvedere Alberghiera aveva infatti insistito nella richiesta della <em>restitutio in integrum</em>, ma la Corte, stante la evidente impossibilità sul piano pratico di provvedervi direttamente essa stessa - e muovendo dall’assunto onde, se il diritto italiano non permette o non permette perfettamente di eliminare le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte medesima ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che le sembri più appropriata - opta per il risarcimento del danno in assenza di restituzione del bene; peraltro, l’illegalità dello spossessamento del privato ablato induce la Corte a quantificare tale indennizzo in misura corrispondente al valore del bene non già alla data della relativa occupazione illegittima, ma al pertinente valore attuale, valore cui vanno aggiunte ulteriori somme a titolo di mancato godimento del terreno a decorrere dallo spossessamento, di deprezzamento dell’immobile, di mancato guadagno nell’attività dell’albergatore dal 1987 al 2032 (con una proiezione futura del mancato guadagno di 45 anni rispetto alla data dell’occupazione). Sempre la Corte EDU condanna nel caso di specie lo Stato italiano al risarcimento del danno morale (richiesto nel caso di specie dalla società ricorrente in 30 mila euro in caso di <em>restitutio in integrum</em>, e in 100 mila euro in caso di mancata <em>restitutio in integrum,</em> e concretamente riconosciuto dalla Corte secondo equità in 25 mila euro) motivando in ordine al riconoscimento del danno morale con un richiamo al caso Comingersoll c. Portogallo, n. 35382/97, a giustificazione dell’estensibilità alle persone giuridiche della riparazione pecuniaria del pregiudizio morale.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 dicembre esce la sentenza della Corte EDU resa ancora una volta sul caso <em>Carbonara e Ventura / Italia</em>, che anche qui fa (ormai) applicazione dell’art.41 della CEDU nel pertinente caso di occupazione appropriativa (accessione invertita o espropriazione indiretta) e di connessa violazione dell'articolo 1 del Protocollo addizionale n. 1 sul diritto di proprietà: stante la mancata restituzione dell’area acquisita illegalmente dall’Amministrazione e proprio a motivo dell’illiceità di tale acquisizione, l'indennizzo a carico dello Stato italiano deve necessariamente riflettere il valore pieno ed integrale del bene. Più in specie, la Corte afferma che la liquidazione del danno materiale arrecato al privato a seguito di un’illegittimità nella procedura espropriativa non deve limitarsi al valore che la proprietà ablata aveva alla data (remota) della relativa occupazione, dovendosi rapportare il detto valore del bene allo stato attuale in cui esso si trova, tenendo conto anche delle eventuali potenzialità di sviluppo urbanistico del suolo di che trattasi, e dunque dei relativi, attuali valori di mercato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 febbraio esce la legge n.40 che vieta la fecondazione artificiale eterologa (c.d. “<em>utero in affitto</em>”) ed ammette solo quella omologa (articolo 4, comma 3).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.8291 sul caso <em>Englaro</em>, ove si affronta per la prima volta la questione dell’eutanasia in un caso nel quale il padre, in qualità di tutore della figlia interdetta, aveva proposto ricorso per cassazione avverso il decreto della corte d’appello con cui, in sede di reclamo, era stata rigettata la sua istanza di autorizzazione alle interruzione delle cure di alimentazione artificiale della figlia medesima in stato vegetativo permanente irreversibile per effetto di un trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale occorso nel 1992. La questione concerne in particolare i limiti all’intervento del tutore (rappresentante legale) quando il soggetto in stato vegetativo non sia, appunto, in condizioni di intendere e di volere e parte dala natura di diritto personalissimo del diritto alla salute: rifiutare le cure è un scelta squisitamente soggettiva, che parte dalle proprie convinzioni etico-religiose e che dunque ha addentellati extra-giuridici. Il tutore svolge un ufficio di diritto privato e non può in modo incondizionato scegliere per l’incapace tra la vita e il lasciarsi morire; il consenso che egli esprime ai medici soffre un doppio limite: a) agire nell’esclusivo interesse dell’incapace (<em>best interest</em>), come imposto dall’art.6 della Convenzione di Oviedo; b) decidere non in sostituzione dell’incapace, ma con l’incapace, avendo sempre a preciso parametro la dignità della relativa persona e tenendo conto dei relativi desiderata, del suo stile di vita, delle sue convinzioni etiche e religiose palesati da adulto anteriormente all’insorgere della causa dell’incapacità, come imposto dall’art.5 del decreto legislativo n.211/03, che si occupa di sperimentazione clinica e che richiede il consenso del rappresentante legale fondato sulla presunta volontà dell’adulto incapace che quegli rappresenta.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno esce la sentenza della Corte EDU sul caso <em>Bosphorus Hava Yollari Turizm Ve Ticaret Anonim Sirketi c. Irlanda</em> che vara – in tema di tutela dei diritti convenzionali - il c.d. meccanismo di presunzione basato sull’equivalenza onde gli Stati restano responsabili ai sensi della Cedu per le misure adottate per dare osservanza ai propri obblighi internazionali, anche quando tali obblighi discendono dall’appartenenza a un’organizzazione internazionale cui hanno trasferito parte della propria sovranità, compresa come è ovvio l’Unione europea. Simili misure sono giustificate quando l’organizzazione in questione protegge i diritti fondamentali, con riguardo sia alle garanzie sostanziali assicurate che ai meccanismi per il controllo della relativa osservanza, in maniera che possa essere considerata almeno equivalente - ovverosia non identica, bensì “<em>comparabile</em>” - a quella garantita dalla Cedu. In sostanza, se si ritiene che una siffatta protezione equivalente sia assicurata (per esempio, dall’Unione europea), varrà la presunzione che uno Stato non si sia sottratto agli obblighi della Cedu quando si limita con dette misure a dare esecuzione agli obblighi derivanti da simile organizzazione internazionale cui ha aderito. Per la Corte EDU detta presunzione può tuttavia essere ribaltata se, nelle circostanze del caso concreto, si ritenga che la protezione dei diritti garantiti dalla Cedu sia rimasta manifestamente carente. Tale presunzione inoltre vale subordinatamente alla duplice condizione: a) che le autorità nazionali non godano di alcun margine di apprezzamento in ordine alle modalità di esecuzione o attuazione degli obblighi internazionali di protezione “<em>equivalente</em>” dei diritti convenzionali; b) che sia stato in concreto possibile lo spiegamento dell’intero potenziale dei meccanismi di controllo previsti dal diritto europeo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.271 che, vagliando la legittimità di una legge regionale (Emilia Romagna), afferma che le norme statali in materia di protezione dei dati personali si pongono come limite invalicabile per le Regioni: non si è più al cospetto di una “<em>proprietà</em>” della privacy come diritto ad essere lasciati soli, quanto piuttosto di un diritto all’autodeterminazione informativa, da intendersi quale potere di controllo del titolare sulle informazioni che lo riguardano, che si estrinseca in tutta una serie di diritti (possibilità di accedere ai dati, di chiederne integrazione e/o aggiornamento ovvero la cancellazione).</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 ottobre esce la legge n.229 che detta disposizioni a tutela dell’integrità psico-fisica ed in particolare in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione che inaugura l’orientamento pretorio sul c.d. diritto di cronaca giudiziaria: può considerarsi lecito divulgare, a mezzo stampa, notizie lesive dell’onore e della reputazione senza la necessità per il cronista di previa verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni in quanto ciò che conta, nel caso di cronaca giudiziaria, è l’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza del fatto narrato, essendo sufficiente verificare le seguenti condizioni: la verità (oggettiva o anche soltanto putativa) della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (c.d. continenza). La verità dei fatti dev’essere controllata dal giornalista non solo con riferimento all’attendibilità della fonte della notizia, ma anche con un lavoro di accertamento e di rispetto della verità sostanziale dei fatti. Più nel dettaglio tuttavia, e nell’ambito della cronaca giudiziaria il diritto-dovere del giornalista di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati, non può passare attraverso il controllo della verità del fatto dichiarato o dell’attendibilità del dichiarante e ciò in quanto richiedere al giornalista di controllare la verità delle dichiarazioni rilasciate in sede giudiziaria significherebbe pretendere dallo stesso l’onere di indagini analoghe a quelle giudiziarie, così creando le premesse per impedire o rendere assolutamente disagevole la cronaca giudiziaria, poiché solo all’esito della sentenza definitiva potrebbe considerarsi la verità delle dichiarazioni rese; onde con riferimento alla cronaca giudiziaria la Corte enuncia il principio secondo cui il criterio della verità sostanziale della notizia – condizione affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore e della reputazione possa considerarsi espressione del lecito diritto di cronaca – non riguarda il contenuto della dichiarazione e l’attendibilità del dichiarante, la "<em>verità</em>" dovendo intendersi piuttosto riferita al (solo) fatto rappresentato e cioè al fatto che vi sia stata effettivamente quella dichiarazione in sede giudiziaria, con indicazione del contesto giudiziario nel quale è stata resa, se ciò è necessario per fornire completezza di informazione al lettore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Roma sul caso Welby in tema di diritto all’autodeterminazione terapeutica: anche a volerne ammettere l’esistenza (diritto alla consapevole ed informata autodeterminazione in ordine alla scelta della terapia cui sottoporsi, compresa la possibilità di interrompere la terapia salvavita), si tratta di un diritto non concretamente esercitabile perché non vi sono norme che ne disciplinino l’esercizio, in rapporto al c.d. accanimento terapeutico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12929 in tema di lesione di diritti fondamentali di una persona giuridica e di conseguente risarcimento del danno non patrimoniale, in particolare, all’immagine: secondo la Corte poiché anche nei confronti della persona giuridica (ed in genere dell’ente collettivo) è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o del’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e tra tali diritti rientra appunto l’immagine della persona giuridica o dell’ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile (oltre ovviamente al danno patrimoniale), se verificatosi, e se dimostrato, anche il danno non patrimoniale costituito - come danno c.d. conseguenza - dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, nel che si esprime la relativa immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cassazione n.12929/2007). Ne discende che anche le persone giuridiche - tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, quali un Comune - possono essere lese in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l’assenza di fisicità, quali i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale e personale, che nel caso di specie si compendia peraltro in un danno da illecito contrattuale (inadempimento a contratto di appalto).</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.21748 sul caso <em>Englaro</em>: la salute non è più semplice “<em>assenza di malattia</em>”, ma stato di completo benessere psico-fisico, ed è questo il reale oggetto del diritto alla salute; da questo punto di vista, che è fondamentalmente soggettivo e passa per l’esperienza e le percezioni del singolo paziente, il suo diritto alla autodeterminazione terapeutica non incontra limiti, anche quando da esso consegua il sacrificio del bene della vita. La Corte nell’occasione ribadisce il principio personalistico che anima la nostra Costituzione: la persona umana è valore etico in sé ed ogni intervento solidaristico e sociale è in funzione di essa, non potendo strumentalizzarla per fini eteronomi; il “<em>rispetto della persona umana</em>” è tarato sul singolo individuo e sul proprio fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche, che ne orientano la volontà e le scelte. Da questo punto di vista il rifiuto terapeutico non va visto in senso positivo, come un volere la morte (eutanasia), quanto piuttosto in senso negativo, come un non volere essere curati, e quindi nel lasciar fare la malattia, sulla scorta di una scelta personalistica consapevole, informata, autentica ed attuale (il soggetto capace di intendere e di volere, dispone del bene salute, non del bene vita); quando il consenso del malato viene meno, cessa anche l’obbligo giuridico per il medico di praticare o continuare la terapia, dovendo egli rispettare la volontà della persona del paziente, e non incorrendo in responsabilità proprio in forza di quella sorta di novazione dell’obbligo per cui al pregresso obbligo di curare si sovrappone (in difetto del consenso del paziente) il “<em>nuovo</em>” obbligo di non curare o interrompere la cura. La pronuncia torna poi sui limiti del potere del tutore di prestare il proprio consenso all’interruzione della terapia in rappresentanza dell’incapace, partendo dal principio della pluralità dei valori che connota il nostro ordinamento costituzionale e dal principio di autodeterminazione e di libertà di scelta che connota il rapporto medico-paziente: quest’ultimo, ormai in stato vegetativo, può aver espresso quando era ancora capace di intendere e di volere la propria concezione che lega la dignità della propria persona e la rappresentazione di sé sulla quale costruisce la sua esistenza alla “<em>vita di esperienza</em>” e, quindi, alla “<em>coscienza</em>”, assumendosi contrario a (far sopravvivere il corpo alla mente attraverso le terapie, e dunque) a protrarre la vita indefinitamente ove si fosse venuto a trovare in una condizione, per l’appunto, vegetativa; il tutore è chiamato a ricostruire la decisione ipotetica che l’interdetto assumerebbe se fosse capace di intendere e di volere, esprimendo non un proprio giudizio, ma il giudizio che presuntivamente esprimerebbe il paziente dinanzi ad una situazione in cui, sulla base di un rigoroso apprezzamento clinico, lo stato vegetativo sia irreversibile e non sussista alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici anche internazionali, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, benché flebile, recupero della coscienza: si tratta di un caso estremo in cui il potere di rappresentanza del tutore, orientato a tutelare la vita del rappresentato, gli consente di prestare il consenso alla interruzione delle cure onde consentire al rappresentato medesimo di esercitare il proprio “<em>diritto alla salute</em>”, siccome qui inteso dalla Cassazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 ottobre vengono pubblicate le sentenze n.348 e 349 della Corte costituzionale, secondo le quali in primo luogo le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, costituiscono parametro di costituzionalità delle leggi ordinarie (in virtù dell’art.117 Cost.), purché a loro volta non contrastino con una norma costituzionale. Ciò perché la modifica dell’art.117 della Costituzione ed il relativo richiamo, a partire dal 2001, ai trattati internazionali, implica che una norma di legge ordinaria che violi un qualunque trattato internazionale, e quindi anche la CEDU, deve ormai considerarsi incostituzionale (prima la violazione di un trattato implicava incostituzionalità della norma solo in caso di violazione dei trattati internazionali nelle materie di cui agli articoli 10 e 11 Cost.). Sempre secondo la Corte il giudice italiano è da intendersi quale giudice comune della CEDU, dovendo garantirne l’applicazione in ambito interno secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte EDU; il giudice nazionale deve in primo luogo tentare una interpretazione convenzionalmente orientata delle norme interne, e laddove tale operazione non riesca, deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art.117 Cost. (e laddove si tratti di diritti umani protetti già a livello consuetudinario, dell’art.10 Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">L’8 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.23314 in tema di diritto di satira secondo la quale la satira presenta la peculiarità di esprimersi con il paradosso e con la metafora surreale, e ciò la sottrae al parametro della verità rendendola eterogenea rispetto alla cronaca; mentre la cronaca ha la finalità di fornire informazioni su fatti e persone ed è perciò soggetta al vaglio del riscontro storico (verità), la satira assume i connotati dell'inverosimiglianza e dell'iperbole per destare il riso e sferzare il costume. Per questa ragione, mentre l'aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell'onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti, che invece esprimono la ridetta capacità offensiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre viene proclamata una seconda volta a Strasburgo, in versione adattata, la Carta di Nizza da parte di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, che apporta ampie modifiche al <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_sull%27Unione_europea">Trattato sull'Unione europea</a> e al <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_che_istituisce_la_Comunit%C3%A0_europea">Trattato che istituisce la Comunità europea</a>; con la sua entrata in vigore, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1 novellato, del <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_sull%27Unione_europea">Trattato sull'Unione europea</a>, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di Trattati e Protocolli ad essi allegati, come vertice dell'ordinamento dell'<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_europea">Unione europea</a>, con conseguente disapplicabilità delle norme interne contrastanti. I paragrafi 2 e 3 dell’art.6, anch’essi novellati, consentono nella sostanza alla Unione Europea di aderire alla CEDU; quando ciò dovesse accadere (con la procedura di cui al protocollo n.8 annesso al Trattato), i diritti fondamentali CEDU non saranno comunque, secondo l’interpretazione dottrinale, comunitarizzati <em>tout court</em>, ma la relativa tutela verrà considerata quale principio generale del diritto dell’Unione, così come già avviene per le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione che riepiloga le coordinate del c.d. diritto di cronaca giudiziaria: in particolare, quando la notizia diffusa da un giornalista consiste nella cronaca di una dichiarazione resa in sede giudiziaria, non può ritenersi che il giornalista sia tenuto a svolgere specifiche indagini sull'attendibilità del dichiarante poichè tale valutazione riguarda il merito della dichiarazione e la sua rispondenza a verità. Per il giornalista, invece, sussiste solo l'obbligo di accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa e il contesto in cui ciò sia avvenuto, con l’indicazione, in particolare, della fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore o l'ascoltatore possa chiaramente intendere se la dichiarazione abbia già avuto il vaglio processuale da parte del magistrato e se ne dovrà avere altri. Peraltro non può dirsi che se i giornalisti divulgano atti di indagine ovvero il contenuto di un avviso di garanzia o di un’ordinanza di custodia cautelare, essi non potrebbero vantare un diritto di cronaca per il non essere tali atti, all'epoca delle pubblicazioni predette, ancora stati resi pubblici e, pertanto, per essere ancora non divulgabili stante il preciso divieto degli artt. 114 e 329 c.p.p. : secondo la Corte, anche questa tesi non è fondata perché la ridetta segretezza incide semmai sul profilo penale della violazione del segreto istruttorio e non sull'oggetto dello specifico processo civile, che verte sulla dedotta responsabilità per diffamazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 luglio viene pubblicata la sentenza n. 239 della Corte costituzionale che decide la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti. Richiamando il proprio precedente n.349 del 2007, la Corte ribadisce che spetta agli organi giurisdizionali di merito l'eventuale opera interpretativa dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo; solo ove l'adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, la Corte può essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge in relazione all’art.117 Cost..</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 novembre viene pubblicata la sentenza n. 311 della Corte costituzionale, che spiega come l’art.117 Cost. nella nuova versione del 2001 abbia forgiato un rinvio mobile del nostro diritto interno alle norme di diritto internazionale pattizie, con le conseguenze già descritte dalle sentenze 348 e 349 del 2007: il giudice interno non può disapplicare la norma interna contrastante con la CEDU ma – ove fallita l’operazione di relativa interpretazione orientata – deve rimettere alla Corte costituzionale la pertinente questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 dicembre viene pubblicata la sentenza n. 317 della Corte costituzionale con la quale essa dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato; la Corte dichiara di non poter consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela convenzionale inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale: il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti. Nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso per la Corte, come peraltro già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il riferimento primario, ma spetta anche alla Corte nell’esercizio della propria attività interpretativa delle norme costituzionali.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 dicembre entra in vigore il Trattato di Lisbona.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene pubblicata il 2 marzo dal Consiglio di Stato la sentenza della sezione IV n.1220, secondo la quale l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha comportato la diretta applicabilità nell’ordinamento interno della CEDU (c.d. comunitarizzazione della CEDU, oltre che della Carta di Nizza), con possibilità per il giudice italiano di disapplicare le eventuali norme interne contrastanti.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.113 che assume costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 46, par. 1, Cedu, l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.78 che scandaglia la legittimità costituzionale dell’art.2, comma 61 della legge n.10.11 in tema di decorrenza della prescrizione per la ripetizione di interessi anatocistici indebiti: si tratta di una norma con efficacia retroattiva (perché interpretativa) che, secondo la Corte, lede in primo luogo il principio di ragionevolezza delle norme cristallizzato all’art.3 Cost.. Invero, non può dirsi sussistente una incertezza in ordine all’interpretazione dell’art.2935 c.c., neppure <em>ratione materiae</em>, vista la presa di posizione della Cassazione a SSUU che ha fatto riferimento in genere alla chiusura del rapporto contrattuale con la banca e, in specie (apertura di credito), all’eventuale pagamento con natura solutoria. Inoltre, secondo la Corte la disposizione di legge censurata non attribuisce un significato all’art.2935 c.c. tra quelli in astratto possibili (natura interpretativa), ma ha sostanziale natura innovativa in quanto prevede che, limitatamente ai contratti bancari in conto corrente, il diritto può essere fatto valere non dal momento del pagamento, ma dal momento della mera annotazione in conto corrente della singola posta. Peraltro, il correntista può sempre agire per far dichiarare, ai sensi dell’art.1422 c.c. (imprescrittibilità dell’azione di nullità), la nullità del titolo su cui la singola annotazione illegittima si basa e per ottenere la rettifica di tali annotazioni illegittime sul relativo conto: questo conferma che la legge censurata non si è intesa riferire alla prescrizione dei diritti di contestazione cartolare (rettifica ed eliminazione) delle annotazioni a lui sfavorevole, ma proprio al diritto alla ripetizione dell’indebito che, a differenza dell’azione di nullità, proprio ai sensi dell’art. 1422 c.c. è invece esplicitamente soggetta a prescrizione. Peraltro, ad essere violato è lo stesso principio di eguaglianza in quanto il contratto di conto corrente viene reso parzialmente asimmetrico per le parti che ne sono protagoniste, a tutto svantaggio del cliente correntista che si vede ridurre il tempo che ha a disposizione per far valere il proprio diritto alla ripetizione dei non dovuti interessi anatocistici. Inoltre, la Corte assume la norma censurata costituzionalmente illegittima anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost., in relazione all’art.6 della CEDU (norma interposta, come esplicitamente affermato dalle precedenti sentenze della Corte n.348 e 349 del 2007), con particolare riguardo ai principi della preminenza del diritto e del processo equo: è vero che il legislatore – al di fuori della materia penale, per la quale vige l’art.25 della Costituzione – gode di un limitato spazio di intervento in via retroattiva, ma esso deve essere giustificato da motivi di interesse generale; tali motivi di interesse generale vanno valutati dal legislatore nazionale e dalla Corte costituzionale con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento che la Corte EDU riconosce, con la sua giurisprudenza, ai singoli ordinamenti statali. Proprio la non rintracciabilità, nel caso di specie, dei detti motivi di interesse generale sospinge la Corte costituzionale a ritenere illegittima la norma censurata anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost. Infine, la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo per connessione anche il secondo periodo della norma censurata, laddove impedisce la restituzione degli importi già versati dai correntisti alle banche.</p> <p style="text-align: justify;">* Il 6 dicembre esce la sentenza della Corte EDU sul caso <em>Michaud c. Francia</em> che ribadisce – in tema di tutela dei diritti convenzionali - il c.d. meccanismo di presunzione varato nel c.d. caso<em> Bosphorus</em> e basato sull’equivalenza, onde gli Stati restano responsabili ai sensi della Cedu per le misure adottate per dare osservanza ai propri obblighi internazionali, anche quando tali obblighi discendono dall’appartenenza a un’organizzazione internazionale cui hanno trasferito parte della propria sovranità, compresa come è ovvio l’Unione europea. Simili misure sono giustificate quando l’organizzazione in questione protegge i diritti fondamentali, con riguardo sia alle garanzie sostanziali assicurate che ai meccanismi per il controllo della relativa osservanza, in maniera che possa essere considerata almeno equivalente - ovverosia non identica, bensì “<em>comparabile</em>” - a quella garantita dalla Cedu. In sostanza, se si ritiene che una siffatta protezione equivalente sia assicurata (per esempio, dall’Unione europea), varrà la presunzione che uno Stato non si sia sottratto agli obblighi della Cedu quando si limita con dette misure a dare esecuzione agli obblighi derivanti da simile organizzazione internazionale cui ha aderito. Per la Corte EDU detta presunzione può tuttavia essere ribaltata se, nelle circostanze del caso concreto, si ritenga che la protezione dei diritti garantiti dalla Cedu sia rimasta manifestamente carente. Tale presunzione inoltre vale subordinatamente alla duplice condizione: a) che le autorità nazionali non godano di alcun margine di apprezzamento in ordine alle modalità di esecuzione o attuazione degli obblighi internazionali di protezione “<em>equivalente</em>” dei diritti convenzionali; b) che sia stato in concreto possibile lo spiegamento dell’intero potenziale dei meccanismi di controllo previsti dal diritto europeo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza delle SSUU n.14502 che riconosce la situazione soggettiva dello straniero in tema di respingimenti come diritto umano fondamentale ed indegradabile ad interesse legittimo per effetto dell’esercizio del pubblico potere da parte della PA (c.d. diritto “<em>resistente</em>”), ai sensi degli articoli 2, 10, comma 2, e 3 Cost; difetta infatti in seno all’ordinamento il potere di ridurre o di estinguere tale diritto, onde l’atto amministrativo che pretendesse di spiegare un simile effetto degradatorio deve assumersi adottato in carenza di potere; il diritto resta dunque intatto, e la giurisdizione appartiene al GO.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 17 giugno esce la sentenza delle SSUU n.15115 che ribadisce la situazione soggettiva dello straniero in tema di respingimenti atteggiarsi a diritto umano fondamentale ed indegradabile ad interesse legittimo per effetto dell’esercizio del pubblico potere da parte della PA (c.d. diritto “<em>resistente”</em>), ai sensi degli articoli 2, 10, comma 2, e 3 Cost; difetta infatti in seno all’ordinamento il potere di ridurre o di estinguere tale diritto, onde l’atto amministrativo che pretendesse di spiegare un simile effetto degradatorio deve assumersi adottato in carenza di potere; il diritto resta dunque intatto, e la giurisdizione appartiene al GO.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza della II sezione della Corte EDU sul caso <em>Grande Stevens</em>, che afferisce alla applicabilità a procedimenti sanzionatori di natura amministrativa (nel caso di specie, attivati dalla Consob) di regole di natura “<em>penale</em>”, con particolare riguardo al c.d. giusto processo; si fa riferimento ai procedimenti formalmente amministrativi ma di natura sostanzialmente penale per importare - con riferimento ai medesimi - gli stessi principi basilari che regolano il c.d. giusto processo penale (contraddittorio, imparzialità del giudice, diritto di difesa). Viene stigmatizzata in particolare la violazione del principio del contraddittorio ricondotta, tra l’altro, all’assenza di una norma procedimentale che preveda la possibilità, per i soggetti sottoposti al procedimento, di presentare controdeduzioni avverso i contenuti della relazione conclusiva contenente la proposta sanzionatoria. La Corte estende poi il principio giuridico del <em>ne bis in idem</em>, sinora limitato alle sanzioni penali, anche a quelle amministrative: è un abuso dello Stato istruire un processo penale (poi conclusosi con l'assoluzione), contro chi è già stato condannato in via amministrativa dopo una procedura promossa dalla Consob.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile viene varata la legge n.67 il cui articolo 2, comma 3, delega il Governo ad emanare norme in tema di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 maggio viene pubblicata la sentenza della Corte di Giustizia UE sul caso <em>Google Spain</em> (C-131/12): il diritto fondamentale alla riservatezza e all’oblio viene assunto prevalente rispetto al diritto del pubblico di accedere a determinate informazioni ed all’interesse economico del gestore di un motore di ricerca; la Corte assume meritevole di tutela la pretesa di un soggetto a non vedere comparire tra gli elenchi dei risultati del motore di ricerca le pagine web che ospitano contenuti che lo riguardano, qualora questi gli arrechino pregiudizio e sia trascorso un lasso di tempo dalla pubblicazione della notizia da non giustificare più la permanenza nel pubblico dominio di queste informazioni, e ciò anche nel caso in cui la pagina Internet indicizzata contenente l'informazione non venga rimossa dal sito "<em>sorgente</em>" (in altre parole, il contenuto in questione resta consultabile in rete e si crea il solo ostacolo di renderlo più difficilmente raggiungibile per gli utenti). In tal modo la Corte riconosce il diritto della persona all'oblio in relazione a contenuti in rete che la riguardano, e ciò alla luce della direttiva 95/46/CE in materia di trattamento dei dati personali, in forza della quale il gestore del servizio di motore di ricerca (nel caso di specie, <em>Google</em>) viene assunto titolare del trattamento dei dati; su di esso, come tale, grava l'obbligo di evitare che certe pagine web vengano elencate negli indici delle ricerche se i contenuti ospitati sono ritenuti non più giustificati da finalità attuali di cronaca (ovvero da ruolo pubblico ricoperto dal titolare e dal conseguente interesse preponderante del pubblico a sapere). Tuttavia la semplice richiesta all'ISP (<em>Internet Service Provider</em>) ad opera della parte interessata non fa sorgere in capo allo stesso, secondo la Corte, alcun obbligo di attivazione, restando sempre necessario il vaglio di una autorità – amministrativa o giudiziaria – che valuti l'equo contemperamento tra l'interesse pubblico ad avere accesso alla notizia e quello privato a che ciò non avvenga.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.162 in materia di fecondazione artificiale eterologa che – in tema di “<em>diritto a diventare genitori</em>” - dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili; secondo la Corte Il divieto per le coppie sterili di ricorrere all’eterologa è privo di adeguato fondamento costituzionale e “<em>la scelta di tali coppie di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli</em>” è “<em>espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi</em>”. Secondo la Corte “<em>la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile</em>” riguarda “<em>la sfera più intima ed intangibile della persona umana</em>” e quindi “<em>non può che essere incoercibile</em>”. Inoltre, quel divieto ha creato “<em>un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica</em>”, perché chi poteva permetterselo è andato all’estero per effettuare l’eterologa, mentre chi non aveva i mezzi ha dovuto rinunciare.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce l’ordinanza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.2 che ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 106 c.p.a. e 396 c.p.c., in relazione agli articoli 117, comma 1, 111 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza (ormai in giudicato) quando ciò sia necessario ai sensi dell’art.46, par.1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.96 che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche. Per la Corte – la cui pronuncia costituisce anche una forma di indiretta tutela della salute dello stesso nascituro - si registra in primo luogo un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni e ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza <em>Costa e Pavan contro Italia</em>), il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) − quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In altri termini, precisa la Corte, il sistema normativo cui danno luogo le disposizioni censurate non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “<em>prima</em>” alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “<em>dopo</em>” una decisione ben più pregiudizievole per la relativa salute; ne deriva, per la Corte, la violazione anche dell’art. 32 Cost. in cui incorre la normativa in esame, stante l’evidente mancato rispetto del diritto alla salute della donna, senza peraltro che il vulnus così arrecato a tale diritto alla salute della donna possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto. La normativa denunciata costituisce allora, per la Corte, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento, palesandosi lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria, nella parte in cui non consente, e dunque esclude, che, nel quadro di disciplina della legge in esame, possano ricorrere alla PMA le coppie affette da patologie siffatte, adeguatamente accertate, per esigenza di cautela, da apposita struttura pubblica specializzata; ciò al fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del medesimo “<em>criterio normativo di gravità</em>” già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978. Una volta accertato che, in ragione dell’assolutezza della riferita esclusione, le disposizioni in questione si pongono in contrasto con parametri costituzionali la Corte non può dunque sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio dichiarandone l’illegittimità (viene richiamata la precedente sentenza n. 162 del 2014), essendo poi compito del legislatore - nell’esercizio della relativa discrezionalità - introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa).</p> <p style="text-align: justify;">L’11 novembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, C-505/14, <em>Klauser</em>, sui rapporti tra giudicato nazionale ed aiuti di Stato, secondo la quale il diritto dell’Unione osta, in particolari circostanze come quelle di cui al procedimento principale, a che l’applicazione di una norma di diritto nazionale volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata impedisca al giudice nazionale - il quale abbia rilevato che i contratti oggetto della controversia sottopostagli costituiscono un aiuto di Stato, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, attuato in violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, terza frase, TFUE - di trarre tutte le conseguenze di questa violazione a causa di una decisione giurisdizionale nazionale, divenuta definitiva, con cui, senza esaminare se tali contratti istituiscano un aiuto di Stato, è stata dichiarata la loro permanenza in vigore; in sostanza si profila la possibilità di superare il giudicato interno laddove il diritto europeo lo imponga.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 gennaio viene varato il decreto legislativo n.7, recante disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67. Si tratta di un provvedimento importante che in primo luogo abroga l’art.594 c.p. e dunque sopprime la tutela penale dell’onore e del decoro della persona sul crinale dell’ingiuria, introducendo nel contempo le c.d. sanzioni pecuniarie civili: in sostanza, in presenza di comportamenti dolosi si applicano i rimedi civili delle restituzioni e soprattutto del risarcimento del danno, cui si aggiunge una somma di denaro che il responsabile deve pagare non già al danneggiato, quanto piuttosto alla cassa delle ammende, e che viene appunto definita sanzione pecuniaria civile. Più nel dettaglio, ai sensi dell’art.4 del provvedimento, se si offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero con scritti o disegni diretti alla persona offesa, si soggiace ad una sanzione pecuniaria civile da Euro 100,00 ad 8.000,00., applicata dal giudice civile al quale la persona offesa si sia rivolta per farsi risarcire il danno. Si è al cospetto dunque di una sorta di danno punitivo che il colpevole paga allo Stato, e non al danneggiato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4114 che in un caso di sanzioni irrogate dalla Consob riconosce la validità dei principi enunciati dalla Corte EDU nel caso <em>Grande Stevens</em>, ma limitatamente alla applicabilità del giusto processo; muovendo da questo presupposto, nega l’applicabilità alle sanzioni amministrative del principio del c.d. favor rei e della retroattività della <em>lex mitior</em>, tipicamente penalistico, applicando piuttosto il diverso principio <em>tempus regit actum</em>, per cui si applica la sanzione amministrativa vigente al momento dell’applicazione, anche se non era vigente al momento del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile viene varato il Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 giugno esce la sentenza della I sezione n.13161 della Cassazione in tema di diritto all’oblio, che precisa che esso, ove violato, fa sorgere il diritto al risarcimento del danno; occorre muovere dal fatto che si è al cospetto, nella sostanza, di un l'illecito trattamento di dati personali che tuttavia viene specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione <em>on line</em> dell'articolo di cronaca, e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, quanto piuttosto nel mantenimento del diretto ed agevole accesso ad un risalente servizio giornalistico pubblicato diverso tempo addietro e della relativa diffusione sulla rete, con conseguente pregiudizio per i soggetti coinvolti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 193 che si occupa del principio di retroattività della legge più favorevole con riguardo a sanzioni che, pur essendo para-penali, hanno natura amministrativa (viene scandagliato l’art.1 della legge 689/81 proprio laddove non prevede la retroattività <em>in mitius</em> delle sanzioni amministrative): secondo la Corte, il sistema della CEDU siccome interpretato dalla Corte EDU non impone agli Stati membri, e in particolare all’Italia, di prevedere tale retroattività <em>in mitius</em> delle sanzioni amministrative, analogamente a quanto accade per quelle di matrice penale pura. Quando la legge interna prevede tale retroattività – con riferimento a talune sanzioni amministrative – si tratta per la Corte di <em>lex specialis</em> che tiene conto degli interessi tutelati e della efficacia dissuasiva della sanzione: si tratta di scelte di politica legislativa che non possono essere sindacate dalla Corte costituzionale se non quando ci si trovi dinanzi a manifesta irragionevolezza o ad arbitrio. La sentenza si inserisce in un contrasto di giurisprudenza che dura a partire dal caso <em>Varvara</em> (<em>Varvara c. Italia</em>, del 29 ottobre 2013, dove il problema, per quel che qui rileva, riguardava la confisca urbanistica, assunta dalla Cassazione di natura amministrativa e dunque non retroattiva, mentre per i giudici di Strasburgo essa ha natura penale con conseguente operatività della retroattività favorevole): se la Corte EDU ritiene che la retroattività <em>in mitius</em> appartiene al novero delle garanzie fondamentali e sia come tale applicabile anche alle sanzioni amministrative (oltre che a quelle penali pure), di diverso avviso si mostra la Corte costituzionale, secondo la quale la retroattività <em>in mitius</em> delle sanzioni amministrative non è imposta né dagli articoli 6 e 7 della CEDU (per il tramite dell’art.117 Cost.), né dall’art.3 della Carta.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 settembre esce la sentenza delle SSUU n. 17674 che riconosce la giurisdizione del GA, in sede esclusiva, sulle controversie relative alla sussistenza, in concreto, di diritti incisi dal potere autoritativo nel caso di atti e comportamenti in violazione di norme che regolano il procedimento e la programmazione, pianificazione e organizzazione del territorio, nell’interesse dell’intera collettività nazionale. La Corte afferma non sussistere un principio in base al quale in materia di diritti fondamentali il giudice naturale sia quello ordinario, ma al contrario occorre valutare la sussistenza o meno di un potere pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 settembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.19599 che si occupa di un peculiare caso di diritto all’identità personale, con particolare riguardo alla genitorialità. Nel caso di specie, una coppia omosessuale femminile sposata in Spagna vara un proprio progetto genitoriale che prevede che una delle due donne della coppia metta a disposizione l’ovocita e l’altra proceda alla gestazione utilizzando il gamete maschile donato da un terzo ignoto: dell’atto di stato civile compendiantesi nell’atto di nascita viene chiesto il riconoscimento e la trascrizione in Italia e la Corte è chiamata a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico; il problema, secondo la Corte, non è quello di valutare la compatibilità dell’atto da riconoscere con una o più norme interne – quand’anche imperative o inderogabili – ma di scandagliare se tale riconoscimento contrasti con la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo siccome affioranti dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nonché dalla CEDU: muovendo da questo presupposto, l’atto di nascita viene assunto riconoscibile e trascrivibile in Italia (anche se qui operazioni simili non sono ammesse). Secondo la Corte è ammissibile anche in Italia l’affermazione secondo cui si può essere figlio di due madri, in quanto l’art.269, comma 3, c.c., laddove si dice che è madre (solo) colei che ha partorito il bimbo, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 novembre esce la sentenza della Grande Camera della CEDU sul caso <em>ONG Magyar Helsinki Bizottsàg c. Hungary</em> che riconosce il diritto di accesso ai documenti come un presupposto del diritto fondamentale alla libertà di esprimere il proprio pensiero e per alimentare il dibattito pubblico su materie di interesse generale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 novembre esce l’ordinanza della sezione IV del Consiglio di Stato che rimette nuovamente alla Corte costituzionale (sulla scia dell’Adunanza Plenaria 2/15), in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 Cost., la questione di costituzionalità degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395 e 396 Cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 dicembre esce il parere della I sezione del Consiglio di Stato n. 2581 che riconosce alle associazioni non riconosciute che abbiano nel proprio statuto l’espressa finalità di fornire assistenza legale gratuita alle persone senza fissa dimora, ovvero la promozione di iniziative volte ad affermare e promuovere i diritti fondamentali delle persone senza fissa dimora e svantaggiate, la legittimazione ad impugnare un’ordinanza contingibile ed urgente con la quale il sindaco di un Comune abbia fatto divieto nel territorio comunale di porre in essere forme di accattonaggio, con qualunque modalità, in ogni spazio pubblico o aperto al pubblico ed abbia disposto altresì l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.286 la quale, dopo aver premesso che - sebbene non abbia trovato corpo in una disposizione espressa - non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa di una norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio, afferma come il superamento della concezione patriarcale della famiglia e la piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale – garantito anche dalla CEDU - che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impongano l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori, ove questi lo prevedano di comune accordo, dichiarando incostituzionali le norme che tale fattispecie non consentono, imponendo l’automatica estensione al figlio, in ogni caso, del solo cognome del padre. Lo stesso giorno esce anche la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, cause riunite C-203/15 e C-698/15 - <em>Tele2 Sverige AB e a</em>., secondo la quale l’art. 15, par. 1, della Direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, letto alla luce degli artt. 7, 8 e 11 nonché dell’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale preveda, per finalità di lotta contro la criminalità, una conservazione generalizzata e indifferenziata dell’insieme dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di tutti gli abbonati e utenti iscritti, riguardante tutti i mezzi di comunicazione elettronica; osta altresì ad una normativa nazionale la quale disciplini la protezione e la sicurezza dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, e segnatamente l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare, nell’ambito della lotta contro la criminalità, tale accesso alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre detto accesso ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, e senza esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 gennaio esce la ordinanza della VI sezione della Cassazione n.1727 che rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art.4 della legge n.89 del 2011 (legge Pinto) nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equo indennizzo per irragionevole durata del processo al passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale che ha definito il processo presupposto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, che – in un caso di maternità surrogata in Russia da parte di una coppia di italiani – afferma la compatibilità con la CEDU dell’allontanamento da parte dello Stato italiano di un bambino nato a seguito di c.d. “<em>utero in affitto</em>” (vietato dalla legge 40/04) per assenza del legame genitoriale (con i “<em>genitori</em>” cittadini italiani). Nel caso di specie la coppia di italiani ottiene il bimbo grazie alla collaborazione di una donna russa, ma poi non riesce ad ottenere la trascrizione dell’atto di nascita in Italia e, a causa anche di alcuni presunti falsi a rilevanza penale, dopo 6 mesi il bimbo viene rimandato in Russia: la Corte EDU – pur ammettendo l’ingerenza - nel caso di specie nega la violazione da parte dello Stato italiano del diritto alla vita privata e familiare, anche perché mancano legami biologici tra la coppia e il bimbo, ed è ciascun singolo Stato a disciplinare sul piano giuridico quando possano dirsi esistenti legami di tipo “<em>familiare</em>”, tenuto anche conto del fatto che, a cagione del breve lasso di tempo in cui hanno con lui convissuto, non si profilano pregiudizi per il minore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1890 che ribadisce come in caso di procedimenti sanzionatori Consob debbano assumersi dequotati i principi del giusto processo, del diritto di difesa e della imparzialità del giudice. Sempre Il 25 gennaio esce la sentenza della V Sezione della Corte di Giustizia UE in causa C-367/15 che prevede che chi ha subito danni per abusivo sfruttamento della proprietà intellettuale può chiedere il risarcimento in modo tradizionale (provando il danno) ovvero ottenere, senza bisogno di prova alcuna, il pagamento di una somma pari al doppio della remunerazione adeguata che avrebbe ricevuto laddove avesse autorizzato l’uso dell’opera (c.d. prezzo del consenso). Ancora il 25 gennaio esce la sentenza delle SSUU n. 1946 in tema di parto anonimo e di diritto a conoscere le proprie origini: secondo la Corte, anche se non vi è ancora una disciplina legislativa attuativa, per effetto della Corte costituzionale n.278.13, il figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale ha diritto di interpellare la madre che abbia dichiarato, alla sua nascita, di voler rimanere anonima, al fine di chiederle se vuole revocare questa scelta, rimanendo fermo che in caso negativo non potrà costringerla a revocarla e a svelare la propria identità. L’interpello alla madre deve avvenire con modalità procedimentali assicurando la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2695 secondo la quale, in caso di corruzione, il danno all’immagine di un Comune va liquidato a carico, oltre che dei funzionari corrotti (dipendenti pubblici), anche dell’imprenditore privato corruttore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 febbraio esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU nel caso <em>Solarino c. Italia</em> ove viene affermato il principio per cui il diritto all’unità familiare non è rispettato tutte le volte in cui lo Stato, attraverso i suoi organi giurisdizionali, si ingerisca arbitrariamente nelle relazioni parentali agendo con misure di protezione senza valutare gli interessi in gioco.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4020 che interviene in tema di riconoscimento dei figli stabilendo la prevalenza del <em>favor veritatis</em>, ossia la prevalenza della verità biologica su quella legale, quale base della responsabilità genitoriale, anche alla luce dell’importanza della discendenza biologica e della connessa identità personale. Il legislatore ha stabilito le modalità procedurali per la tutela di tali diritti fondamentali della persona, bilanciando gli interessi delle diverse parti e modulandoli secondo il differente grado di tutela ritenuto indispensabile per il figlio, soggetto più debole.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 4180 con la quale viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della L.24 marzo 2001, n. 89 - come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 134, - in riferimento agli artt. 3, 24, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, par. 1, e 13 della CEDU, nella parte in cui subordina al passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto la proponibilità della domanda di equo indennizzo, sostanzialmente chiedendo un temperamento al divieto di chiedere l’indennizzo durante la pendenza del giudizio presupposto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce la sentenza della II sezione della Corte di Giustizia UE (C-398/15) in tema di diritto all’oblio, la quale afferma che<a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=0%3dGaOYK%26H%3dIf%264%3dWJYJb%267%3dXGaKbN%26Q%3dzQ0L_0xiv_K8_8wkw_HB_0xiv_JCCSE.AyN1Q0KwDyQAQyV18.yP_0xiv_JC4AEP_8wkw_HBId_8wkw_HBRgPfReIXRa_8wkw_HBhB8_E_v80E_8B8O7KqH1_MA8tIy9sQy_OCI_hAyF9P0L_tA4Iu_E5M8AAB_4K6_0_u_01OyPBL_qH4_LrH1L.xP5I_8wkw_IBCQ3_O7R89w_Ogyh_Ztjwn_4AEP2ABQuN_0xiv_JcAP5_Ju01R3_Nizf_YvB371I_8wkw_HbCQ3_9sJ671D8q7s4_Nizf_Yvkum%26v%3d"> non esiste il diritto all’oblio per i dati personali contenuti nel registro delle imprese. Tuttavia, gli Stati membri possono prevedere, caso per caso, che l’accesso dei terzi a tali dati sia limitato.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5686 onde, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n.<a href="http://www.lexitalia.it/p/72/ccost_2007-10-24-2.htm">348</a> e <a href="http://www.lexitalia.it/p/72/ccost_2007-10-24-1.htm">349</a> del 2007 e <a href="http://www.lexitalia.it/a/2011/36832">n.181</a> del 2011, emesse anche per conformare il diritto interno ai principi della CEDU, il serio ristoro che l’art. 42, co. 3, Cost. riconosce al sacrificio della proprietà per motivi d’interesse generale si identifica con il valore venale del bene; ribadito che la distinzione tra suoli edificabili e non edificabili non è tuttavia venuta meno, la Corte ribadisce che deve ritenersi ormai superato l’istituto dell’occupazione appropriativa, per la necessità di interpretare il diritto interno, in consonanza col principio enunciato dalla Corte EDU, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “<em>buona e debita forma</em>”; l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente. L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante, <em>ex</em> art. 42 <em>bis</em> del <a href="http://www.lexitalia.it/n/193">d.P.R. n. 327 del 2001</a>, determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno. Invero, il provvedimento <em>ex</em> art. 42 <em>bis</em>cit. è volto a ripristinare (con effetto “<em>ex nunc</em>“) la legalità amministrativa violata – costituendo, pertanto, una “<em>extrema ratio</em>”per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito, sicché è necessario che venga adottato tempestivamente e, comunque, prima che si formi un giudicato anche solo sull’acquisizione del bene o sul risarcimento del danno, venendo altrimenti meno il potere attribuito dalla norma all’Amministrazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE sulla causa C-157/15 caso <em>Achbita</em>,onde il divieto di indossare sul luogo di lavoro il velo islamico, derivando da una norma interna di una società privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ma potrebbe concretizzare, in base ad un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo, apparentemente neutro, da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, II sezione, C-536/15, che si occupa del diritto alla <em>privacy</em>, affermando che - indipendentemente dal relativo luogo di stabilimento nella UE (ad esempio in Francia) - l'impresa che fornisca elenchi abbonati e servizi di consultazione accessibili al pubblico opera in un quadro normativo armonizzato che consente di assicurare in tutta l'Unione lo stesso rispetto dei requisiti in materia di tutela dei dati personali degli abbonati (sicché, nell’esempio fatto, un cittadino francese sa che vedrà tutelata la propria riservatezza anche in altri Stati membri).</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce la sentenza della Sezione I penale n.13124 che <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3dOYJRS%26F%3dDY%26B%3dUEUTV%262%3dQOYFUV%26O%3duJHJ_5qqt_F1_Fufp_P0_5qqt_E6KQ0.47LvJHIr77O6J7Tv1.7N_5qqt_E6B90I_Fufp_P0DU_Fufp_P0MZXdMXQWJZ_Fufp_P0gH3_GrJFC_6EDLn_90_7v50I.uJAF_5qqt_F6INz_ICO533_Ldsn_Wqd3k_15KMy5HNrH_Fufp_PZ8JA_Gr47Oz1y5n_Howc_S29z17F_5qqt_EVINz_3yG317A1_Howc_S2hrg%262%3d">ribadisce gli approdi giurisprudenziali in tema di modalità di computo dello spazio minimo individuale ex art. 3 CEDU e art. 35-ter ord.pen., a tenore del quale, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti detentivi inumani e degradanti, il calcolo della superficie minima (3 mq) di cui ciascun occupante la cella detentiva debba poter fruire, deve essere effettuato al netto delle aree destinate ad ospitare i servizi igienici ovvero di quelle occupate dagli arredi fissi e dal letto.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 aprile esce la sentenza della CEDU, sez. V, <em>A.P., Garçon e Nicot c. Francia</em>, che si occupa del diritto alla identità sessuale in rapporto al diritto alla integrità fisica: per la Corte, con riguardo ad un soggetto transessuale, condizionarne il riconoscimento dell’identità sessuale e conseguentemente la rettifica del sesso sui documenti ad un’operazione di cambio del sesso o alla sterilizzazione, laddove l’interessato non desideri sottoporvisi, equivale per la Corte a subordinare il pieno esercizio del diritto al rispetto della <em>privacy</em> (collegato al documento di riconoscimento rettificato) alla rinuncia a quello all’integrità fisica, potendosi al più sottoporre l’interessato a visita medica per accertare la disforia di genere e la relativa, reale identità sessuale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Milano che, facendo applicazione della sentenza n. 96 del 2015 della Corte Costituzionale, ammette una coppia alla procreazione medicalmente assistita preceduta da diagnosi genetica preimpianto in presenza di una situazione in cui vi è la possibilità di intraprendere una gravidanza con un embrione affetto da patologia irreversibile dovuta a trasmissione ereditaria autosomica dominante, costituendo tale situazione un serio rischio per la salute psichica della madre.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 10906 onde un rapporto sessuale tra due persone consenzienti (e tra l’altro, pacificamente, non riconducibile ad alcuna attività di prostituzione) non può assimilarsi ad un rapporto contrattuale al fine di individuare in esso l’obbligo di ciascuno di informare l’altro del proprio stato di fertilità o meno (ed il correlato, presunto diritto ad esserne informati), ostando a ciò il diritto alla riservatezza della persona che è invece, senza dubbio, tutelato dall’ordinamento. Quanto quindi all’illecito aquiliano, se una persona fornisce alla persona con cui intende compiere un atto sessuale completo una informazione non corrispondente al vero in ordine al proprio attuale stato di fertilità o infertilità, nulla ne può derivare in termini risarcitori, per il combinato disposto dell’articolo 1227, comma 2, e dell’articolo 2056, comma 1, c.c., rientrando nell’ordinaria diligenza di ciascuna persona sessualmente matura adoperarsi per evitare conseguenze notoriamente legate alle proprie potenzialità generative.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU n. 11142 che riconosce la giurisdizione del GO (e non, dunque, del GA) sulla domanda del privato che si duole della pericolosità per la salute o per altri diritti fondamentali della persona con riguardo alla intollerabilità delle immissioni provenienti dai rifiuti, dagli impianti di trattamento degli stessi già raccolti e dalle relative discariche, in relazione alle concrete modalità tecniche di esercizio del relativo ciclo produttivo, risolvendosi le condotte dei soggetti deputati allo smaltimento (ed oggetto di contestazione) nella materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa; la giurisdizione per la Corte è del GO anche allorquando non siano dettate particolari modalità esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti della P.A. che hanno organizzato il servizio; tale decisione non può assumersi influenzata dal fatto che tutte le controversie concernenti l’organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani sono devolute alla giurisdizione del GA già in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 1, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1551">d.l. 23 maggio 2008, n. 90</a> (norma che – sebbene abrogata dall’art. 4, allegato 4, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2369">d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104</a> – è stata riprodotta dall’art. 133, comma 1, lettera p) del medesimo d.lgs.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione che qualifica come non emulativo l’atto del proprietario che, pur arrecando pregiudizio al proprietario finitimo, sia mosso dall’intento di proteggere la propria <em>privacy</em>; l’atto emulativo presuppone, infatti, lo scopo esclusivo di nuocere o recare pregiudizio ad altri in assenza di qualsivoglia utilità per il proprietario, non potendo essere ricondotto a tale categoria l’atto comunque rispondente ad un interesse di quest’ultimo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 127 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 del c.p.c., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza del GA quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU. La Corte evidenzia come, a differenza che nel processo penale ove vigono imprescindibili esigenze di tutela di libertà fondamentali, non esiste nel nostro sistema – anche guardando agli obblighi derivanti dalla CEDU – un obbligo di prevedere un tale rimedio nei casi <em>de quibus</em>, in ciò confortata dal fatto che, a livello statistico, i Paesi aderenti alla Convenzione che riconoscono una tale possibilità non costituiscono nemmeno la maggioranza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 14167 che, con riferimento al diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche, ribadisce la necessaria volontà collaborativa della madre a svelare la propria identità, diversamente perdurando un limite legittimamente invalicabile al diritto del figlio medesimo. Quel giorno esce anche la sentenza della I sezione della Cassazione n. 14158 che ammette la possibilità di proporre reclamo alla Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c., avverso il provvedimento con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda di autorizzazione, proposta dall’amministratore di sostegno, ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, stante la natura decisoria del provvedimento in oggetto in grado di incidere su diritti personalissimi.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 17139 che, in materia di diritto al nome, dichiara non essere automatica l’assunzione del cognome paterno quando il riconoscimento avvenga in un momento in cui il minore abbia maturato nel cognome materno precedentemente assunto un autonomo segno distintivo della relativa identità personale. Scopo primario della norma è infatti garantire il benessere psico-fisico del minore e non rendere la relativa posizione quanto più simile possibile a quella del figlio di coppia coniugata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 180 che esclude che per la rettificazione di attribuzione di sesso sia sempre indispensabile il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione dei caratteri sessuali primari, sottolineando, piuttosto, la necessità di una scrupolosa e approfondita indagine non solo sulla serietà e univocità dell'intento, ma anche sull'intervenuta, oggettiva transizione dell'identità di genere.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 luglio esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Milano che, in applicazione della sentenza n. 96 del 2015 della Corte Costituzionale, riconosce ad una coppia il diritto alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi preimpianto ed il connesso diritto - nel caso in cui la struttura sanitaria pubblica di riferimento non sia in grado di garantire in forma diretta tale prestazione - ad essere indirizzati dalla stessa struttura pubblica (che si dovrà far carico di ciò) verso una diversa struttura (pubblica o privata convenzionata) attrezzata per simili trattamenti, con oneri a carico del SSN: ciò al fine di garantire l’effettiva tutela dei diritti altrimenti frustrati nel loro concreto operare.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 22602 che, ai fini della nomina di un amministratore di sostegno, afferma la necessità che il soggetto amministrando presenti un rischio di inadeguata tutela dei propri interessi, altrimenti ledendosi il diritto fondamentale all’autodeterminazione e alla dignità della persona. Non è quindi possibile – secondo la Corte – disporre l’amministrazione di un soggetto pienamente lucido che vi si opponga o che possa godere della protezione dei propri familiari o, ancora, che abbia già attivato un sistema di deleghe idonee allo scopo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 ottobre esce la sentenza della Corte EDU nella causa <em>Azzolina e altri c. Italia</em> che (con riguardo a quanto avvenuto nel 2001 nella Caserma di Bolzaneto, a margine del G8 di Genova) condanna l’Italia per gli atti di tortura compiuti da alcuni membri delle forze dell’ordine che non erano stati puniti nei processi interni a causa della mancanza nell’ordinamento italiano di una idonea fattispecie incriminatrice.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 novembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 26867 onde non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 novembre esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-265/16 nel caso <em>VCAST Limited / RTI SpA</em> con la quale si riconosce in contrasto con il diritto UE una norma che consente ad un’impresa privata di fornire ai propri clienti un servizio di registrazione da remoto su <em>cloud</em> di opere (programmi televisivi) coperte dal diritto d’autore, senza il consenso del titolare del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Napoli che, in tema di provvedimenti cautelari richiesti da una società volti alla cancellazione del proprio nome dall’elenco della centrale rischi con effetto retroattivo, ha chiarito che gli artt. 4 ss., 9 e 43 d.lgs. n. 196/2003 (c.d. Codice privacy), a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 214/2011, non si applicano alle persone giuridiche, trovando per esse applicazione solo le norme del Titolo X (Comunicazioni elettroniche), con conseguente impossibilità di invocare il rimedio cautelare previsto dall’art. 152 d.lgs. n. 196/2003.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 29811 che, in materia di diritto d’autore, si sofferma sulla portata di tale diritto e dei relativi risvolti applicativi, soprattutto rispetto ad operazioni di “<em>sincronizzazione</em>”, ossia di manipolazione ad uso riproduttivo di opere musicali: tale modalità di impiego dell’opera rientra a pieno titolo – secondo la Corte – tra le prerogative del titolare del diritto d’autore, a nulla rilevando la tipologia e il contenuto del supporto su cui si esplica tale manipolazione e non concretizzandosi un caso di utilizzazione rientrante nell’accezione di “<em>pubblica esecuzione</em>”. In pari data esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato che fissa i limiti del coinvolgimento di un militare in un partito politico; vista la speciale disciplina costituzionale e i diversi diritti in gioco (libertà di pensiero, imparzialità delle forze armate), se non si può vietare ai militari di iscriversi a partiti politici, risulta incompatibile con il loro s<em>tatus</em> l’assunzione di cariche interne poiché ciò indurrebbe il militare a manifestare attivamente la sua linea politica, ingenerando dubbi sull’imparzialità delle forze armate, sancita dalla Carta fondamentale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 30125 che, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 180, esclude che per la rettificazione di attribuzione di sesso sia sempre indispensabile il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione dei caratteri sessuali primari, sottolineando, piuttosto, la necessità di una scrupolosa e approfondita indagine non solo della serietà e univocità dell'intento, ma anche dell'intervenuta oggettiva transizione dell'identità di genere.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 che, tornando sui casi di maternità surrogata e sulla conseguente possibilità di riconoscere il figlio così generato, sancisce l’assenza di presunzioni a riguardo: stante la particolare delicatezza dei variegati interessi in gioco, spetta al giudice valutare comparativamente le diverse istanze e decidere secondo quello che, di volta in volta, emerga essere l’interesse del minore. La Corte nel caso di specie dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, censurata dal giudice <em>a quo</em> nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 dicembre viene varata la legge n. 219 recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (c.d. biotestamento) che - ponendosi l’obbiettivo di promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico - valorizza in primo luogo il c.d. consenso informato (art.1); vi è poi previsto che, in caso di persone incapaci o interdette, sia il tutore la persona deputata ad esprimere il consenso alle cure con i relativi limiti (art. 3); viene prevista infine la possibilità che, tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata o consegnata personalmente presso l’ufficio di stato civile, ciascun soggetto maggiorenne capace possa esprimere le proprie Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (<em>DAT</em>) o nominare un soggetto che potrà assumere tali decisioni (art. 4). Più nel dettaglio con riguardo a quest’ultimo punto, ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacita' di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, indicando in tal caso una persona di fiducia, detta “<em>fiduciario</em>”, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie; il fiduciario deve a propria volta essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere ed accetta la pertinente nomina attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo all’uopo, che e' allegato alle DAT; al fiduciario viene rilasciata una copia delle DAT, e può rinunciare alla nomina con atto scritto, che va comunicato al disponente; l'incarico del fiduciario può essere revocato anche dal disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalita' previste per la nomina e senza obbligo di motivazione; laddove le DAT non contengano l'indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente; in caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile. Il medico e' tenuto (ai sensi dell’art.1, comma 6, della legge) a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo andando esente, in conseguenza di ciò, da responsabilità civile o penale (ma il paziente, per parte sua, non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, richieste a fronte delle quali il medico non ha obblighi professionali). Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell'equipe sanitaria devono assicurare al paziente le cure necessarie, nel rispetto tuttavia della volontà del paziente medesimo ove le relative condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla. Il medico e' dunque tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. In caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, la decisione viene rimessa al giudice tutelare. Quanto alla forma, le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti per ivi provvedervi, andando esenti dall'obbligo di registrazione, dall'imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Nel caso infine in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare, mentre con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento; nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme testé previste, esse essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l'assistenza di due testimoni.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre esce l’ordinanza del Tribunale di Roma che riconosce al figlio minore il diritto a non veder pubblicata la propria immagine sui <em>social</em> ad opera della di lui madre che, in caso di prosecuzione di un tale comportamento a tratti ossessivo, viene condannata con l’applicazione di un’<em>astreinte</em></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza del TAR Umbria n. 16 onde la domanda di mutamento del cognome, pur rivestendo carattere eccezionale ed essendo ammissibile soltanto in presenza di particolari situazioni collegate ad interessi meritevoli di tutela dei soggetti istanti, può essere motivata anche da intenti soggettivi ed atipici, purché appunto meritevoli di tutela e non contrastanti con il pubblico interesse alla stabilità e certezza degli elementi identificativi della persona e del relativo <em>status</em> giuridico e sociale; tale domanda, laddove spiccata da un terzo rispetto al titolare del cognome da mutarsi, non può essere respinta per il solo fatto che non vi sia un rapporto di parentela o similare tra l’interessato alla modificazione del cognome e il titolare del cognome.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 gennaio esce la sentenza del TAR Toscana n. 66 onde l’intento di perpetuare il cognome di un ramo familiare e la relativa fruizione, per ragioni affettive e per il significato che quel cognome riveste nella comunità sociale in cui il richiedente è inserito, ben può concorrere a costituire l’interesse individuale legittimante l’accoglimento dell’istanza di cambiamento/aggiunta, in difetto di contrarie ragioni di pubblico interesse, ovvero di prevalenti posizioni di controinteresse, il tutto da valutarsi secondo le circostanze del caso concreto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 gennaio esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia UE in causa C‑473/16 che – decidendo su un caso di un cittadino nigeriano che nell’aprile 2015 ha presentato domanda d’asilo in Ungheria, dichiarando di temere di essere perseguitato nel suo Paese d’origine a causa della propria omosessualità - riconosce come un’ingerenza sproporzionata nella vita privata la pratica di sottoporre a perizia psicologica un migrante al fine di accertarne il proprio orientamento sessuale e così valutare la relativa domanda d’asilo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2070 che, abbandonando il precedente orientamento di segno contrario, riconosce - nel caso in cui l'erronea esecuzione dell'intervento di interruzione della gravidanza determini una nascita indesiderata - non solo il danno alla salute della madre ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della libertà di autodeterminazione, diritto che una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 194 del 1978 consente di ricollegare ad una visione complessiva del bene salute, inteso come benessere psicofisico della persona; inoltre, la Corte evidenzia come la tutela invocata in simili fattispecie prescinde del tutto dalle condizioni di salute della neonata, riconoscendosi dunque autonome, negative ricadute esistenziali (risarcibili) nella vita dei genitori quale conseguenza della violazione del loro diritto a non dar seguito alla gestazione, teoricamente esercitato nell'ambito dei tempi e delle modalità disciplinate dalla normativa della L. n. 194 del 1978, e praticamente non esercitato in conseguenza del colpevole inadempimento dei medici e/o della struttura sanitaria a ciò preposti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 2357 che, ricordando che il diritto di critica è diretta emanazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, ribadisce la non punibilità o, in ambito civilistico, la non assoggettabilità a condanna per risarcimento del danno - ai sensi della scriminante di cui all’art. 51 c.p. - di chi esercita tale diritto costituzionale, purché siano rispettati i tre presupposti noti: il prevalente interesse al racconto, anche quando sia riferibile solo ad una determinata categoria di soggetti; la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, che non devono assumere carattere di lesività del decoro e dell’immagine del soggetto cui si fa riferimento (c.d. continenza); e, da ultimo, l’esatta corrispondenza fra quanto realmente accaduto e la narrazione che ne viene fatta (c.d. verità).</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.4382 che rimette alle SSUU questioni afferenti al rifiuto di trascrivere nei registri dello stato civile la duplice paternità di minori riconosciuta all’estero, stante la relativa complessità e rilevanza con riguardo da un lato agli interessi superiori dei minori medesimi, e dall’altro la nozione di ordine pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione in tema di riconoscimento della protezione umanitaria. La Corte afferma che al cittadino straniero che abbia realizzato un’adeguata integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 6963 ancora in materia di diritto di un soggetto adottato a conoscere le proprie origini. In particolare, la Corte afferma che, raggiunta l’età di 25 anni, o 18 anni se sussistono gravi e comprovati motivi, il soggetto ha diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelli delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 marzo esce l’importante ordinanza della II sezione della Cassazione n.7260 in tema di ritardo diagnostico, malattia ad esito certamente infausto e lesione del diritto del paziente di autodeterminarsi, nel senso di determinare liberamente i propri percorsi esistenziali sulla base del riscontrato stato di salute (anche in relazione alla eventuale perdita di <em>chance</em>). La Corte rappresenta nell’<em>incipit</em> in diritto che il profilo critico di principale rilievo delle doglianze avanzate dalle ricorrenti (parenti del paziente ormai deceduto) appare riconducibile alla contestazione della decisione del giudice <em>a quo</em> nella parte in cui ha ritenuto non adeguatamente allegate e comprovate, dalle attrici medesime, le circostanze di fatto concernenti il danno consistito nell'imposizione, a carico di X, di una condizione esistenziale di materiale impedimento a scegliere <em>'cosa fare</em>' nell'ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, ovvero di programmare il suo essere persona e, dunque, l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito; e tanto, in conformità agli arresti della giurisprudenza della Corte, correttamente richiamati dai giudici d'appello (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23846 del 18/09/2008). Le censure in esame – prosegue la Corte attirano dunque l'attenzione sulla contestata legittimità del passaggio della sentenza impugnata in cui si evidenzia il difetto di (necessaria) allegazione, in cui sarebbero incorse le attrici, per non avere le stesse dedotto alcunché "<em>in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l'evento dannoso</em>" (<em>id est</em>, se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute). In relazione a tale ultimo punto, dev'essere per la Corte preliminarmente osservato come, dall'esame delle deduzioni contenute negli scritti difensivi delle originarie attrici, risulta che le stesse ebbero ad allegare, sin dall'iniziale instaurazione del giudizio, tanto la denuncia, da parte di X, di forti dolori alla base dell'emitorace destro in occasione della prima visita radiologica cui lo stesso fu sottoposto dalla dott.ssa Y, quanto la costante accusa della ridetta rilevante e persistente sintomatologia dolorosa in occasione delle diverse visite specialistiche effettuate dal dott. Z. Deve pertanto ritenersi che le circostanze di fatto consistenti nella sopportazione di una condizione esistenziale di '<em>forte'</em> o <em>'rilevante'</em> dolore fisico (e dunque di materiale apprezzabile sofferenza) sin dal primo contatto con i convenuti, fossero state debitamente dedotte in giudizio dalle originarie attrici. Proprio con riguardo a tali (incontestate) circostanze di fatto, le originarie attrici ebbero ad argomentare la rimproverabilità del comportamento colposo dei medici convenuti, per avere gli stessi compromesso - non avviando tempestivamente il paziente ai doverosi approfondimenti diagnostici -, non tanto (o non solo) l'evitabilità dell'evento letale, quanto (e soprattutto) le possibilità di un apprezzabile prolungamento della vita residua (quale possibile effetto di un'eventuale terapia avviata in epoca anteriore), o anche solo la qualità di tale ridotta prospettiva esistenziale, che non sarebbe stata certamente pregiudicata da una tempestiva (e dunque anteriore) conoscenza, da parte del paziente, delle proprie effettive e reali condizioni di salute. Tanto premesso, per la Corte - fermo il riscontro di tali puntuali allegazioni circostanziali (da ritenere, peraltro, altresì comprovate, ex art. 115 c.p.c., trattandosi di fatti e circostanze nei cui confronti non risultano mai opposte specifiche contestazioni di controparte), - occorre convenire con le ricorrenti principali là dove denunciano l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto indispensabile, al fine di procedere alla valutazione delle relative rivendicazioni risarcitorie, la specifica deduzione, da parte delle attrici, di quali sarebbero state "<em>le scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l'evento dannoso</em>", non potendo accedersi a una considerazione <em>in re ipsa</em> del danno denunciato. Sul punto, osserva il Collegio come la corte territoriale sia incorsa in un evidente equivoco, atteso che il danno nella specie denunciato dalle attrici non può in nessun modo farsi consistere nella perdita di specifiche possibilità esistenziali alternative, necessariamente legate alle particolari scelte di vita non potute compiere dal paziente (un discorso solo impropriamente, e in larga misura erroneamente, tradotto con l'equivoco richiamo al tema della perdita di <em>chances</em>), bensì con la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, non configurabile alla stregua di un <em>quantum</em> (eventualmente traducibile in termini percentuali) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (secondo la definizione elementare della <em>chance</em> comunemente diffusa nei discorsi sulla responsabilità civile), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto; e dunque quale situazione soggettiva suscettibile di darsi ben prima (al di qua) di qualunque (arbitraria) scelta per- sonale che si voglia già compiuta, o di là da compiere; e ancora, al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta. Il senso della compromissione della ridetta situazione soggettiva di libertà – chiosa ancora la Corte - appare d'immediata comprensione non appena si rifletta sulla circostanza per cui, non solo l'eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all'attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d'indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali che il velo d'ignoranza illecitamente indotto dalla colpevole condotta dei medici convenuti ha per sempre impedito che si attuassero come espressioni di una scelta personale. Poiché anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un'inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose. Rilievo che vale a tradursi in una specifica percezione del sé quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale; e tanto, proprio nel momento della più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine. La tutela (risarcitoria) della situazione soggettiva in esame si risolve pertanto, per la Corte, nell'immediata protezione giuridica di una specifica forma dell'autodeterminazione individuale (quella che si esplica nella particolare condizione della vita affetta da patologie ad esito certamente infausto) e, dunque, del valore supremo della dignità della persona in questa relativa, ulteriore dimensione prospettica; una situazione soggettiva che deve ritenersi fatalmente e direttamente violata dal colpevole ritardo diagnostico della patologia ad esito certamente infausto di cui si sia reso autore il sanitario chiamato a risponderne. Deve ritenersi – chiosa ancora la Corte - che, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto - nonché il dato (di per sé, peraltro, non indispensabile) della condizione di materiale (rilevante o, comunque, apprezzabile) sofferenza del paziente derivante dalla ridetta patologia - la conseguente violazione del diritto del paziente di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una simile condizione di vita, vale a integrare la lesione di un bene già di per sé autonoma- mente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l'assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa. Dalle indicate premesse la Corte fa discendere l'accertamento dell'avvenuta falsa applicazione, ad opera della Corte d'appello di Roma, degli artt.1218 e 2043 c.c., là dove la stessa ha ritenuto che, alla luce delle evidenze incontestate, non potesse farsi luogo all'accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalle attrici (odierne ricorrenti), sul presupposto che le stesse si sarebbero sottratte all'assolvimento degli oneri di necessaria allegazione argomentativa e probatoria in ordine alle scelte di vita del paziente, diverse da quelle che avrebbe adottato se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute. Rrileva poi il Collegio con riguardo al ricorso incidentale del medico come quegli - nel rivendicare l'erroneità della sentenza impugnata là dove ha trascurato di considerare l'inesigibilità di una capacità interpretativa della documentazione radiografica in esame, o la legittimità dell'affidamento nella competenza dei colleghi radiologi che avevano provveduto alla previa creazione e interpretazione di detta documentazione - dimostri di non aver integralmente còlto la ratio effettiva della decisione fatta propria dal giudice a quo, dovendosi sul punto ribadire come la corte territoriale abbia ravvisato lo specifico profilo di rimproverabilità del di lui comportamento, non già in relazione alla mancata comprensione di ciò che era com- prensibile, bensì nell'aver trascurato - dinanzi al carattere, per così dire, '<em>muto'</em> della documentazione radiografica - i segnali clinici (e, in primo luogo, il significativo rilievo della persistente, inspiegata, sintomatologia dolorosa accusata dal paziente) che apparivano tali da imporre, secondo un criterio di normalità, una più scrupolosa prudenza nell'approfondimento della ricerca delle relative cause, non avviando il paziente al compimento di quelle ulteriori forme di accertamento specialistico che gli avrebbero consentito (come di fatto in seguito avvenuto) una più tempestiva diagnosi delle cause effettive della sofferenza nella specie avvertita con tanta persistente continuità. Sulla base del complesso delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del ricorso principale proposto la Corte dispone, con l'accoglimento del ricorso principale, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, con il conseguente rinvio alla Corte d'appello di Roma, cui viene rimesso di provvedere, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, al riscontro della consistenza effettiva del danno denunciato dalle originarie attrici, in applicazione del seguente principio di diritto: la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di <em>chances</em> connesse allo svolgimento di singole specifiche scelte di vita non potute compiere, ma nella lesione di un bene già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto (da parte dei sanitari convenuti), l'assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno così inferto sulla base di una liquidazione equitativa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 maggio esce la sentenza della Grande sezione della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-331/16 e C-366/16 onde l’art. 27, par. 2, Dir. 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, dev’essere interpretato nel senso che il fatto che il cittadino dell’UE o il cittadino di un paese terzo, familiare di detto cittadino, che chiede il rilascio di un permesso di soggiorno in uno Stato membro, sia stato in passato destinatario di una decisione di esclusione dal beneficio dello <em>status</em> di rifugiato ai sensi dell’art. 1, sez. F, della Convenzione di Ginevra relativa allo <em>status</em> dei rifugiati, non consente alle autorità competenti di tale Stato membro di considerare automaticamente che la sua semplice presenza sul territorio di tale Stato costituisca, indipendentemente dall’esistenza di un rischio di recidiva, una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società, tale da giustificare l’adozione di misure di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. La constatazione dell’esistenza di una tale minaccia deve essere fondata su una valutazione, da parte delle autorità competenti dello Stato membro ospitante, del comportamento personale dell’interessato, che prenda in considerazione le conclusioni della decisione di esclusione dal beneficio dello status di rifugiato e gli elementi su cui essa è fondata, in particolare la natura e la gravità dei crimini o degli atti che gli sono contestati, il livello del suo coinvolgimento personale in essi, l’eventuale esistenza di motivi di esonero da responsabilità penale e l’esistenza di una condanna penale. Tale valutazione globale deve anche tenere conto del tempo trascorso dalla presunta commissione di tali crimini o atti nonché del comportamento successivo di tale persona, e in particolare considerare se tale comportamento manifesti la persistenza di un atteggiamento che attenti ai valori fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 T.U.E., in un modo che potrebbe turbare gravemente la tranquillità e la sicurezza fisica della popolazione. Il solo fatto che il comportamento passato di tale individuo s’inserisca nel contesto storico e sociale specifico del suo paese di origine, che non può riprodursi nello Stato membro ospitante, non osta a tale constatazione. Conformemente al principio di proporzionalità, le autorità competenti dello Stato membro ospitante devono inoltre bilanciare la tutela dell’interesse fondamentale della società di cui trattasi con gli interessi della persona di cui trattasi, relativi all’esercizio della sua libertà di circolazione e di soggiorno in quanto cittadino dell’Unione nonché al suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. Inoltre, l’art. 28, par. 1, Dir. 2004/38 deve essere interpretato nel senso che, quando le misure previste comportano l’allontanamento dell’interessato dallo Stato membro ospitante, quest’ultimo deve tenere conto della natura e della gravità del comportamento di tale persona, della durata e, se del caso, della legalità del suo soggiorno in tale Stato membro, del tempo trascorso dal comportamento contestatole della sua condotta durante tale periodo, del grado della sua attuale pericolosità per la società, nonché della solidità dei legami sociali, culturali e familiari con detto Stato membro. L’art. 28, par. 3, lett. a), Dir. 2004/38 deve essere interpretato nel senso che esso non si applica al cittadino dell’UE che non gode di un diritto di soggiorno permanente nello Stato membro ospitante, ai sensi dell’art. 16 e dell’art. 28, par. 2, di tale direttiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 maggio viene varato il decreto legislativo n. 51 di attuazione della direttiva (UE) 2016/680/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio. Vengono previste alcune nuove ipotesi di reato legate al trattamento dei dati personali. L’art. 43 prevede il delitto di “trattamento illecito di dati”, modellato sulla falsariga della fattispecie oggetto di incriminazione dal parte dell’art. 167 del codice della privacy (varato con D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196): salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dall’articolo 5, comma1”, che prevede i casi di liceità del trattamento, “se dal fatto deriva nocumento” (comma 1). La pena della reclusione da uno a tre anni è comminata dal comma 2, nel caso in cui, fermo restando il dolo specifico, il trattamento dei dati sia effettuato in violazione dell’art. 7, che disciplina il trattamento di categorie particolari di dati personali, o dell’art. 8, comma 4, che vieta la profilazione finalizzata alla discriminazione di persone fisiche sulla base di categorie particolari di dati personali, a condizione che dal fatto derivi nocumento. L’art. 44 incrimina la “falsità in atti e dichiarazioni al Garante”: salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni “chiunque, in un procedimento dinanzi al Garante riguardante il trattamento dei dati di cui all’articolo 1, comma 2”, “o nel corso di accertamenti riguardanti i medesimi dati, dichiara o attesta falsamente notizie o circostanze o produce atti o documenti falsi”. L’art. 45 prevede una peculiare figura di “inosservanza di provvedimenti del Garante”: è comminata la reclusione da tre mesi a tre anni nei confronti di “chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento adottato dal Garante ai sensi dell’articolo 143, comma1, lettera c), del Codice, in un procedimento riguardante il trattamento dei dati di cui all’articolo 1, comma 2”. Da segnalare, infine, che, ai sensi dell’art. 46, la condanna per uno dei delitti dinanzi indicati comporta la pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art. 36, commi 2 e 3, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 maggio entra in vigore il Regolamento UE n. 2016/679, sulla protezione dei dati "<em>relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali</em>" (c.d. RGPD), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea il precedente 4 maggio 2018. Il Regolamento regola anche il diritto all'oblio: in particolare, l'art. 17 di detto regolamento eurounitario: -al comma 1, prevede che l'interessato ha il diritto di richiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano, in particolare in relazione a dati personali resi pubblici quando l'interessato era un minore, se sussiste uno dei seguenti motivi: "<em>a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; b) l'interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all'articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all'articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento; c) l'interessato si oppone al trattamento ai sensi dell'articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell'articolo 21, paragrafo 2; d) i dati personali sono stati trattati illecitamente; e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all'offerta di servizi della società dell'informazione di cui all'articolo 8, paragrafo 1</em>"; - e, al successivo comma 3, precisa i casi in cui il trattamento dei dati è necessario: "<em>a) per l'esercizio del diritto alla libertà di espressione; b) per l'adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l'esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell'articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell'articolo 9, paragrafo 3; d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all'articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento; e) per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria</em>."</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 maggio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 14007 che, negando la sussistenza di ragioni contrarie all’ordine pubblico e sottolineando la prevalenza del principio del superiore interesse del minore, conferma la sentenza del giudice di merito che accorda la trascrizione nei pubblici registri dell’adozione reciproca di due bambini nati da due cittadine francesi residenti in Italia e regolarmente unite in matrimonio nello Stato d’origine.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 18287 in tema di criteri di attribuzione e determinazione dell’assegno di divorzio che, risolvendo un contrasto da poco insorto tra le sezioni semplici, afferma come il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto. Secondo la Corte, la soluzione prospettata è largamente coerente con il quadro della legislazione dei paesi dell'Unione europea. Il confronto, pur non essendo la materia nè di competenza dell'Unione Europea nè oggetto di diversa disciplina convenzionale, non può essere eluso, in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi. La comparazione con alcuni ordinamenti europei (in particolare quello francese e tedesco) evidenzia, in particolare, la natura specificamente perequativo-compensativa attribuita all'assegno di divorzio correlata alla previsione della temporaneità dell'obbligo in quanto prevalentemente finalizzato a colmare la disparità economico patrimoniale determinatasi con lo scioglimento del vincolo. Possono, tuttavia, porsi in luce alcuni principi comuni, posti in luce dai lavori svolti dalla Commissione Europea del diritto di famiglia (C.E.F.L.), sorta al fine di armonizzare i principi che regolano il diritto di famiglia in considerazione della competenza del diritto dell'Unione Europea in ordine alla giurisdizione, al riconoscimento ed alla circolazione delle decisioni in materia di scioglimento dell'unione coniugale e responsabilità genitoriale. Si è riscontrata, in particolare, la tendenziale eliminazione del divorzio per colpa che, anche all'interno del nostro ordinamento, trova riscontro nella progressiva riduzione dell'importanza del c.d. criterio risarcitorio fin dall'accertamento dell'addebito in sede di separazione; la natura consensuale del divorzio e la preminenza del principio di autoresponsabilità anche in sede di regolazione dell'assegno le cui caratteristiche sono da cogliere nell'ancoraggio ad un criterio perequativo-assistenziale in funzione di riequilibrio della posizione dell'ex coniuge più svantaggiato (sistema francese); nel favor verso un sistema di riequilibrio economico-patrimoniale realizzato con la ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare cui consegue l'eccezionalità dell'assegno di divorzio (sistema tedesco) ed infine nella temporaneità della disposizione, in quanto finalizzata alla ricomposizione di un quadro di parità economico patrimoniale. Rileva la Corte che sia le linee di tendenza comuni che le differenze di regime giuridico sono ispirate dal medesimo obiettivo della pari dignità degli ex coniugi. In questa priorità si coglie l'esclusivo elemento di continuità tra i postulati costituzionali dell'unione matrimoniali e la finalità dell'assegno di divorzio. La conferma della centralità del principio di uguaglianza effettiva tra i coniugi anche alla luce dell'esame comparatistico delle legislazioni di paesi occidentali trova riscontro effettivo nel VII Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, nell'art. 5. Nella norma viene stabilito che: "I coniugi godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell'interesse dei figli". Il principio è un'evoluzione di quanto già contenuto nell'art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948. Nell'articolo è indicato che uomini e donne hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento. Emerge, in conclusione, corrispondenza tra la collocazione dell'assegno di divorzio nell'alveo degli artt. 2, 3 e 29 Cost. con la conseguente preminenza della funzione perequativa ad esso attribuibile ed il quadro europeo e convenzionale di riferimento. Gli elementi che appaiono in contrasto con tale quadro, ovvero l'eccezionalità del ricorso all'assegno e la temporaneità dello stesso non scalfiscono la comune provenienza dal principio di parità effettiva. In particolare la mancanza di temporaneità trova puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio in presenza di fatti sopravvenuti mentre il riconoscimento dell'assegno per importi poco elevati ed in unzione perequativa riguarda una percentuale molto modesta delle controversie in tema di divorzio. L'attenzione deve rivolgersi, al fine di rendere effettiva la funzione perequativa dell'assegno al rigoroso accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, dovendo trovare giustificazione causale negli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6 ed in particolare nel contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge. Di tale contributo la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria. La sostanziale assenza di preclusioni, salvo l'allegazione di mutamenti di fatto, nel procedimento di revisione, rende reversibile e modificabile sine die la determinazione originaria in ordine all'assegno di divorzio, escludendo anche sotto tale profilo, i rischi della c.d. cripto indissolubilità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 luglio escono due sentenze gemelle della sezione I della Cassazione nn. 19779 e 19780 sul diritto degli ascendenti ad instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Secondo la Corte, ai sensi dell’art. 317-bis c.c., nel testo novellato dall’art. 42 del D.Lgs. n. 154 del 2013, al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., hanno attitudine al giudicato <em>rebus sic stantibus</em>, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, definendo essi procedimenti che dirimono comunque conflitti tra posizioni soggettive diverse e nei quali il minore è “parte”, sicché il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 Cedu, dall’art. 24,comma2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317 bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art.315 bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 agosto esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia n. 2024 che riconosce la legittimità del diniego opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di accesso presentata da un coniuge, in pendenza di una separazione, per conoscere i dati fiscali e patrimoniali dell’altro. Secondo il TAR, il codice di rito prevede, in questi casi, strumenti che li rendono conoscibili tutelando i diritti processuali di entrambe le parti, ossia l’accessibilità solo previa autorizzazione del Presidente del Tribunale. In materia si registra però un contrasto giurisprudenziale tra diversi TAR che invece ritengono tali dati accessibili secondo la normativa ordinaria sul diritto d’accesso ex legge 241/90.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 agosto esce la sentenza della sezione I della Cassazione n. 21362 secondo cui i dati personali di un soggetto sottoposto ad indagini penali e poi estromesso, essendo stata la sua posizione stralciata, non vanno cancellati dall’archivio della polizia, perché l’eliminazione può essere ordinata solo nell’ipotesi in cui si tratti di dati inesatti o illegittimamente acquisiti, mentre, se gli stessi sono stati legittimamente acquisiti, il Ministero può procedere solo all’aggiornamento dell’iscrizione, mediante l’annotazione del provvedimento di archiviazione adottato dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 agosto esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 39293 che ritiene utilizzabili, senza alcuna necessità di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, le videoriprese eseguite da privati mediante telecamera esterna installata sulla loro proprietà, che consentono di captare ciò che accade nell’ingresso, nel cortile e sui balconi del domicilio di terzi, i quali, rispetto alle azioni che ivi si compiono, non possono vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza, trattandosi di luoghi, che, pur essendo di privata dimora, sono liberamente visibili dall’esterno, senza ricorrere a particolari accorgimenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 24198 in tema di responsabilità della P.A. per mancata assistenza della forza pubblica per il rilascio di un immobile abusivamente occupato. La Corte afferma che la discrezionalità della P.A. non può mai spingersi, se non stravolgendo ogni fondamento dello Stato di diritto, a stabilire se dare o non dare esecuzione ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria, a maggior ragione quando questo abbia ad oggetto la tutela del diritto di proprietà riconosciuto dalla Costituzione e dalla CEDU. È pertanto colposa la condotta dell’Amministrazione dell’interno che, a fronte dell’ordine di sgombero di un immobile abusivamente occupato <em>vi aut clam</em>, trascuri per sei anni l’attuazione del provvedimento di sequestro con contestuale ordine di sgombero impartito dalla Procura della Repubblica.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 11 ottobre esce la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, n. 55216, che si pronuncia sul rispetto della vita privata e familiare verso il trasngeneder e sul mutamento di cognome, ritenendo sussistente la violazione dell’art. 8 della Convenzione. La ricorrente ritiene che il rifiuto delle autorità nazionali di consentirle di cambiare nome prima dell'operazione chirurgica di conversione sessuale abbia violato il suo diritto al rispetto della sua vita privata. La ricorrente sostiene che, con sentenza del 10 maggio 2001, il tribunale civile di Roma l'ha ufficialmente riconosciuta come transessuale. Di conseguenza, il diritto al rispetto della sua identità di genere avrebbe meritato di essere tutelato, anche se la sua conversione sessuale non si era ancora conclusa con un intervento chirurgico. La Corte rileva che, a seguito alla sentenza del tribunale del 10 maggio 2001, che aveva autorizzato l'intervento chirurgico, alla ricorrente è stato rifiutato il cambiamento del suo nome per via amministrativa, in quanto qualsiasi modifica del registro di stato civile di una persona transgender doveva essere ordinata da un giudice nell'ambito della procedura di rettificazione di attribuzione di sesso. Di conseguenza, la ricorrente, conformemente all'articolo 3 della legge n. 164 del 2000, nella versione in vigore all'epoca, ha dovuto attendere che il tribunale constatasse che l'operazione era stata effettuata e si pronunciasse definitivamente sulla sua identità sessuale, fatto avvenuto solo il 10 ottobre 2003. La Corte sottolinea che il suo compito non è quello di sostituirsi alle autorità nazionali competenti per definire la politica più opportuna in materia di regolamentazione dei cambiamenti del nome delle persone transessuali, ma di valutare dal punto di vista della Convenzione le decisioni che esse hanno preso nell'esercizio del loro potere discrezionale. Tuttavia, la Corte può solo constatare che il rigetto della domanda della ricorrente è stato basato su <strong>argomenti puramente formali che non tenevano affatto conto della situazione specifica dell'interessata. Pertanto, le autorità non hanno tenuto in considerazione il fatto che la stessa aveva intrapreso da anni un processo di transizione sessuale e che il suo aspetto fisico, così come la sua identità sociale, era già femminile da molto tempo.</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre esce la sentenza della III sezione della Corte di Giustizia nella causa C-149/17 onde l’art. 8, parr. 1 e 2, Dir.2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, in combinato disposto con l’art. 3, par. 1, della stessa, da un lato, e l’art. 3, par. 2, Dir. 2004/ 48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, dall’altro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale, interpretata dal giudice nazionale competente, in forza della quale il titolare di una connessione internet, attraverso cui siano state commesse violazioni del diritto d’autore mediante una condivisione di file, possa non essere considerato responsabile qualora indichi almeno un suo familiare che avesse la possibilità di accedere alla suddetta connessione, senza fornire ulteriori precisazioni quanto al momento in cui la medesima connessione è stata utilizzata da tale familiare e alla natura dell’utilizzo che quest’ultimo ne abbia fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 novembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.28084, che rimette alle SSUU la definizione dei criteri di bilanciamento tra il c.d. diritto all’oblio e il diritto di cronaca, assumendola questione di massima di particolare importanza. Si tratta del delicato assetto dei rapporti tra diritto all’oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero, alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, ed occorre individuare univoci criteri di riferimento che consentano di conoscere i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto a richiedere che una notizia che lo riguarda, legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, di precisare in che termini l’interesse pubblico alla ripubblicazione di vicende personali faccia recedere il diritto all’oblio in favore del diritto di cronaca. L'esame dei motivi sottende allora, come la stessa Corte afferma, la ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale, nell'ordinamento interno e in quello sovranazionale, in materia di bilanciamento del diritto di cronaca, posto al servizio dell'interesse pubblico all'informazione, e del diritto all'oblio, posto a tutela della riservatezza della persona, tematica che ha formato oggetto, diretto o indiretto, di alcune decisioni della Prima e della Terza Sezione della Corte, di seguito menzionate, che costituiscono il primo passo per una compiuta riconsiderazione sistematica che tenga conto delle diverse interrelazioni in materia. Nel caso sotteso al ricorso, per la Corte, non viene in rilievo la problematica del diritto all'oblio in relazione: alla realizzazione di archivi di notizie, digitalizzati e resi fruibili <em>on line</em>; alla ristampa di un giornale del passato (come talvolta avviene in occasione degli anniversari delle fondazioni); alla memorizzazione di dati nei motori di ricerca e nelle c.d. reti sociali. Ipotesi queste, di crescente interesse nella vita sociale, ma sulle quali non si è ancora formata una compiuta elaborazione nella giurisprudenza di legittimità. Fatta questa premessa, rammenta la Corte che il diritto di cronaca, secondo l'unanime insegnamento della giurisprudenza di legittimità, è un diritto pubblico soggettivo, da comprendersi in quello più ampio concernente la libera manifestazione di pensiero e di stampa, sancito dall'art. 21 Cost., e consiste nel potere-dovere, conferito al giornalista, di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita sociale. E sono decorsi ormai oltre 40 anni da quando la Corte costituzionale (cfr. sent. 30 maggio 1977, n. 94) ha statuito che: "<em>i grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di interesse pubblico</em>". Il diritto di cronaca, tuttavia, non può essere considerato senza limiti. Tali limiti sono stati riassunti in due sentenze che costituiscono ancora oggi imprescindibile punto di riferimento nella materia in esame: la sentenza n. 8959 del 30/06/1984 delle Sezioni Unite Penali e la sentenza n. 5259 del 18/10/1984 della Prima Sezione Civile della Corte. In particolare, in quest'ultima è stato affermato che il diritto di cronaca «<em>è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni: a) utilità sociale dell'informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; c) forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l'offesa triviale o irridente i più umani sentimenti. La forma della critica non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni. In tali ipotesi l'esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato</em>» (Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984). Peraltro, rammenta ancora la Corte come giurisprudenza successiva (cfr., tra le tante, Sez. III, sent. n. 8963 del 29/8/1990, sent. n. 23366 del 15/12/2004 e sent. n. 2271 del 4/2/2005) abbia avuto modo di precisare che i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti, tra loro strettamente connessi, in composizione variabile a seconda che si eserciti un diritto di cronaca o un diritto di critica giornalistica. Invero, nella cronaca, assume carattere determinante la verità dei fatti narrati, mentre, nella critica, è centrale la rilevanza sociale dell'argomento trattato e la correttezza delle espressioni utilizzate. Ciò in quanto il diritto di critica si distingue dal diritto di cronaca per il fatto di consistere nell'espressione di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica, ma che ha, per sua natura, carattere congetturale e soggettivo. E la giurisprudenza di legittimità penale – chiosa ancora la Corte - ha di recente chiarito anche la differenza tra cronaca e storia (Sez. 1, n. 13941 del 08/01/2015 - dep. 02/04/2015): la prima presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell'informazione e, se si riconosce l'interesse pubblico ad una notizia tempestiva, non può non ammettersi che l'esigenza di velocità possa comportare un qualche sacrificio dell'accuratezza della verifica sulla verità della notizia e sulla bontà della fonte dalla quale si è appresa. La storia, invece, ha ad oggetto fatti o comportamenti distanti nel tempo e, quanto più sono lontani nel tempo i fatti narrati, tanto meno si giustifica il menzionato sacrificio dell'accuratezza della verifica (per quanto nessuna storia raccontata può essere del tutto imparziale, essendo operazione soggettiva anche la semplice operazione di connessione). Orbene, i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti che - nel consentire la legittima intrusione nella vita privata altrui in nome del superiore interesse pubblico all'informazione - assumono rilevanza: non soltanto come fattori legittimanti l'iniziale diffusione della notizia, ma anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l'antigiuridicità delle successive rievocazioni. Dunque, l'esercizio del diritto all'oblio è collegato, in coppia dialettica, al diritto di cronaca. L'interesse del singolo all'anonimato assurge a "<em>diritto</em>" esclusivamente allorquando: non vi sia più un'apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata "<em>falsa</em>" in quanto non aggiornata o, infine, quando l'esposizione dei fatti non sia stata commisurata all'esigenza informativa ed abbia recato un <em>vulnus</em> alla dignità dell'interessato. In coerenza con le suddette premesse concettuali, proprio la III Sezione della Corte, nell'ormai lontano 1998, ha esplicitamente riconosciuto il diritto all'oblio, qualificandolo come «<em>...giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata</em>» (Sez. 3, Sentenza n. 3679 del 09/04/1998). In detta pronuncia è stato precisato che, per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, non è sufficiente la sussistenza del requisito dell'interesse pubblico circa il fatto narrato, ma è necessaria anche l'attualità della notizia. E – rammenta la Corte - sempre la medesima Sezione, più di recente: -in riferimento alla trasposizione <em>on line</em> degli archivi storici delle maggiori testate giornalistiche ed alla digitalizzazione di banche dati istituite per finalità di ricerca (Sentenza n. 5525 del 05/04/2012), ha riconosciuto in capo al soggetto, titolare dei dati personali, il diritto alla contestualizzazione e all'aggiornamento della notizia, in relazione alla finalità di trattamento dei dati, in quanto «<em>la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera</em>» e, dunque, astrattamente idonea a ledere l'identità personale del soggetto interessato; alla luce del principio di verità e di correttezza, è stato così ampliato il concetto di oblio: quest'ultimo può essere considerato non soltanto in senso negativo e passivo, come diritto (per così dire statico) alla cancellazione dei propri dati, ma anche in senso positivo ed attivo, come diritto (per così dire dinamico) volto alla contestualizzazione, all'aggiornamento ovvero all'integrazione dei dati contenuti nell'articolo, per mezzo di un collegamento «<em>ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l'evoluzione della vicenda</em>»; -in tema di diffamazione a mezzo stampa (Sentenza n. 16111 del 26/06/2013), ha affermato che il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali non siano pubblicamente rievocate trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l'attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un'illecita lesione del diritto alla riservatezza. Del delicato rapporto tra diritto di cronaca e diritto all'oblio – chiosa ancora la Corte - ha avuto modo di occuparsi di recente anche la Prima Sezione Civile che: -in relazione all'archiviazione <em>on line</em> delle notizie effettuata dalle testate giornalistiche, con sentenza n. 13161 del 24 giugno 2016, alla luce della sentenza della Corte di giustizia del 13 maggio 2014, ha riconosciuto in presenza di determinate condizioni, la prevalenza del diritto all'oblio rispetto al diritto all'informazione. In particolare - è stato precisato - la persistenza, in un giornale <em>on-line</em>, di una risalente notizia di cronaca «<em>appare, per l'oggettiva e prevalente componente divulgativa, esorbitare dal mero ambito del lecito trattamento d'archiviazione o memorizzazione on-line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali</em>» configurandosi come violazione del diritto all'oblio, quando, in ragione del tempo trascorso «<em>doveva reputarsi recessiva l'esigenza informativa e conoscitiva dei lettori cui la divulgazione presiedeva</em>»; -e, in tema di trattamento dei dati personali, con ordinanza n. 19761 del 09/08/2017, ha affermato che: ai sensi dell'art. 8 della CEDU nonché degli artt. 7 e 8 della c.d. Carta di Nizza, l'interessato non ha diritto ad ottenere la cancellazione dei dati iscritti in un pubblico registro ed è legittima la loro conservazione quando essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Le linee direttrici del delicato bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all'oblio sono state di recente ripercorse in un ulteriore importante arresto sempre dalla Sezione Prima della Corte (cfr. Ordinanza n. 6919 del 20/03/2018), la quale - dopo aver richiamato i principali precedenti in materia della giurisprudenza di legittimità, della Corte di Giustizia UE (in particolare, nella sentenza 13/5/2014, C-131/12, <em>Google Spain</em>; nonché nella sentenza 9/3/2017, C-398, <em>Manni</em>) e della Corte EDU (in particolare, nella sentenza 19/10/2017, <em>Fuschsmann c/o Germania</em>); nonché il «<em>reticolo di norme nazionali (artt. 2 Cost., 10 c.c., 97 legge n. 633 del 1941) ed europee (artt. 8 e 10 comma 2 CEDU, 7 e 8 della Carta di Nizza</em>)» dal richiamato quadro normativo e giurisprudenziale ha desunto che: «<em>il diritto fondamentale all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali); 3) l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico</em>». Osserva a questo punto il Collegio che dalla lettura della menzionata ordinanza n. 6919 del 20/03/2018 (e dalla giurisprudenza delle Corti europee) non è dato evincere se i presupposti indicati - peraltro di diversa natura, essendo i primi tre una specificazione del requisito della pertinenza, il quarto di carattere riepilogativo ed il quinto di ordine procedurale - siano richiesti in via concorrente ovvero, come sembra alla Corte stessa, in via alternativa. Invero, ove mai si ritenesse che tutti gli indicati presupposti debbano essere compresenti, in considerazione dell'improbabilità della circostanza diritto all'oblio sarebbe destinato a prevalere sul diritto di cronaca soltanto in casi davvero residuali. D'altra parte, successivamente alla menzionata ordinanza (e precisamente lo scorso 25 maggio 2018), è entrato in vigore il Regolamento UE n. 2016/679, sulla protezione dei dati "<em>relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali</em>" (c.d. RGPD), che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea lo scorso 4 maggio 2018 e che regola anche il diritto all'oblio. Il bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all'oblio incide allora – conclude la Corte - sul modo di intendere la democrazia nella nostra attuale società civile, che, da un lato fa del pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica un suo pilastro fondamentale; e, dall'altro, non può prescindere dalla tutela della personalità della singola persona umana nelle sue diverse espressioni. Sembra al Collegio che, soltanto partendo dal caso concreto, sia possibile definire: quando possa effettivamente configurarsi un interesse pubblico alla conoscenza di fatti (tali non essendo le insinuazioni di dubbi e le voci incontrollate); quando, nonostante il tempo trascorso dai fatti, detto interesse possa essere considerato ancora attuale; in che termini, sulla sussistenza di detto interesse, possa incidere la gravità e la rilevanza penale del fatto, la completezza (o la incompletezza) della notizia del fatto, la finalità di trattamento del dato (se, ad es., per fini di ricerca scientifica o storica, per fini statistici, per fini di informazione o per altri motivi, ad es. di marketing), la notorietà (o la mancanza di notorietà) della persona interessata, la chiarezza della forma espositiva utilizzata (anche evitando l'accorpamento e l'accostamento di notizie false a notizie vere). Il delicato assetto dei rapporti tra diritto all'oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero assume così - alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale ed europeo, il primo dei quali come di recente innovato, a garanzia del generale principio della certezza del diritto - i contorni della questione di massima di particolare importanza, parendo ormai indifferibile l'individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sé relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, precisare in che termini sussiste l'interesse pubblico a che vicende personali siano oggetto di (ri) pubblicazione, facendo così recedere il diritto all'oblio dell'interessato in favore del diritto di cronaca.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 novembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 212 che dichiara inammissibili o rigetta diverse questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante "Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili. Secondo la Corte, infatti, che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell'identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama. Va sottolineato, spiega la Consulta, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all'art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell'unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall'art. 33, comma 2, del D.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell'ambiente in cui essi vivono. È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l'ordinamento dello stato civile che il cognome d'uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L'art. 20, comma 3, del D.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che "Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile". In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell'unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell'altra parte dell'unione (comma 1 dell'art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis). D'altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d'uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un'ulteriore facoltà che la L. n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell'unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell'ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del D.P.R. n. 396 del 2000). Inoltre, la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l'unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario - anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica - costituiscono dunque garanzia adeguata dell'identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 31196 che ritiene ammissibile la richiesta di riconoscimento della maternità della madre biologica di un minore nato da parto anonimo e dichiarato adottabile. Secondo la Corte, tale richiesta sarebbe inammissibile allorquando, a seguito della dichiarazione di adottabilità del minore, segua l’affidamento preadottivo</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza della V sezione penale della Cassazione n. 57020 secondo cui, l’offesa alla reputazione altrui propagata tramite web, essendo quest’ultimo uno strumento percepibile da un ampio pubblico di utenti, integra una delle ipotesi aggravate del reato di diffamazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 gennaio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 372 che esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 615-bis c.p. laddove non siano stati ripresi comportamenti della vita privata sottratti all’osservazione dall’esterno. Afferma infatti la Corte che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie nei luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi</p> <p style="text-align: justify;">Lo stesso giorno esce la sentenza della I sezione penale della Cassazione n. 474 che, in caso di sottoposizione del detenuto al regime carcerario ex art. 41-bis, afferma essere in vigore un doppio binario. Il direttore dell’istituto penitenziario può negare ai Garanti locali il colloquio semplice (non riservato, ex art. 18 ord. pen.) col detenuto, solo quando reputa ledibili gli interessi statali sottesi al più rigoroso regime carcerario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Civile, n. 277, che si pronuncia in tema di gravi motivi, richiesti dall’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286/98, riconoscendo che il giudizio con cui il giudice di merito ritenga sussistenti, o insussistenti, i “gravi motivi” richiesti dall’art. 31, comma 3, d.lgs. n. 286/98, ai fini del rilascio dello speciale permesso di soggiorno temporaneo ivi previsto in favore dei genitori di figli minori, costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità. Né l’età prescolare del minore, né il rischio del suo allontanamento dall’Italia possono costituire, di per sé e in assenza di qualsiasi altra specificità del caso concreto, circostanze sufficienti a ritenere sussistenti i “gravi motivi”, ai fini del rilascio ai suoi genitori del permesso di soggiorno temporaneo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 gennaio esce la sentenza della VI sezione penale della Cassazione n. 1562 che, in tema di compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi dall’art. 3 della Cedu, una superficie calpestabile di tre metri quadrati per ogni detenuto in una cella collettiva rappresenta la soglia minima pertinente ai fini della valutazione delle condizioni carcerarie, in caso di sovraffollamento grave.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio esce la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. III, decisione Elvir ed Eldina Mehmedovic c. Svizzera, ricorso n. 17331/11, che afferma che non sussiste la violazione della privacy, e dell’art. 8 della Convenzione EDU, in caso di attività di investigazione privata, eseguita nei confronti della compagnia assicuratrice verso l’assicurato, e pertanto tale attività viene ritenuta, entro certi limiti e per precise finalità, legittima.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 gennaio escono due sentenze gemelle della sezione V penale della Cassazione nn. 2905 e 2942 che riconoscono alla pagina Facebook le stesse garanzie di inviolabilità del domicilio reale, con conseguente parità di tutele e, quindi, di reati configurabili in caso di intrusione illecita da parte di terzi non espressamente autorizzati e nei limiti di tale autorizzazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione Civile, sez. I, n. 1875, che affronta la problematica dell’illecita pubblicazione di foto private di <strong>persona nota</strong> e risarcimento del danno. Dall’espressa volontà di vietare la pubblicazione di foto relative alla propria vita privata, riferita ad un soggetto molto conosciuto (nella specie un notissimo attore) non discende l’abbandono del diritto all’immagine che ben può essere esercitato, per un verso, mediante la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinate fotografie, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo e, per altro verso, mediante la scelta di non sfruttare economicamente i propri dati personali, perché lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto. Ne consegue che, nell’ipotesi di plurime violazioni di legge dovute alla pubblicazione e divulgazione di fotografie in dispregio del divieto, non può escludersi il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che ben può essere determinato in via equitativa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della Corte europea dei diritti umani, Sez. I con cui la Corte ha accertato una violazione dell’art. 8 della Convenzione, a causa dei gravi problemi di inquinamento ambientale derivanti dall’attività siderurgica svolta dall’Ilva di Taranto. Inoltre, ha stabilito che i ricorrenti non avevano beneficiato di rimedi effettivi per censurare la situazione a livello nazionale: viene pertanto condannata l’Italia</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della I sezione del TAR Piemonte n. 77 che, in tema di legittimazione delle associazioni di categoria, richiede, in primo luogo, che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale e che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli appartenenti alla categoria.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della CEDU sul caso n. 62257/15 che riconosce la legittimità dell’ordine di imposto da un giudice al ricorrente di sottoporsi al test del DNA in una causa civile nella quale era in discussione il riconoscimento della paternità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 14 in tema di bilanciamento tra il diritto di sciopero degli avvocati e servizio giustizia. Secondo la Corte, quando la disposizione censurata (come nel caso di specie) pone regole destinate a disciplinare l’esercizio del diritto all’astensione degli avvocati dalle udienze, spiegando pertanto un effetto diretto sull’esercizio dell’attività giurisdizionale, trova applicazione il criterio, più volte affermato dalla Corte, secondo cui «come la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato, “il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale” (sentenza n. 174 del 2005; ordinanza n. 44 del 2006)» (sentenza n. 272 del 2008; nello stesso senso, più recentemente, sentenze n. 91 del 2018 e n. 65 del 2014). Non può pertanto essere invocato a parametro di costituzionalità l’art.97 della Costituzione. Viene ribadito (sentenze n. 180 del 2018 e n. 171 del 1996) che «l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo», in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà, palesandosi nondimeno necessario un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che l’art. 1, secondo comma, lettera a), della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione». Tale bilanciamento è realizzato, spiega la Consulta, da una parte, quanto alla disciplina primaria, dal censurato art. 2, comma 5, che prescrive che il preavviso di astensione collettiva non può essere inferiore a dieci giorni e che nella relativa comunicazione deve essere indicata altresì una durata compatibile con la tutela dei diritti fondamentali, sì da garantire le prestazioni indispensabili, nonché ben determinata con la fissazione del termine iniziale e finale; d’altra parte, trovano applicazione le ulteriori più specifiche prescrizioni dettate dal codice di autoregolamentazione, che ha natura di normativa subprimaria (sentenza n. 180 del 2018) e che è stato ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con la citata delibera del 13 dicembre 2007; in particolare, l’art. 2, comma 4, del codice di autoregolamentazione prevede innanzi tutto che «[c]iascuna proclamazione deve riguardare un unico periodo di astensione» e deve essere preceduta da un preavviso minimo di dieci giorni; inoltre, il comma 1 dell’art. 4 prescrive che tra la proclamazione e l’effettuazione dell’astensione non può intercorrere un periodo superiore a sessanta giorni; con questa perimetrazione resta tipizzata la fattispecie di legittima astensione collettiva: una singola proclamazione seguita a breve – non prima di dieci giorni e non dopo sessanta giorni – da un unico (e quindi continuativo) periodo di astensione. La circostanza, poi, che distinte proclamazioni di astensione collettiva, in sequenza temporale, siano riferibili a uno stesso stato di agitazione della categoria non rileva di per sé, essendo ben possibile il progressivo aggiustamento dell’azione di contrasto posta in essere dalla categoria per conseguire (dal Governo o dal legislatore) il risultato cui essa mira; la possibile ripetizione dell’astensione collettiva trova comunque un limite nella più articolata modulazione temporale prevista dal codice di autoregolamentazione, il cui art. 2, comma 4, prescrive che l’astensione non può superare otto giorni consecutivi, con l’esclusione dal computo della domenica e degli altri giorni festivi; inoltre, con riferimento a ciascun mese solare, non può comunque essere superata la durata di otto giorni, anche se si tratta di astensioni aventi a oggetto questioni e temi diversi; in ogni caso tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni. Il limite mensile massimo di otto giorni e l’intervallo minimo di quindici giorni riguardano appunto la possibile sequenza di altrettante distinte proclamazioni riferite a singoli intervalli di astensione collettiva. La circostanza che una singola proclamazione (come quella che in concreto rileva nel giudizio a quo), risulti preceduta da altre, nel contesto di uno stesso stato di agitazione della categoria, e possa essere seguita da altre analoghe comporta che, oltre al limite del preavviso minimo di dieci giorni (e massimo di sessanta), devono essere rispettati anche gli altri due limiti concorrenti: la durata complessiva (per sommatoria) non superiore a otto giorni nel mese e l’intervallo non inferiore a quindici giorni tra il termine finale di un’astensione e l’inizio di quella successiva. Inoltre, l’art. 4, comma 4-quater, della legge n. 146 del 1990 – disposizione espressamente applicabile anche nei casi di astensione collettiva di cui all’art. 2-bis e quindi anche a quella degli avvocati – prevede, innanzi alla Commissione di garanzia, l’attivazione del «procedimento di valutazione del comportamento delle organizzazioni sindacali» che proclamano lo sciopero o vi aderiscono; l’intervento della Commissione può inoltre essere sollecitato dalla «richiesta delle parti interessate, delle associazioni degli utenti rappresentative ai sensi della legge 30 luglio 1998, n. 281, delle autorità nazionali o locali che vi abbiano interesse», ma può altresì essere promosso a iniziativa della Commissione stessa, in ipotesi anche a seguito di segnalazione dello stesso giudice che abbia fissato il processo per un giorno poi risultato ricadente nel periodo di astensione collettiva; disposizione questa che può venire in rilievo proprio nell’evenienza estrema di una sequenza molto prolungata di ripetute astensioni collettive, come temuto dalla Corte d’appello rimettente, che prefigura, in astratto, la possibilità che in un anno potrebbero esserci plurimi periodi di astensione collettiva fino a oltre un terzo di tutte le giornate lavorative; la Commissione sarebbe così chiamata a valutare – o rivalutare – l’idoneità delle prescrizioni del codice di autoregolamentazione con riferimento a una fattispecie siffatta, ove mai in ipotesi ricorrente (art. 13 della legge n. 146 del 1990); rimane, infine, come clausola di chiusura, l’attivazione, anche su segnalazione della Commissione, del potere pubblico di ordinanza, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 146 del 1990 – di cui parimenti è prevista espressamente l’applicazione a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori –, «[q]uando sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’articolo 1». Questa complessiva rete di protezione – da una parte, i limiti (di legge e autoregolamentari), che valgono in generale, e, dall’altra, anche il possibile intervento della Commissione di garanzia e, nei casi estremi, del potere pubblico – assicura la congruità del bilanciamento, in riferimento agli evocati parametri, tra il diritto degli avvocati di astensione collettiva e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, di cui all’art. 1 della legge n. 146 del 1990, per la protezione dei quali devono essere erogate in ogni caso le prestazioni indispensabili. La Corte conclude quindi per la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità prospettate dal remittente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbrario esce la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, con cui la corte ritiene non sussistente la violazione dell’art. 8 della Convenzione con riferimento alla vita privata e familiare, in caso di ambiente familiare degradato, derivante dai genitori di origine, e di conseguente e possibile dichiarazione di addottabilità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia, Sez. II, n. C-345/17, che affronta la questione dubbia della pubblicazione su in sito internet di video e trattamento di dati personali. L’art. 3 della Dir. 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretato nel senso che la registrazione video di taluni agenti di polizia all’interno di un commissariato, durante la raccolta di una deposizione, e la pubblicazione del video così registrato su un sito Internet dove gli utenti possono inviare, visionare e condividere contenuti video, rientrano nell’ambito di applicazione di detta direttiva. L’art. 9 della Dir. 95/46 deve essere interpretato nel senso che la registrazione video di taluni agenti di polizia all’interno di un commissariato, durante la raccolta di una deposizione, e la pubblicazione del video così registrato su un sito Internet dove gli utenti possono inviare, visionare e condividere contenuti video, possono costituire un trattamento di dati personali esclusivamente a scopi giornalistici, ai sensi di tale disposizione, sempre che da tale video risulti che detta registrazione e detta pubblicazione abbiano quale unica finalità la divulgazione al pubblico di informazioni, opinioni o idee, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 20 in tema di bilanciamento tra diritto d’accesso civico e diritto alla riservatezza dei dirigenti pubblici. Anzitutto viene ribadito quanto la Corte (segnatamente, con sentenza n. 269 del 2017) ha già in passato rilevato onde i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima – la Carta dei Diritti Fondamentali UE - costituisce pertanto «parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale»; sicché, fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della relativa conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della relativa compatibilità con la CDFUE; in tali casi – fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 – va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes della Corte costituzionale, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale medesima giudica alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato; un orientamento che va confermato anche nel caso di specie, nel quale principi e diritti fondamentali enunciati dalla CDFUE intersecano, come meglio si chiarirà, principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Peraltro, tra i parametri interposti rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., vengono evocati, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti in particolare dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, e ciò non induce la Corte a modificare l’orientamento ricordato, i principi previsti dalla ridetta Direttiva presentandosi, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella «Spiegazione relativa all’art.8 – Protezione dei dati di carattere personale», che «[q]uesto articolo è stato fondato sull’articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull’articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all’esercizio del diritto alla protezione dei dati personali». La disciplina legislativa censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato; da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti: un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza della Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente; nell’epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a relativa protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali; si tratta dei noti principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul pertinente diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati. Dall’altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017) e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e controlla; principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del resto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013; nel diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE). I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall’altro, proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare; non erra, pertanto, il giudice a quo quando segnala la peculiarità dell’esame cui deve essere soggetta la disciplina legislativa che egli si trova ad applicare, e quando sottolinea che tale esame va condotto dalla Corte costituzionale. La “prima parola” che la Corte, per volontà esplicita del giudice<em> a quo, </em>si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco; resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana generando, del resto, ed in generale, un concorso di rimedi giurisdizionali, con conseguente arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, con esclusione di ogni preclusione; la Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale; ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità - di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 - che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti. La Corte ribadisce di avere sempre la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018); nel caso di specie, essa ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza. Si è in presenza, in particolare, di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni. In valutazioni di tale natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014), nella specifica materia in oggetto, del resto, anche la giurisprudenza europea seguendo le medesime coordinate interpretative. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti (sentenze 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri, e 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert); nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali (punto 85). La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha – del resto - influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in materia di protezione dei dati personali, concluso con l’emanazione di un unico corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n. 2016/679/UE, divenuto efficace successivamente ai fatti dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, ma tenuto in debita considerazione dal giudice a quo, che detta le regole fondamentali per il trattamento dei dati personali, nozione che include anche la trasmissione, la diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione dei dati (art. 4, comma 1, numero 2); i principi che devono governare il trattamento sono sanciti – in particolare - nell’art. 5, comma 1, del citato regolamento (che contiene una disciplina sostanzialmente sovrapponibile a quella delineata dall’art. 6 della ricordata direttiva 95/46/CE) e, tra di essi, assumono particolare rilievo quelli che consistono: nella limitazione della finalità del trattamento (lettera b) e nella «minimizzazione dei dati», che si traduce nella necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento (lettera c). Ancora, un riferimento al necessario bilanciamento tra diritti si trova nelle premesse al regolamento n. 2016/679/UE (considerando n. 4), ove si legge che «[i]l diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità». In definitiva dunque la disciplina europea, pur riconoscendo un ampio margine di regolazione autonoma e di dettaglio agli Stati membri con riguardo a certe tipologie di trattamento (tra i quali quello connesso, appunto, all’esercizio del diritto di accesso: art. 86 del regolamento), impone loro il principio di proporzionalità del trattamento medesimo che, come accennato, rappresenta il fulcro della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia; in virtù di tutto quanto precede, lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato dai principi di derivazione europea, laddove sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione. Allo stato, secondo la Consulta, il d.lgs. n. 97 del 2016 costituisce il punto d’arrivo del processo evolutivo che ha condotto all’affermazione del principio di trasparenza amministrativa, che consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni; la legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come progressivamente modificata, allo scopo di abbattere il tradizionale schermo del segreto amministrativo, ha disciplinato il diritto di accesso ai documenti amministrativi, costruendolo quale strumento finalizzato alla tutela di colui che ne abbia interesse avverso atti e provvedimenti della pubblica amministrazione incidenti sulla sua sfera soggettiva: viene dunque inaugurato, per non essere più abbandonato, un modello di trasparenza fondato sulla “accessibilità” in cui i dati in possesso della pubblica amministrazione non sono pubblicati, ma sono conoscibili da parte dei soggetti aventi a ciò interesse, attraverso particolari procedure, fondate sulla richiesta di accesso e sull’accoglimento o diniego dell’istanza da parte dell’amministrazione. A tale sistema viene però affiancato, attraverso progressive modifiche normative, un regime di “disponibilità”, in base al quale tutti i dati in possesso della pubblica amministrazione, salvo quelli espressamente esclusi dalla legge, devono essere obbligatoriamente resi pubblici e, dunque, messi a disposizione della generalità dei cittadini; in questa prospettiva, il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) offre una prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche […]» (art. 11, comma 1). Oggetto di tale forma di trasparenza non sono più il procedimento, il provvedimento e i documenti amministrativi, ma le «informazioni» relative all’organizzazione amministrativa e all’impiego delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle retribuzioni dei dirigenti e di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico-amministrativo; un modello confermato dalla successiva legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), con la quale la trasparenza amministrativa viene elevata anche al rango di principio-argine alla diffusione di fenomeni di corruzione; la cosiddetta “legge anticorruzione”, tuttavia – affacciandosi possibili tensioni tra le esigenze di trasparenza, declinata nelle forme della «accessibilità totale», e quelle di tutela della riservatezza delle persone – stabilisce limiti generali alla pubblicazione delle informazioni, che deve infatti avvenire «nel rispetto delle disposizioni in materia […] di protezione dei dati personali» (art. 1, comma 15), e delega il Governo ad adottare un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità (art. 1, comma 35). La delega è stata esercitata con l’approvazione del d.lgs. n. 33 del 2013, il cui art. 1 enumera finalità che riecheggiano quelle già enunciate dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 (contestualmente abrogato): in particolare, l’accessibilità totale alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, sempre con la garanzia della protezione dei dati personali, mira adesso anche allo scopo di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Si giunge, infine, all’approvazione del d.lgs. n. 97 del 2016, ove, pur ribadendosi che la trasparenza è intesa come «accessibilità totale», il legislatore muta il riferimento alle «informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni», sostituendolo con quello ai «dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs. n. 97 del 2016, modificativo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)», la stessa novella estendendo ulteriormente gli scopi perseguiti attraverso il principio di trasparenza, aggiungendovi la finalità di «tutelare i diritti dei cittadini» e «promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa». In base alle disposizioni generali del d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni procedono all’inserimento, nei propri siti istituzionali (in un’apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente»), dei documenti, delle informazioni e dei dati oggetto degli obblighi di pubblicazione, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente e immediatamente, senza autenticazione né identificazione (art. 2, comma 2); uutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e riutilizzarli (art. 3, comma 1); le amministrazioni non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche all’interno della sezione «Amministrazione trasparente» (art. 9). Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali “comuni”, diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (questi ultimi, come tali, sottratti agli obblighi di pubblicazione), comportano perciò la loro diffusione attraverso siti istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web, e anche il loro riutilizzo, nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali. In particolare, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti (art. 7-bis, comma 1). Si tratta perciò di modalità di pubblicazione che privilegiano la più ampia disponibilità dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ivi inclusi quelli personali; di questi ultimi, solo quelli sensibili e giudiziari vengono sottratti alla pubblicazione, in virtù di tale loro delicata qualità, mentre per gli altri dati resta il presidio costituito dall’obbligo, gravante sull’amministrazione di volta in volta interessata, di rendere inintelligibili quelli «non pertinenti», in relazione alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza. Va precisato – chiosa la Corte – che, nel presente giudizio di legittimità costituzionale, è all’esame una disposizione in cui è invece il legislatore ad aver effettuato, ex ante e una volta per tutte, la valutazione circa la pertinenza, rispetto a quelle finalità, della pubblicazione di alcuni dati personali di natura reddituale e patrimoniale concernenti i dirigenti amministrativi e i loro stretti congiunti; lo stesso legislatore ne ha dunque imposto la diffusione, assoggettando, con il censurato comma 1-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, anche i dirigenti all’obbligo di pubblicazione, con le modalità appena descritte, dei dati di cui alle lettere c) ed f) del precedente comma 1, risultando la Corte investita del compito di decidere se, ed eventualmente in quale misura, questa scelta legislativa superi il test di proporzionalità, come più sopra descritto. Nella versione originaria, l’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già imponeva alle amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo ai titolari di incarichi politici di livello statale, regionale e locale. I documenti e le informazioni da pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano): a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo percepiti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982, ossia, per quanto qui d’interesse, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso. I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi. La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione; in tal modo, la totalità della dirigenza amministrativa viene sottratta al regime di pubblicità congegnato dall’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 2013 – che per essi prevedeva la pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque denominati – ed è stata attratta nell’orbita dei ben più pregnanti doveri di trasparenza originariamente riferiti ai soli titolari di incarichi di natura politica. In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013); resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche. Proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; la disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del 2016 già contemplava la pubblicità dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale, proprio per agevolare la possibilità di un controllo diffuso, da parte degli stessi destinatari delle prestazioni e dei servizi erogati dall’amministrazione, posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse pubbliche; il regime di piena conoscibilità di tali dati risulta peraltro proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati, trattandosi infatti di consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti – di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione. Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13 Cost.) evocati dal rimettente, in disparte la stringatezza delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure, non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio la sicurezza o la libertà degli interessati, danneggiandone la dignità personale: si tratta, infatti, dell’ostensione di compensi o rimborsi spese direttamente connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale. Precisa poi la Corte che a diverse conclusioni – e dunque alla pertinente declaratoria di fondatezza della questione sollevata dal giudice a quo e della conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale - deve invece pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali; anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è infatti ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale: si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato e che offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare. Occorre in particolare valutare se e in che misura – al netto di talune operazioni di preventiva scrematura, pure imposte dalla legge – la conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia necessaria e proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza; da questo punto di vista, la disposizione censurata non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano, violando perciò l’art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca l’imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso). L’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione; la norma impone la pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (senza considerare coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali (nel parere reso il 3 marzo 2016 sullo schema di decreto legislativo che, successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha introdotto la disposizione censurata); non erra allora il giudice rimettente laddove, considerata tale massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza. La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a determinati fini (nel nostro caso particolare, ai fini di informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini, sotto questo profilo, la disposizione in esame finendo per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del 2013). Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione; tutt’al contrario, la stessa autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti. Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare poi il carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici; l’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità. Si tratta di un rischio peraltro evidenziato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati personali dovuto all’automatizzazione, la Corte EDU si è soffermata sulla stretta relazione esistente tra tutela della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati personali, interpretando anche quest’ultima come tutela dell’autonomia personale da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera, sentenze 16 febbraio 2000, Amann contro Svizzera, e 6 aprile 2010, Flinkkilä e altri contro Finlandia); In una significativa pronuncia (sentenza 8 novembre 2016, Magyar contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati personali per fini di interesse pubblico non può essere ridotto alla “sete di informazioni” sulla vita privata degli altri («The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism»: § 162). Anche sotto il secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test di proporzionalità, configurandosi senz’altro soluzioni alternative a quella prescelta dal legislatore, tante quanti sono i modelli e le tecniche immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte esigenze di riservatezza e trasparenza, entrambe degne di adeguata valorizzazione, ma nessuna delle due passibile di eccessiva compressione. Alcune di tali soluzioni – privilegiate, peraltro, in altri ordinamenti europei – sono state ricordate anche dal giudice rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo competente; quest’ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una disciplina (art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, contenente «Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», e tuttora vigente) che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque, non con le modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate. Non spetta alla Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore; e tuttavia la Corte medesima non può non rilevare sin d’ora – e in attesa di una revisione complessiva della disciplina – che vi è una manifesta sproporzione del congegno normativo approntato rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalità dei titolari d’incarichi dirigenziali. La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati: il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale; eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione. La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio». A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti. Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare. Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti. Non prevedendo invece una consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. Infine, concludono i Giudice delle Leggi, in attesa di un nuovo intervento del legislatore, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore. Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati; tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4); le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente. L’attribuzione a tali dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute. L’intervento della Corte non può che limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata, dei profili di più evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che appaiano, prima facie, indispensabili; appartiene poi alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali. In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 febbraio esce l’ordinanza del Tar Abruzzo, sez. I, n. 41, che afferma la prevalenza del diritto alla salute pubblica rispetto al diritto alla frequenza alla scuola dell’infanzia, in caso di mancanza delle vaccinazioni. Il legislatore a fronte degli interessi contrapposti, quali il diritto alla frequenza alla scuola dell’infanzia e il diritto alla salute pubblica perseguito, privilegia quest’ultimo.</p> <p style="text-align: justify;">.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° marzo esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 1439, con cui viene dichiarato legittimo il decreto n. 439 del 13 dicembre 2016 con il quale il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – in attuazione dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada) – ha regolamentato le limitazioni alla circolazione sulle strade fuori dai centri abitati, in particolari giorni e per particolari veicoli.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza del TAR LIGURIA, SEZ. II, n. 174, che, in accoglimento del ricorso proposto dal privato, dichiara <strong>illegittimo, per difetto di motivazione, il provvedimento con il quale un Comune</strong>, ritenendo sussistente una lesione della libertà di coscienza individuale, nonché necessario il rispetto e la tutela dovuti ad ogni confessione religiosa, a chi la professa e ai ministri di culto, nonché agli oggetti di culto<strong>, ha opposto un rifiuto in merito ad una istanza, avanzata da una Unione religiosa</strong> (nella specie, si trattava della Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti – UAAR), tendente ad ottenere l’autorizzazione ad affiggere, tramite il servizio comunale, i manifesti della campagna informativa nazionale “<em>Non affidarti al caso</em>”, in tema di obiezione di coscienza in ambito sanitario e, segnatamente, in ambito abortivo, e, contestualmente, ha imposto alla medesima Unione la modifica contenutistica del bozzetto di manifesto pubblicitario; in tal caso, infatti, essendo il messaggio pubblicitario circoscritto alla campagna contro l’obiezione di coscienza in campo abortivo, il significato immediatamente ritraibile è quello di un invito, razionale e non illogico, ad informarsi presso il proprio medico dei suoi orientamenti in tema di obiezione di coscienza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 marzo esce la sentenza della CORTE COSTITUZIONALE, n. 34, che risolve il nodo problematico della irragionevole durata del processo, sancendo l’improponibilità della domanda ex legge Pinto in caso di mancato deposito dell’istanza di prelievo. <strong>La Corte, dunque, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112</strong> (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, <strong>come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo</strong>) e dall’art. 1, comma 3, lettera a), numero 6, del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69).</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 marzo esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 37, che affronta la questione della tutela del diritto fondamentale all’onore, ingiuria abrogata e ammissibilità del sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore nel solo caso di uso distorto o irragionevole del potere legislativo.<strong> Va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia; vanno altresì dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia. </strong>La motivazione della Corte è la seguente: in linea di principio, devono assumersi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale oggi sottoposte all’esame della Corte, la disciplina abrogata (delitto di ingiuria) non si atteggiava a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente, sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale, come era accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006 (nonché in quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010). <strong>L’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone. </strong>Il rimettente ha, nel caso di specie, giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore, come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia). <strong>E tuttavia, dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali</strong>: <strong>tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"><a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3dGcPUK%26J%3dJb%264%3daJaOf%268%3dTGcLXN%26S%3d1M0N_Atix_L4_8yls_HD_Atix_K9CUF.7yP2M0Mx0ySBMyX24.yR_Atix_K9qJ58w9CB_8yls_HDJb_8yls_HDScPhSaJhOY_8yls_HDVH8Rx_7y_ktL99IB5Lx_LuX_mKy0DMqP24_5PwB497Sq_L_OWNd_Jb_tC9H9GC409_2E_L_KtKFM.1M3J_Atix_L9AR6_L5SA6u_Pjvf_awguo_78CQ580RxK_8yls_HdDM3_Kx7yS6_Kg1i_VtC64yJ_Atix_KYAR6_6qK94yE7_Kg4q9t1i_Vtlxj%26t%3d%26GB%3dWIdOX">Il 6 marzo esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. Tributaria, n. 6486,</a> che si pronuncia su di un caso di clonazione dell’intero hard disk di un medico. Afferma la Corte di legittimità che le Fiamme Gialle possono accedere ai dati sensibili sull’hard disk del medico anche senza autorizzazione; pertanto, è confermata la validità del procedimento nei confronti di un medico che si era visto clonare l’intero hard disk contenente anche i dati sensibili dei pazienti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 marzo esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, sezione I, n. 22350/13 chr affronta la problematica della <a href="http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2019/03/19/detenzione-sproporzionata-per-il-giornalista-condannato-per-diffamazione-italia-condannata?utm_medium=email&utm_source=WKIT_NSL_QG-00002082&utm_campaign=WKIT_NSL_QG19.03.2019_LFM&utm_source=nl_qgfree&utm_medium=referral&utm_content=quotidiano%20giuridico%20&utm_campaign=newsletter&elqTrackId=8fa671e8e9af4cc8a833eecc3fe0f7bf&elq=bcc64ee8e390429aa8757446a8dd152d&elqaid=26121&elqat=1&elqCampaignId=12290">detenzione sproporzionata per il giornalista italiano, che era stato condannato per diffamazione: Italia condannata</a>. Pronunciandosi su un noto caso “italiano” riguardante la libertà di stampa, in cui si discuteva della legittimità della condanna inflitta al noto giornalista Alessandro Sallusti, è stato riconosciuto che la condanna alla detenzione inflitta al giornalista per il reato di diffamazione alla pena della reclusione non doveva ritenersi proporzionata della sanzione della detenzione rispetto al sacrificio impresso alla libertà di espressione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 marzo esce la sentenza della Corte europea dei diritti umani, Sez. I, 7 marzo 2019 - Pres. Sicilianos - Sallusti c. Italia. La Corte, in accoglimento del ricorso proposto dal privato, per ritenuta violazione della libertà di espressione, ha riscontrato una violazione dell’art. 10 della Convenzione, e dunque condannato l’Italia, ritenendo l’irrogazione di sanzioni detentive nei confronti di giornalisti in contrasto con il diritto alla libertà di espressione.</p> <p style="text-align: justify;"><a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3dBVRUF%26C%3dLb%26y%3dTLbDT%260%3dTBVNXI%26L%3d3M5G_Ctdq_N4_3rns_C7_Ctdq_M98NH.7tI4M5Fz0tLDMtQ44.tK_Ctdq_M9lC78r2EB_3rns_C7S_Kbtk_UqaUcKaSWKXL_Kbtk_Uqd0K56_yB_N2DLlQ4Hy6_D8A_jdl_N0GBw6_0Ko094yQv_G_GXMX_BZ_y81FDB52E4_w_Y_843Q0.A5D7_Kbtk_VqLEF_4FFKn6_Ctdq_N7O6b_GpNDEpKE83_Ilva_SQN5D_88o0FF_3rns_D5zFl07_Kbtk_UGLEF_n28Il02G_3rns4l2v_D5Y8R%265%3d%264L%3dETRcG">L’8 marzo esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. III Civile, n. 6725,</a> che affronta la seguente questione di diritto, ovvero se l<a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3d8a8RB%26H%3d2Y%26u%3dY2Y0Y%26p%3dQ8a4UE%26Q%3diJ1L_sqZv_41_ywTp_9B_sqZv_364Sx.4pNjJ1Kf7pQtJpVj1.pP_sqZv_36uAxI_ywTp_9B9_HXyQ_RmfAZGf0S8d0_HXyQ_Rmrb_3vIq1nJj1_hOt9jQs11Nj3l_Oj_F2K_s9mEvJhNf_4p_9pDzAhDhNf_1s_0bDuAh7p7uE_s7_eEjQn5uPbPpKo5_mKuEnNb6p9b_4lH_t9uEtJyK.iJtH_sqZv_462Pn_IvQs3l_NRsW_Yedlm_o54Om51PfH_ywTp_9bvJt_If4pQn_H1h7bXyQ_SkAn1pH_sqZv_3V2Pn_3hIq1pCo_HXyQ_Skjfg%26k%3d%26Et%3dT0cAV">a compagnia assicuratrice si può rifiutare di consegnare al danneggiato la documentazione fotografica del sinistro.</a> <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=5%3d0bITD%26I%3dCa%26w%3dZCaBZ%261%3dS0bEWG%26R%3dtL3M_4sbw_E3_1xer_AC_4sbw_D86T9.6rOuL3Lq9rR5LrWu3.rQ_4sbw_D8wB9K_1xer_ACJ_JZzb_TogLbIgKU0eK_JZzb_Tosm_5xJ23pKu3_jP5AlR433Ou5n_Pu_H4L_4AoF7LjOq_6r_01F2BsFjOq_3u_AmFwBs9r86G_u8_pGlRy7wQmRrLz7_oL6GpOm8r0m_6nI_5AwF5L1L.tLvI_4sbw_E84Qy_KxR45n_OcuY_Zpfnn_z76Px73QqJ_1xer_Ac7Lv_Jq6rRy_J3j8mZzb_UmBy3rI_4sbw_DX4Qy_5jJ23rDz_JZzb_Umkqi%26m%3d%26F5%3dVBdLX"> La richiesta di accesso agli atti, che può essere effettuata dai danneggiati alle società di assicurazione obbligatoria r.c.a., a conclusione dei procedimenti di valutazione, contestazione e liquidazione dei danni che li riguardano, non può essere ricondotta alla disciplina in tema di accesso ai dati personali contenuta nel “codice della privacy”.</a> Pertanto, il rifiuto di tale documentazion è illegittimo.</p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 11 marzo escela sentenza della CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I civile, n. 6972, che affronta la tematica della configurabilità di un diritto soggettivo in capo ai genitori degli alunni a che i figli portino il cibo preparato da casa, consumabile nei locali della mensa. Alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all'istruzione, all'educazione dei figli e all'autodeterminazione individuale in relazione alle scelte alimentari, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=9%3dBWGXF%26D%3dAe%26y%3dUAeHW%26y%3dWBWCaI%26M%3drP5H_2wdr_C7_3scv_C8_2wdr_BB8O7.0tJsP5GoCtM3PtRs7.tL_2wdr_BBy77O_3scv_C8H_NbuZ_XqbJfKbIYCSA_NbuZ_Xqes8z_HyN534K_o3_m743_o_9zF3Qx34K_y7s_Hz5kHt_3nEmA4E_l_EoJ43_39zDkO5Am7_w3_nAnA3EzFo_O174Pl_3vHp_uoVtGxE_fFsPp.04Iw_Jaya_UpQ5E_3K6JmA_3scv_D6NAR_FoS4DoP572_NbuZ_XGM4I_x7nE6E_2wdr_C07l3kpEkEw_Jaya_TFQ5E_m7xHkErF_2wdr_C0O7Q%260%3d%26tK%3dDYHWC">va rimessa alle Sezioni Unite la questione se sia configurabile o meno un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell'orario destinato alla refezione scolastica.</a></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il 15 marzo esce la sentenza n. 50 della CORTE COSTITUZIONALE, </strong>che affronta la questione problematica, inerente al riconoscimento dell’assegno sociale nei confronti degli stranieri, relativamente alla necessità di possesso di carta di soggiorno di lungo periodo. Rilevante la parte motiva così illustrata: “La giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che «entro i limiti consentiti dall’art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 […], e comunque nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo assicurati dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore [può] riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza» (sentenza n. 222 del 2013); <strong>ne segue che la Costituzione impone di preservare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale» (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona, per questa parte la prestazione non atteggiandosi tanto a componente dell’assistenza sociale</strong> (che l’art. 38, primo comma, Cost. riserva al «cittadino»), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.). Stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di là del confine invalicabile appena indicato, rientra dunque nella discrezionalità del legislatore graduare con criteri restrittivi, o financo di esclusione, l’accesso dello straniero extracomunitario a provvidenze ulteriori: per esse, laddove è la cittadinanza stessa, italiana o comunitaria, a presupporre e giustificare l’erogazione della prestazione ai membri della comunità, viceversa ben può il legislatore esigere in capo al cittadino extracomunitario ulteriori requisiti, non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo, in tal modo, le provvidenze divenendo il corollario dello stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo. La titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, diversamente dalla mera residenza legale in Italia, è subordinata a requisiti (la produzione di un reddito; la disponibilità di un alloggio; la conoscenza della lingua italiana: art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998) che sono in sé indici non irragionevoli di una simile partecipazione; essa perciò rappresenta l’attribuzione di un peculiare status che comporta diritti aggiuntivi rispetto al solo permesso di soggiorno, consentendo (art. 9, comma 12, del d.lgs. n. 286 del 1998) di entrare in Italia senza visto, di svolgervi qualsiasi attività lavorativa autonoma o subordinata, di accedere ai servizi e alle prestazioni della pubblica amministrazione in materia sanitaria, scolastica, sociale e previdenziale, e di partecipare alla vita pubblica locale; il permesso di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che ha durata indeterminata, consente l’inclusione dello straniero nella comunità nazionale ben distinguendo il relativo status dalla provvisorietà in cui resta confinato il titolare di permesso di soggiorno di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998<strong>. Non è perciò né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età</strong>: tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). <strong>Rientra nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano, onde sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno.</strong></p> <p style="text-align: justify;">La questione relativa all’art. 38 Cost., che sarebbe violato perché la norma impugnata subordina il godimento del diritto all’assegno sociale al «possesso di una certificazione di tipo amministrativo», è da assumersi infondata, essendosi già posto in luce che la titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo comporta la ricorrenza di requisiti ai quali non è manifestamente irragionevole legare il riconoscimento della prestazione assistenziale. Il legislatore può legittimamente prevedere specifiche condizioni per il godimento delle prestazioni assistenziali eccedenti i bisogni primari della persona, purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie, com’è appunto nella specie la considerazione dell’inserimento socio-giuridico del cittadino extracomunitario nel contesto nazionale, come certificata dal permesso di soggiorno UE di lungo periodo, al quale l’ordinamento fa conseguire il riconoscimento di peculiari situazioni giuridiche che equiparano il cittadino extracomunitario – a determinati fini – ai cittadini italiani e comunitari. Va allora dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino; e va del pari dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, dal Tribunale ordinario di Bergamo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il 26 marzo esce la sentenza della <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=A%3d9WTZC%26D%3dNg%26v%3dUOY0S%26B%3dY9WPcF%26M%3d5R2H_Eyar_P9_zspx_08_Eyar_OD5OJ.BqJ6R2G2EqMFRqR69.qL_Eyar_ODiD9Co3GG_zspx_08Ne_zspx_08WhHbWfBTTY_zspx_08ZMzL2_Bq_i6S1L6Xq3_rm_OJxLl7_pC8ABLm_K2L27AXi_TS_KiJMM_0bNg_K_SOg_9Z.5RuD_Eyar_PD3L0_QwMEAm_Jn1X_U1lmi_AC5K9C2L2P_zspx_0XHRu_E2BqM0_PYum_al709qD_Eyar_Od3L0_AiEC9q9A_PYum_alf2o9i3x%26l%3d%26AF%3dbAaOe">Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, C-129/18</a>, </strong>che affronta la problematica inerente agli stranieri, e in specie all’ obbligo per lo Stato UE di agevolare l'ingresso e il soggiorno del minore sottoposto al regime della "kafala" islamica. Sostiene la Corte che la nozione di «discendente diretto» di un cittadino dell’Unione contenuta all’articolo 2, punto 2, lettera c), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa <strong>non ricomprende un minore posto sotto la tutela legale permanente di un cittadino dell’Unione a titolo della kafala algerina, in quanto tale sottoposizione non crea alcun legame di filiazione tra di loro</strong>. È tuttavia compito delle autorità nazionali competenti agevolare l’ingresso e il soggiorno di un minore siffatto in quanto altro familiare di un cittadino dell’Unione, conformemente all’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva, letto alla luce dell’articolo 7 e dell’articolo 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, procedendo ad una valutazione equilibrata e ragionevole di tutte le circostanze attuali e pertinenti del caso di specie, che tenga conto dei diversi interessi presenti e, in particolare, dell’interesse superiore del minore in questione. Nell’ipotesi in cui, in esito a tale valutazione, fosse stabilito che il minore e il relativo tutore, cittadino dell’Unione, sono destinati a condurre una vita familiare effettiva e che tale minore dipende dal relativo tutore, i requisiti connessi al diritto fondamentale al rispetto della vita familiare, considerati congiuntamente all’obbligo di tener conto dell’interesse superiore del minore, esigono, in linea di principio, che sia concesso al suddetto minore un diritto di ingresso e di soggiorno al fine di consentirgli di vivere con il suo tutore nello Stato membro ospitante di quest’ultimo.</p> <p style="text-align: justify;"><a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=8%3d2VFW6%26C%3d0d%26o%3dTAW6V%26x%3dV2VBZ9%26L%3dqOuG_1vTq_B6_srbu_37_1vTq_AAxN6.9jIrOuFnBjL2OjQr6.jK_1vTq_AAbCu0h23D_srbu_370Y_srbu_37IeAaIc5UIZ_srbu_37LJsKn_9j_djNt29DpEn_NfQ_RnJ_drQjCn_Js5rIbE96_o_ZBYA_RH_9fGxNjKjOb_0u_Y_bG1Dm6.qOnC_1vTq_BAvKv_NpL18f_IZxQ_Tmifh_w0xJu0uKnM_srbu_3W4On_Dn9jLv_MRtY_Xe6v6jC_1vTq_AavKv_8bDy6j8w_M6b2jRtY_Xeenl%26e%3d%2602%3dY5RIe">Il 4 aprile esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. III Civile, n. 9340, </a>che dichiara risarcibile il <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3d2c0U6%26J%3d4b%26o%3da5U6c%26r%3dT2c6X9%26S%3dkMuN_utTx_64_syVs_3D_utTx_59xUz.7jPlMuMh0jSvMjXl4.jR_utTx_59oCzL_syVs_3D4W_syVs_3DCcAhCb4dCb_syVs_3DY4_sGv4sAlMp_Go_7bLqH_bJo4_wGwMjKd_7fJ_sKpAhLtM_l7fLwBgGf4cGo8_e9oEb_Tl7fMuBqPhLb_Ru4tKhLt9_lG_uCo8wGvBpLh.AuKo_KR1S_VgSwF_tMxKdC_utTx_67ECJ_GfUvEfRw8s_PTvQ_Z9NuK_p8eGxF_syVs_4BhF4b9dbGo_KR1S_U7SwF_d9pIbGjG_syVs_4BG8H%26B%3d%26lL%3d5b4cA"> il danno alla vittima del processo identificabile dalla videoripresa trasmessa in televisione</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 aprile esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Penale, n. 15104, che dichiara, in tema di detenzione e trattamento inumano, il principio di diritto per cui per la determinazione dello spazio individuale minimo, pari o superiore a 3 metri quadrati, da garantire al detenuto affinché lo Stato non violi il divieto di trattamenti inumani, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi.</p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 8 aprile esce la sentenza della Cassazione penale, sezione III, n. 15141 che ribadisce che <a href="http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2019/05/14/il-diritto-all-inviolabilita-del-domicilio-non-impedisce-la-demolizione-dell-immobile-abusivo?utm_medium=email&utm_source=WKIT_NSL_QG-00003822&utm_campaign=WKIT_NSL_QG14.05.2019_LFM&utm_source=nl_qgfree&utm_medium=referral&utm_content=quotidiano%20giuridico%20&utm_campaign=newsletter&elqTrackId=8423b518be6641b19c5cb5213d576763&elq=91e9654670d4496e9498c7d6d80fac52&elqaid=29160&elqat=1&elqCampaignId=14299">il diritto all’inviolabilità del domicilio non impedisce la demolizione dell’immobile abusivo</a>. In parte motiva, si spiega infatti che “Nella stesso si colloca una decisione più recente, in cui si è affermato che <strong>l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all'art. 8 CEDU, </strong>posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto "assoluto" ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l'equilibrio urbanistico-edilizio violato (Sez. 3, n. 24882 del 26/04/2018 - dep. 04/06/2018, Ferrante, Rv. 273368). Invero, nell'ordinamento italiano l'ordine di demolizione non riveste una funzione punitiva, quale elemento di pena da irrogare al colpevole, ma assolve a una funzione ripristinatoria del bene interesse tutelato. La ratio della previsione, dunque, non è quella di sanzionare ulteriormente (rispetto alla pena irrogata) l'autore dell'illecito, ma quella di eliminare le conseguenze dannose della condotta medesima, rimuovendo la lesione del territorio così verificatasi e ripristinando quell'equilibrio urbanistico-edilizio che i vari enti preposti - ciascuno per la propria competenza - hanno voluto stabilire. Al punto che tale ordine, quando imposto dall'autorità giudiziaria in uno con la séntenza di condanna, non si pone in rapporto alternativo con l'omologo ordine emesso dall'autorità amministrativa, ferma restando la necessità di un coordinamento tra le due disposizioni in sede esecutiva (tra le molte, Sez. 3, n. 55295 del 22/9/2016, Fontana, Rv. 268844<strong>). In altri termini, il rispetto del principio di proporzionalità implica, a carico dell'autorità giudiziaria, una valutazione, nel singolo caso concreto, se l'esecuzione dell'ordine di demolizione possa ritenersi giustificato </strong>in considerazione delle ragioni espresse dal destinatario della misura, al fine di bilanciare il suo diritto alla tutela dell'abitazione ai sensi dell'art. 8 CEDU e l'interesse dello Stato ad impedire l'esecuzione di interventi edilizi in assenza di regolare titolo abilitativo. Ciò comporta che sia il giudice a dover stabilire, tenuto conto delle circostanze del caso concreto dedotte dalle parti, se demolire la casa di abitazione abusivamente costruita sia "proporzionato" rispetto allo scopo, riconosciuto peraltro legittimo dalla Corte EDU, che la normativa edilizia intende perseguire prevedendo la demolizione. Infine, va evidenziata l'affermazione della Corte EDU laddove esclude che l'ordine di demolizione contrasti con l'art. 1 del protocollo n.1 (protezione della proprietà). Il 15 aprile esce la sentenza della Cassazione civile, sez. III, n. 10423, che pronunciandosi su un caso di responsabilità medica, chiarisce il diritto al risarcimento per violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente e relativo diritto al risarcimento in caso di mancata preventiva informazione in merito all'operazione effettivamente eseguito Il 17 aprile esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. II Civile, n. 10740, che dichiara che in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme in materia di trattamento dei dati, l’utilizzo dei dati personali di terzi inconsapevoli presuppone la preliminare raccolta degli stessi. Legittima dunque la contestazione della violazione degli artt. 161 e 13 cod. privacy.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 20 aprile esce la sentenza del TAR LOMBARDIA, n. 383, che si pronuncia sulla concessione di area cimiteriale ad associazione privata e rispetto del diritto alla sepoltura senza discriminazione di fede. Sostiene il collegio che ove un Comune abbia stipulato una convenzione con la quale un Centro Culturale Islamico si è impegnato ad accogliere nell’area cimiteriale assegnatagli dall’Ente locale tutti i defunti di quella religione che lo desiderano, senza distinzione di sesso, censo, etnia o tradizione, deve ritenersi illegittima la clausola successivamente apposta dall’Ente locale alla medesima convenzione secondo cui nel reparto speciale islamico del cimitero sono accolti tutti i defunti di quella religione per i quali ne venga fatta richiesta e di cui venga attestata preventivamente la professione della fede islamica da parte dello stesso Centro Culturale Islamico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 11228/19, che dichiara non riconoscibile il diritto all'equo indennizzo per irragionevole durata del processo laddove il pregiudizio sofferto non superi una soglia minima di gravità. In base al principio <strong>de minimis non curat praetor</strong> recepito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non è indennizzabile la violazione che raggiunga una soglia minima di gravità. Intanto può presumersi come normale l’afflizione derivante dalla durata di un processo, in quanto il pregiudizio sofferto raggiunga nel caso concreto una soglia minima di gravità, al di sotto della quale il patema non è più oggettivabile e meritevole di tutela.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 8 maggio esce la sentenza n. 12913 della Corte di Cassazione, SSUU, che si pronuncia accogliendo il ricorso del privato, annullando la decisione della corte di merito per il seguente motivo: “non può pertanto condividersi il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nella parte in cui, pur riconoscendo nella disposizione di cui all'art. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004 il punto di equilibrio attual- mente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia, ha preteso di sostituire la propria valutazione a quella compiuta in via generale dal legislatore, attribuendo la prevalenza all'interesse dei minori alla conservazione dello status filiationis, <strong>nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale.</strong> Non risulta pertinente, in proposito, il richiamo all'affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 19599 del 2016, secondo cui le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004, imputabili agli adulti che hanno fatto ricor- so ad una pratica fecondativa illegale in Italia, non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale, che dev'essere tutelato, alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all'estero: tale in- teresse, come si è visto, è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell'ottica fatta propria dal Giudice del- le leggi, viene a configurarsi come l'anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di auto- responsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell'identità geneti- ca e biologica. Tale prevalenza, d'altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell'interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume par- ticolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consen- tire la costituzione di un legame giuridico con il genitore intenzionale, che, pur diverso da quello previsto dall'art. 8 della legge n. 40 del 2004, garanti- sca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017); in proposito, va richiamato soprattutto l'orientamento di questa Corte in tema di adozione in casi particolari, che, proprio facendo leva sull'interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, individua nell'art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 una clausola di chiusura del sistema, volta a consen- tire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguarda- re la continuità della relazione affettiva ed educativa, all'unica condizione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», da intendersi non già come impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono del minore, bensì come impossibilità di diritto di procedere all'affidamento preadottivo (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962). 13.3. Tali conclusioni non si pongono affatto in contrasto con i principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell'infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione, ratificandole e rendendole esecutive nell'ordinamento interno, né con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza formatasi al riguardo, e richiamata nell'ordinanza im- pugnata. E' pur vero, infatti, che le predette fonti assicurano la più ampia tutela al minore, riconoscendo allo stesso il diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il suo benessere, impegnando gli Stati a preservarne l'i- dentità ed a rispettarne le relazioni familiari, ed individuando, quale criterio preminente da adottare in tutte le decisioni che lo riguardino, il suo interesse superiore, nonché promuovendo la concessione delle garanzie procedura- li necessarie ad agevolare l'esercizio dei suoi diritti (cfr. in particolare gli artt. 3, 8 e 9 della Convenzione di New York cit.; gli artt. 1 e 6 della Con- venzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo 2003, n. 77; gli artt. 8, 9, 10, 22, 23, 28 e 33 della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all'Aia il 19 otto- bre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101; l'art. 24 della Carta di Nizza). Ciò non significa tuttavia che la tutela del predetto interesse non possa costituire oggetto di contemperamento con quella di altri valori consi- derati essenziali ed irrinunciabili dall'ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull'individuazione delle modalità più opportune da adottare per la sua realizzazione, soprattutto in materie sensibili come quella in esame, che interrogano profondamente la coscienza individuale e collettiva, ponen- do questioni delicate e complesse, suscettibili di soluzioni differenziate. D'altronde, proprio in tema di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale, la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di au- torizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell'identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comun- que legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite at- traverso l'imposizione del divieto in questione. Pur osservando che il manca- to riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, essa ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in con- creto la possibilità di condurre un'esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando soltanto una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in relazione alla lesione dell'identità personale eventualmente deri- vante dalla coincidenza di uno dei genitori d'intenzione con il genitore biologico del minore (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). Le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d'intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l'inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l'accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status finiliationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell'altro genitore. Nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 24001 del 2014, e riproposto dinanzi ad essa, la Corte EDU ha d'altronde escluso entrambe le violazioni, negando per un verso la configurabilità di una vita familiare, in considerazione dell'assenza di qualsiasi legame genetico o biologico tra il minore ed entrambi i genitori e della breve durata della relazione con gli stessi, e ritenendo per altro verso legittima l'ingerenza nella vita privata, concretizzatasi nell'interruzione dei rapporti con i genitori e nella dichiarazione dello stato di adottabilità, alla luce dell'illegalità della condotta tenuta dai genitori, che avevano condotto il minore in Italia senza rispettare la di- sciplina dell'adozione, e della conseguente precarietà della relazione in tal modo instauratasi (cfr. Corte EDU, sent. 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia). Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l'individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto geni- toriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fer- mo restando l'obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordina- riamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell'ordi- namento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell'adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio. 13.4. L'ultima questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite può dunque essere risolta mediante l'enunciazione del seguente principio di diritto: «Il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale stra- niero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d'inten- zione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della sur- rogazione di maternità previsto dall'art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l'istitu- to dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983». 14. In applicazione dei predetti principi, va pertanto accolto anche il quinto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco, con la con- seguente cassazione dell'ordinanza impugnata, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sen- si dell'art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., con il rigetto della domanda di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, sez. V, n. 66554/14, che pronunciandosi su un caso “francese” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie di considerare conforme alla legge un accesso domiciliare eseguito ai danni di un cittadino, dichiara l’illegittimità di un accesso nel domicilio altrui, al fine di controllare i lavori edilizi in corso, se non c'è nessuno o in assenza di consenso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della Corte di Cassazione civile, n. 13000, che afferma che è consentita la rettifica dello stato civile finalizzata all’attribuzione del cognome paterno al bambino nato da procreazione con seme congelato dell’uomo che aveva prestato l’assenso a tale tecnica, prima della sua morte. In caso di fecondazione omologa post mortem, con seme crioconservato del padre, e precedentemente autorizzata da quest'ultimo, è consentita la rettifica dello stato civile per l'attribuzione del cognome paterno al bambino nato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della cassazione penale, n. 23808, che, respingendo il ricorso del privato, sostiene che “deel tutto correttamente, dunque, i giudici del gravame hanno posto in rilievo come il particolare contesto entro il quale era avvenuta la produzione del documento recante dati sensibili era tale da far ritenere, in assenza di dati fattuali significativi di segno contrario, che le informazioni in esso contenute sarebbero restate confinate nel ristretto ambito dei soggetti coinvolti, per motivi professionali, nel procedimento civile. In conclusione, <strong>il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato dall'art. 167 d.lgs. 196/2003 non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali, </strong>ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell'interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 29 maggio esce la sentenza della Cassazione Penale, Sez. III, n. 23808 che si pronuncia in tema di privacy, affrontando la questione se debb considerarsi reato la produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali senza il consenso dell’interessato. Sostiene la Corte che il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato di cui all’art. <strong>167, D.Lgs. n. 196 del 2003, non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali</strong>, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi diuna effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza della CORTE COSTITUZIONALE, n. 141, che viene resa nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), promosso dalla Corte d’appello di Bari, nel procedimento penale a carico di G. T. e altri. La Corte dichiara la questione infondata, nella seguente parte motiva: “Nel caso in esame, si registrano significative oscillazioni della giurisprudenza di legittimità in ordine all’individuazione del bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958. Per lungo tempo, essa ha infatti individuato l’oggetto della tutela – conformemente all’originaria impostazione del codice penale – nel buon costume e nella moralità pubblica (dunque, in un interesse “metaindividuale” e indisponibile). Nel 2004 tale indirizzo è stato oggetto di revisione, essendosi affermato, in alcune pronunce, che la legge in questione mirerebbe, in realtà, principalmente a salvaguardare la dignità e la libertà di determinazione della persona che si prostituisce (Corte di cassazione, sezione terza penale, 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n. 35776; abbina pariteticamente tale interesse individuale alla protezione della moralità pubblica e del buon costume, Corte di cassazione, sezione terza penale, 9 novembre 2004-21 gennaio 2005, n. 1716). Ed è proprio valorizzando il riferimento alla libera autodeterminazione della persona nella sfera sessuale, operato dal nuovo indirizzo giurisprudenziale (peraltro in combinazione alla dignità), che la Corte rimettente nega che le norme censurate possano ritenersi rispettose del principio di offensività: se la persona ha liberamente scelto di prostituirsi, chi l’aiuta a realizzare la sua scelta recherebbe un vantaggio, e non un danno, allo stesso interesse tutelato. Successivamente, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha conosciuto una ulteriore evoluzione. Secondo le più recenti pronunce in materia, infatti, il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958 non sarebbe né la morale pubblica, né la libera autodeterminazione sessuale della persona che esercita il meretricio, la quale, se fosse conculcata contro la sua volontà, darebbe luogo a ben diversi reati. La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto sulla dignità della persona esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non potrebbe costituire materia di contrattazioni (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio 2018, n. 5768). Questa nuova correzione di rotta è criticata dalle parti costituite, le quali ravvisano in essa un mero espediente per evitare di dover riconoscere l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate. Il richiamo al concetto di dignità – che nella cornice del più recente orientamento assume chiaramente una valenza oggettiva – maschererebbe, nella sostanza, una riesumazione della vecchia prospettiva della tutela della morale dominante: valore insuscettibile – in assunto – di assurgere a oggetto della tutela penale, ostandovi il principio di laicità dello Stato, che impedirebbe di assoggettare a pena determinate condotte solo perché considerate dai più eticamente scorrette. Al riguardo, è peraltro dirimente il rilievo che le incriminazioni oggetto dell’odierno scrutinio si rivelano, comunque sia, conciliabili con il principio di offensività “in astratto” ove riguardate nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta, nei termini già illustrati: ottica nella quale esse risultano rispettose dei canoni indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, appena sopra ricordati… infondata è anche l’ultima questione, con la quale si denuncia il difetto di determinatezza e tassatività della sola fattispecie del favoreggiamento. Questa Corte ha già avuto modo di dichiarare non fondata analoga questione, sollevata all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 75 del 1958, anche con riguardo alla fattispecie dello sfruttamento (sentenza n. 44 del 1964, ribadita dalla successiva ordinanza n. 98 del 1964). La conclusione va qui confermata. Per costante giurisprudenza di questa Corte, «<strong>l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato</strong>, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, n. 77633, che afferma che la <a href="http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2019/06/17/la-normativa-italiana-sul-c-d-ergastolo-ostativo-e-contraria-alla-convenzione-edu?utm_medium=email&utm_source=WKIT_NSL_QG-00004924&utm_campaign=WKIT_NSL_QG17.06.2019_LFM&utm_source=nl_qgfree&utm_medium=referral&utm_content=quotidiano%20giuridico%20&utm_campaign=newsletter&elqTrackId=a634b07741264434a088417926c7d927&elq=3371be08f00440f6b963952e3389d957&elqaid=31347&elqat=1&elqCampaignId=15712">normativa italiana sul c.d. “ergastolo ostativo” è contraria alla Convenzione EDU</a>. L'ergastolo ostativo viola il rispetto della dignità umana. Con la decisione resa nel caso Viola contro Italia la Corte di Strasburgo ha stabilito in modo tranciante che l'ergastolo non riducibile c.d. ostativo viola il divieto di trattamenti degradanti e inumani e il generale rispetto della dignità umana. La pronuncia in questione riguarda la vicenda di Marcello Viola, cittadino italiano, condannato a fine anni '90, dalla Corte d'Assise di Palmi, per i reati di associazione mafiosa, omicidio, sequestro di persona, possesso illegale di armi. Viola, in regime di 41 bis dal 2000, si era visto respingere le istanze volte ad ottenere i benefici penitenziari (permessi e liberazione condizionale), poiché, nonostante i rapporti dell'osservazione all'interno del carcere evidenziassero la buona condotta e un cambio positivo della sua personalità, non era stata accertata la collaborazione con la giustizia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale, n. 144, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), promosso dal Tribunale ordinario di Pavia, nel procedimento relativo a G. A., in qualità di amministratore di sostegno di A. T. ll giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, con ordinanza del 24 marzo 2018, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti: DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato. <strong>Per la Corte, le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate. </strong>Il giudice tutelare rimettente (legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale: da ultimo, sentenza n. 258 del 2017) impernia i dubbi di costituzionalità sul seguente assunto: in ragione di quanto previsto dalle disposizioni censurate, l’amministratore di sostegno, al quale, in assenza delle DAT, sia stata affidata la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ha per ciò solo, sempre e comunque, anche il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del beneficiario, senza che il giudice tutelare possa diversamente decidere e senza bisogno di un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure. Si tratta di un presupposto interpretativo erroneo. Deve innanzitutto osservarsi che la legge n. 219 del 2017, come si evince sin dal suo titolo, dà attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico» (art. 1, comma 2).Per quanto qui rileva, il principio – previsto da plurime norme internazionali pattizie, oltre che dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche – ha fondamento costituzionale negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e svolge la «funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative» (sentenza n. 438 del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 253 del 2009 e ordinanza n. 207 del 2018). In attuazione delle norme costituzionali, la legge n. 219 del 2017, pertanto, dopo aver sancito che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1, comma 1), promuove e valorizza la relazione di cura e fiducia tra medico e paziente che proprio sul consenso informato deve basarsi (art. 1, comma 2), esplicita le informazioni che il paziente ha diritto di ricevere (art. 1, comma 3), stabilisce le modalità di espressione del consenso e del rifiuto di qualsivoglia trattamento sanitario, anche (ma non solo) necessario alla sopravvivenza (art. 1, commi 4 e 5), prevede l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa dal paziente (art. 1, comma 6). La legge n. 219 del 2017 ha poi introdotto, ovviamente in correlazione al diritto all’autodeterminazione in ambito terapeutico, l’istituto delle DAT, prevedendo che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di determinarsi, possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, a tale scopo indicando un «fiduciario», che faccia le sue veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4, comma 1). Il medico è tenuto al rispetto delle DAT (che devono essere redatte secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 6), potendo egli disattenderle, in accordo con il fiduciario, soltanto «qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» (art. 4, comma 5). L’art. 3 della legge n. 219 del 2017 reca la disciplina – concernente tanto il consenso informato quanto le DAT – applicabile nel caso in cui il paziente sia non una persona (pienamente) capace di agire (art. 1, comma 5), ma una persona minore di età, interdetta, inabilitata o beneficiaria di amministrazione di sostegno. Le norme oggetto del presente giudizio di costituzionalità regolano, in particolare, quest’ultimo caso, stabilendo, da un lato, che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno prevede l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, «il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3, comma 4); dall’altro, che, qualora non vi siano DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta le cure e il medico le reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme censurate, dunque, sono volte a disciplinare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato, anche – ma non soltanto – laddove questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza. Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice rimettente, però, esse non hanno disciplinato «le modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario», le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ., come introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali). Le norme oggetto dell’odierno sindacato di questa Corte, altrimenti detto, non disciplinano l’istituto dell’amministrazione di sostegno, ma regolano il caso in cui essa sia stata disposta per proteggere una persona che è sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il consenso informato a detti trattamenti. L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017 deve essere condotta, pertanto, alla luce dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, richiamato dalle norme censurate: segnatamente, è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al giudice tutelare al momento della nomina dell’amministratore di sostegno, i quali non sono affatto contemplati dalla richiamata legge n. 219 del 2017.</p> <p style="text-align: justify;">L’amministrazione di sostegno è, insomma, un istituto duttile, che, proprio in ragione di ciò, può essere plasmato dal giudice sulle necessità del beneficiario, anche grazie all’agilità della relativa procedura applicativa (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 settembre 2015, n. 17962; 26 ottobre 2011, n. 22332; 1° marzo 2010, n. 4866; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12 giugno 2006, n. 13584). Con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, difatti, il giudice tutelare «si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario l’intervento» (sentenza n. 114 del 2019), perché è chiamato ad affidargli, nell’interesse del beneficiario, i necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui compimento quest’ultimo sia ritenuto inidoneo (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 29 novembre 2006, n. 25366).</p> <p style="text-align: justify;">È fuor di dubbio, infine, che possa ricorrersi all’amministrazione di sostegno anche laddove sussistano soltanto esigenze di «cura della persona» – come d’altra parte recitano gli artt. 405, quarto comma, e 408, primo comma, cod. civ. – in quanto esso non è istituto finalizzato esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in generale, a soddisfarne i «bisogni» e le «aspirazioni» (art. 410, primo comma, cod. civ.), così garantendo adeguata protezione alle persone fragili, in relazione alle effettive esigenze di ciascuna (Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 26 luglio 2018, n. 19866; sul ricorso all’amministrazione di sostegno per l’esercizio di scelte connesse al diritto alla salute, anche Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 12998).</p> <p style="text-align: justify;">Diritti fondamentali - Conferimento all'amministratore di sostegno della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario e necessario intervento del giudice tutelare ai fini dell'attribuzione del potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 giugno esce il parere del CONSIGLIO DI STATO, SEZ. CONSULTIVA ATTI NORMATIVI, n. 1732, che si pronuncia in tema di procreazione medicalmente assistita eterologa, facendo rilievi sullo schema di regolamento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 luglio esce la sentenza della cassazione penale, sezione V, n. 31994 che sancisce che per i tabulati telefonici della p.o. non ci sono i limiti all’acquisizione previsti dal codice della privacy. Pronunciandosi su un ricorso proposto, avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un soggetto per il reato di stalking ai danni di una donna, la Cassazione chiarisce che vi è piena utilizzabilità, ai fini della prova del reato di stalking, delle risultanze dei tabulati telefonici della persona offesa e compatibilità della disciplina prevista dall'art. 132 d.lgs. n. 196/2003 con il diritto sovranazionale in tema di tutela della privacy.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione, a SS.UU. civili, n. 19681, che si pronuncia in tema di bilanciamento tra l’esercizio del diritto di cronaca giornalistica, il diritto alla rievocazione storica di fatti ormai passati ed il diritto, di contro, di riservatezza di quanti siano interessati dai fatti ormai caduti nel dimenticatorio. Le Sezioni Unite chiariscono i presupposti per l'interessato nel chiedere la cancellazione di una notizia a sé relativa in tema di rapporti tra il diritto di riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito - ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione, protetta e garantita dall’art. 21 Cost. - ha il compito di <strong>valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti.</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 luglio esce la sentenza a SS.UU. della Corte di Cassazione civile, n. 19681, che affronta la delicata materia del diritto all’oblio. In tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall’art. 21 Cost. - ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. <strong>Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito</strong>; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati Il 29 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia, sezione seconda, C-40/17, che si pronuncia sulla responsabilità responsabilità congiunta del gestore di sito Internet che utilizzi il pulsante "Mi piace" di Facebook con il social network per la raccolta e trasmissione dei dati personali dei visitatori del sito: il gestore di un sito Internet che utilizzi il pulsante «Mi piace» di Facebook può essere congiuntamente responsabile con il social network della raccolta e trasmissione dei dati personali dei visitatori del suo sito. Per contro, in linea di principio, non è responsabile del trattamento successivo di tali dati effettuato esclusivamente da Facebook.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione, SS.UU. civili, n. 19883, che si pronuncia sull’istanza di indennizzo, ex legge pinto, affermando che l'inerzia del privato creditore dello Stato esclude l'irragionevole durata. Chiarisce la Corte di legittimità che nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva con la notifica dell’atto di pignoramento da parte del privato creditore allo Stato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 luglio esce la sentenza della Corte di Giustizia UE (C-476/17), Pelham e altri che si pronuncia sul cd. Sampling, ovvero campionamento audio, ai fini commerciali, relativamente al bilanciamento con la privacy dell’individuo. Sancisce la Corte che è necessaria l’autorizzazione del produttore del fonogramma per il campionamento audio ai fini commerciali.</p> <p style="text-align: justify;">alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 agosto esce la sentenza n. 21916 della Corte di Cassazione civile, che affronta la questione della separazione familiare, dell’affidamento dei figli e dell’educazione religiosa. In tema di affidamento dei figli, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice nel fissare le relative modalità, in caso di conflitto genitoriale, è quello del superiore interesse del minore, stante il suo diritto preminente ad una crescita sana ed equilibrata, sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di provvedimenti, relativi all’educazione religiosa, contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro esplicazione determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per il figlio, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo. Ne deriva che l’accertamento in concreto di conseguenze pregiudizievoli per il figlio non può che basarsi sull’osservazione e sull’ascolto del minore in quanto solo attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 settembre esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. III Civile, n. 22177, depositata il 5 settembre, dichiara responsabile l'Ente che non aveva segnalato alle autorità competenti lo stato di abbandono morale e materiale in cui versava il minore, privandolo così del diritto ad una famiglia e, comunque, a vivere in un ambiente sano ed equilibrato. Il ricorrente, abbandonato dalla madre, aveva trascorso 32 anni in ospedale psichiatrico senza ragione; per tale motivo, viene risarcito per la privazione del diritto ad una famiglia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE,(C-417/18), che affronta la problematica del numero di emergenza unico europeo (112), sancenso che le imprese di telecomunicazione devono trasmettere gratuitamente all’autorità incaricata delle chiamate di emergenza al 112 (numero di emergenza unico europeo), prevedendo che la geolocalizzazione sia obbligatoria anche se manca la SIM.</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 settembre esce la sentenza della sez. I n. 22381 della Cassazione Civile, che si pronuncia sulla lesione del diritto d’autore. La lesione del diritto d’autore, pur nella componente del diritto della personalità riferito alla paternità ed integrità dell’opera e non alla utilizzazione della stessa, può dare luogo al risarcimento del danno patrimoniale, qualora dalla sua lesione sia derivato un pregiudizio economico al soggetto che ne è titolare. In tal caso la risarcibilità del danno - laddove in concreto ravvisabile - è illimitata, non restando soggetta alla restrizione ai soli casi determinati dalla legge, la quale riguarda, invece, il danno non patrimoniale, alla stregua dell’art. 2059 c.c., secondo la sua interpretazione costituzionalmente orientata.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 6 settembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, civile, n. 22381, che si pronuncia sulla violazione della clausola contrattuale che vieta la modifica non autorizzata dell’opera, sancendo che il danno non può ritenersi in re ipsa. In materia di diritti d’autore, il pregiudizio non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto inviolabile della persona è risarcibile, anche quando non sussista un fatto reato, a condizione che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave e che il danno non sia futile. Pertanto, la semplice violazione di una clausola contrattuale che vieta qualsiasi modifica non autorizzata del progetto e dell’opera non dà luogo ad un danno in re ipsa per effetto dell’inadempimento contrattuale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 settembre esce la sentenza della Cassazione civile, sez. III, n. 23328, che si pronuncia sul consenso informato, in caso di necessità di ripetuti interventi chirurgici. Rilevante è la parte motiva della sentenza, in cui si chiariscono i seguenti principi: “con il quinto motivo si deduce, ai sensi dell'articolo 360, n. 3 c.p.c., la violazione agli articoli 1218, 1236 e 2697 c.c. e degli articoli 115 ,n/9/ 11 116 c.p.c., oltre che 2, 13 e 32 Cost. <strong>La sentenza impugnata sarebbe errata perché, respingendo il motivo di appello relativo al consenso informato, lo avrebbe ritenuto validamente espresso sulla base di un modulo prestampato dal contenuto generico e nella parte in cui ha richiesto che la paziente avrebbe dovuto provare che, se fosse stata adeguatamente informata, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento</strong>. La decisione sarebbe in contrasto con l'orientamento di legittimità che ritiene insufficiente la sottoscrizione di un modulo di consenso informato del tutto generico. Nel caso di specie tale presupposto sarebbe stato trattato come l'espletamento di un passaggio burocratico e non sarebbe stato personalizzato…Quanto al tema della prova dell'adeguatezza dell'informazione sugli interventi fornita dai sanitari alla paziente, la Corte territoriale ha ritenuto di poter estendere il consenso validamente espresso per iscritto anche agli interventi successivi. La premessa giuridica non è condivisibile perché opera, in parte qua, il principio dell'inadeguatezza del consenso e, prima ancora, della informazione, ove il consenso sia prestato apponendo la firma su un modulo prestampato e generico. Questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell'intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all'uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell'informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (Sez. 3, Sentenza n. 2177 del 04/02/2016, Rv. 639069 - 01). Peraltro, in considerazione del carattere riparatorio degli interventi chirurgici successivi al primo e che si inserivano nell'ambito di un pregiudizio già verificatosi, il profilo relativo alla preventiva informazione non poteva non assumere un carattere particolarmente pregnante, dovendosi tradurre in comunicazioni dettagliate e specifiche al fine di consentire alla paziente di conoscere gli esatti termini della patologia determinata dai pregressi interventi e le concrete prospettive di superamento di quelle criticità. <strong>Pertanto, le peculiari caratteristiche dell'obbligo di informazione risultano del tutto incompatibili con le generiche indicazioni fornite dai sanitari prima del primo intervento per come accertate dai giudici di merito</strong>. Non è superfluo in proposito precisare che questa Corte intende dar seguito all'orientamento ormai consolidato, introdotto ed espressamente confermato da Cass. 11950/2013, che ha riconosciuto <strong>l'autonoma rilevanza, ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente, e che ha espressamente ritenuto, che "la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonchè un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione in se stesso</strong>, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute". (cfr. ex multis Cass. civ. 2854/2015; Cass. civ. 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017). In definitiva, dal carattere "riparatorio" degli interventi successivi al primo e dall'esito non risolutivo degli stessi, deriva che l'onere di dimostrare che, se adeguatamente informata, la paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento non ricade su quest'ultima. Tale principio, infatti, opera nell'ipotesi, non ricorrente nel caso di specie, di intervento correttamente eseguito (Cass. civ. Sez. 3", Sent., 9-2- 2010, n. 2847)</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 settembre esce la sentenza del Tribunale di Roma, sez. XI civile, che si pronuncia in tema di poteri dell’amministratore di sostegno. Sostiene il giudice di merito che è legittimo lo stop alle cure deciso dall'amministratore di sostegno. E’ perciò legittima la richiesta di un uomo che vuole vedere sospese le cure praticate sulla compagna, che è ormai in stato vegetativo irreversibile da quasi due anni. Decisiva la ricostruzione della volontà della donna, che in passato aveva espresso con familiari e amici la propria contrarietà all’ipotesi di essere tenuta in vita per anni, immobile e incosciente, con i farmaci</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, (C-507/17), che afferma che il gestore di un motore di ricerca non è tenuto a effettuare la deindicizzazione in tutte le versioni del suo motore di ricerca. È tuttavia tenuto ad effettuarla nelle versioni di tale motore di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri e ad attuare misure che scoraggino gli utenti di Internet dall’avere accesso, a partire da uno degli Stati membri, ai link di cui trattasi contenuti nelle versioni extra UE di detto motore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° ottobre esce la sentenza della Corte di Giustizia EU, Grande Sezione, causa C-673/17, che afferma che ai fini dell’installazione e della consultazione di cookie sull’apparecchiatura terminale, non può ritenersi validamente espresso il consenso che l’utente di Internet presta mediante una casella di spunta preselezionata. Il consenso deve essere attivo e specifico e non può ridursi ad una mera deselezione della casella già</p> <p style="text-align: justify;"> Il 22 ottobre esce l’ordinanza n. 26974 della Corte di Cassazione, sez. VI civile – 3, che affronta la tematica del termine di prescrizione del danno da inumana detenzione. Afferma la Corte che ai fini del risarcimento danni da detenzione in stato degrado, il d.l. n. 92/2014 ha introdotto nell’ordinamento l’art. 35-ter ord. pen., creando un rimedio compensativo di natura indennitaria soggetto a prescrizione decennale. Possono avvalersi di tale istituto anche coloro che hanno cessato di espiare la pena detentiva prima della sua entrata in vigore, salvo non siano incorsi nelle decadenze di cui all’art. 2 del decreto stesso.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 23 ottobre esce la sentenza n. 221 della Corte costituzionale che si pronuncia sulla legittimità costituzionale del divieto di fecondazione assistita per le coppie dello stesso sesso. Si tratta di una pronuncia della Corte che, richiamando la propria precedente giurisprudenza, in “combinato disposto” peraltro con quella Europea, assume costituzionalmente legittimo il divieto per le coppie omosessuali di accedere alla PMA, “procreazione medicalmente assistita”. Tra i passaggi più rilevanti, si segnala quello onde “… l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, …, di per sé arbitraria o irrazionale. Ciò “… a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali”. La Corte soggiunge che “… nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto”. Per la Corte dunque, che fa perno sull’art.29 Cost., la disciplina costituzionale della famiglia presuppone “chiaramente”, quale “condizione”, la “diversità di sesso dei componenti della coppia”.</p> <p style="text-align: justify;">Soffermandosi poi sulle differenze di regime rispetto all’adozione, che la giurisprudenza ormai ammette anche su iniziativa di coppie omosessuali, la Corte rappresenta come nel diverso caso della PMA il bambino debba “ancora nascere”, assumendo pertanto non irragionevole che il legislatore si preoccupi di garantirgli – ex ante, si direbbe – “quelle che, secondo la relativa valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dunque, vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone; vanno del pari dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «</strong><strong>di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano.</strong></p> <p style="text-align: justify;">Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale). La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.</p> <p style="text-align: justify;">Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto). Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della relativa conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore. Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia. La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 ottobre esce la sentenza della Corte di Giustizia EU, Terza Sezione, C-18/18, che si pronuncia sulla tutela della privacy, in caso di diffamazione a mezzo facebook. A dire della Corte, il principio dell'effettività della tutela per le vittime di diffamazione su Facebook <strong>impone al provider l'obbligo di sorveglianza specifica preventiva di contenuti identici e/o equivalenti a quelli dichiarati illeciti</strong>. Nessun contrasto con il divieto di sorveglianza generale del provider a patto che l'ingiunzione sia talmente precisa e circostanziata da non consentire una valutazione autonoma del gestore. La rapidità e l'estensione geografica degli illeciti online nonché la voluta assenza di limitazioni anche territoriali dell'ingiunzione richiedono l'applicazione a livello globale del comando del giudice. Nessun contrasto con il divieto di sorveglianza generale del provider a patto che l'ingiunzione sia rispettosa del diritto internazionale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il giorno 8 ottobre esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, n. 25101, </strong>in tema di comissivo della PA tale da mettere un bambino con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri, quale forma di discriminazione indiretta, e sul riparto di giurisdizione tra GA e GO. <em>Va confermata e data continuità alla giurisprudenza della Corte secondo cui, in tema di sostegno all’alunno in situazione di handicap, il <strong>"</strong></em><strong>piano educativo individualizzato<em>", definito ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 12, obbliga l’amministrazione scolastica a garantire il supporto per il numero di ore programmato</em></strong><em>, senza lasciare ad essa il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle risorse disponibili, e ciò anche nella scuola dell’infanzia, pur non facente parte della scuola dell’obbligo. Quindi, la condotta dell’amministrazicne che non appresti il sostegno pianificato si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, la quale, ove non accompagnata dalla corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, concretizza una discriminazione indiretta, la cui repressione spetta al giudice ordinario. Le controversie concernenti la declaratoria della consistenza dell’insegnamento di sostegno, ed afferenti alla fase che precede la redazione del piano educativo individualizzato, sono devolute alla giurisdizione del <strong>GA, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., atteso che, in tale fase, sussiste ancora, in capo all’amministrazione scolastica, il potere discrezionale, espressione dell’autonomia organizzativa e didattica, di individuazione della misura più adeguata al sostegno</strong>, il cui esercizio è precluso, invece, dalla successiva formalizzazione del piano suddetto, che determina il sorgere dell’obbligo dell’amministrazione di garantire il supporto per il numero di ore programmato ed il correlato diritto dell’alunno disabile all’istruzione come pianificata, nella relativa, concreta articolazione, in relazione alle specifiche necessità dell’alunno stesso. (cfr. Cass. civ. Sezioni Unite n. 25011 del 25 novembre 2014; n. 5060 del 28 febbraio 2017 e n. 9966 del 20 aprile 2017).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il contrasto di tale orientamento giurisprudenziale con l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nella sentenza cui fa ampio riferimento la requisitoria scritta del P.G. (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2023 del 3 maggio 2017), va riportato alla relativa, reale portata se si tiene conto che i punti di convergenza fra la giurisprudenza amministrativa e quella delle Sezioni Unite sono tali da far escludere in generale - e specificamente nel caso in esame - una sostanziale divergenza di opinioni. In particolare il Consiglio di Stato afferma che, "</em>in relazione alla fase procedimentale intermedia nel corso della quale si deve pronunciare l’Ufficio scolastico, nessuna disposizione di legge - nemmeno l’art. 4 del D.P.C.M. n. 185 del 2006 - ha attribuito al dirigente preposto dell’Ufficio scolastico regionale il potere di ridurre, tanto meno senza una motivazione, il numero di ore di sostegno, individuate dal G.L.O.H. nelle sue "proposte" a favore dei singoli alunni disabili.</p> <p style="text-align: justify;"><em>La divergenza fra la giurisprudenza delle Sezioni Unite e quella del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2023 del 3 maggio 2017) va pertanto circoscritta alle ipotesi in cui il ricorrente non deduca specificamente "</em>la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno<em>", ai sensi del comma 3 della L. n. 67 del 2006. Secondo il Consiglio di Stato tale norma "</em>prevede una fattispecie tipica devoluta alla giurisdizione del giudice civile ed ha il suo ambito di applicazione esclusivamente e tassativamente quando e solo quando l’interessato si rivolge al giudice rappresentando gli elementi di fatto in cui la discriminazione stessa si manifesta<em>". Il Collegio rileva in primo luogo che nel caso in esame il ricorrente ha adito il Tribunale di Caltanissetta chiedendo di dichiarare che la mancata dotazione di personale specializzato di sostegno come individuato nel PDF per l’anno scolastico 2017/2018 costituisce una discriminazione posta in essere dal Comune resistente in danno del minore e di ordinare la cessazione immediata del comportamento posto in essere. Deve pertanto ritenersi che il caso in esame non presenta elementi che giustifichino l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo anche alla stregua della sin qui citata giurisprudenza del Consiglio di Stato. Vi è stata infatti una chiara proposizione della domanda come richiesta di accertamento e di inibizione di un comportamento discriminatorio dell’amministrazione. Tuttavia il Collegio ritiene opportuno ribadire che "</em>una volta che il piano educativo individualizzato, elaborato con il concorso determinante di insegnanti della scuola di accoglienza e di operatori della sanità pubblica, abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno scolastico dell’alunno che versa in situazione di handicap particolarmente grave, l’amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal piano, ma ha il dovere di assicurare l’assegnazione, in favore dell’alunno, del personale docente specializzato, anche ricorrendo - se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi - all’attivazione di un posto di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, per rendere possibile la fruizione effettiva del diritto, costituzionalmente protetto, dell’alunno disabile all’istruzione, all’integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini. L’omissione o le insufficienze nell’apprestamento, da parte dell’amministrazione scolastica, di quella attività doverosa si risolvono in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all’attivazione, in suo favore, di un intervento corrispondente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico: l’una e le altre sono pertanto suscettibili di concretizzare, ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell’offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati, una discriminazione indiretta, vietata dalla L. n. 67 del 2006, art. 2 per tale intendendosi anche il comportamento omissivo dell’amministrazione pubblica preposta all’organizzazione del servizio scolastico che abbia l’effetto di mettere la bambina o il bambino con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri alunni<em>" (Cass. Civ. S.U. n. 25011/2014). </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La deduzione esplicita nella domanda del ricorrente di un comportamento discriminatorio dell’amministrazione non può pertanto considerarsi una condizione cui subordinare la giurisdizione del Giudice ordinario date le premesse che concordemente portano ad escludere la possibilità per l’amministrazione di non dare esecuzione alle "proposte" trasmesse dal G.L.O.H. incorrendo altrimenti nella compressione di un diritto fondamentale alla cui tutela il legislatore ha voluto apprestare lo strumento immediato ed efficace del procedimento anti-discriminatorio. Su questi presupposti pertanto subordinare alla qualificazione giuridica della domanda la questione della giurisdizione appare una opzione interpretativa che affida sostanzialmente al ricorrente la scelta del giudice competente.</em></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Penale n. 41604 che si pronuncia sulla fattispecie dell’illecito trattamento dei dati personali. Il noncumento, chiarisce la Corte, costituisce un elemento essenziale della fattispecie. Nella pratica dello spamming, «affinché tale condotta assuma rilievo penale, occorre che si verifichi per ciascun destinatario un effettivo “nocumento”, che non può certo esaurirsi nel semplice fastidio di dover cancellare di volta in volta le mail indesiderate, ma deve tradursi in un pregiudizio concreto, anche non patrimoniale, ma comunque suscettibile di essere giuridicamente apprezzato, richiedendosi in tal senso un’adeguata verifica fattuale volta ad accertare, ad esempio, se l’utente abbia segnalato al mittente di non voler ricevere un certo tipo di messaggi e se, nonostante tale iniziativa, l’agente abbia perseverato in maniera non occasionale a inviare messaggi indesiderati, creando così un reale disagio al destinatario».</p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 11 ottobre esce l’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione, sez. Lavoro n. 25697, che rimette alla Corte Costituzionale la decisione sulla legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 1, comma 1, della l. n. 210/1992. Sarà la Corte Costituzionale a valutare la legittimità dell’art. 1, comma 1, l. n. 210/1992, nella parte in cui non prevede che il diritto all’indennizzo, previsto dalla medesima legge, spetti anche ai soggetti che abbiano subito danni irreversibili per essere stati sottoposti a vaccinazione antiepatite A non obbligatoria, ma raccomandata.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 14 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. II Penale, n. 42022, che si pronuncia sulla utilizzabilità delle videoregistrazioni nel processo penale. Gli Ermellini richiamano alcuni principi in tema di classificazione delle videoregistrazioni effettuate in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico, chiarendo il profilo della loro utilizzabilità nel processo penale a fini probatori.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 ottobre esce la sentenza della Corte di giustizia UE, causa C128/18, che affronta la problematica del mandato di arresto europeo. Sostiene la Corte che il giudice deve informarsi sulle condizioni di detenzione nello Stato membro emittente</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 ottobre esce la sentenza della Cassazione civile, sez. II, n. 26497, che afferma che nella domanda di equa riparazione ex art. 2 l. n. 89/2001, il danno non patrimoniale è conseguenza, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Penale, n. 42565, che riconosce la responsabilità penale per illecito trattamento dei dati personali, in capo all’ex partner che abbia iscritto l’ex compagnia, a sua insaputa, ad un sito di incontri. La registrazione al sito e l’inserimento dei dati personali della donna era avvenuto con un ‘IP’ riconducibile all’utenza telefonica mobile del partner. Indiscutibile, quindi, la condotta tenuta, consistita in un illecito trattamento dei dati personali della ex compagna.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 17 ottobre esce la sentenza della Corte di giustizia UE, n. 1874 e 8567, che chiarisce che il datore di lavoro può spiare il lavoratore con le telecamere ma solo come extrema ratio. La possibilità per il datore di lavoro di installare telecamere nascoste senza informare i dipendenti quale extrema ratio e a fronte del sospetto di gravi illeciti. È consentita al datore di lavoro l’installazione di telecamere nascoste senza informare i dipendenti se ha il fondato sospetto che costoro lo stiano derubando e se vi siano perdite ingenti conseguenti Il 29 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Civile, n. 27613, che si pronuncia di tema di privacy. Segnatamente, la Corte di legittimità chiarisce, respingendo il ricorso proposto dal privato, che non è ravvisabile alcuna violazione del diritto alla privacy e all’immagine o della proprietà altrui nella condotta di chi, nel proprio personale interesse, abbia acquisito dati contenenti immagini del proprio manufatto che, se pur riferite a parte dell’ambiente in cui si inserisce, siano del tutto prive di contenuto personale riferito al committente dell’opera.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 ottobre esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, sezione II, n. 36226, che torna ad occuparsi del problematico bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione e l'esigenza di reprimere il negazionismo di crimini di genocidio, in riferimento, in particolare, alle atrocità commesse dall'Impero ottomano ai danni del popolo armeno a partire dal 1915. In questa pronuncia, il giudice di Strasburgo ritiene che la condanna del ricorrente fondata sulla norma incriminatrice elvetica che punisce chi pubblicamente neghi, minimizzi grossolanamente o cerchi di giustificare un genocidio o altri crimini contro l'umanità, violi l'art. 10 Cedu, in quanto tale limitazione alla libertà di espressione non risulta "necessaria in una società democratica". La sentenza Perinçek c. Svizzera risulta allora di particolare interesse, in quanto la soluzione accolta si discosta da quella sviluppata nella decisione Garaudy c. Francia del 2003, nella quale la Corte europea - dichiarando irricevibile il ricorso per violazione dell'art. 17 Cedu - aveva affermato la legittimità dell'incriminazione della negazione dell'olocausto del popolo ebraico.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 15 luglio esce il decreto di archiviazion del Tribunale di Catania - Ufficio del Giudice per le Indagini preliminari, che affronta la materia del c.d. hacking etico e c.d. "divulgazione responsabile". Il giudice per le indagini preliminari di Catania ha disposto il decreto di archiviazione per infondatezza delle notizie di reato di accesso abusivo ai sistemi informativi e di diffamazione nei confronti di un hacker che aveva segnalato le vulnerabilità di sistema di un’applicazione e approfondisce per la prima volta in Italia la tematica della “divulgazione responsabile”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza della Cassazione penale, Sez. III, n. 31325, che si pronuncia sulla vendita di CD senza marchio SIAE e sulla violazione del diritto d’autore. Afferma la Corte che va premesso che la giurisprudenza di legittimità, nel delineare i rapporti tra la circostanza <strong>attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod.pen. e quella di cui all'art. 171- ter comma 3 della legge 22 aprile 1941 n. 633, ritiene configurabile la prima anche con riferimento al delitto di cui all'art. 171-ter della legge 22 aprile 1941 n. 633</strong> (abusiva duplicazione, riproduzione, vendita, cessione o noleggio di opere destinate al circuito cinematografico o televisivo, dischi, musicassette, videocassette e simili), qualora ricorrano simultaneamente la condizione del perseguimento (o del conseguimento), da parte dell'autore del reato, di un lucro di speciale tenuità e quella della produzione, a detrimento della persona offesa, di un evento dannoso o di una situazione di pericolo di speciale tenuità. Per il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'articolo 171-ter, comma 3, della legge n. 633 del 1941, la giurisprudenza di Questa Corte di legittimità, ha evidenziato che quest'ultima si riferisce, letteralmente, alla «particolare tenuità del fatto» e tale riferimento deve essere inteso come diretto al fatto nel suo complesso e, dunque, non solo ai profili del lucro e del danno, ma più in generale alle modalità della condotta e all'intensità dell'elemento soggettivo e agli altri elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., ivi compresa la capacità a delinquere.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 29 luglio esce la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5309, che, in accoglimento del ricorso proposto dal privato, in tema di lesione della privacy, dichiara privo di equilibrio il giudice che rivela la deliberazione del Collegio relativa all'assoluzione dell'imputato. L’attività del giudice si fonda su tre criteri: autonomia, indipendenza ed equilibrio, inteso come «esercizio della giurisdizione condotto con senso della misura e moderazione». Il magistrato che rivela la deliberazione del Collegio penale, in aperto dissenso con gli altri componenti, non solo viola il segreto istruttorio, ma dimostra di non rispettare questo ultimo criterio, essendo irrilevanti l’unicità dell’episodio ed altri motivi (salute etc.) che l’hanno spinto a commettere questo errore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 agosto esce la sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. I, n. 21349, che si pronuncia sulla attribuzione del cognome parterno, in caso di denegata volontà del minore. La Corte di legittimità sancisce che cognome paterno, seppure in aggiunta a quello materno, qualora sussista espressa e persistente opposizione del minore nato al di fuori del matrimonio.</p> <table width="0"> <tbody> <tr> <td></td> </tr> </tbody> </table> <p style="text-align: justify;"> Il 19 agosto esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Penale, n. 36221 che si pronuncia su un caso si violazione del divieto di mercificazione della fecondazione eterologa e integrazione del corrispondente reato in presenza di condotta diretta alla produzione e circolazione non gratuita di gameti umani. Sancisce la Corte che costituisce reato ogni condotta diretta alla produzione e circolazione non gratuita di gameti umani, cioè ogni cessione retribuita in rapporto sinallagmatico con la loro immissione nel mercato in violazione del divieto di mercificazione della fecondazione eterologa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 novembre esce la sentenza n. 29709 della Corte di Cassazione, sez. III civile, che sancisce che gli obblighi informativi, che gravano sul medico, caratterizzano lo svolgimento di ogni attività sanitaria. Pertanto, a prescindere dalla possibile lesione del diritto alla salute, il paziente potrà far chiedere il risarcimento del danno arrecato alla sua autodeterminazione, nel sottoporsi a cure mediche, qualora si ritenga leso per non essere stato correttamente informato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, n. 46595, che si pronuncia sulle misure di sicurezza e prevenzione, specialmente sulla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ex art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 159/11, e sul principio di tassatività. Afferma la Corte che <strong>la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011</strong>, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: "Se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>L'art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011 punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l'inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno. </strong>Gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l'art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l'applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all'art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni». La norma in esame - che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall'art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 - è stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; tali pronunce, peraltro, non hanno valutato soltanto la fattispecie penale in sé, ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione: quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l'individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame. Anche il legislatore è intervenuto su tali tematiche. Si sono, quindi, limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019); il legislatore del 2011 non ha riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in casi di prostituzione», previste dall'art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956; le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò hanno escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale punisca anche la violazione dell'obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011), qualificando la condotta come violazione dell'art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019), nonché la violazione delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi"; con la sentenza n. 25 del 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta su tali ultime prescrizioni, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, commi 1 e 2 d. Igs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza.</p> <p style="text-align: justify;">Le diverse pronunce hanno affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l'interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie. La tematica, peraltro, viene in rilievo sotto due profili: l'individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione, la cui violazione è sanzionata penalmente.Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate hanno espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori. In conseguenza dei due interventi, l'applicazione delle misure di prevenzione dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso. Il secondo profilo interessa in questa sede. La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò ha distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche, negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi", in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare.</p> <p style="text-align: justify;">Una seconda tematica affrontata è quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità. Anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia hanno evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno»; non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso»: piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, quelle inosservanze che determinano un "annullamento" di fatto della misura. Sulla base di tali considerazioni, unite all'interpretazione testuale delle norme, è stato affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all'art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, ma la contravvenzione di cui all'art. 650 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;"> Una terza problematica - contigua, ma non coincidente con la precedente - si interroga sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso ha espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l'assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice». Come osserva incidentalmente l'ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per la eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità: mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censura la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona», la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda soprattutto l'assolutezza della compressione della relativa libertà. Non vi è dubbio che il riferimento finale alla «restrizione [...] lasciata interamente alla discrezione del giudice» sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione: si tratta, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro, tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011), dall'altra che - salva la tematica dell'interpretazione della nozione di "pubbliche riunioni" - la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell'orario nel decreto).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte Costituzionale è ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate. Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolse in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. La Corte osservò che l'art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17 ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. La Corte escluse che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitò la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all'esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione. Affrontando il quesito «se [...] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare è, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive».</p> <p style="text-align: justify;">Le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso hanno permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati. In particolare, le due pronunce hanno affrontato il tema della tassatività e della precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019). Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che, al di fuori della materia penale, l'esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto può essere soddisfatta anche sulla base dell'interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall'uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l'applicazione della misura stessa. Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, ha ritenuto necessario completare l'adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l'esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l'art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno».</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, non ogni "inottemperanza" del sorvegliato speciale giustificherà la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale. Del resto la Corte costituzionale ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando la rilevanza di condotte che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959). Dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata deve trarsi un canone generale di giudizio idoneo a "calibrare" sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.</p> <p style="text-align: justify;">I due orientamenti evidenziati dall'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite si comprendono e si inseriscono nel quadro fin qui riassunto. Peraltro, si deve dare atto che, accanto ad essi, ne esiste un terzo, anch'esso assai recente, che afferma che, in base ad un'interpretazione convenzionalmente orientata del quadro normativo interno alla luce della sentenza della Corte EDU, De Tommaso, il giudice ha l'obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione del controllo della pericolosità sociale del prevenuto, al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà fondamentale, oggetto di presidio costituzionale (Sez. 1, n. 49731 del 06/06/2018, Sassano, Rv. 274456); in applicazione di tale principio, la Corte ha annullato senza rinvio per insussistenza del fatto la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 9, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, in quanto recatosi ad assistere a comizi elettorali nonostante il divieto di partecipare a pubbliche riunioni contenuto nel decreto applicativo della misura. La sentenza collega la sentenza della Corte EDU, De Tommaso alle pronunce nelle quali la Corte Costituzionale aveva ritenuto che la concreta determinazione degli elementi di fatto che concorrono di volta in volta a realizzare la fattispecie del reato di violazione degli obblighi della sorveglianza speciale spetti al giudice penale, che deve tenere conto del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà che incidono su diritti costituzionalmente presidiati; in effetti, devono essere vietati solo i contatti del sorvegliato che incrementano il rischio di pericolosità o che si pongono in continuità con il profilo che la misura di prevenzione intende controllare, mentre non devono essere vietate le attività in cui si risolve l'esercizio di diritti di spessore superprimario, di presidio costituzionale. Nel caso giunto all'esame della Corte, la sentenza impugnata non forniva alcuna giustificazione delle ragioni di limitazione alla libertà del cittadino di partecipare a riunioni pubbliche e comizi elettorali, esercitando un diritto politico e democratico, né aveva chiarito perché, nel caso concreto, tale limitazione fosse necessaria per l'attuazione del controllo di pericolosità.</p> <p style="text-align: justify;">La sentenza Sez. 1, Lo Giudice afferma, in sostanza, che l'interpretazione ampia della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni - comprendendo tra le stesse «qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di persone, indipendentemente dal motivo della riunione» - risponde del tutto alle esigenze sopra enucleate: da una parte, il divieto è giustificato dalla necessità di un controllo adeguato del comportamento del sorvegliato speciale da parte degli organi di pubblica sicurezza, al fine di impedire o limitare possibili occasioni di incontro con altri soggetti nonché la commissione di reati, controllo reso difficoltoso dal numero elevato di persone; dall'altra non sussiste un problema di genericità della norma, atteso che la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni è espressamente prevista nel decreto applicativo e ad esso può essere attribuito un contenuto determinato e specifico, con valore precettivo; di conseguenza è rispettato anche il requisito della conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale. Si deve rilevare, peraltro, che nel processo il ricorrente non aveva posto il tema dell'ampiezza della nozione di "pubbliche riunioni": aveva, infatti, sostenuto che, poiché la seduta del Consiglio comunale alla quale Lo Giudice si era recato ad assistere non era stata tenuta per mancanza del numero legale, la "pubblica riunione" non vi era stata, nonostante il numero delle persone presenti davanti alle quali l'imputato aveva preso la parola. L'interpretazione della nozione di "pubbliche riunioni" adottata dalla sentenza Sez. 1, Lo Giudice conferma un orientamento già affermato da Sez. 1, n. 28964 del 11/3/2003, D'Angelo, Rv. 224925, con riferimento alla partecipazione del sorvegliato speciale ad una partita di calcio allo stadio, ribadito anche successivamente (Sez. 1, n. 15870 del 11/03/2015, Carpano, Rv. 263320; Sez. 1, n. 42283 del 24/10/2007, Pesce, Rv. 238113).</p> <p style="text-align: justify;">Come si comprende, benché le sentenze Sez. 1, Pellegrini e Sez. 1, Sassano dispongano entrambe l'annullamento senza rinvio della condanna per insussistenza del fatto e benché ambedue richiamino le sentenze della Corte EDU, De Tommaso e Sezioni Unite, Paternò, i presupposti delle due decisioni risultano assai differenti. In primo luogo la sentenza Sez. 1, Pellegrini è basata sulla inevitabile e inemendabile indeterminatezza del precetto di non partecipare alle pubbliche riunioni; al contrario, la sentenza Sez. 1, Sassano recepisce la giurisprudenza di legittimità e l'insegnamento della Corte Costituzionale per affermare - così come la sentenza Sez. 1, Lo Giudice - che il precetto è specifico e tassativo e che i giudici - sia in sede di applicazione della misura di prevenzione che in sede penale - non possiedono alcuna discrezionalità. La sentenza Sez. 1, Pellegrini, in ragione dell'asserita indeterminatezza della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, la assimila a quelle di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi" e, quindi, compie la medesima operazione ermeneutica delle Sezioni Unite, Paternò, ritenendola "prescrizione generica"; al contrario, la sentenza Sassano la ritiene specifica, ma adotta un'interpretazione in base alla quale, pur essendo il divieto di partecipare alle pubbliche riunioni indefettibile, per integrare il reato di cui all'art. 75, comma 2 d. Igs. n. 159 del 2011 la relativa violazione deve concretamente avere posto in pericolo il controllo di pericolosità del soggetto, che costituisce la finalità della misura di prevenzione: orientamento giustificato dalla circostanza che la prescrizione limita l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. L'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, pur non menzionando espressamente la sentenza Sez. 1, Sassano, sembra aderire a questa seconda impostazione, che garantirebbe il rispetto del principio di offensività, permettendo di selezionare le condotte effettivamente pericolose e di non punire quelle inoffensive, tali da non giustificare la limitazione dei diritti costituzionalmente.</p> <p style="text-align: justify;">La sentenza Sez. 1, Sassano riprende le indicazioni della sentenza Corte Cost. n. 27 del 1959, secondo cui il giudice penale ha un ruolo nella determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale e deve adottare un'interpretazione restrittiva alla luce del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione; indicazione alla quale, come si è visto, fanno riferimento le sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Ciò che contraddistingue questo orientamento è l'individuazione nel giudice penale, anziché in quello che applica la misura di prevenzione, dell'organo deputato a garantire il principio di offensività e l'adeguatezza delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale. La sentenza SU, Sinigaglia trae dalla pronuncia n. 282 del 2010 della Corte costituzionale un criterio generale secondo cui le prescrizioni devono essere «calibrate» sulla pericolosità del soggetto, come «componenti integrate di un sottosistema di sicurezza calibrato ad personam»; tuttavia, una "selezione" era stata operata nel corso degli anni intervenendo sull'elenco delle prescrizioni la cui violazione è penalmente sanzionata: negando che la violazione dell'obbligo di portare con sé ed esibire la carta di permanenza integri il reato di cui all'art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, negando valore precettivo alle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, successivamente dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice con riferimento a tali prescrizioni ma, ancora prima, ad opera del legislatore, cancellando alcune delle prescrizioni che il Tribunale deve in ogni caso dettare in sede di applicazione della misura. La sentenza Sez. 1, Sassano, al contrario, ritiene necessaria una valutazione in concreto del giudice penale in aggiunta a quella del giudice della prevenzione: il giudice penale dovrebbe, di volta in volta, argomentare in ordine alla "significatività" della violazione della prescrizione, dovrebbe «dire per quale ragione essa imposizione si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione dell'attuazione del controllo di pericolosità».</p> <p style="text-align: justify;">Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, è possibile rispondere alla questione di diritto sollevata con l'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non può essere accolto. La ricognizione della normativa che fa riferimento alle "pubbliche riunioni", svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, non appare convincente sotto diversi profili. Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente; appare, quindi, improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi. In ogni caso, la sentenza non verifica la possibilità di individuare una definizione di "pubblica riunione" che possa essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di "pubblica riunione" costituiscano o meno degli insiemi che presentano un'intersezione comune a tutti; in altre parole, era necessario accertare se esiste una nozione di "pubblica riunione" - ovviamente più ristretta - che tutte le norme contengono, espressamente o meno. Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una "pubblica riunione".</p> <p style="text-align: justify;">Questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico. Ripercorrendo l'analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, si può rilevare, quanto all'art. 266, comma 3, cod. pen., che l'ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone è espressamente contemplata dal n. 2; quanto all'art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al questione anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l'obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all'art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico. Contrariamente a quanto sostiene la sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice, elimina l'eccessiva discrezionalità del giudice penale nell'applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari. 14. Inoltre la sentenza, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adotta una "interpretazione convenzionalmente orientata" con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni non può essere equiparata all'obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Nel primo caso la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell'obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all'autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull'estraneità di quell'obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati. Le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento "morale" che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite. Invece il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati; al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. All'esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto, perché la condotta può essere delimitata oggettivamente, il concetto di "riunione" presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica. Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione, che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall'obbligo o divieto di soggiorno; quindi rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l'incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure.</p> <p style="text-align: justify;">Benché la soluzione adottata con la sentenza Sez. 1, Pellegrini non possa, quindi, essere accolta, è condivisibile la critica in essa contenuta verso l'interpretazione accolta dalla giurisprudenza maggioritaria ribadita da Sez. 1, Lo Giudice, secondo cui il deficit di determinatezza della nozione di "pubbliche riunioni" può essere risolto alla luce della ratio della prescrizione: si tratta, effettivamente, di una inversione logico-giuridica per effetto della quale la ratio della fattispecie assurge ad elemento integrativo di quest'ultima. Il risultato di tale linea interpretativa è una nozione della prescrizione ampia e non ben delimitata, che lascia spazio alla discrezionalità del giudice penale e si disinteressa, in sostanza, del tema della conoscibilità della norma penale da parte del destinatario e della conseguente prevedibilità delle conseguenze della relativa condotta.</p> <p style="text-align: justify;">L'interpretazione che in questa sede si adotta riduce sensibilmente la portata della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, escludendo che il divieto riguardi anche le riunioni in luoghi aperti al pubblico, anche se ad esse può partecipare un numero indeterminato di persone; esclude, quindi, le manifestazioni sportive in luoghi aperti al pubblico come stadi o palasport rispetto alle quali, peraltro, vige la autonoma normativa dettata dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive. Ciò non comporta necessariamente un indebolimento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. In effetti, la ridotta estensione della prescrizione in oggetto non incide sulla possibilità, per il giudice che applica la misura di prevenzione, di imporre «tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale» (art. 8, comma 5, d. Igs. 159 del 2011). La previsione appena richiamata deve essere valorizzata in quanto permette al giudice della prevenzione di dettare prescrizioni specifiche con una motivazione adeguata che le giustifichi alla luce della pericolosità del soggetto e dei conseguenti pericoli per la società, non utilizzando, quindi, formule generali e stereotipate (nel caso in esame il decreto applicativo della sorveglianza speciale aggiungeva alla prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni le parole "o manifestazioni di qualsiasi genere") che ripropongono inevitabilmente le tematiche già trattate in conseguenza della loro genericità. Ovviamente - quando ciò sarà giustificato - la prescrizione aggiuntiva potrebbe riguardare anche la partecipazione a riunioni che non sono "pubbliche riunioni" nel significato ristretto che in questa sede è stato attribuito all'espressione.</p> <p style="text-align: justify;">Il ricorso alle prescrizioni facoltative di cui all'art. 8, comma 5 d. Igs. n. 159 del 2011 ha il vantaggio di configurare la misura di prevenzione in maniera personalizzata sul soggetto, tenendo conto dei motivi che la giustificano; inoltre, permette un contraddittorio pieno già in sede di applicazione della misura, con le impugnazioni previste, con l'ulteriore conseguenza che anche il giudice penale potrà più facilmente valutare l'offensività di una violazione, essendo la prescrizione dettata in rapporto alla pericolosità del soggetto.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, deve essere affermato il seguente principio di diritto: <strong>La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico». </strong>La sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste limitatamente alla violazione della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni e la relativa pena di mesi quattro di reclusione deve essere eliminata nei confronti di entrambi gli imputati: in effetti, il palasport dove si svolge un incontro sportivo deve ritenersi "luogo aperto al pubblico".</p> <p style="text-align: justify;"> Il 21 novembre esce la sentenza n. 5465 del Tar Campania – Napoli, sez. V – che si pronuncia sull’inquinamento acustico inquinamento acustico prodotto dalla PA, e sulla giurisdizione sull'ordine di adottare misure idonee a ridurre i rumori e mezzi probatori dell'illecito. Sostiene il Tar che rientra nella giurisdizione del G.A. e non in quella del G.O., una controversia avente ad oggetto l’azione promossa dal proprietario di un edificio residenziale nei confronti del Comune, tendente ad ottenere la condanna dell’Ente locale ad adottare provvedimenti finalizzati alla eliminazione o riduzione dell’inquinamento acustico prodotto, nelle ore notturne, dai cc.dd. autocompattatori per la raccolta dei rifiuti e, quindi, un’azione a carattere sostanzialmente inibitorio, a tutela di un diritto soggettivo fondamentale, di rilievo costituzionale, quale il diritto alla salute (nel quale non può non essere compreso il diritto al riposo notturno); tale controversia, infatti, rientra tra le fattispecie di cui all’art. 133, lett. p), c.p.a. che devolve alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati. Può essere accolto un ricorso proposto dal proprietario di un edificio residenziale, tendente ad ottenere la condanna di un Comune ad adottare una ordinanza e/o tutte le misure e gli accorgimenti ritenuti più idonei per eliminare, ovvero, quanto meno, per ridurre – anche con una differente organizzazione del servizio – l’inquinamento acustico prodotto dai cc.dd. autocompattatori nello svolgimento dell’attività di raccolta dei rifiuti, nelle ore notturne, nel caso in cui: a) il ricorrente abbia prodotto in giudizio una consulenza tecnica di parte (perizia fonometrica) – non puntualmente contestata dai resistenti – dalla quale è risultato accertato, in occasione della svolgimento della suddetta attività, l’oggettivo superamento dei limiti previsti sia dalla normativa di carattere amministrativo, di cui alla combinata disciplina del D.P.C.M. 1 marzo 1991 e del D.P.C.M. 14 novembre 1997, sia dalla normativa civilistica fondata sul criterio comparativo, riferito al criterio della normale tollerabilità ex art. 844 c.c., con conseguente lesione del diritto al riposo notturno; b) il verificatore nominato dal G.A. abbia accertato la sussistenza della concreta possibilità del regolare svolgimento di una specifica fase del servizio di raccolta rifiuti, anche in luogo diverso da quello scelto dalla P.A., più distante dall’abitazione del ricorrente.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 22 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Penale, n. 47556, depositata il 22 novembre. Viene confermata la condanna per un venditore ambulante straniero, ritenuto colpevole di ricettazione e di violazione della legge sul diritto d’autore. Il dato dell’esposizione dei prodotti al pubblico è ritenuto sufficiente per considerare evidente la destinazione alla vendita. Irrilevante la mancanza di prove su effettive cessioni dietro pagamento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 novembre esce la sentenza della Corte Costituzionale, n. 242, che si pronuncia su una questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento al diritto di autodeterminazione delle persone e sull’aiuto al suicidio. La Corte dichiara <strong>l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, </strong>con le modalità previste dagli artt. <strong>1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 </strong>(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, <strong>agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile</strong>, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La corte riprende il filo del discorso già imbastito con l’ordinanza n. 207 del 2018, prendendo atto che l’invito fatto al legislatore di intervenire in una materia molto delicata come quella dell’aiuto al suicidio - almeno in parte già dichiarata non conforme a Costituzione nella ridetta ordinanza n.207 del 2018 - non è stata tempestivamente raccolta dal Parlamento nel termine ad esso assegnato in forza del potere di gestione del processo costituzionale che alla Consulta fa capo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La citata legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, ad «[o]gni persona capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza</strong>, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6).</p> <p style="text-align: justify;">Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) – che tutela e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che «non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte» (ordinanza n. 207 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.</strong> Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ne è testimonianza il caso oggetto del giudizio principale, nel quale, «[s]econdo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, […] l’interessato richiese l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo» (ordinanza n. 207 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">Nelle ipotesi configurate nel dettaglio all’inizio di questo punto 2.3. vengono messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio. Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"> Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio – «almeno allo stato» – «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa, riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi».</p> <p style="text-align: justify;">In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti, «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti». Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali «questa Corte non può non farsi carico» (ordinanza n. 207 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: «come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La disciplina potrebbe essere inoltre «introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico</strong>”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima» (ordinanza n. 207 del 2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l’esigenza di «introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse», anch’essa variamente calibrabile.</p> <p style="text-align: justify;">Deve quindi, infine, essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010». Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte ha ritenuto, quindi, di dover procedere in altro modo. Facendo leva sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha fissato, cioè, una nuova udienza di trattazione delle questioni, a undici mesi di distanza (segnatamente, al 24 settembre 2019): udienza in esito alla quale avrebbe potuto essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela.</p> <p style="text-align: justify;">In questo modo, si è lasciata al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità, ma si è evitato che, nel frattempo, la norma potesse trovare applicazione. Il giudizio a quo è rimasto, infatti, sospeso. Deve però ora prendersi atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Né, d’altra parte, l’intervento del legislatore risulta imminente. Il riferimento a tale disciplina implica, d’altro canto, l’inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico e paziente. Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative, l’art. 2 della legge n. 219 del 2017 prevede che debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come già ricordato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita. Similmente a quanto già stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – <strong>a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale</strong>. A queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.</p> <p style="text-align: justify;">La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Tali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013, recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici»): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante «Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica»).</p> <p style="text-align: justify;">Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato. L’art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 novembre esce l’ ordinanza della Corte di Cassazione, sez. II civile, n. 30981, che affronta il tema del danno da irragionevole durata del processo, in casi di giudizio presupposto particolamente complesso. Sostiene la Corte che in materia di determinazione della durata del giudizio presupposto spetta al giudice dell’equa riparazione provare quale avrebbe dovuto essere la durata ragionevole per il medesimo giudizio sulla base della sua complessità, comprensiva anche della fase necessaria alla pronuncia di incompetenza, sottraendo soltanto il periodo non necessario alla sua riassunzione dinanzi al giudice competente-</p> <p style="text-align: justify;"> Il giorno 11 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. I, n. 28985, che si pronuncia sui danni risarcibili in caso di violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato. La sentenza si occupa dei rimedi esperibili dal paziente, o dai suoi eredi, nei confronti del sanitario, riconoscendo, ancora una volta, che la lesione del diritto all’autodeterminazione (in caso di omesse informazioni), va risarcito assieme alla lesione del diritto alla salute oppure indipendentemente ed anche in assenza di quest’ultimo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 novembre esce la sentenza n. 29459 della Corte di Cassazione, a SS.UU. che si pronuncia in tema di successione delle leggi nel tempo nella materia della protezione umanitaria. Il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell'ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dall'art. 5, comma 6, del d.Igs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l'accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per "casi speciali" previsto dall'art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge. Il d.l. n. 113/18 ha sistematicamente disposto l'espunzione da ogni disposizione, legislativa o regolamentare, di qualsivoglia riferimento al permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha abrogato la disposizione, sopra indicata, contenuta nell'art. 5 comma 6 del d.Lgs. n. 286/98 e ha introdotto alcune ipotesi nominate di titoli di soggiorno, ossia: - il permesso di soggiorno per calamità naturale, regolato dal nuovo art. 20-bis del d.Lgs. n. 286/98, a fronte di una situazione di «contingente ed eccezionale calamità naturale che non consente il rientro in condizione di sicurezza» nel Paese d'origine; - il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile, previsto dal nuovo art. 42-bis del medesimo decreto; - il permesso di soggiorno per cure mediche, inserito con la lettera d-bis) dell'alt. 19, comma 2, del d.Lgs. n. 286/98, relativo a «stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi».</p> <p style="text-align: justify;">Sono rimasti fermi altri titoli di soggiorno riconducibili a esigenze umanitarie, tra i quali quello in favore delle vittime di violenza domestica (art. 18-bis del d.lgs. n. 286/98) e di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater, del medesimo decreto), nonché quelli in favore dei minori (artt. art. 28, lettere a-b, del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 e 31 del d.Igs. n. 286/98). Accanto a questi permessi il legislatore ha introdotto una nuova forma di protezione, denominata speciale: il testo novellato dell'alt. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25/08 prevede che le Commissioni territoriali trasmettano gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la<strong> dicitura "protezione speciale", qualora non sia accolta la domanda di protezione internazionale, ma comunque sussistano i presupposti previsti dall'alt. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286/98, salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga. La protezione speciale è quindi configurata come norma di chiusura, in ideale contraltare all'apertura del catalogo dei seri motivi già contemplati dall'art. 5, comma 6, del d.Igs. n. 286/98. La costruzione di questa norma è diversa da quella precedente ed evidenzia il mutamento dell'approccio del legislatore.</strong> Nella disciplina abrogata i seri motivi umanitari costituivano il titolo per rimanere in Italia. In quella odierna la protezione speciale si traduce nel diritto di non essere allontanati, espressione del divieto di refoulement. L'art. 19, commi 1 e 1.1., del d.Igs. n. 286/98 stabilisce difatti che: «1. In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nei quale non sia protetto dalla persecuzione. Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani». Diverso è anche il regime delineato dal diritto sopravvenuto. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva la durata di due anni, rinnovabile, ed era convertibile in permesso per motivi di lavoro (art. 14, comma 1, lett. c), e comma 3, del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394) e per motivi familiari (art. 30, comma 1, lett. b), del d.Igs. n. 286/98). La nuova protezione speciale, invece, ha durata di un anno, rinnovabile, previo parere della competente Commissione territoriale e non consente la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. E ciò, si è visto, al fine di scongiurare le "interpretazioni estensive" della protezione temporanea per ragioni umanitarie.</p> <p style="text-align: justify;">Con l’ordinanza interlocutoria è contestata anzitutto la tenuta di quest’orientamento. Si obietta che l’applicazione del diritto sopravvenuto, compresa l’espunzione dall’ordinamento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai giudizi già in corso non sarebbe affatto retroattiva. Ci si limiterebbe ad applicare in quel momento, in cui il procedimento volto al riconoscimento del diritto è ancora pendente, le norme vigenti e quindi obbligatoriamente applicabili, in base all’art. 73 Cost. e art. 10 preleggi.</p> <p style="text-align: justify;">La nuova norma, divenuta vigente, è senz’altro immediatamente applicabile; ma quel che si discute è se essa sia, o no, retroattiva. Rileva, allora, il principio generale d’irretroattività, che non gode di copertura costituzionale nella materia in questione, ma che è pur sempre stabilito, salvo deroghe, dall’art. 11 preleggi. Esso, di là da distinzioni, di rilievo eminentemente descrittivo, tra retroattività in senso proprio e retroattività in senso improprio, è volto a tutelare non già fatti, bensì diritti: quel che il divieto di retroattività garantisce è il divieto di modificazione della rilevanza giuridica dei fatti che già si siano compiutamente verificati (nel caso di fattispecie istantanea) o di una fattispecie non ancora esauritasi (nel caso di fattispecie durevole non completata all’epoca dell’abrogazione). La retroattività consente alla legge di regolare diversamente fatti avvenuti precedentemente, quando la legge vigente era un’altra: essa, quindi, postula la vigenza della legge successiva, ma non si esaurisce in essa, in quanto, per mezzo della retroattività, la legge successiva amplia a ritroso il tempo della propria applicabilità. L’applicabilità ai giudizi già in corso del D.L. n. 113 del 2018 implicherebbe quindi, e ineludibilmente, la retroattività in parte qua del decreto.</p> <p style="text-align: justify;">A differenza di quanto si sostiene con l’ordinanza interlocutoria, secondo cui la protezione umanitaria è "una fattispecie complessa e a formazione progressiva, come chiaramente si desume dal fatto che essa consiste in un permesso del quale l’ordinamento postula che si verifichino i presupposti nell’ambito di un apposito procedimento", il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto, che, se sussistente, è pieno e perfetto e nelle forme del procedimento è soltanto accertato; se insussistente, esso non potrà nascere per effetto dello svolgimento del procedimento. Il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità quale sussumibile nella fattispecie allora vigente e irrilevante è che esso non comporti il riconoscimento di uno status, ma una protezione temporanea. La verifica all’attualità delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno, sollecitata dal riferimento alle "informazioni precise e aggiornate" contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, non è espressione della natura costitutiva dell’accertamento, affermata con l’ordinanza interlocutoria, ma dell’estensione dei poteri di accertamento. Al momento della decisione devono sussistere i presupposti di fatto per l’accoglimento della domanda, ossia deve risultare la fondatezza di essa; ma, in virtù dell’irretroattività della novella, è salvaguardato il diritto che la rilevanza giuridica di tali fatti risponda alle norme previgenti. Questa ricostruzione è consolidata nella giurisprudenza delle sezioni unite. Come ripetutamente affermato (si vedano, fra le più recenti, Cass., sez. un., 29 gennaio 2019, n. 2441; 19 dicembre 2018, nn. 32778, 32777, 32776, 32775 e 32774; 28 novembre 2018, nn. 30758, 30757; 27 novembre 2018, n. 30658), la situazione giuridica soggettiva dello straniero nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. e art. 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Il legislatore della novella ha espresso la volontà che, al cospetto della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, i permessi già rilasciati restino validi fino alla scadenza (D.L. n. 113 del 2018, art. 1, comma 8) e gli accertamenti già compiuti -dalle Commissioni territoriali- restino fermi, ai fini del rilascio di permessi di durata biennale (art. 1, comma 9 del decreto). Questa volontà annette quindi rilievo preminente alla sussistenza di quei presupposti. L’interpretazione costituzionalmente conforme della novella impone allora che, a fronte di tale sussistenza, recessiva sia la circostanza che vi sia stato un accertamento, meramente ricognitivo. Sicché non soltanto nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, la Commissione territoriale abbia già ritenuto la sussistenza dei gravi motivi di carattere umanitario (come stabilito dal D.Lgs. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9), ma anche in quello in cui l’accertamento sia comunque in itinere, il titolo di soggiorno dovrà rispondere alle modalità previste dal D.L. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9. E nessuna contraddizione sussiste in questo ragionamento: la permanente rilevanza della protezione per seri motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso, che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore, coerente con la natura ricognitiva dell’accertamento.</p> <p style="text-align: justify;">È il diritto unionale a delineare l’actio finium regundorum tra le protezioni maggiori e quella umanitaria prevista dal diritto nazionale. La giurisprudenza unionale (Corte giust., grande sezione, 9 novembre 2010, cause C-57/09 e C-101/09) ha chiarito che, come risulta dall’art. 2, lett. g), della c.d. direttiva qualifiche (direttiva n. 2011/95/UE), essa non osta a che una persona chieda di essere protetta nell’ambito di un "diverso tipo di protezione" che non rientra nel relativo ambito di applicazione. E ciò perché la direttiva muove dal principio che gli Stati membri di accoglienza possono accordare, in conformità del loro diritto nazionale, una protezione nazionale accompagnata da diritti che consentano alle persone escluse dallo status di rifugiato di soggiornare nel territorio dello Stato membro considerato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 46376, che sancisce che il fatto di registrare il numero telefonico altri su una chat erotica integra il reato di trattamento abusivo dei dati di traffico. Integra dunque il reato di trattamento abusivo dei dati di traffico, tra i quali rientra il numero dell'utenza cellulare, la condotta consistita nel registrare quest'ultimo in una chat a contenuto erotico all'insaputa del suo titolare.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. III, n. 46376, che affronta la questione dell’iscrizione ad una chat erotica senza il consenso dell’interessato. Sostiene la Corte che, anche a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n.101 del 2018, la registrazione dell’utenza cellulare in siti internet di un soggetto in assenza di consenso dell’interessato costituisce condotta che, se compiuta al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, e arreca nocumento all’interessato, integra la fattispecie di cui all’art. 167, comma 1, D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto condotta in violazione di quanto disposto dall’art. 125, comma 5 del medesimo decreto, che consente il trattamento del dato del traffico telefonico limitatamente ai soli soggetti autorizzati e per i limitati fini ivi indicati.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 16 novembre esce la sentenza della Cassazione Sez. I n. 28518, in merito all’azione di disconoscimento di paternità e al mantenimento del cognome. Nell’azione di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio disconosciuto del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo che deve tradursi in una espressa domanda di accertamento da proporsi in sede giudiziale, anche in via riconvenzionale ed eventualmente subordinata all’accoglimento di quella principale, non potendosi ritenere ricompresa nella generica opposizione all’azione di disconoscimento proposta nei suoi confronti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. III, n. 58954, che si pronuncia sulla qualificabilità del c.d. flash mob in termini di riunione pacifica e relativa tutela, ai sensi dell’art. 11 della CEDU. Pronunciandosi su un caso “russo” in cui si discuteva della legittimità della condanna inflitta ad alcuni manifestanti che si erano posizionati davanti agli uffici del Governo organizzando un c.d. “flash mob” pacifico (ossia un assembramento improvviso di un gruppo di persone in uno spazio pubblico, che si dissolve nel giro di poco tempo, con la finalità comune di mettere in pratica un'azione insolita), la Corte di Strasburgo ha ritenuto, all’unanimità (sentenza 19 novembre 2019, n. 58954/09), che vi era stata una violazione dell'articolo 11 (libertà di riunione) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Il caso riguardava l'accusa mossa ai manifestanti per aver preso parte a un “flash mob”, che i giudici russi avevano qualificato come una dimostrazione statica che avrebbe richiesto per il suo svolgimento una preventiva notifica alle autorità. La Corte EDU ha considerato il flash mob una "riunione pacifica" e ha ritenuto che le motivazioni fornite dalle autorità nazionali per giustificare la dispersione dei manifestanti e esercizio dell'azione penale non erano state "pertinenti e sufficienti". Ha sottolineato in particolare che la messa in scena di una dimostrazione senza previa autorizzazione non giustificava necessariamente l'interferenza con il diritto dell’individuo alla libertà di riunione. Anzi, ha evidenziato che la presenza di sette persone in silenzio che tengono in mano un foglio di carta bianco non può essere considerata una minaccia per l'ordine pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale, n. 254, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»; va altresì dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015. Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione. Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost., è fondata. È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si inserisce l’oggetto dei presenti giudizi. La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (sentenza n. 67 del 2017). Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59 del 1958). <strong>La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo – in applicazione del citato principio di laicità – esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993).</strong></p> <p style="text-align: justify;">Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63 del 2016).n questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002). È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo, e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis (nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015. Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017). Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione», non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).</p> <p style="text-align: justify;">In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.</p> <p style="text-align: justify;">In questo quadro, la previsione – ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio – di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).</p> <p style="text-align: justify;">A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.</p> <p style="text-align: justify;">A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di nuove strutture religiose.</p> <p style="text-align: justify;">Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello specifico riconoscimento costituzionale – sopra ricordato – del diritto di disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>In conclusione, la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.</strong></p> <p style="text-align: justify;">Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. Nel merito, anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata. Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa che – come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame, anche nella circolare n. 3 del 20 febbraio 2017, recante gli indirizzi per l’applicazione della suddetta legge regionale – il PAR non può essere approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)». Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art. 8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione, e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10, comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti il PGT» (art. 13, comma 13). La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento. <strong>La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di piano si può tradurre in una semplice variante parziale</strong>. Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere che la disposizione censurata determina una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 11 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia EU, Terza Sezione, causa C-708/18, che rende linee guida sulla sorveglianza dei condomini. La Corte previsa le condizioni per la legittimità dell'installazione di un sistema di videosorveglianza nelle parti comuni di un condominio al fine di garantire la sicurezza e la tutela delle persone e dei beni senza il consenso delle persone interessate. Gli artt. 6 §.1, lett. c) e 7, lett f), Direttiva 95/46/CE (tutela della privacy), letti alla luce degli artt. 7 e 8 Carta di Nizza, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a disposizioni nazionali, le quali autorizzino la messa in opera di un sistema di videosorveglianza, come il sistema controverso nel procedimento principale installato nelle parti comuni di un immobile ad uso abitativo, al fine di perseguire legittimi interessi consistenti nel garantire la sicurezza e la tutela delle persone e dei beni, senza il consenso delle persone interessate, qualora il trattamento di dati personali effettuato mediante il sistema di videosorveglianza in parola soddisfi le condizioni enunciate nel succitato art. 7, lett f), aspetto questo la cui verifica incombe al giudice del rinvio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre esce la sentenza del TAR LAZIO – ROMA, SEZ. III BIS – n. 14342 sui diritti degli alunni disabili e prevalenza sulle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Sostiene il collegio i seguenti principi di diritto: il diritto all’istruzione del disabile, ed in particolare del disabile grave, quale sancito dall’art. 38, comma 3, Cost. e dai principi di solidarietà collettiva di cui agli artt. 2, 3 e 38 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il legislatore (in prima battuta) e l’amministrazione (in attuazione della legge) non possono esimersi dall’apprestare un nucleo indefettibile di garanzie fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza, in caso di accertata situazione di gravità del disabile. E’ da ritenere illegittima la condotta dell’istituto scolastico che riconosce un monte-ore settimanali di sostegno inferiore, rispetto a quelle individuate come necessarie, in base a quanto disposto dalla legge-quadro 104/1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili, e dal d.lgs. 297/1994, recante disposizioni legislative in materia di istruzione che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica ed allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile. In materia di assegnazione delle ore di sostegno all’alunno disabile, il provvedimento finale del dirigente scolastico con cui si stabilisce l’assegnazione delle ore di sostegno non può rendere prive di effetti concreti, sul piano del sostegno, le statuizioni operate dall’organo collegiale competente a stabilire la gravità dell’handicap e a predisporre il piano individuale di intervento a sostegno del minore in una situazione di handicap riconosciuto come grave; esso inoltre non si può basare su un vincolo derivante dalla carenza di risorse economiche che non possono, in modo assoluto, condizionare il diritto al sostegno sino a esigere e sacrificare il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre esce la sentenza del TAR Lazio, sez. III-bis, n. 14368, che si pronuncia in tema della legittimità del panino portato da casa in sala mensa, riconoscendo il diritto degli studenti a consumare il pasto preparato a casa nei locali scolastici. I Giudici amministrativi laziali si pongono in controtendenza, dunque, rispetto a quanto deciso dalla Cassazione pochi mesi fa. Per loro è naturale riconoscere agli studenti non interessati al servizio mensa il diritto a frequentare ugualmente il “tempo mensa”, senza essere costretti ad abbandonare i locali scolastici per mangiare il panino preparato a casa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 dicembre esce la sentenza n. 976 del Tar Emilia Romagna – Bologna, sez. I, che si pronuncia sulla domanda di annullamento, avanzata da un poliziotto, nei confronti di una sanzione disciplinare irrogata per aver partecipato ad un dibattito politico interno. Sostiene il Tar che è illegittima la sanzione disciplinare della pena pecuniaria (nella specie, si trattava dei 2/3 dello stipendio), irrogata dal Ministero dell’Interno nei confronti di un Assistente Capo della Polizia di Stato, motivata con riferimento al fatto che l’interessato, in vista di future elezioni comunali, ha partecipato a tre occasioni di dibattito politico interno ad un movimento politico (nella specie, si trattava del Movimento Cinque Stelle) tenutesi nella città ove svolge la propria attività di poliziotto, ove sia risultato che l’interessato: a) non è iscritto e non ricopre alcuna carica nel suddetto movimento politico, né in altri partiti o movimenti politici; b) non ha mai partecipato a manifestazioni del movimento o di altri partiti; c) non si è mai presentato a terzi come rappresentante di alcun partito; d) ha partecipato assiduamente alle discussioni tra membri e simpatizzanti del movimento, ai soli fini della scelta del candidato Sindaco e della lista, ma lo ha sempre fatto in forma strettamente privata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 dicembre esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, sez. III, n. 2697, che riconosce la legittimità della decisione delle autorità italiane di trattenere in detenzione amministrativa in un CIE un cittadino extracomunitario giunto irregolarmente in Italia se le autorità stesse non erano a conoscenza del provvedimento del giudice di pace che ammetteva la possibilità di un permesso per ragioni di protezione internazionale</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. I Civile, n. 34113, depositata il 19 dicembre, che si pronuncia sulla cessione del credito e rispetto della privacy, rilevando che la comunicazione dei dati personali è lecita purché rispetti il principio di minimizzazione. Il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti è lecito purché avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione, ovvero dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti potendo essere comunicate informazioni riguardanti il debitore persona fisica funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria e l’ubicazione dell’immobile.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce l’ordinanza della Cassazione civile, Sez. I, n. 34113, secondo la quale il trattamento delle informazioni personali effettuato nell'ambito dell'attività di recupero crediti é lecito purchè avvenga nel rispetto dei dati indispensabili, pertinenti e limitati al perseguimento delle finalità per cui gli stessi sono raccolti e trattati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2020</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"> Il 10 gennaio esce la sentenza del Tar Lazio, sez. I, n. 260, che conferma, parzialmente, le sanzioni inflitte a Facebook per pratiche commerciali scorrette e aggressive. Il provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva sanzionato Facebook, per violazione degli artt. 20, 21, 22, 24 e 25 d.lgs. n. 206/2005, è stato solo parzialmente annullato. Il TAR Lazio ha colto l’occasione, infatti, per sottolineare come il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale imponga agli operatori economici di «rispettare obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore».</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 844, che affronta la questione dell’abitazione quale diritto dell’uomo, e del correlativo reato di abuso edilizio. Sostiene la Corte che “in relazione al disposto dell'art. 34 d.p.r. n. 380/2001, deve osservarsi che la c.d. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realiz- zate abusivamente. È evidente la eccezionalità di tale strumento, sicché non ne è consentita una applicazione oltre i precisi confini ex lege fissati. Il legislatore fa riferimento esclusivamente alle ipotesi in cui sussista solo una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma del medesimo art. 34, la cui percentuale ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali" fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato (Cass., Sez. III, 24 maggio 2010, n. 19538). Tale procedura non è configurabile come una sanatoria dell'abuso edilizio, la quale estingue, ex art. 45, co.3, D.P.R. 309/1990, il corrispondente reato. La "fiscalizzazione", infatti, non integra una regolarizzazione dell'illecito, né ovviamente au- torizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente (Cass., Sez. III, 11 maggio 2018, n. 28747). Si precisa, inoltre, la diversità delle nozioni di totale e parziale difformità di un immobile abusivo, nozioni tra loro antitetiche, dalle quali discende anche un di- verso approccio valutativo e comparativo (Cass., Sez. III, 21 novembre 2018, n. 55372). La parziale difformità implica la sussistenza di un titolo abilitativo descrit- tivo di uno specifico intervento costruttivo, al quale si pervenga all'esito della fase realizzativa, seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale. Diversamente, il concetto di totale difformità presuppone un intervento costruttivo che, considerato complessivamente, sia qualificabile, ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, come "un organismo edilizio integral-mente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...". Conseguentemente, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi, collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni proget- tuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo (Cass., Sez. III, 18 giugno 2014, n. 40541). Tale diversità consente di comprendere anche le diverse scelte sanzionatorie operate dal legislatore, prevedendosi l'incondizionata demolizione in caso di inter- venti realizzati "in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo ovvero con variazioni essenziali", ex art. 31, co. 2, D.P.R. n. 380/01, mentre l'ordine di demolizione può non trovare esecuzione per abusi realizzati in parziale difformità "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità", ai sensi dell'art. 34, co.2, D.P.R. n. 380/01. In entrambe le ipotesi, comunque, è richiesta l'avvenuta adozione di un titolo abilitativo rilasciato dall'autorità amministrativa, con il quale sia stato dato assenso alla realizzazione di un programmato intervento edilizio. Diversa, è invece l'ipotesi di un abuso intervenuto in mancanza del suddetto titolo rispetto al quale confrontare gli esiti della successiva fase. Questa Corte ha precisato che "laddove ci si riferisce a parziale o totale difformità fra quanto eseguito e quanto assentito deve essere preso in considerazione esclusivamente il corpus delle opere oggetto di attuale intervento; nel senso che non integra certamente un'ipotesi di parziale difformità, costituendo, viceversa, un intervento in assenza di permesso, la realizzazione di un manufatto del tutto nuovo, ancorché esso sia innestato su di una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urba- nistiche" (Cass., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 16548). Pertanto, <strong>ove un immobile sia stato già realizzato, anche se legittimamente, gli ulteriori, successivi interventi operati su di esso, in assenza di nuovo titolo abilitativo, anche qualora non stra- volgano l'organismo edilizio, non possono essere qualificati come opere realizzate in "parziale difformità", stante l'assenza del necessario parametro di riferimento, rectius il titolo abilitativo che abbia autorizzato l'intervento e cui comunque deve riconnettersi la parte parzialmente difforme</strong>.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 gennaio esce la sentenza n. 59347 della Corte europea dei diritti dell’uomo, che dichiara illegittima la condanna per un presunto articolo diffamatorio sull'omicidio di Walter Tobagi. Condanna per il reato di diffamazione inflitta a due giornalisti per un articolo riguardante l'assassinio del giornalista Walter Tobagi e violazione dell'art. 10 (libertà di espressione) della CEDU - Fattispecie Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della legittimità della condanna per il reato di diffamazione, inflitta a due giornalisti del settimanale “Gente”, per aver pubblicato a distanza</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Civile, n. 3454/20, che in tema di divorzio sancisce che la notorietà garantita dal marito non basta per consentire all'ex moglie di conservarne il cognome dopo il divorzio. Viene respinta definitivamente la richiesta presentata dalla donna e finalizzata ad utilizzare ancora il cognome del marito dopo il divorzio. Per i Giudici gli anni di identificazione in ambito sociale col cognome maritale non rappresentano un dato sufficiente a prolungarne ulteriormente l’uso. Viene anche sottolineato che oggi, a differenza di ciò che avveniva in passato, la donna non perde la propria identificazione personale col matrimonio, conservando comunque il proprio cognome.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 febbraio esce l’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. I Civile, n. 3877, che si pronuncia in tema di cambio di sesso non ancora completato. Sostiene la Corte che è possibile la modifica dello stato civile e della scelta del nuovo nome cambio di sesso ancora non completato. Si riconosce al ricorrente non solo il diritto di vedere rettificato il proprio genere sessuale, nonostante la transizione da uomo a donna non sia completata, ma anche di scegliere il proprio nuovo nome.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanti sono i diritti della personalità?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>Esiste un <strong>unico ed indifferenziato diritto della personalità</strong>, che <strong>si manifesta</strong> in <strong>molti modi</strong>, e che consente via via la scoperta di sempre nuove, relative <strong>epifanie</strong> attraverso la clausola generale ed aperta dell’art. 2 Cost.; ad ogni singola manifestazione del diritto della personalità corrisponde un <strong>interesse giuridicamente tutelabile</strong>, ma il diritto della personalità <strong>resta uno</strong> e l’interesse che lo sottende non è la somma, ma <strong>la sintesi</strong> dei vari interessi (anche quelli ad oggi ancora ignoti) che lo compendiano (<strong>teoria monista</strong>, preferita dalla giurisprudenza);</li> <li>Esistono <strong>vari diritti della personalità</strong>, siccome espressamente previsti e disciplinati dalla legge, ed eventuali <strong>lacune di tutela</strong> possono essere colmate per via di <strong>interpretazione estensiva</strong> o di <strong>analogia <em>iuris</em></strong> (teoria pluralista).</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che caratteristiche hanno i diritti della personalità?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>sono <strong>assoluti</strong>, opponibili <strong><em>erga omnes</em></strong> (compreso lo stesso <strong>titolare</strong> e <strong>portatore</strong>, che non può <strong>auto-ledere</strong> la propria persona);</li> <li>sono <strong>indisponibili</strong>, talvolta in modo assoluto (vita, integrità fisica), talaltra in modo relativo (laddove possa operare la scriminante del <strong>consenso dell’avente diritto</strong>, art.50 c.p., che deve comunque rispettare il limite della <strong>dignità</strong> della persona);</li> <li>sono <strong>intrasmissibili agli eredi</strong> (anche se vi è chi ammette una successione particolare, diversa da quella patrimoniale, in capo ai congiunti, in termini di <strong>tutela della persona</strong> del de cuius);</li> <li>sono <strong>imprescrittibili</strong>, ma si prescrive l’<strong>azione di risarcimento del danno</strong> in caso di relativa lesione;</li> <li>si tratta di <strong>caratteristiche tradizionali</strong> che vanno tuttavia <strong>rimodulate</strong> sulla base delle <strong>più recenti concezioni</strong> del “<strong><em>diritto alla salute</em></strong>”, specie con riguardo alla possibilità di <strong>interrompere</strong> i <strong>trattamenti terapeutici</strong> o <strong>di alimentazione</strong> come ormai previsto dalla <strong>legge n.219.17</strong> <strong>sul c.d. “biotestamento”</strong> e sulle <strong>Dichiarazioni Anticipate di Trattamento</strong> (<strong>DAT</strong>);</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale tipo di tutela presidia i diritti della personalità?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>la tutela <strong>preventiva</strong>, <strong>inibitoria</strong> ovvero ex art.700 c.p.c.;</li> <li>la tutela <strong>successiva</strong>, <strong>compensativa</strong>, ex art.2043, 2059 e 2058 c.c.</li> </ul> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è la disciplina degli atti di disposizione del proprio corpo?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>sono ammessi se non cagionano una <strong>diminuzione permanente dell’integrità psico-fisica</strong> e se non sono <strong>contrari a legge, ordine pubblico e buon costume</strong> (art.5 c.c.); anche in questo caso occorre tuttavia tenere conto della <strong>recente legge n.219.17</strong> in tema di “<strong><em>biotestamento</em></strong>” e di <strong>Dichiarazioni Anticipate di Trattamento</strong> (DAT);</li> <li>sono <strong>validi</strong> se riguardano <strong>parti del corpo riproducibili</strong> (unghie, capelli), ma in caso di assunta <strong>obbligazione</strong>, essi sono comunque <strong>incoercibili</strong>;</li> <li>sono <strong>validi <em>inter vivos</em></strong> - se, <strong>gratuiti</strong>, operati per spirito di <strong>solidarietà</strong> e non comportanti una <strong>diminuzione permanente</strong> dell’integrità corporea – le donazioni di <strong>sangue</strong>, di <strong>midollo osseo</strong>, di <strong>rene</strong> a fini di trapianto (per il rene ex legge 458/67, previa autorizzazione giudiziale); <strong><em>post mortem</em></strong> è invece possibile donare <strong>anche gli altri organi</strong> (legge 91/99), purché non vi si sia stata in vita <strong>espressa dichiarazione contraria</strong> e non vi sia l’<strong>opposizione dei familiari</strong>;</li> <li>è dubbio se siano ammessi quando implicano <strong>l’intero corpo</strong> quale oggetto di disposizione, come nella <strong>sterilizzazione a fini contraccentivi</strong> o nella <strong>sperimentazione</strong> farmacologica o medico-chirurgica.</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali questioni extra-codicistiche involge il nome?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>la <strong>qualificazione</strong>: a) è oggetto di un interesse dello Stato quale misura di polizia sociale (teoria <strong>pubblicistica</strong>, ormai abbandonata); b) è oggetto di un diritto di <strong>proprietà</strong> del titolare (teoria <strong>privatistica</strong>, ormai recessiva); c) compendia un <strong>diritto della personalità</strong> quale porzione del <strong>patrimonio morale</strong> e simbolo che riassume la <strong>personalità circolante</strong> del portatore (tesi accreditata);</li> <li>l’<strong>oggetto della eventuale lesione</strong>, che si sostanzia: a) nella <strong>portata identificativa</strong> del nome (viene leso il solo diritto al nome, ingenerando <strong>confusione</strong>); b) la <strong>funzione epidittica o dimostrativa</strong> del nome (viene leso, per il tramite del diritto al nome, anche l’<strong>onore</strong> del titolare);</li> <li>le tipologie di possibile <strong>usurpazione</strong> del nome, che può atteggiarsi: a) <strong>in senso stretto</strong> (A <strong>si attribuisce</strong> il nome di B o lo attribuisce a terzi); b) <strong>in senso lato</strong> (A utilizza <strong>in modo anomalo</strong> il nome di B, ad esempio lo designa come personaggio di un’opera dell’ingegno, di un film o di uno spettacolo teatrale); c) <strong>nulla</strong>, quando il nome viene <strong>legittimamente usato</strong> (atti giudiziali, cronaca giornalistica o altro);</li> <li>l’<strong>evoluzione</strong>: per “<em>nome</em>” ad esempio deve intendersi ormai anche il <strong><em>domaine name</em></strong>.</li> </ul> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali questioni extra-codicistiche involge il diritto all’immagine?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>la <strong>definizione</strong> di immagine, quale <strong>proiezione</strong> palese e concreta della personalità dell’individuo;</li> <li>la necessità di <strong>integrare</strong> la disciplina del codice civile con gli articoli 96 e 97 della legge sul <strong>diritto d’autore</strong> (e con l’art.21 della legge sui marchi): in particolare l’art.96 disciplina il <strong>consenso</strong> del titolare, che può essere anche <strong>implicito</strong>;</li> <li>il fatto che il <strong>risarcimento del danno</strong> (se provato) va garantito per la <strong>sola abusiva riproduzione</strong> dell’immagine, a prescindere dall’<strong>ulteriore danno</strong> all’<strong>onore</strong>, al <strong>decoro</strong> e alla <strong>reputazione</strong> del titolare;</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa accomuna il diritto all’immagine, quello all’identità personale e quello alla riservatezza?</strong></p> <p style="text-align: justify;">Questi tre diritti possono tutti trovare <strong>un limite</strong>, ai sensi dell’art.21 della Costituzione:</p> <ul style="text-align: justify;"> <li>nel diritto di <strong>cronaca</strong>, quale diritto di raccontare accadimenti reali (<strong>narrazione</strong>) per mezzo della stampa, in considerazione del relativo <strong>interesse per l’opinione pubblica</strong>; deve trattarsi di accadimenti <strong>veri</strong> (anche solo <strong>putativamente</strong>, purché la fonte sia stata <strong>diligentemente accertata</strong>), ed esposti in modo civile (<strong>continenza</strong>) obiettivo e <strong>proporzionato</strong> allo scopo informativo, facendo sempre riferimento alla <strong>dignità</strong> della persona di cui si parla;</li> <li>nel diritto di <strong>critica</strong>, quale diritto di esprimere <strong>motivati dissensi</strong> su <strong>opinioni altrui</strong> (<strong>giudizio</strong>), che - involgendo in modo appunto “<strong><em>critico</em></strong>” opinioni di terzi – assorbe dai <strong>limiti già propri del diritto di cronaca,</strong> in particolare, quello della <strong>continenza</strong> espositiva e della <strong>pertinenza</strong> ai fatti oggetto di giudizio rispetto <strong>all’interesse pubblico</strong>;</li> <li>nel diritto di <strong>satira</strong>, che è un sottoinsieme rispetto al diritto di critica in cui il <strong>giudizio</strong> viene espresso mediante immagini <strong>caricaturali</strong> o comunque in maniera <strong>comica e paradossale</strong>; se quanto ne risulta è <strong>apertamente difforme dalla realtà</strong>, i limiti tradizionali scemano, mentre se si dà <strong>apparente attendibilità</strong>, va rispettato soprattutto il limite della <strong>verità</strong> del fatto oggetto di giudizio satirico.</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa compendia il c.d. “prezzo del consenso”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di una voce di <strong>danno patrimoniale</strong> legata al diritto alla <strong>riservatezza</strong> (ma anche al diritto all’<strong>immagine</strong>) che corrisponde al <strong>valore di scambio</strong> che avrebbe avuto il <strong>consenso</strong> prestato dal titolare alla pubblicazione di determinate notizie che lo riguardano (ovvero alla pubblicazione della sua immagine), laddove detto consenso fosse stato preventivamente chiesto;</li> <li>in sostanza, è un danno da <strong>mancato sfruttamento economico</strong> delle notizie afferenti alla propria persona (ovvero della propria immagine), che corrisponde ad una società dove il <strong>valore di scambio</strong> ha ormai quasi del tutto soppiantato il <strong>valore d’uso</strong> anche di beni intimamente connessi alla persona umana;</li> <li>secondo la <strong>dottrina</strong> peraltro la <strong>cessione di notizie private</strong> può considerarsi <strong>lecita</strong> solo se il cedente è persona <strong>nota</strong>, che <strong>monetizza</strong> la mancata stipulazione di un <strong>contratto vantaggioso</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali questione pone la lesione dei diritti fondamentali dell’Ente, stante la relativa assenza di fisicità?</strong></p> <ul> <li style="text-align: justify;">una questione <strong>storica</strong>: fino agli anni 90 si è ritenuto che per <strong>diritti fondamentali della</strong> “<strong><em>persona</em></strong>” dovessero intendersi solo quelli della <strong>persona fisica</strong> a cagione del <strong>coefficiente psicologico</strong> ad essi ascritto in modo quasi <strong>consustanziale</strong>; solo quando, sul crinale patologico, si è superata la concezione del danno “<em>personale</em>” come mera <strong><em>pecunia doloris</em></strong>, ritenendo il danno morale solo una possibile voce di <strong>danno non patrimoniale</strong>, si è iniziato a configurare un danno da lesione di diritti fondamentali <strong>dell’ente</strong>, con particolare riferimento all’onore, alla reputazione, all’immagine (anche commerciale);</li> <li style="text-align: justify;">una questione di generale <strong>limitazione dell’oggetto</strong>: a parte i casi tipici di <strong>danno ambientale</strong> e di danno da<strong> irragionevole durata del processo</strong>, si tratta fondamentalmente della lesione del diritto all’<strong>immagine</strong> e alla <strong>reputazione</strong> dell’ente, con conseguente <strong>diminuzione della considerazione</strong> per l’ente stesso e per le persone fisiche che vi agiscono; ciò, nel caso in cui si tratta di ente pubblico, implica anche una possibile <strong>responsabilità di tipo amministrativo</strong> laddove la lesione del diritto all’immagine ed il conseguente danno siano attribuibili ad un dipendente (pubblico); il danno va liquidato in via <strong>equitativa</strong> ex art.1226 c.c., ma con riguardo a taluni indici quali la <strong>gravità oggettiva</strong> del fatto, la <strong>diffusività</strong> presso la collettività, l’entità della <strong>tangente percepita</strong>, l’appostamento di <strong>apposite spese per “<em>raddrizzare</em>” l’immagine</strong> dell’ente incrinata, la <strong>riduzione del senso di legalità</strong> presso i cittadini;</li> <li style="text-align: justify;">una questione <strong>commercialistica</strong> specifica di lesione della <strong>reputazione economica</strong> dell’ente che può derivare: a) da un <strong>atto di concorrenza sleale</strong> ex art. 2598 c.c.; b) da un più generico <strong>fatto illecito</strong> ex art.2043 c.c.. In questo settore si parla di <strong>discredito</strong> per l’impresa e di <strong>denigrazione</strong> per i relativi prodotti, con riguardo ai quali ultimi è da ricordare la giurisprudenza sui c.d. <strong><em>Warentests</em></strong>, ovvero dei <strong>servizi giornalistici</strong> che presuppongono (implicitamente) o diffondono (direttamente) delle <strong>informazioni</strong> che riguardano <strong>prodotti tra loro fungibili</strong>, con particolare riguardo agli esiti di <strong>verifiche comparative</strong> tra i prodotti stessi: qui la <strong>prudenza</strong> del giornalista (specie <strong>televisivo</strong>) deve essere molto elevata dovendosi egli limitare a notizie (oltre che vere, di interesse pubblico ed espresse con continenza) assunte attraverso l’ausilio di <strong>esperti</strong> che utilizzino <strong>metodi rigorosi e attendibili</strong>, e successivamente <strong>verificate in via ulteriore</strong> dal giornalista stesso.</li> </ul>