<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Accanto alla figura del atto non manifestato (silenzio genericamente significativo: silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto, silenzio-assenso e così via) si è andata via via facendo strada nel corso dei lustri una figura di non-atto manifestato, vale a dire di atto che “</em>si vede<em>”, ma che non produce effetti: è l’atto amministrativo nullo, che si pone come eccezione rispetto alla regola del provvedimento annullabile e che, dopo essere stato isolato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ha trovato foggia legislativa specifica all’art.21.septies della legge 241 del 1990, senza che tutte le questioni che esso ingenera – di natura tanto sostanziale quanto processuale – siano state ancora del tutto scandagliate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il codice civile disciplina la nullità del contratto all’art.1418, prevedendolo tale – e dunque nullo – in primo luogo, genericamente, quando è contrario a <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/1713.html">norme imperative</a>, salvo che la legge disponga diversamente: la nullità assume dunque la veste di rimedio generale per i vizi del contratto; producono poi nullità del contratto medesimo (sul crinale strutturale e funzionale) la mancanza di uno dei requisiti strutturali indicati dall'articolo <a href="http://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quarto/titolo-ii/capo-ii/art1325.html">1325</a>, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo <a href="http://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quarto/titolo-ii/capo-ii/sezione-ii/art1345.html">1345</a> e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo <a href="http://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quarto/titolo-ii/capo-ii/sezione-iii/art1346.html">1346</a>. Il contratto viene dichiarato infine nullo negli altri casi stabiliti dalla legge. Se la legge non dispone diversamente, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’azione per far valere la nullità del contratto è imprescrittibile ex art.1422 c.c. (salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione); ai sensi dell’art.2953 c.c., nel caso in cui per far valere un diritto sia prevista una prescrizione breve, quando interviene sentenza passata in giudicato il (nuovo) termine di prescrizione è comunque decennale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che prevede riserve di legge in tema di ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, numero, attribuzioni ed organizzazione dei Ministeri (art.95), nonché di organizzazione dei pubblici uffici, in modo da assicurarne l’imparzialità ed il buon andamento (art.97), con ciò disegnando un sistema rigido di attribuzioni e competenze e prefigurando la nullità dell’atto per le ipotesi di incompetenza più grave dell’organo che lo adotta. Sempre secondo la Costituzione, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge (art.97, ultimo comma).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1949</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 luglio esce la sentenza delle SSUU n.1657 (arresto Ferrari) che per prima delinea la c.d. carenza di potere dell’Amministrazione: essa si rinviene allorché il provvedimento amministrativo sia stato adottato da una PA totalmente priva del potere di adottare il provvedimento; altra ipotesi è quella c.d. della incompetenza assoluta, allorché la PA adottante appartenga ad un plesso organizzativo diverso rispetto a quello cui compete l’adozione del provvedimento divisato; altra ipotesi ancora è quella in cui l’atto adottato sia riservato ad un potere dello Stato diverso da quello amministrativo. In tutti gli altri casi si parla non già di carenza, quanto piuttosto di cattivo esercizio di un potere comunque riconoscibile in capo alla PA.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1957</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio viene varato il D.p.R. n.3, recante Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, secondo il cui art.3, ultimo comma, salve le eccezioni previste dal decreto medesimo, l'assunzione agli impieghi senza il concorso prescritto per le singole carriere e' nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell'Amministrazione, ferma restando la responsabilità dell'impiegato che vi ha provveduto. Si tratta di una delle prime ipotesi di nullità c.d. testuale dell’atto amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2481 che approfondisce meglio la questione della dicotomia – fondamentale ai fini del riparto di giurisdizione – tra carenza e cattivo esercizio del potere, siccome coniata nel 1949 con il caso Ferrari. Secondo le SSUU, ai fini del riparto di giurisdizione occorre distinguere (verificandolo di volta in volta) se la questione posta concerne l’esistenza di un presupposto che possa qualificarsi di astratta attribuzione del potere, la relativa mancanza escludendo la riferibilità dell’atto al potere medesimo e dunque importando la sindacabilità del GO (atto, nella sostanza, nullo); ovvero l’esistenza di un presupposto che non può considerarsi di astratta attribuzione del potere e che come tale tende a (meglio) tutelare l’interesse pubblico, come nel caso delle prescrizioni di carattere formale, il sindacato sul difetto del quale appartiene invece al GA (atto meramente annullabile). Dal consolidamento di questa presa di posizione della giurisprudenza scaturirà, esemplificando, tutto quel filone pretorio della Cassazione orientato ad affermare la giurisdizione del GO – per carenza di potere “<em>in concreto</em>” – nelle fattispecie di provvedimenti ablatori adottati in difetto di dichiarazione di pubblica utilità, quand’anche esistente <em>ab origine</em> ed annullata <em>ex post</em> in via di autotutela o in sede giurisdizionale, ovvero nelle fattispecie in cui la dichiarazione di pubblica utilità esiste, ma ne sono scaduti i termini di relativa efficacia di cui all’art.13 della legge n.2359 del 1865.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1958</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 24 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.3457 che ribadisce le specificazioni in ordine alla dicotomia tra carenza di potere e cattivo esercizio del potere già scolpite dal precedente n.2481 del 1957.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1963</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria n.8 che si occupa della sorte dell’atto amministrativo adottato sulla base di una legge poi dichiarata incostituzionale. Secondo l’Adunanza, tra la legge e l’atto amministrativo non si riscontra un rapporto di consequenzialità analogo a quello che avvince l’atto preparatorio e quello finale di un procedimento amministrativo, e che fa si che la caducazione del primo travolga anche il secondo; il potere esecutivo è infatti autonomo rispetto al potere legislativo, e l’atto amministrativo è espressione di tale potere autonomo, con conseguente vita ed individualità sua propria. Laddove la legge cessi di essere efficace (in via retroattiva) per intervento della Corte costituzionale, l’atto amministrativo subisce l’influsso di tale vicenda patologica, ma non ne viene travolto in via automatica (in sostanza, è annullabile ma non nullo).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1971</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 dicembre viene varata la legge n.1034 che, nell’istituire i Tribunali Amministrativi Regionali, all’art.26 prevede per essi solo sentenze (favorevoli al ricorrente) di natura demolitorio-costitutiva. In particolare, alla stregua del comma 2 il Tar, se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente; se invece lo accoglie per altri motivi, annulla in tutto o in parte l'atto impugnato, e quando è investito di giurisdizione di merito, può anche riformare l'atto o sostituirlo, salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa. Ciò porta ad escludere azioni di accertamento e, in particolare, di declaratoria di nullità nel processo amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1976</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 maggio esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.3 che, decidendo in tema di protezione delle bellezze naturali e di costruzioni in area vincolata, afferma che è affetto da annullabilità (e non da nullità) un provvedimento amministrativo, per relativa natura autoritativo, che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui adozione abbia compendiato reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1984</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 marzo esce una importante pronuncia dell'Adunanza Plenaria, la n.6, secondo cui in generale gli atti adottati dall'Amministrazione dopo un annullamento in sede giurisdizionale sono soggetti all'ordinario regime d'impugnazione anche quando si discostino dai criteri indicati nella sentenza, giacché in tale evenienza sarebbe pur sempre configurabile un vizio di legittimità del nuovo provvedimento, da far valere nei modi, nei termini e con le garanzie proprie del ricorso ordinario (elusione): essi sono dunque generalmente impugnabili innanzi al Tar con il rito ordinario. Tuttavia, soggiunge l’Adunanza, nel caso in cui dal giudicato derivi un obbligo talmente puntuale da non lasciare alcuno spazio all'esercizio del potere discrezionale della p.a., l'ottemperanza al giudicato si concreta nell'adozione di un atto il cui contenuto è integralmente desumibile dalla sentenza, con la conseguenza onde eventuali atti difformi (violazione) risultano emessi in carenza di potere e possono essere dichiarati nulli dal GA in sede di giudizio di ottemperanza (non occorrendo la tempestiva impugnazione con rito ordinario). L’Adunanza risolve dunque la spinosa questione della dicotomia tra violazione ed elusione del giudicato seguendo un criterio legato al contenuto dell'atto concretamente adottato dall'Amministrazione: alla discrezionalità del potere nell'ottemperare corrisponde l'illegittimità dell'atto (elusione), impugnabile con il ricorso ordinario, mentre laddove il potere nell'ottemperare sia vincolato si assiste ad un vero e proprio inadempimento al giudicato (violazione), impugnabile come tale dinnanzi al giudice dell'ottemperanza al fine di far dichiarare la nullità del provvedimento che lo compendia. Si tratta di un orientamento che verrà sottoposto a critica, in particolare da chi ritiene che il giudizio di ottemperanza non possa essere svilito al punto tale da essere chiamato in causa solo in ipotesi di inerzia della PA o di violazione conclamata del giudicato (potere vincolato <em>post</em> sentenza di cognizione), dovendo piuttosto assumersi operativo anche quando il potere dell’Amministrazione di ottemperare conservi margini di discrezionalità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza del Tar Piemonte n.34 che, muovendo dal presupposto onde l’eventuale norma interna contrastante con il diritto comunitario va disapplicata, e dunque non produce effetti nell’ordinamento interno, giunge alla conclusione per cui l’atto amministrativo che in tale norma interna trovi fondamento ed ancoraggio va considerato nullo o inesistente. La medesima pronuncia soggiunge nondimeno che – dovendosi optare per la teoria “<em>pluralista</em>”, abbracciata dalla Corte costituzionale, secondo la quale l’ordinamento comunitario e quello interno costituiscono due sistemi giuridici autonomi e separati, ancorché coordinati - laddove l’atto amministrativo si ponga in contrasto diretto con la normativa comunitaria (e non in un contrasto mediato dalla norma interna attributiva del potere), tale atto non potrebbe considerarsi nullo (come nel caso della anticomunitarietà mediata) in quanto unico parametro di legittimità dell’atto amministrativo è da assumersi in simili casi la norma interna, non potendo quella sovranazionale costituire – proprio perché gli ordinamenti sono separati – parametro diretto di legittimità dell’atto in parola.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 agosto vede la luce la legge n.241 che, calibrata sul procedimento, non si occupa esplicitamente ed in via generale della invalidità dell’atto e del provvedimento amministrativo, palesandosi piuttosto centrata sulla fase procedimentale (il “<em>farsi</em>” del potere amministrativo). Prevede tuttavia una esplicita ipotesi di nullità per gli accordi, sia integrativi che sostitutivi del provvedimento amministrativo (art.11, comma 2), laddove non stipulati per atto scritto, e salvo che la legge disponga altrimenti. Ai medesimi accordi si applicano peraltro, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili (compresi evidentemente quelli in tema di nullità del contratto).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.335 che, ponendosi nel solco pretorio critico nei confronti della sentenza dell’Adunanza Plenaria n.6 del 1984 in tema di violazione ed elusione del giudicato, assume doversi badare al <em>petitum</em> del ricorrente al fine di verificare se nel singolo caso di specie debba spiccarsi ricorso al Tar in sede ordinaria, ovvero il ricorso per ottemperanza: il rito ordinario è imprescindibile quando il ricorrente abbia dedotto la violazione da parte del provvedimento amministrativo della legge sostanziale, mentre laddove tale provvedimento sia stato assunto essere in frizione con l’accertamento contenuto nel giudicato, può essere varato il giudizio di ottemperanza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.208 che stigmatizza, dichiarandola illegittima e non conforme a Costituzione, la prassi di prorogare <em>sine die</em> gli organi amministrativi scaduti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.62, secondo la quale laddove intervenga una declaratoria di incostituzionalità della norma sulla base della quale è stato esercitato il potere ed è stato adottato l’atto amministrativo, questo è da assumersi illegittimo ed annullabile, non già inesistente o nullo, con la conseguenza onde esso va rimosso in sede giurisdizionale o amministrativa (autotutela).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 7 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.219 che, ponendosi nel solco pretorio critico nei confronti della sentenza dell’Adunanza Plenaria n.6 del 1984 in tema di violazione ed elusione del giudicato, ribadisce doversi attenzionare il <em>petitum</em> del ricorrente al fine di verificare se nel singolo caso di specie debba spiccarsi ricorso al Tar in sede ordinaria, ovvero il ricorso per ottemperanza: il rito ordinario è imprescindibile quando il ricorrente abbia dedotto la violazione da parte del provvedimento amministrativo della legge sostanziale, mentre laddove tale provvedimento sia stato assunto essere in frizione con l’accertamento contenuto nel giudicato, può essere varato il giudizio di ottemperanza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio viene varato il decreto legge n.293, i cui articoli 3 e 6 – dando seguito alle sollecitazioni giunte dalla Corte costituzionale nel 1992 - prevedono una forma di nullità espressa e testuale per gli atti amministrativi adottati da organi in regime di <em>prorogatio</em>, ovvero al massimo 45 giorni dalla scadenza naturale: durante questo torno temporale, sono nulli tutti gli atti che non rientrino tra quelli di ordinaria amministrazione, ovvero tra quelli urgenti e indifferibili; quando poi detti organi sono ormai definitivamente decaduti (per essere decorso anche il termine di <em>prorogatio</em> di 45 giorni senza che si sia provveduto a ricostituire gli organi decaduti), sono nulli tutti gli atti comunque da essi adottati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 luglio viene varata la legge n.444, che converte in legge il decreto n.293.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre viene varato il CCNL dei dipendenti delle ASL, il cui art.37 prevede un’ipotesi di nullità testuale concernente il licenziamento (recesso) intimato ai lavoratori del settore per ragioni di tendenza (politiche, religiose, sindacali, sessuali, razziali o linguistiche), ovvero comunque senza giusta causa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato,n.118, onde la decadenza, per mancata conversione, di un decreto legge, ai sensi dell’art. 77 comma 3, Cost., non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza, ma esclusivamente effetti vizianti; pertanto, sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti legge non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della fonte primaria decaduta divengono illegittimi, dovendo essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i requisiti, per mezzo dell’esercizio dell’autotutela.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1907 che isola la c.d. occupazione usurpativa (pur senza ancora definirla esplicitamente tale) in quella fattispecie particolarmente grave di occupazione che non garantisce alla PA l’acquisizione della proprietà del fondo (come invece accade nella ipotesi della occupazione acquisitiva): secondo le SSUU, più in specie, la PA non diviene proprietaria del suolo sul quale insiste l’opera “<em>pubblica</em>” divisata laddove la dichiarazione di pubblica utilità debba assumersi <em>ab initio</em> nulla, come nell’ipotesi in cui sia priva dei termini per le espropriazioni e per i lavori. Sono ipotesi nelle quali il privato conserva la proprietà del fondo e può sempre chiedere la <em>restitutio in integrum</em>, che corrisponde fondamentalmente con la restituzione del fondo stesso, previa demolizione di quanto costruito; può tuttavia anche chiedere in alternativa il solo risarcimento dei danni. Si tratta di un illecito di natura permanente, durante il quale non corre il termine di prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 29 dicembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 1605 che ribadisce come la decadenza, per mancata conversione, di un decreto legge, ai sensi dell’art. 77 comma 3, Cost., non produca effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza, ma esclusivamente effetti vizianti; pertanto, sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti legge non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della fonte primaria decaduta divengono illegittimi, dovendo essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i requisiti, per mezzo dell’esercizio dell’autotutela.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 aprile esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 494 che si occupa del vizio che affetta il provvedimento tardivo di rigetto esplicito dell’istanza del privato, una volta che sia maturato il silenzio assenso. L’atto è da considerarsi annullabile e non nullo, in quanto dopo il maturare del silenzio assenso la PA ha perso il potere di pronunciarsi sull’istanza, ma non quello di regolare la vicenda amministrativa pertinente con un atto ulteriore e successivo: in sostanza, la PA non respinge l’originaria istanza (ormai accolta <em>per silentium</em>) in quanto il potere di pronunciarsi sull’istanza si è già consumato, ma disciplina in modo diverso la vicenda che la sottende. Questo è il motivo per il quale, pur trovandosi al cospetto di un patente <em>ne bis in idem</em>, l’atto non può assumersi nullo, ma va considerato annullabile nei termini di decadenza: si è al cospetto di una rinnovata espressione del potere della PA che si sostituisce a quella già palesata <em>per silentium</em>, giusta provvedimento sopravvenuto che è illegittimo ma che va impugnato nei termini, dovendo in caso contrario (mancato gravame nel termini) assumersi ormai sovrapposta alla manifestazione del potere <em>per silentium</em> in senso favorevole al privato quella successiva esplicita a lui sfavorevole.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.117, che si occupa – in tema di forma dell’atto amministrativo - del caso in cui un provvedimento sia sottoscritto in modo non autografo: per la Corte, esso non può essere assunto nullo in modo indiscriminato, ma solo nell’ipotesi in cui sia la legge a prevedere a pena di nullità la firma autografa del provvedimento, mentre in tutti gli altri casi è sufficiente poter riferire il provvedimento all’Amministrazione, ovvero poter individuare con certezza dal contesto dell’atto medesimo l’autorità amministrativa dalla quale esso proviene.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 luglio viene varata la legge n.212, c.d. statuto del contribuente, il cui art.11 prevede una nuova ipotesi di nullità testuale per gli atti (tributari) adottati in senso difforme rispetto alle risposte fornite al contribuente a seguito di interpello spiccato dal medesimo e con il quale egli ha chiesto chiarimenti concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti, in presenza di una obiettiva incertezza interpretativa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 marzo viene varato il decreto legislativo n.165 recante norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, il cui articolo 52, al comma 5, prevede una ipotesi di nullità testuale che si verifica laddove al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2 – secondo il quale, per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non piu' di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza - e' nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore e' corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore, mentre il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave. Altra ipotesi di nullità testuale è prevista al successivo art.53, secondo il cui comma 8 le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi: salve le più gravi sanzioni eventualmente previste, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento, il relativo provvedimento e' nullo di diritto e l'importo previsto come corrispettivo dell'incarico non autorizzato, ove gravi su fondi in disponibilità dell'amministrazione conferente, e' trasferito all'amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. Mentre la nullità di cui all’art.53 (incarico non autorizzato) verrà considerata dalla dottrina di natura pubblica provvedimentale, quella di cui all’art.52 (mansioni superiori) – dopo la privatizzazione dell’impiego pubblico – sarà invece considerata ormai nullità di natura negoziale, ad eccezione dei rapporti di impiego pubblico non privatizzati (ad esempio, i magistrati), in relazione ai quali si continua a discorrere di nullità attizia o provvedimentale (pubblica).</p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno vede la luce il d.p.r. n.327, testo unico in materia di espropri. Importante in particolare l’art.13 che, per quanto riguarda la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, non prevede più l’obbligatoria fissazione di un termine per le espropriazioni e per i lavori (inizio ed ultimazione), come invece prevedeva la disciplina previgente: il decreto di esproprio deve in ogni caso intervenire non oltre i 5 anni successivi. Ne consegue che da questo momento in poi la dichiarazione di pubblica utilità non può configurarsi illegittima, né tampoco radicalmente nulla, laddove non preveda i ridetti termini (che sono ormai facoltativi).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio esce la sentenza del CdS, sezione V, n.35 che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e distingue: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, ovvero laddove l’atto amministrativo si ponga in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 gennaio viene varata la legge n.3 che introduce nel decreto legislativo 165.01 in tema di lavoro alle dipendenze delle PA l’art.34.bis: si impone alle Amministrazioni che intendano assumere del personale a mezzo pubblico concorso di operare comunicazioni (obbligatorie) funzionali a verificare se è possibile sopperire alla carenza di personale con lo strumento della mobilità, prevedendo una ipotesi di nullità di diritto delle assunzioni operate in violazione di tale norma.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Santex, C-327/00, con la quale la Corte risponde all’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tar Lombardia del 2000 in tema di possibilità per il GA di disapplicare – anche oltre il termine di decadenza – clausole di un bando di gara non impugnate ma in contrasto con il diritto comunitario: secondo la Corte, anche quando una norma europea ha effetto diretto e garantisce ai singoli un diritto, spetta comunque – in mancanza di una disciplina comunitaria procedurale ad hoc – ai singoli Stati membri designare il giudice competente e stabilire con quali modalità procedurali può essere spiccato il ricorso giurisdizionale inteso a tutelare il detto diritto, se del caso fissando anche un termine di decadenza per l’impugnativa, che non può assumersi ex se costituire un ostacolo all’applicazione del diritto europeo. A differenza di quanto affermato in precedenza sul punto, la Corte di Giustizia appare tuttavia più rigorosa, richiedendo in ogni caso l’applicazione da parte dell’ordinamento processuale interno dei principi comunitari di equivalenza (le modalità procedurali intese a garantire i diritti di ascendenza europea non devono essere più gravose di quelle intese a garantire i diritti interni) e di effettività della tutela (il ricorso non deve rendere praticamente impossibile ovvero comunque eccessivamente difficile l’esercizio del diritto europeo sottostante), specie nei confronti delle PA aggiudicatrici. Proprio valorizzando il principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti di ascendenza sovranazionale, la Corte giunge ad affermare che – nel singolo caso concreto – l’applicazione delle regole procedurali interne potrebbe conculcare detti diritti e dunque, in casi peculiari e specifici, non può negarsi al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del GA (anche oltre il termine di decadenza) il ruolo di ultimo baluardo e sorta di “<em>contro-limite</em>” europeo al potere statale di disciplinare il dipanarsi del processo innanzi ai propri giudici (amministrativi): in queste peculiari ipotesi di configura un regime processuale tale da richiamare, sul piano sostanziale, la nullità dell’atto disapplicabile.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 17 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 1381 che ribadisce le acquisizioni già raggiunte in tema di vizio che affetta il provvedimento tardivo di rigetto esplicito dell’istanza del privato, una volta che sia maturato il silenzio assenso. L’atto è da considerarsi annullabile e non nullo, in quanto dopo il maturare del silenzio assenso la PA ha perso il potere di pronunciarsi sull’istanza, ma non quello di regolare la vicenda amministrativa pertinente con un atto ulteriore e successivo: in sostanza, la PA non respinge l’originaria istanza (ormai accolta <em>per silentium</em>) in quanto il potere di pronunciarsi sull’istanza si è già consumato, ma disciplina in modo diverso la vicenda che la sottende. Questo è il motivo per il quale, pur trovandosi al cospetto di un patente <em>ne bis in idem</em>, l’atto non può assumersi nullo, ma va considerato annullabile nei termini di decadenza: si è al cospetto di una rinnovata espressione del potere della PA che si sostituisce a quella già palesata <em>per silentium</em>, giusta provvedimento sopravvenuto che è illegittimo ma che va impugnato nei termini, dovendo in caso contrario assumersi ormai sovrapposta alla manifestazione del potere <em>per silentium</em> in senso favorevole al privato quella successiva esplicita a lui sfavorevole.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 marzo esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.4 che, in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità (dell’opera) priva dei termini di inizio e di fine dei lavori (anteriore al T.U. 327.01), afferma essersi al cospetto di un atto annullabile e non nullo: per l’Adunanza, non può parlarsi in queste ipotesi di carenza di potere in concreto, con la conseguenza onde l’atto va impugnato nei termini e non se ne può invocare <em>ex post</em> la disapplicazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.204 che afferma potersi riconoscere la giurisdizione del GA tutte le volte – e solo quelle - in cui la legge astrattamente conferisca alla PA il potere autoritativo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 febbraio esce la sentenza della sezione III del Tar Puglia, Lecce, n.461 in cui – in ipotesi di provvedimento che accoglie una istanza di sanatoria con riguardo ad un immobile inesistente – ne dichiara la nullità strutturale per mancanza di oggetto.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 febbraio viene varata la legge n.15 che introduce nel corpo della legge 241 del 1990, tra gli altri, l’art.21.septies: viene prevista esplicitamente la nullità dell’atto amministrativo, in un quadro più generale che vede di nuovo spostato il baricentro disciplinare dal procedimento al provvedimento amministrativo. In questa cornice di fondo, il provvedimento viene dichiarato nullo quando manca degli elementi essenziali, è viziato da difetto assoluto di attribuzione, è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge (c.d. tipicità della nullità). Si tratta di una disposizione ricognitiva rispetto alla precedente giurisprudenza, della quale accoglie la soluzione mediana (tra la teoria negoziale, limitrofa al diritto privato, e quella autonomistica) intesa a riconoscere la nullità nei casi di vizi particolarmente gravi del provvedimento amministrativo, tali da non poter essere ricondotti nella più generale ed onnicomprensiva categoria della annullabilità. Mentre il difetto assoluto di attribuzione costituisce una ipotesi di sostanziale carenza di potere in astratto (con conseguente giurisdizione del GO e possibilità di invocare da sempre anche il risarcimento del danno), gli atti posti in essere in violazione od elusione del giudicato costituiscono fattispecie normalmente ricondotte alla carenza di potere in concreto (qui viene consentito al ricorrente di chiedere l’accertamento della nullità al GA in seno al giudizio di ottemperanza, al fine di ottenere rapidamente il bene della vita garantito dal giudicato violato o eluso); vi è poi l’ipotesi della nullità strutturale – difetto degli elementi essenziali dell’atto (dove quest’ultimo viene traguardato come figura teorica generale sulla falsariga del contratto privatistico, utilizzando tuttavia l’espressione “<em>elementi essenziali</em>” in luogo dei “<em>requisiti</em>”, dei quali è parola all’art.1325 c.c.) – e quella della nullità letterale (gli altri casi espressamente previsti dalla legge: per lo più ipotesi in cui l’interesse pubblico richiede la configurazione di ipotesi di nullità speciale). L’art.21.septies non prevede tuttavia ipotesi di nullità virtuale; nella norma non si rinviene inoltre citata espressamente la “<em>carenza di potere</em>”, che tanto spazio ha invece avuto nel precedente dibattito dottrinale e giurisprudenziale (la dottrina più avvertita ne evince subito come la questione dei limiti della c.d. carenza di potere non possa dirsi ancora totalmente superata). Per quanto concerne l’atto amministrativo in frizione con il giudicato, il codice opta per la relativa nullità sia nel caso in cui esso sia violativo del giudicato, sia nel caso in cui ne sia meramente elusivo (residuando in capo alla PA una facoltà, seppure contingentata dal giudicato stesso, di riedizione del potere), pur conservando in termini di nomenclatura la ambigua dicotomia violazione-elusione: l’atto è sempre nullo e, alla stregua del comma 2 del medesimo 21.septies, la cognizione in ordine alle relative controversie viene devoluta alla giurisdizione esclusiva del GA, senza tuttavia richiamare esplicitamente il giudizio di ottemperanza (e la connessa giurisdizione di merito): il richiamo alla giurisdizione esclusiva verrà criticato dalla dottrina più avvertita, che rappresenterà come – a rigore – in caso di atti nulli per violazione o elusione del giudicato, il ricorrente dovrebbe prima adire il GA in sede di giurisdizione esclusiva per farsi dichiarare la nullità degli atti medesimi, e poi adire sempre il GA in sede di ottemperanza per sollecitare l’ottenimento del bene della vita (e la connessa soddisfazione dell’interesse sostanziale) già garantitogli dalla sentenza di cognizione, laddove obbliga (invano) la PA a conformarvisi. Per quanto concerne le nullità c.d. “<em>testuali</em>” (gli “<em>altri casi espressamente previsti dalla legge</em>”), il nuovo art.21.septies chiarisce che si tratta per l’appunto di fattispecie di vera e propria nullità tecnicamente intesa, e non già di illegittimità (annullabilità) aggravata come pure in dottrina si era ventilato: si tratta di tutelare maggiormente i privati destinatari di un provvedimento gravemente fuori asse rispetto al quadro normativo e, ad un tempo, di responsabilizzare di più i soggetti pubblici chiamati ad adottare i pertinenti provvedimenti. Per quanto riguarda gli effetti (sostanziali e processuali) della nullità, viene eliminato l’esplicito riferimento, contenuto nel disegno di legge, alle norme ed ai principi in materia di nullità dei contratti, che vi erano originariamente previsti come applicabili nei limiti della compatibilità: la mancanza di una esplicita presa di posizione del legislatore impone da subito di conciliare: a) il regime della decadenza che tradizionalmente presidia l’impugnazione degli atti amministrativi con il principio di imprescrittibilità dell’azione di nullità civilistica; b) per conseguenza, il regime naturalmente “<em>costitutivo</em>” della sentenza amministrativa demolitoria con quello “<em>dichiarativo</em>” della sentenza che in ambito civilistico dichiara la nullità (del contratto); c) la nullità dell’atto, che per conseguenza non produce effetti, ed il potere di autotutela (decisoria) riconosciuto dal sistema alla PA.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 aprile esce la sentenza della II sezione del Tar Lombardia, n.855 secondo la quale nei casi di nullità diversi dalle violazione o elusione del giudicato (ipotesi di giurisdizione esclusiva del GA) e previsti dall’art.21.septies, la giurisdizione deve assumersi appartenere sempre al GO, in quanto l’atto, proprio perché nullo, non produce effetti, non ha carattere autoritativo e non è idoneo ad incidere sulla situazione soggettiva del privato, il quale vanta sempre una posizione di diritto soggettivo che gli consente di agire dinanzi al GO (non vi è potere pubblico) per la declaratoria di nullità</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile esce una prima sentenza del Tar Campania, V, n.5025 che, occupandosi della novella della legge 241.90 ad opera della legge n.15 dello stesso anno, afferma in primo luogo come il legislatore abbia per la prima volta previsto, in via generale, la categoria dell’atto amministrativo nullo accanto a quella dell’atto amministrativo annullabile. Si tratta per il Tar Campania di una patologia radicale, che – con specifico riguardo al c.d. “<em>difetto assoluto di attribuzione</em>” - evoca i soli casi di c.d. carenza di potere in astratto, laddove manca già sul piano astratto il potere per difetto di una norma che lo attribuisca, e non anche i diversi casi di c.d. carenza di potere in concreto, coniati dalle SSUU della Cassazione quali ulteriore ipotesi di nullità e che vanno invece oramai ricondotti alla annullabilità (nei termini) per violazione di legge.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 20 luglio esce la sentenza della I sezione del Tar Sicilia, Catania, n.1271 secondo la quale nei casi di nullità diversi dalle violazione o elusione del giudicato (ipotesi di giurisdizione esclusiva del GA) e previsti dall’art.21.septies, la giurisdizione deve assumersi appartenere sempre al GO, in quanto l’atto, proprio perché nullo, non produce effetti, non ha carattere autoritativo e non è idoneo ad incidere sulla situazione soggettiva del privato, il quale vanta sempre una posizione di diritto soggettivo che gli consente di agire dinanzi al GO (non vi è potere pubblico) per la declaratoria di nullità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 ottobre esce la sentenza della III sezione del Tar Puglia n.4581 alla cui stregua – anche dopo l’avvento dell’art.21.septies della legge 241.90 - l’azione di accertamento della nullità innanzi al GA resta inammissibile, ma è sempre possibile agire con la tradizionale azione di annullamento, con la quale si chiede al GA (e non al GO) di accertare la inesistenza giuridica del potere dell’Amministrazione: il giudice annulla l’atto, lo rende improduttivo di effetti e raggiunge in concreto l’effetto che il privato ricorrente si propone; del resto, se è pur vero che una quota di accertamento è sempre presente in ogni processo, è del pari vero che le disposizioni del codice di procedura civile sono applicabili solo laddove espressione di un principio generale ed in difetto di specifiche deroghe nel processo amministrativo, nel quale ultimo tuttavia – <em>ratione materiae</em> – una deroga espressa si rintraccia nell’art.26, comma 2, della legge 1034.71 che, con l’imporre al GA di annullare l’atto impugnato, gli impedisce di dichiararne la nullità. Per il GA lo schema da seguire è sempre “<em>fatto-norma-potere-effetto</em>”, sicché – in sede demolitoria – egli accerta l’inesistenza del potere e la conseguente nullità dell’atto, annullandolo (e non dichiarandolo nullo).</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 novembre esce una importante sentenza della sezione III della Cassazione n.6170 secondo la quale, laddove l’attore abbia invocato l’annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto, il giudice deve implicitamente assumersi investito della questione in ordine alla validità ed efficacia del contratto medesimo, potendone dunque dichiarare anche la nullità, seppure non richiesta: si tratta di un orientamento che resterà minoritario rispetto a quello, prevalente, onde se non viene chiesta dall’attore la nullità del contratto, la relativa declaratoria ridonda in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art.112 c.p.c. (un contrasto di giurisprudenza ordinaria cui corrisponderà un contrasto, sul punto, della giurisprudenza amministrativa, per il caso in cui il ricorrente abbia chiesto solo l’annullamento dell’atto e non anche la relativa declaratoria di nullità).</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.6963 che, anche sulla scorta del nuovo articolo 21.septies della legge 241.90, ritiene di dover aderire al criterio del <em>petitum</em> del ricorrente al fine di verificare se si sia in presenza di una censurata difformità dell’atto amministrativo rispetto all’obbligo di attenersi con esattezza all’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato (inadempimento al giudicato, <em>sub specie</em> tanto di violazione che di mera elusione), con conseguente nullità degli atti e giudizio di ottemperanza; o se si sia al cospetto di una (nuova) violazione della legge sostanziale da parte del provvedimento amministrativo, con conseguente mera annullabilità del medesimo e relativa impugnabilità con rito ordinario nel termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza della sezione V del Consiglio di Stato n.861, che si occupa della ipotesi di violazione o elusione del giudicato da parte dell’Amministrazione, con conseguente nullità dei relativi atti, denunciabile in sede di ottemperanza: si parte dal presupposto onde la PA – anche dopo la sentenza passata in giudicato e da ottemperarsi – conserva il potere di provvedere alla cura dell’interesse pubblico del quale è attributaria, onde non ogni modifica dell’assetto di interessi scolpito nel giudicato può assumersi elusiva o violativa del giudicato medesimo. Solo laddove la PA eserciti la medesima potestà pubblicistica già in precedenza esercitata ponendosi in contrasto con il contenuto precettivo del giudicato, ovvero – giusta sviamento di potere – utilizzi una potestà pubblica diversa rispetto a quella già esercitata (e per la quale non sussistono i presupposti di esercizio) al fine di raggiungere il medesimo risultato già giudicato illegittimo dal GA in sede di cognizione, si può parlare di violazione o elusione del giudicato, e di conseguente nullità degli atti amministrativi (censurabile in sede di ottemperanza, e non con un nuovo ricorso nei termini innanzi al Tar). In quello stesso giorno esce anche la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.891 che afferma come mentre in ambito civilistico la categoria generale di invalidità (del contratto) è la nullità, per contrarietà a norme imperative, all’opposto in ambito amministrativo la categoria generale di invalidità è l’annullabilità, mentre la nullità deve assumersi invalidità speciale e tipica, dovendo essere espressamente prevista come tale dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 febbraio esce la sentenza del Tar Campania, V, n.2137, che ritiene che la novella del 2005, con l’introduzione dell’art.21.septies nella legge 241.90 e con l’esplicito riferimento al difetto assoluto di attribuzione come causa di nullità dell’atto amministrativo, ha espulso dal sistema la fattispecie della c.d. carenza di potere in concreto, coniata dalla giurisprudenza delle SSUU della Cassazione al fine di attrarre alla giurisdizione del GO ipotesi – specie in ambito espropriativo – al cospetto delle quali il potere c’è (dichiarare la pubblica utilità dell’opera), ma sono scaduti i termini in esso previsti per concludere la procedura ablatoria: in queste ipotesi non si assiste ad un radicale difetto di potere (in astratto) con possibili improduttività di effetti degradatori del diritto di proprietà del privato, ma la mera assunzione od operatività del provvedimento in circostanze spazio-temporali difformi rispetto alla fisiologica e legittima sequenza procedurale, con conseguente (mera) illegittimità per violazione di legge.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 3 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.1023 che ribadisce come mentre in ambito civilistico la categoria generale di invalidità (del contratto) è la nullità, per contrarietà a norme imperative, all’opposto in ambito amministrativo la categoria generale di invalidità è l’annullabilità, la nullità dovendosi assumere quale invalidità speciale e tipica, espressamente prevista come tale dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.191 che ribadendo il proprio precedente 204.04, ribadisce potersi riconoscere la giurisdizione del GA tutte le volte (e solo quelle) in cui la legge astrattamente conferisca alla PA il potere autoritativo.</p> <p style="text-align: justify;">* Il 24 maggio esce la sentenza del Tar Sicilia, Catania, III, n.819, che ribadisce come la novella del 2005, con l’introduzione dell’art.21.septies nella legge 241.90 e con l’esplicito riferimento al difetto assoluto di attribuzione come causa di nullità dell’atto amministrativo, abbia espulso dal sistema la fattispecie della c.d. carenza di potere in concreto, coniata dalla giurisprudenza delle SSUU della Cassazione al fine di attrarre alla giurisdizione del GO ipotesi – specie in ambito espropriativo – al cospetto delle quali il potere c’è (è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera), ma sono scaduti i termini in esso previsti per concludere la procedura ablatoria: in queste ipotesi non si assiste ad un radicale difetto di potere (in astratto) con possibili improduttività di effetti degradatori del diritto di proprietà del privato, ma alla mera assunzione od operatività del provvedimento in circostanze spazio-temporali difformi rispetto alla fisiologica e legittima sequenza procedurale, con conseguente (mera) illegittimità per violazione di legge.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3458 che si occupa dei presupposti di legittimità del potere di autotutela dell’Amministrazione nel caso in cui l’atto sul quale incidere (annullabile, e non nullo) sia stato adottato sulla base di una legge poi dichiarata incostituzionale. In questi casi, l’autotutela trova operativi i propri ordinari presupposti e limiti, dovendo essere accuratamente ponderato l’interesse sacrificando del destinatario del provvedimento favorevole, anche in rapporto all’affidamento suscitato in capo a lui a cagione del trascorrere del tempo e dell’entità del costo da questi sopportato in comparazione con l’interesse pubblico, astratto e concreto, al ripristino della legalità, in applicazione del principio generale di proporzionalità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 luglio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4694 che si occupa di un peculiare caso di nullità strutturale del provvedimento amministrativo per impossibilità giuridica del relativo oggetto. Nel caso di specie, un Presidente di Provincia provvede a nominare un segretario provinciale dopo 120 giorni dal proprio insediamento, allorché l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo pertinente ha già provveduto a nominare altro soggetto: in questa fattispecie l’atto va assunto nullo per mancanza di un elemento essenziale, in quanto il TUEL (decreto legislativo 267.00) non prevede, neppure temporaneamente, la possibilità che vi siano due segretari provinciali contemporaneamente in carica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 6241 che, in tema di rilievo d’ufficio della nullità di un atto amministrativo ex art.21.septies, assume come il relativo regime debba comunque essere coordinato con le regole fondamentali che presidiano il principio della domanda ed il principio del contraddittorio, tipiche del processo amministrativo, non potendo dunque ammettersi un rilievo d’ufficio indiscriminato della nullità degli atti.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 23 novembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.6018 che, anche sulla scorta del nuovo articolo 21.septies della legge 241.90, ribadisce di dover aderire al criterio del <em>petitum</em> del ricorrente al fine di verificare se si sia in presenza di una censurata difformità dell’atto amministrativo rispetto all’obbligo di attenersi con esattezza all’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato (inadempimento al giudicato, <em>sub specie</em> tanto di violazione che di mera elusione), con conseguente nullità degli atti e giudizio di ottemperanza; o se si sia al cospetto di una (nuova) violazione della legge sostanziale da parte del provvedimento amministrativo, con conseguente mera annullabilità del medesimo e relativa impugnabilità con rito ordinario nel termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.8056, che ribadisce come - laddove intervenga una declaratoria di incostituzionalità della norma sulla base della quale è stato esercitato il potere ed è stato adottato l’atto amministrativo - questo è da assumersi illegittimo ed annullabile, non già inesistente o nullo, con la conseguenza onde esso va rimosso (annullato) in sede giurisdizionale o amministrativa (autotutela).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 23 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 189 che ribadisce le acquisizioni già raggiunte in tema di vizio che affetta il provvedimento tardivo di rigetto esplicito dell’istanza del privato, una volta che sia maturato il silenzio assenso. L’atto è da considerarsi annullabile e non nullo, in quanto dopo il maturare del silenzio assenso la PA ha perso il potere di pronunciarsi sull’istanza, ma non quello di regolare la vicenda amministrativa pertinente con un atto ulteriore e successivo: in sostanza, la PA non respinge l’originaria istanza (ormai accolta <em>per silentium</em>) in quanto il potere di pronunciarsi sull’istanza si è già consumato, ma disciplina in modo diverso la vicenda che la sottende. Questo è il motivo per il quale, pur trovandosi al cospetto di un patente <em>ne bis in idem</em>, l’atto non può assumersi nullo, ma va considerato annullabile nei termini di decadenza: si è al cospetto di una rinnovata espressione del potere della PA che si sostituisce a quella già palesata <em>per silentium</em>, giusta provvedimento sopravvenuto che è illegittimo ma che va impugnato nei termini, dovendosi in caso contrario assumersi ormai sovrapposta alla manifestazione del potere <em>per silentium</em> in senso favorevole al privato quella successiva esplicita a lui sfavorevole.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 27 marzo esce la sentenza del Tar Sardegna n.549 che ribadisce come mentre in ambito civilistico la categoria generale di invalidità (del contratto) è la nullità, per contrarietà a norme imperative, all’opposto in ambito amministrativo la categoria generale di invalidità è l’annullabilità, mentre la nullità deve assumersi invalidità speciale e tipica, dovendo essere espressamente prevista come tale dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della I sezione del Tar Liguria n.790, secondo la quale la nullità dei provvedimenti dinanzi al GA è rilevabile anche d’ufficio, alla stregua dei principi generali in tema di nullità che come tali (principi generali) devono assumersi applicabili anche al processo amministrativo nelle ipotesi in cui la validità e l’esecutività del provvedimento costituiscano oggetto della controversia, come nel caso in cui si invochi dal privato l’esecuzione da parte della PA di un atto amministrativo nullo: in questa circostanza il privato deve provare in giudizio i fatti costitutivi della propria pretesa, onde la nullità dell’atto entra nel giudizio e il giudice, anche ai sensi dell’art.112 c.p.c., dovendo giudicare su tutta la domanda, deve rilevare d’ufficio la nullità dell’atto e la conseguente insussistenza di un fatto costitutivo della pretesa privata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3173 che ribadisce come mentre in ambito civilistico la categoria generale di invalidità (del contratto) è la nullità, per contrarietà a norme imperative, all’opposto in ambito amministrativo la categoria generale di invalidità è l’annullabilità, mentre la nullità deve assumersi invalidità speciale e tipica, dovendo essere espressamente prevista come tale dal legislatore. Nel caso di specie, una Sopraintendenza ha rilasciato un parere negativo sulla scorta dell’erroneo presupposto della sussistenza di un vincolo, in realtà inesistente, sul bene di proprietà del privato interessato: in simili casi non si è al cospetto di un provvedimento privo di un requisito essenziale, ma di un provvedimento reso sulla base di un falso presupposto, e dunque viziato da eccesso di potere per travisamento dei fatti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza della sezione I del Tar Abruzzo n.484 che si occupa del termine per far valere la nullità dell’atto amministrativo tutte le volte in cui la giurisdizione appartenga al GA: in queste ipotesi, per il Tar non può invocarsi l’esigenza di salvaguardare la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici coinvolti nell’azione pubblica, in quanto l’atto è nullo e, come tale, non è idoneo a produrre effetti, onde non può non applicarsi il regime della imprescrittibilità dell’azione di nullità previsto dal codice civile per il contratto nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre esce la sentenza della sezione I del Tar Liguria, n. 1773 che rappresenta come, anche a voler applicare – in tema di legittimazione a far valere la nullità – i principi e le regole del processo civile (art.1421 c.c.), in ogni caso sia per l’azione che per l’eccezione il “<em>chiunque abbia interesse</em>” indica una posizione giuridica qualificata e differenziata (altrimenti difetta proprio l’interesse).</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 dicembre esce la sentenza del Tar Calabria, Catanzaro, II, 1959, alla cui stregua la decadenza, per mancata conversione, di un decreto legge, ai sensi dell’art. 77 comma 3, Cost., non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di relativa vigenza, ma esclusivamente, effetti vizianti; pertanto, sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti legge non convertiti “<em>perdono efficacia sin dall’inizio</em>”, gli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della fonte primaria decaduta divengono illegittimi, dovendo essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i requisiti, per mezzo dell’esercizio dell’autotutela. Nel caso di specie, sulla base di un decreto legge poi non convertito era stato emanato lo Statuto di una Provincia, che aveva novellamente previsto il potere del Presidente della Provincia (in luogo del Presidente del Consiglio provinciale) di presiedere l’adunanza consiliare orientata ad emanare una delibera di giunta (avente ad oggetto una ratifica): decaduto il decreto legge, il ricorrente aveva fatto perno sulla natura dello statuto provinciale quale fonte di rango subordinato rispetto al decreto legge poi decaduto, per invocarne la caducazione e la perdita di efficacia fin dall’inizio secondo la medesima sorte subita dal decreto legge non convertito: il Tar ne ha invece predicato la mera annullabilità con necessità di impugnare nei termini, in analogia con quanto accade con la declaratoria di incostituzionalità delle norme da parte della Consulta.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.890 che assume come – laddove si configuri un abuso d’ufficio e dunque una fattispecie di reato – il provvedimento che lo compendia è affetto da difetto di volontà dell’Amministrazione, e dunque da difetto di un elemento essenziale che ne implica la nullità, e non già la mera annullabilità. In sostanza, nel caso di specie il Consiglio di Stato ritiene che si sia interrotto il rapporto organico tra chi ha adottato il provvedimento e l’Amministrazione, alla quale il provvedimento medesimo non è dunque imputabile: difettando la volontà dell’Amministrazione, (è da intendersi) proprio perché formatasi in ambiente collusivo penalmente rilevante, deve assumersi assente la volontà pubblicistica, il provvedimento amministrativo (concessione edilizia) palesandosi dunque nullo, perché rilasciato in ambito non libero né spontaneo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1896 che si occupa dell’ipotesi dell’atto adottato sulla base di una legge poi dichiarata incostituzionale. La sentenza (che va in contrario avviso rispetto ad orientamenti precedenti, più favorevoli per il ricorrente) si riferisce all’ipotesi in cui l’atto sia stato precedentemente impugnato innanzi al GA: in questa fattispecie, la declaratoria di incostituzionalità della norma non implica illegittimità derivata dell’atto, occorrendo che il ricorrente abbia richiamato la norma denunciata (e poi dichiarata incostituzionale) attraverso uno specifico motivo di ricorso. Laddove tale specifico motivo di ricorso difetti, il ricorrente non può giovarsi del principio secondo il quale il giudice deve – nei giudizi pendenti innanzi a lui – applicare d’ufficio le pronunce di annullamento della Corte costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 gennaio esce la sentenza della VI Sezione del Consiglio di Stato n.265 secondo la quale nel processo amministrativo il potere del GA di rilevare d’ufficio la nullità dell’atto amministrativo (laddove spetti alla relativa <em>potestas iudicandi</em>) appare incompatibile con il divieto per il GA medesimo di disapplicare il provvedimento viziato e non impugnato nei termini dal ricorrente.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 19 maggio esce la sentenza del CdS, sezione V, n.3072, che si occupa dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso. Diverso il caso in cui la illegittimità comunitaria sia diretta, laddove l’atto amministrativo si pone in diretto contrasto con la normativa comunitaria (o con la normativa interna che la attua): in questa ipotesi occorre procedere ad impugnare l’atto nel termine di decadenza, in quanto esso è da assumersi illegittimo ed annullabile secondo l’ordinario regime di impugnazione degli atti amministrativi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 novembre esce la sentenza del Tar Lombardia, sezione III, n.5059 secondo la quale la norma di cui all’art. 21 septies l. n. 241/1990, nell’introdurre per la prima volta in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia soltanto il difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, vale a dire la mancanza in astratto della norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell’area dell’annullabilità per violazione di legge le ipotesi di carenza di potere in concreto, coniate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e con cui si intendeva, ai fini del riparto, distinguere tra violazioni più gravi e meno gravi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3129 che enumera i casi in cui un provvedimento amministrativo può essere assunto nullo richiamando il disposto dell’art.21.septies della legge 241.90.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 luglio viene varato il codice del processo amministrativo, decreto legislativo n.104, il cui articolo 31, comma 4, prevede che la domanda volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di 180 giorni, e che la nullità dell'atto medesima può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice; soggiunge altresì che tali disposizioni non si applicano alle nullità di cui all'articolo 114, comma 4, lettera b), ovvero agli atti nulli per violazione o elusione del giudicato, per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV (giudizio di ottemperanza). In particolare il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per ottemperanza, dichiara nulli gli atti adottati in violazione o elusione del giudicato. Il nuovo codice, all’art.4 dell’allegato 4, abroga il comma 2 dell’art.21.septies della legge 241.90 laddove ambiguamente prevede la giurisdizione esclusiva del GA per le ipotesi di nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, ma riproprone la medesima disposizione all’art.133, comma 1, lettera a.5): la dottrina si orienterà nel senso di ritenere implicito nella norma medesima il riferimento al giudizio di ottemperanza, con la conseguenza onde per “<em>giurisdizione esclusiva</em>” deve qui intendersi quella giurisdizione esclusiva del GA che si compendia appunto nel giudizio di ottemperanza, peraltro connotato da poteri estesi al merito, facendo leva anche sul combinato disposto degli articoli 31, comma 4 e 114, comma 4, lettera b) del medesimo codice, che per quanto concerne il rito sottraggono le nullità da inottemperanza (violazione o elusione del giudicato) al termine decadenziale dei 180 giorni per sottometterle, appunto, al regime del giudizio di ottemperanza. Secondo dunque l’interpretazione più accreditata, la “<em>giurisdizione esclusiva</em>” di che trattasi sarebbe (seppure implicitamente) quella particolare giurisdizione esclusiva che compendia il giudizio di ottemperanza (esteso al merito), dovendosi diversamente assumere in modo del tutto irragionevole operativa la seguente dicotomia: a) la PA resta inerte dinanzi al giudicato: il privato può adire direttamente il GA in sede di ottemperanza; b) la PA adotta un qualche provvedimento violativo o elusivo del giudicato: il privato è costretto prima ad adire il GA in sede di cognizione esclusiva per ottenere la declaratoria di nullità di tale nuovo provvedimento, e poi adire nuovamente il GA in sede di ottemperanza.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.556 che si occupa dei rapporti tra giudizio di ottemperanza e giudizio di nullità degli atti (giurisdizione esclusiva) per violazione o elusione del giudicato ex art.21.septies, comma 1 e 2, della legge 241.90. Secondo il Consiglio, si tratta di azioni che, pur distinte, possono tuttavia concorrere in ragione del diverso finalismo cui sono orientate (ottemperanza al giudicato in un caso; declaratoria di nullità degli atti violativi o elusivi, nell’altro), soggiacendo peraltro ad una diversa disciplina processuale. Potrebbe succedere che gli atti vengano dichiarati nulli, con improcedibilità del giudizio di ottemperanza; potrebbe all’opposto succedere che in sede di giudizio di ottemperanza, con giurisdizione estesa al merito, vengano dichiarati nulli gli atti, con conseguente improcedibilità dell’azione di nullità; laddove invece per avventura si giunga a sentenze incompatibili (accolto il ricorso per nullità e respinto quello per ottemperanza, o viceversa), per il Consiglio di Stato non sarebbe imprescindibile sospendere uno dei due giudizi (per pregiudizialità) in attesa dell’esito dell’altro, perché l’eventuale conflitto tra le due sentenze sarebbe risolvibile attivando gli ordinari mezzi di impugnazione (delle sentenze stesse), ovvero l’applicazione delle norme processuali sul passaggio in giudicato delle sentenze stesse.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tar Lazio n.32797 secondo la quale l’esercizio del potere riconosciuto al GA dall’art.114 del codice del processo amministrativo di rilevare anche d’ufficio e in ogni tempo la nullità dell’atto adottato dalla PA in violazione o elusione del giudicato non è soggetto al termine perentorio di 180 giorni previsto dall’art.31, comma 4, c.p.a. per le altre ipotesi di nullità soggette al sindacato del GA.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1415 che rappresenta come sia particolarmente difficile identificare (pur ferma in ogni caso la nullità del provvedimento che ne sia affetto) il vizio di elusione del giudicato rispetto a quello di violazione del giudicato, quest’ultimo risolvendosi nell’ipotesi in cui il nuovo atto si ponga in frizione con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla pregressa statuizione di cognizione del giudice, ovvero presenti i medesimi vizi già con successo censurati dal ricorrente in sede di cognizione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.1983 che assume le cause di nullità dell’atto amministrativo come appartenenti ad un <em>numerus clausus</em>: in sostanza mentre i casi di nullità sono tipici, in tutti i casi diversi non può che parlarsi del più generale rimedio della annullabilità del provvedimento amministrativo. La pronuncia si occupa anche dell’atto amministrativo anti-comunitario in via indiretta, vale a dire attraverso la norma interna che lo fonda, e ribadisce la distinzione tra: a) il caso in cui la norma interna anticomunitaria attribuisce il potere alla PA, ipotesi nella quale l’atto deve assumersi nullo per carenza di potere, in quanto va disapplicata la norma interna, contrastante con il diritto comunitario, che detto potere fonda; b) il caso in cui la norma interna anticomunitaria si limita a disciplinare detto potere, senza tuttavia fondarlo, ipotesi - al contrario – di mero cattivo esercizio del potere e, dunque, di sola illegittimità/annullabilità dell’atto stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.9395 onde, adeguandosi sul punto all’orientamento maggioritario, laddove l’attore abbia invocato l’annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto, il giudice non può implicitamente assumersi investito in via generale della questione in ordine alla validità ed efficacia del contratto medesimo, non potendone dunque dichiarare anche la nullità, seppure non richiesta: si tratta dell’orientamento prevalente, onde se non viene chiesta dall’attore la nullità del contratto, la relativa declaratoria ridonda in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art.112 c.p.c.. Si tratta di una posizione pretoria in frizione con un altro orientamento del GO inteso invece ad assumere rilevabile d’ufficio la nullità del contratto anche quando l’attore ne abbia chiesto (solo) l’annullamento, la risoluzione o la rescissione: un contrasto di giurisprudenza in seno al GO cui corrisponderà un analogo contrasto, sul punto, in seno alla giurisprudenza amministrativa, per l’ipotesi in cui il ricorrente abbia invocato l’annullamento, e non la declaratoria di nullità, dell’atto impugnato. In sostanza, per la Cassazione – secondo la sentenza <em>de qua</em> - il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità di un contratto ex art 1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda fissato dagli articoli 99 e 112 c.p.c., sicché solo se sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del processo, l'eventuale nullità dell'atto medesimo. Al contrario, qualora la domanda sia diretta a far dichiarare la invalidità del contratto o a farne pronunziare la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall'inadempimento, sono inammissibili; nè tali questioni possono essere rilevate d'ufficio, ostandovi il divieto di pronunziare <em>ultra petita</em> (vengono richiamati dalla Cassazioone numerosi precedenti omologhi). Per la Corte infatti la lettura dell'art. 1421 c.c. deve essere coordinata con la statuizione dell'art. 112 c.p.c. che, sulla base del principio dispositivo su cui va modellato il processo, impone al giudicante il limite insuperabile della domanda attorea. Così la rilevabilità d'ufficio della nullità del contratto opera – per la Corte - quando si chieda l'adempimento del contratto stesso, allorquando, cioè, si vogliano far valere diritti presupponenti la validità del contratto medesimo, in considerazione del potere - dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell'azione, indipendentemente dalla condotta processuale della parte nei cui confronti si chiede che il contratto spieghi i suoi effetti. Ne consegue che la nullità può essere rilevata d'ufficio solo se si pone in contrasto con la domanda dell'attore, solo, cioè, se questi ha chiesto l'adempimento del contratto, in quanto il giudicante può sempre rilevare d'ufficio le eccezioni, che non rientrino tra quelle sollevabili unicamente tra le parti e che soprattutto non amplino l'oggetto della controversia, ma che, per tendere al rigetto della domanda stessa, si configurano come mere difese del convenuto, dovendosi di contro pervenire a diverse conclusioni nei casi in cui la nullità si colloca non nell'ambito delle eccezioni ma "<em>nella zona delle difese dell'attore, che l'attore avrebbe potuto proporre, ma non ha proposto</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.70 che introduce nell’art.46 del codice dei contratti pubblici, decreto legislativo 163.06, un comma 1.bis che commina espressamente la nullità per le clausole espulsive laddove autonomamente previste dalla stazione appaltante. Viene dunque scolpita una fattispecie di nullità, onde i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione dalle gare rispetto a quelle previste dal codice e da altre disposizioni di legge vigenti, affermando che dette prescrizioni sono “<em>comunque nulle</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 luglio viene varata la legge n.106, che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.70.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 novembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.5843 che assume configurarsi un difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art.21.septies della legge 241.90 solo nel caso di carenza di potere in astratto e, dunque, di violazione della norma attributiva del potere, mentre laddove il potere esista e le norme si limitino a contingentarne o condizionarne l’esercizio, ricondotta dalla Cassazione alla c.d. carenza di potere in concreto, si è in realtà dinanzi ad una fattispecie di cattivo esercizio del potere e, dunque, di atto annullabile solo ove impugnato nel termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 27285 che ribadisce il principio in virtù del quale, in materia urbanistica ed edilizia, in conformità alle note sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, il provvedimento amministrativo contenente la dichiarazione di pubblica utilità priva della indicazione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dell’opera - indicazione richiesta dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13, e rispondente alla necessità di rilievo costituzionale (art. 42 Cost., comma 3) di limitare il potere discrezionale della P.A., non esercitabile senza limiti temporali, onde evitare di mantenere i beni espropriandi in stato di soggezione a tempo indeterminato, con l’ulteriore finalità di tutelare l’interesse pubblico a che l’opera venga eseguita in un arco di tempo valutato congruo per l’interesse generale -, è radicalmente nullo ed inefficace. Ne consegue che in tal caso si verifica una situazione di carenza di potere espropriativo, per cui si è in presenza di un mero comportamento materiale, in nessun modo ricollegabile ad un mero esercizio abusivo dei poteri della P.A., sicché spetta al GO la giurisdizione sulla domanda, restitutoria o risarcitoria, proposta dal privato (vengono richiamati i precedenti 9532.04, 2688.07, 9323.07, 3569.11,, 22880.11).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.6688 che riafferma il potere del GA, ai sensi dell’art.114, comma 4, lettera b) del codice del processo amministrativo n.104.10, di dichiarare nulli gli eventuali atti adottati dall’Amministrazione in violazione o elusione del giudicato, laddove accolga il ricorso per ottemperanza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 gennaio esce la sentenza della I sezione del Tar Sicilia, n.7, alla cui stregua anche se l’art.21.septies individua una espressa ipotesi di nullità per l’atto adottato in violazione o elusione di un giudicato, deve assumersi avere carattere esclusivo ed assorbente il giudizio di ottemperanza al fine di far emergere tale specifica nullità: tale giudizio di ottemperanza, per il Tar, non può assumersi concorrere con l’ordinaria azione di impugnazione dinanzi al GA (è da intendersi, neppure quale azione di impugnazione innanzi al GA in sede di giurisdizione esclusiva). In sostanza, in questa pronuncia – seppure non del tutto esplicitamente – il Tar Sicilia sembra escludere la possibilità di un concorso tra l’azione di nullità degli atti (in sede di giurisdizione esclusiva) ex art.21.septies, comma 2, della legge 241.90 (oggi art.133, comma 1, lett. A.5 del c.p.a.) e l’azione di ottemperanza ex art.114, comma 4, lettera b) del c.p.a.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 febbraio esce la sentenza della I sezione del Tar Lazio n.1110 che si occupa della forma che debbono assumere i provvedimenti adottati dagli organi collegiali, predicandone la nullità laddove ne difetti la verbalizzazione: quest’ultima viene assunta come requisito sostanziale della stessa esistenza dell’attività dell’organo collegiale, non surrogabile da alcun altro mezzo di prova, quand’anche confezionato in un documento scritto che abbia funzione diversa da quella, appunto, di verbalizzarne le volontà. L’atto collegiale presenta due elementi inscindibili tra loro, ovvero la determinazione volitiva dell’organo collegiale e la relativa verbalizzazione che la confeziona, onde laddove difetti la verbalizzazione o essa sia falsa, il provvedimento è affetto da nullità assoluta.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 1133 che ribadisce il principio – cristallizzato nella giurisprudenza delle SSUU della Cassazione - in virtù del quale, in materia urbanistica ed edilizia, in conformità alle note sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, il provvedimento amministrativo contenente la dichiarazione di pubblica utilità priva della indicazione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dell’opera - indicazione richiesta dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13, e rispondente alla necessità di rilievo costituzionale (art. 42 Cost., comma 3) di limitare il potere discrezionale della P.A., non esercitabile senza limiti temporali, onde evitare di mantenere i beni espropriandi in stato di soggezione a tempo indeterminato, con l’ulteriore finalità di tutelare l’interesse pubblico a che l’opera venga eseguita in un arco di tempo valutato congruo per l’interesse generale -, è radicalmente nullo ed inefficace. Ne consegue che in tal caso si verifica una situazione di carenza di potere espropriativo, per cui si è in presenza di un mero comportamento materiale, in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della P.A., sicchè spetta al GO la giurisdizione sulla domanda, restitutoria o risarcitoria, proposta dal privato.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 2 aprile esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1957 che assume le cause di nullità dell’atto amministrativo come appartenenti ad un <em>numerus clausus</em>: in sostanza mentre i casi di nullità sono tipici, in tutti i casi diversi non può che parlarsi del più generale rimedio della annullabilità del provvedimento amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 maggio esce la sentenza della II sezione del Tar Piemonte n.510 secondo la quale il fatto che il ricorso non sia stato spiccato nelle forme del ricorso per ottemperanza, ma abbia piuttosto dato l’abbrivio ad un rito ordinario, non incide sul potere del GA di dichiarare nulli gli atti adottati dalla PA in elusione o violazione del giudicato, in quanto la pienezza e l’effettività del contraddittorio sono comunque meglio assicurate dal rito ordinario rispetto a quello di ottemperanza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 giugno esce la sentenza della II sezione del Tar Lazio n.5577 che assume la nullità del provvedimento amministrativo come rimedio di carattere tipico e tassativo, mentre l’annullabilità ha natura di rimedio generale e residuale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno esce la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia n.267 che, in tema di qualifica attizia di determinati materiali come rifiuti, si sofferma sull’oggetto del provvedimento amministrativo onde, anche ammesso che l’indeterminatezza dell’oggetto generi nullità e non mera annullabilità del provvedimento (poiché l’art. 21-septies commina la nullità solo in caso di totale “<em>mancanza</em>” degli elementi essenziali), tuttavia per il prodursi di tale effetto non è sufficiente che il contenuto dell’atto sia indeterminato, bensì deve essere anche indeterminabile (il che non viene riscontrato nel caso di specie).</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 luglio esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana n. 721 che fa il punto sulle diverse discipline in tema di rilievo della nullità dell’atto amministrativo innanzi al GA dopo l’entrata in vigore dell’art.31, comma 4, del c.p.a., distinguendo le varie ipotesi dipinte dal legislatore: a) se è il ricorrente ad agire per la nullità dell’atto, dunque in via di azione, il termine è di 180 giorni, e pertanto triplo rispetto a quello ordinario di 60 giorni ex art.29 c.p.a. (si è parlato in proposito anche di una “<em>superannullabilità</em>” dell’atto); b) se è il resistente (la PA) ad eccepire la nullità, non vi sono termini decadenziali, e dunque sostanzialmente vige un regime di imprescrittibilità analogo a quello civilistico, secondo il noto motto “<em>temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum</em>”; c) peraltro di tratta di una eccezione impropria, poiché concorre con il rilievo d’ufficio del GA, sempre ammesso, e dunque anche il GA può sempre rilevare d’ufficio la nullità, al pari del resistente che può sempre eccepirla. Quest’ultima affermazione si basa sulla considerazione onde, per il Collegio, l’art.31, comma 4, del c.p.a. compendia una parentesi di giurisdizione oggettiva (prevista da espressa disposizione di legge) nell’ambito di un processo normalmente soggettivo, e ciò è dovuto alla intima connessione esistente tra l’interesse legittimo e l’interesse pubblico generale, non potendo l’interesse legittimo, proprio a cagione di tale intima connessione, essere trattato come il diritto soggettivo, neppure sul crinale processuale. La pronuncia sembra dunque ammettere la possibilità per il GA di rilevare d’ufficio la nullità dell’atto anche quando il privato ricorrente abbia invocato solo il relativo annullamento, e non già la relativa esecuzione (in controtendenza rispetto all’orientamento maggioritario della Cassazione civile che, dinanzi alla rilevabilità d’ufficio della nullità anche dei contratti ex art.1422 c.c., assume tuttavia violativa dell’art.112 c.p.c. una declaratoria di nullità del GO laddove l’attore abbia chiesto annullamento, risoluzione o rescissione del contratto, senza invocarne esplicitamente anche la nullità, mentre non viola il principio della domanda l’eventuale rilievo d’ufficio della nullità laddove l’attore abbia chiesto l’adempimento - e dunque l’esecuzione – del contratto nullo).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3449 che si occupa del caso in cui sia oggetto di ricorso giurisdizionale un provvedimento amministrativo il cui potere di adozione si fondi su una norma della quale viene in via sopravvenuta dichiarata la illegittimità costituzionale. In queste ipotesi l’atto non può dirsi travolto automaticamente da tale declaratoria di incostituzionalità, quand’anche sia venuta meno la norma a monte che ne fonda il potere di adozione, in quanto l’atto medesimo non è inesistente o nullo, ma annullabile per illegittimità derivata. Tuttavia il ricorrente non è onerato dal proporre motivi aggiunti al fine di dedurre il vizio sopravvenuto a seguito della declaratoria di incostituzionalità, laddove già nel ricorso introduttivo, con uno o più motivi specifici, abbia citato – ponendola in rilievo – la norma poi dichiarata incostituzionale, quand’anche non ventilandone una diretta non conformità a Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 2 settembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.4364 che afferma come mentre in ambito civilistico la categoria generale di invalidità (del contratto) è la nullità, per contrarietà a norme imperative, all’opposto in ambito amministrativo la categoria generale di invalidità è l’annullabilità, mentre la nullità deve assumersi invalidità speciale e tipica, dovendo essere espressamente prevista come tale dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 ottobre esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.5266 che afferma – sulla scia dell’Adunanza Plenaria n.3. del 1976 - come laddove un atto amministrativo autoritativo sia stato rilasciato compendiando un reato, esso è da considerarsi annullabile, e non nullo, non potendosi invocare l’art.21.septies della legge 241.90, quanto piuttosto l’art.21.octies che, nel forgiare la figura generale dell’annullabilità del provvedimento per violazione di legge, non distingue le ipotesi di violazione di legge meno grave (non penale) da quelle di violazione di legge più grave (penale); che sia questa l’opzione ermeneutica corretta lo dimostra anche, per il Consiglio di Stato, il rapporto che c’è tra l’ipotesi, per lo più di scuola, del difetto assoluto di attribuzione (atto nullo), laddove l’atto viene adottato da un’Amministrazione che non ha alcun potere nel settore di riferimento, rispetto alla più generale incompetenza (atto annullabile).</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 dicembre esce la sentenza della II sezione del Tar Puglia n.1612 che ribadisce – sulla scia dell’Adunanza Plenaria n.3. del 1976 - come laddove un atto amministrativo autoritativo sia stato rilasciato compendiando un reato, esso è da considerarsi annullabile, e non nullo. Più in particolare, debbono assumersi validi per il Tar (e non già nulli ex art. 21 septies della <a href="http://www.lexitalia.it/uploads1/webdata_pro.pl?_cgifunction=form&_layout=legislazione1&keyval=legislazione.legislazione_id=1015">legge n. 241 del 1990</a>) gli atti adottati dalla Commissione giudicatrice di un concorso di progettazione, laddove i relativi componenti siano stati dapprima sottoposti a procedimento penale (per falso e turbativa d’asta), e poi definitivamente assolti per intervenuta prescrizione del reato. In simili ipotesi, da un lato deve escludersi che i provvedimenti adottati siano affetti da nullità, laddove la relativa adozione sia legata ad una condotta costituente un reato; dall’altro, e più in generale, è affetto da annullabilità (e non da nullità) il provvedimento amministrativo (per sua natura, autoritativo) che sia stato rilasciato sulla base di un atto presupposto la cui adozione abbia comportato alla commissione di un reato; anche un atto “<em>così</em>” illegittimo è pur sempre riferibile – per il Tar - all’Amministrazione (pur non impegnandone la responsabilità): la disapplicabilità degli atti illegittimi incide sull’esito del processo penale, ma non comporta di per sé conseguenze sugli effetti dell’atto disapplicato, la cui nullità non trova riscontro nella disciplina di cui all’articolo 21 septies della <a href="http://www.lexitalia.it/uploads1/webdata_pro.pl?_cgifunction=form&_layout=legislazione1&keyval=legislazione.legislazione_id=1015">legge n. 241 del 1990</a>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 febbraio esce la sentenza del Tar Campania, III, n.1039, che si occupa dell’ipotesi in cui un atto amministrativo sia stato adottato sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale. Secondo il Tar la sentenza della Corte costituzionale non determina la caducazione automatica, assieme alla legge, anche dell’atto amministrativo che è stato adottato sulla relativa scorta, quanto piuttosto una illegittimità sopravvenuta di quest’ultimo per violazione di legge costituzionale. Perché venga rimosso, tale atto deve allora essere impugnato innanzi al GA che – laddove giudice <em>a quo</em> rispetto alla declaratoria di incostituzionalità – può rilevare <em>ex officio</em> la relativa invalidità e procedere all’annullamento; l’atto può tuttavia essere annullato anche dalla PA in sede di autotutela. Il Tar precisa come tra legge e atto amministrativo non esista un rapporto di consequenzialità, poiché essi sono il risultato di differenti procedimenti e l’espressione di differenti ed autonome funzioni dello Stato (legislativa la prima, amministrativa la seconda).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza del Consiglio di Stato, V, n.791 che si occupa di una ipotesi di atto amministrativo contrario al disciplina contenuta in un decreto legge che poi non è stato convertito in legge, ma pienamente compatibile con la disciplina anteriore al decreto legge (e di nuovo operativa, dopo la relativa decadenza): secondo il Consiglio di Stato, in simili peculiari fattispecie, laddove non vi sia una normativa espressa che disciplini <em>ex professo</em> le vicende amministrative intervenute nelle more della vigenza del decreto legge poi non convertito, non può assumersi illegittimo un provvedimento adottato sulla base di una normativa che era in vigore prima del decreto legge e che vi è rimasta per essere decaduto il decreto legge che vi derogava.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2713 secondo la quale può parlarsi di difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art.21.septies della legge 241.90 soltanto laddove vi sia incompetenza assoluta – l’atto è stato adottato nell’esercizio di un potere che la legge ha conferito ad un organo appartenente ad un plesso amministrativo diverso da quello cui appartiene l’organo adottante – ovvero carenza di potere in astratto, quando manchi una norma che attribuisca il potere che fonda l’adottato provvedimento, ma non anche nelle ipotesi di c.d. carenza di potere in concreto, ovvero di potere esercitato in difetto dei presupposti e delle condizioni di esercizio del potere medesimo (come nel caso della scadenza del termine per esercitare il detto potere), ipotesi nella quale l’atto è solo annullabile e non nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza del Tar Basilicata n.367 che enumera i casi in cui un provvedimento amministrativo può essere assunto nullo richiamando il disposto dell’art.21.septies della legge 241.90.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 luglio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3702 che ribadisce la natura tassativa delle ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, siccome indicate dall’art.21.septies della legge 241.90; laddove il provvedimento sia basato su un presupposto falso o erroneo, si è invece al cospetto di un tipico vizio di legittimità dell’atto amministrativo, che va assunto in simili ipotesi annullabile e soggetto ad azione caducatoria nel termine di decadenza ordinario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 agosto esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.4267 alla cui stregua quando l’atto è nullo per violazione o elusione del giudicato, tale nullità non può essere rilevata d’ufficio (si ritiene, neppure quando si controverta su di un atto che è consequenziale perché presupponente o applicativo rispetto all’atto nullo presupposto o generale), e ciò in quanto l’art.31, comma 4, dichiara l’inapplicabilità a tale specifica fattispecie (violazione o elusione del giudicato) del “<em>presente comma</em>” (il comma 4 appunto, ed il rilievo officioso della nullità in esso previsto), onde per questo speciale tipo di nullità occorre spiccare necessariamente ricorso per ottemperanza ex art.114 c.p.a.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 26 agosto esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4281 che ribadisce configurarsi un difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art.21.septies della legge 241.90 solo nel caso di carenza di potere in astratto e, dunque, di violazione della norma attributiva del potere, mentre laddove il potere esista e le norme si limitino a contingentarne o condizionarne l’esercizio, ricondotta dalla Cassazione alla c.d. carenza di potere in concreto, si è in realtà dinanzi ad una fattispecie di cattivo esercizio del potere e, dunque, di atto annullabile ove impugnato nel termine di decadenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 ottobre esce la sentenza della I sezione del Tar Calabria, Reggio Calabria, n.608 alla cui stregua laddove un provvedimento sia diretto a sanzionare un abuso edilizio senza individuare, tra le proprietà del responsabile, quale sia l’unità immobiliare interessata dal provvedimento medesimo, lo stesso va assunto strutturalmente nullo per indeterminabilità dell’oggetto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 4 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2237 che ribadisce la nullità del provvedimento amministrativo come rimedio di carattere tipico e tassativo, mentre l’annullabilità ha natura di rimedio generale e residuale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 maggio esce l’importante ordinanza delle SSUU della Cassazione n.10879, che si occupa di una peculiare ipotesi di occupazione usurpativa, quella nel cui contesto la dichiarazione di pubblica utilità esiste, ma ha ormai perso efficacia. Si tratta di una fattispecie (laddove ancora rilevante) di atto radicalmente nullo e inefficace un tempo appannaggio del GO, che tuttavia le SSUU riconducono ormai alla giurisdizione esclusiva del GA, trattandosi di controversia comunque riconducibile – in parte direttamente, in parte mediatamente – ad un provvedimento amministrativo. Dopo la dichiarazione di pubblica utilità, un decreto di occupazione d’urgenza ha autorizzato l’occupazione del fondo privato, ma tale occupazione è divenuta abusiva per la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità medesima: si è allora svolto un procedimento ablatorio, conforme alle norme che lo disciplinano (almeno fino ad un certo punto), ed è stato esercitato dalla PA il pertinente potere, anche se <em>ex post</em> l’ingerenza sulla proprietà privata ha perso il titolo di appoggio. Questo è il motivo per il quale, secondo la Corte, anche il successivo comportamento della PA che non restituisca il bene va comunque assunto avvinto, seppure in modo mediato, all’esercizio di un potere pubblico che si è concretato proprio nell’adozione, a suo tempo, della dichiarazione di pubblica utilità della quale è poi sopravvenuta l’inefficacia, con conseguente giurisdizione del GA. In sostanza, per questa didascalica pronuncia delle SSUU, rientra nella giurisdizione esclusiva del GA - in quanto afferente ad una controversia riconducibile (in parte direttamente ed in parte mediatamente) ad un provvedimento amministrativo - la domanda di risarcimento per i danni che si pretendono conseguiti ad una occupazione iniziata, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d'urgenza, e proseguita anche dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità; ciò in quanto la riconducibilità dell’occupazione del suolo privato all’esercizio di un pubblico potere sussiste anche quando l’occupazione inizia, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d’urgenza, e prosegue dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, anche in questo caso configurandosi un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in conformità alle norme che lo regolano, ancorché successivamente l’ingerenza nella proprietà privata e la relativa utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva. Per le SSUU, poi, anche il successivo comportamento della pubblica amministrazione che ometta di restituire al privato il bene, pur dopo l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, si deve connettere, ancorché mediatamente, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, per conseguenza, neppure la mancata restituzione; né potrebbe per la Corte immaginarsi - in considerazione della necessità di privilegiare soluzioni interpretative che, in aderenza ai principi del giusto processo realizzino economie processuali - una giurisdizione differenziata quanto al danno da apprensione e quanto al danno da mancata restituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 luglio esce la sentenza del Consiglio di Stato, III, n.3487, che si occupa del caso di un atto adottato dalla PA sulla scorta di un decreto legge poi non convertito in legge. E’ vero che esso, laddove non convertito nei canonici 60 giorni, perde efficacia sin dall’inizio, ma resta fermo che gli atti adottati e i rapporti sorti sulla relativa base legale non decadono automaticamente, potendo piuttosto essere rimossi secondo le ordinarie regole che presidiano ai relativi mezzi di impugnazione. Peraltro, la mancata conversione autorizza le Camere a disciplinare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti legge non convertiti, onde è possibile derogare al principio della decadenza, potendo essere superati i limiti propri della retroattività della legge.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 3 agosto esce la sentenza del Consiglio di Stato, III, n.3807, che si occupa del caso di un atto adottato dalla PA sulla scorta di un decreto legge poi non convertito in legge. Essa ribadisce che è vero che esso, laddove non convertito nei canonici 60 giorni, perde efficacia sin dall’inizio, ma resta fermo che gli atti adottati e i rapporti sorti sulla relativa base legale non decadono automaticamente, potendo piuttosto essere rimossi secondo le ordinarie regole che presidiano ai relativi mezzi di impugnazione. Peraltro, la mancata conversione autorizza le Camere a disciplinare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti legge non convertiti, onde è possibile derogare al principio della decadenza, potendo essere superati i limiti propri della retroattività della legge.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile viene varato il decreto legislativo n.50, nuovo codice dei contratti pubblici, che riprendendo quanto previsto dall’art.46, comma 1.bis, del vecchio codice (decreto legislativo n.163.06), contestualmente abrogato, ribadisce (articolo 83, comma 8) che i bandi e le lettere di invito delle PPAA non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice stesso e da altre disposizioni di legge vigenti, precisando che dette prescrizioni – laddove previste - sono comunque nulle.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 dicembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.5047, che – in tema di matrimoni omosessuali contratti all’estero e trascritti in Italia - dichiara illegittima <a href="http://www.lexitalia.it/a/2014/22459">la circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014</a> ed il relativo provvedimento applicativo del Prefetto in tema di atti del Sindaco di trascrizione dei matrimoni; secondo il Collegio, nessuna disposizione di legge ha attribuito agli organi del Ministero dell’Interno (nella specie, ai Prefetti) il potere di annullare i ridetti atti sindacali di trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio, potere che invece, in linea di principio, è attribuito al Governo nella relativa composizione collegiale, dall’art. 2, comma 3, lettera p) della legge n. 400 del 1988 e dall’art. 138, comma 1, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1460">testo unico sugli enti locali 18 agosto 2000, n. 267</a>. Nel caso di specie - dando seguito ad una nota del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 (che aveva rilevato come tale trascrizione non fosse consentita dal d.P.R. n. 396 del 2000), il Prefetto di Udine – in data 9 ottobre 2014 – aveva dapprima invitato il Sindaco ad annullare la trascrizione del matrimonio omosessuale contratto all’estero e successivamente, con decreto in data 27 ottobre 2014, in applicazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, aveva disposto l’annullamento d’ufficio della trascrizione del matrimonio, nominando un delegato che aveva poi annotato l’atto di annullamento nel registro dei matrimoni. Secondo il Consiglio di Stato, l’attribuzione in linea di principio di un tale potere di annullamento al Governo (in sede centrale e non nella relativa articolazione territoriale) comporta che va assunto annullabile perché viziato da incompetenza relativa (e non da difetto assoluto di attribuzione, che di per sé implicherebbe la nullità ex art. 21 septies della legge n. 241 del 1990) l’atto del Prefetto emesso il 27 ottobre 2014, che ha invece ritenuto di esercitare una propria ulteriore e concorrente competenza, in realtà non prevista da disposizioni di legge o di regolamento e neppure desumibile dallo spessore dei pur consistenti poteri attribuitigli dal d.P.R. n. 396 del 2000. Il Consiglio di Stato affronta dunque nuovamente la questione dell’annullamento della trascrizione sui registri di stato civile dei matrimoni celebrati all’estero fra persone <em>same sex</em> e, rispetto a 3 precedenti pronunce del 2015, muta le proprie conclusioni ora cambiano in ragione di una diversa interpretazione della normativa sullo stato civile: si tratta per il Collegio di un sistema di regole in cui il potere di intervento – massime sui registri di stato civile – deve assumersi spettare al GO e al limite, in ultima istanza ed al fine di garantire l’unitarietà dell’ordinamento, al Governo ai sensi dell’art. 2, comma 3, L. n. 400/1988 e dell’art. 138 del D.Lgs. n. 267/2001, onde il potere di annullamento prefettizio va inteso in astratto configurabile e l’atto di annullamento eventualmente adottato da Prefetto non può conseguentemente ritenersi affetto da nullità per difetto di attribuzione, quanto piuttosto (e meno gravemente) da annullabilità per incompetenza, spettando il pertinente potere, in ultima istanza, “<em>Governo della Repubblica nella sua collegialità</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.45 alla cui stregua attraverso l’art.21 septies della legge 241.90 il legislatore, nell’introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. “<em>carenza in astratto del potere</em>”, cioè l’assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell’area dell’annullabilità i casi della c.d. “<em>carenza di potere in concreto</em>”, ossia del potere che, pur astrattamente sussistente, è stato esercitato in assenza dei pertinenti presupposti di legge.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.51 alla cui stregua si ha elusione del giudicato allorquando la PA, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni del giudice, persegue l’obiettivo sviato di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo dal GA.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 marzo esce la sentenza della VII sezione del Tar Campania n.1531 che muove dall’art. 823 c.c. laddove ammette - in tema di autotutela c.d. esecutiva - il ricorso dell’Amministrazione all’esercizio dei poteri amministrativi; ciò tuttavia, per il Tar, solo al fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, con il precipitato onde l’eventuale ordinanza riferita ad un bene che appartiene al patrimonio disponibile dell’ente deve assumersi emessa in carenza assoluta di potere, e come tale va qualificata come atto nullo secondo i principi sanciti dall’art. 21 <em>septies</em> <a href="http://www.lexitalia.it/n/1015">l. n. 241 del 1990</a>. Secondo il Tar appartiene allora alla giurisdizione del GO una controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale facente parte del patrimonio disponibile dell’ente territoriale, inserendosi nell’ambito di un rapporto di matrice negoziale da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo; in tale ambito la PA agisce “<em>iure privatorum</em>” – al di fuori cioè del disimpegno di qualsivoglia potestà pubblicistica – non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce per il Tar nell’assenza di poteri autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 marzo esce l’ordinanza delle SSUU n.7483 stando alla quale rientra nella giurisdizione del GO una controversia relativa ad una delibera con la quale il direttore delle risorse umane di una Regione (nel caso di specie, la Regione Lazio) ha accertato la nullità assoluta e insanabile della determinazione che aveva disposto l’inquadramento di un soggetto nella qualifica dirigenziale a tempo indeterminato e del conseguente contratto di inquadramento, in quanto adottati sul presupposto di una procedura concorsuale inficiata da nullità per violazione di norme imperative in conformità a quanto previsto dall’articolo 36, comma 5, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2637">decreto legislativo n.165.01</a>, dall’articolo 3, comma 6, del d.p.r. n.3.57 e dell’articolo 21 septies della <a href="http://www.lexitalia.it/n/1015">legge n. 241.90</a>; simile provvedimento della Regione costituisce per il Consiglio di Stato un atto - di natura privatistica – c.d. di micro organizzazione, afferendo alla gestione del rapporto di lavoro del dipendente con la P.A., assunto in costanza del rapporto medesimo; esso, concernendo l’affidamento e la revoca di incarico dirigenziale, deve assumersi devoluto alla giurisdizione ordinaria, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti ai sensi dell’art 63, comma 1, <a href="http://www.lexitalia.it/n/2637">d.lgs. n. 165/2001</a>.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 26 aprile esce la sentenza della sezione III del Consiglio di Stato n.1920, che si occupa della ipotesi di violazione o elusione del giudicato da parte dell’Amministrazione, con conseguente nullità dei relativi atti, denunciabile in sede di ottemperanza: si parte dal presupposto onde la PA – anche dopo la sentenza passata in giudicato e da ottemperarsi – conserva il potere di provvedere alla cura dell’interesse pubblico del quale è attributaria, onde non ogni modifica dell’assetto di interessi scolpito nel giudicato può assumersi elusiva o violativa del giudicato medesimo. Solo laddove la PA eserciti la medesima potestà pubblicistica già in precedenza esercitata ponendosi in contrasto con il contenuto precettivo del giudicato, ovvero – giusta sviamento di potere – utilizzi una potestà pubblica diversa rispetto a quella già esercitata (e per la quale non sussistono i presupposti di esercizio) al fine di raggiungere il medesimo risultato già giudicato illegittimo dal GA in sede di cognizione, si può parlare di violazione o elusione del giudicato, e di conseguente nullità degli atti amministrativi (censurabile in sede di ottemperanza, e non con un nuovo ricorso nei termini innanzi al Tar).</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 maggio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.2014 che si occupa, con riguardo alle gare di appalto, delle c.d. clausole espulsive, e della pertinente, espressa comminatoria di nullità delle clausole medesime, laddove autonomamente previste dalla stazione appaltante: il riferimento normativo è al comma 1 bis dell’art. 46 del codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 163.06) ed all’art. 83, comma 8, del nuovo codice (decreto legislativo n.50.16) che ne reitera la previsione. Vi viene scolpita una fattispecie di nullità, onde i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice medesimo e da altre disposizioni di legge vigenti, affermando che dette prescrizioni sono “<em>comunque nulle</em>”. L’aver inquadrato il vizio nelle cause di nullità, ex art. 21 septies legge n. 241/1990, costituisce – per il Consiglio di Stato - un chiaro indizio della vocazione generale ed autonoma del c.d. <em>favor partecipationis</em>, avendo il legislatore assunto nel caso di specie di poter abdicare all’ordinario schema dell’annullabilità – in cui l’effetto di ripristino della legittimità è realizzato attraverso la cooperazione dall’Amministrazione e sulla base della dimensione esclusivamente individuale dell’interesse privato leso – a favore dello schema della nullità, in cui invece l’interesse trascende la dimensione meramente individuale sino a giustificare – sul crinale processuale - il rilievo d’ufficio da parte del giudice e l’opposizione senza limiti di tempo della parte del resistente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2028, alla cui stregua anche dopo la positivizzazione della nullità “<em>strutturale</em>” del provvedimento amministrativo ed il relativo inserimento fra i casi previsti dall'art. 21 septies della legge 241.90, tale peculiare e grave vizio può essere ravvisato soltanto in casi estremi e circoscritti, quale ad esempio l'inesistenza dell'oggetto; questa ipotesi di nullità ricorre, per il Collegio, quando il vizio da cui l'atto amministrativo è affetto assume connotati di gravità ed evidenza tali da impedirne la qualificazione come manifestazione medesima di un potere amministrativo (sia pure eventualmente illegittima); solo in simili ed eccezionali casi non sussistono le ragioni di certezza dell'azione amministrativa alla base del carattere generalizzato del vizio dell'annullabilità ex art. 21 octies comma 1 della legge 241.90, e del termine breve e a pena di decadenza per ricorrere innanzi al GA; al di fuori di questa evenienza - e delle altre tassative ed eccezionali siccome codificate dalla disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo di cui all’art.21 septies - ogni patologia da cui la manifestazione di volontà autoritativa risulti eventualmente affetta deve essere ascritta all'ipotesi generale dell'annullabilità ai sensi del cit. art. 21 octies, quale deviazione rispetto alla causa tipica del potere autoritativo, anche nelle ipotesi più gravi in cui la condotta del funzionario autore dell'atto sia qualificabile come reato e dunque penalmente sanzionata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 luglio esce la sentenza della Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Campania, n.311, secondo la quale indire una procedura concorsuale senza il rispetto del vincolo di cui all’articolo 34-bis del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2637">Dlgs 165/2001</a> – ovvero senza la preventiva comunicazione al Dipartimento della Funzione Pubblica e allo specifico ufficio regionale per l’assegnazione di dipendenti pubblici in disponibilità - determina la maturazione di responsabilità amministrativa per tutti i danni causati all’ente dall’avere portato avanti una procedura che non doveva essere neppure avviata e che è stata oggetto di annullamento in autotutela. Secondo la Corte, più in specie, il ridetto articolo 34-<em>bis</em> del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2637">D.Lgs. n. 165/2001</a>, in materia di mobilità obbligatoria nella PA, presenta un contenuto vincolante di evidente portata generale, laddove è indirizzata a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 del T.U. e reca l’inequivocabile espressione “<em>sono tenute a comunicare</em>”, prevedendo altresì una specifica scansione temporale di adempimenti, la cui doverosità ed ineludibilità è sanzionata con la previsione della nullità delle assunzioni che siano effettuate senza rispettarli. Né – d’altro canto – sul piano della gerarchia delle fonti e dei principi sulla successione delle leggi nel tempo, può dubitarsi per la Corte che detta disciplina, introdotta con norma statale successiva, nell’ambito del testo unico recante “<em>Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche</em>“, risulti prevalente rispetto alla disciplina contenuta nella preesistente legislazione regionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 agosto esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4053 onde il decorso del termine annuale di cui all’articolo 86, comma 2, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2207">decreto legislativo n. 159 del 2011</a> (c.d. codice delle leggi antimafia, stando al quale l'informativa antimafia, acquisita dai soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, con le modalita' di cui all'articolo 92, ha una validità di 12 mesi dalla data dell'acquisizione, salvo che non ricorrano le modificazioni di cui al comma 3) non priva di validità (o di efficacia) l’interdittiva antimafia adottata dal competente Prefetto, in quanto la P.A. è tenuta ad emettere una informativa liberatoria nei confronti dell’impresa solo laddove sopraggiungano elementi nuovi, capaci di smentire o, comunque, di superare quelli che hanno giustificato l’adozione del provvedimento interdittivo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 agosto esce la sentenza della VIII sezione del Tar Campania, n.4126, onde è da assumersi inammissibile un ricorso spiccato per l’annullamento di un permesso di costruire, laddove l’atto concretamente impugnato sia privo di alcuni requisiti essenziali, come quando manchi la fissazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori e la quantificazione del contributo di costruzione, ed esso non sia stato ancora materialmente consegnato alla parte richiedente; in tal caso, infatti, tale atto non può qualificarsi come un valido e perfezionato permesso di costruire dovendo allo stesso annettersi valenza meramente endoprocedimentale; con la conseguenza che l’atto non è autonomamente impugnabile, perché privo di efficacia immediatamente lesiva. Si tratta allora, potrebbe dirsi, di un atto procedimentalmente esistente e provvedimentalmente ancora nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 agosto esce la sentenza della II sezione del Tar Campania n. 4204, che riprende un principio già espresso dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 3594\2015, onde la disposizione, inizialmente dettata dall’art. 6 comma 4, l. 24 dicembre 1993 n. 537 e successivamente recepita dall’art. 115 del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1686">d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163</a>, secondo la quale tutti i contratti d’appalto ad esecuzione periodica o continuativa stipulati con la P.A., devono recare una clausola di revisione periodica del prezzo inserita sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi, è norma imperativa destinata, come tale, ad operare anche in assenza di specifica previsione tra le parti ovvero in presenza di previsioni contrastanti, con la conseguenza che le disposizioni negoziali contrastanti con essa non solo sono colpite dalla nullità ex art. 1419 cc, ma vengono altresì sostituite <em>de iure</em>, ex art. 1339 c.c., dalla disciplina imperativa di legge. Con la conseguenza che una clausola inserita in un contratto di appalto pubblico di durata che esclude l’applicabilità della revisione prezzi, lungi dal considerarsi frutto di acquiescenza della ditta interessata, deve considerarsi nulla e pertanto <em>tamquam non esset</em> nonché emendata di diritto dal contrario disposto normativo (art. 115, <a href="http://www.lexitalia.it/n/1686">d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163</a>), in quanto norma imperativa, ex art. 1339 c.c., con conseguente non necessità di tempestiva impugnazione nel termine di decadenza, non vertendosi in ipotesi di mera annullabilità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 settembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4350 la quale afferma che il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare sancito dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 (vigente <em>ratione temporis</em>), così come modificato dall’art. 4 , comma 2, lett. D) D.L. n.70\2011, non consente che possano essere introdotte nei bandi di gara ‘<em>clausole espulsive’</em> che non siano conformi alle regole previste dal codice, dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, salvi i casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, nonché di violazione dei principi di segretezza o di manomissione delle buste e comunque di altre cause siccome elencate dalla norma. Come già ripetutamente affermato, il principio di tassatività in esame è finalizzato per il Collegio a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella <em>lex specialis</em> (vengono richiamate <em>ex plurimis</em>: sez. V, 23 settembre 2015, n. 4460; Sez. V, 12 novembre 2013, n. 5375; Sez. VI, 18 settembre 2013, n. 4663). Il legislatore ha dunque ridotto, per il Collegio, la discrezionalità della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale sia richiesto a pena di esclusione. In quest’ottica è stata eliminata in radice la possibilità per l’Amministrazione di prescindere dall'onere di una preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente sulla base della riscontrata carenza documentale, indipendentemente da ogni verifica sulla valenza “<em>sostanziale</em>” della forma documentale risultata carente (in tal senso, viene richiamata Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 9 del 2014). Dall’accertata contrarietà della clausola del bando di gara e del capitolato speciale al principio della tassatività delle cause di esclusione, discende per il Collegio la nullità delle stesse che, ai sensi dell’art. 31, comma 4, c.p.a., può essere sempre opposta dalla parte resistente ed implica l’automatica inefficacia delle previsioni del bando sulle cause di esclusione non consentite, disapplicabili direttamente dal seggio di gara, senza necessità di attendere l’eventuale annullamento giurisdizionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 ottobre vede la luce la sentenza del Tar Calabria - Reggio Calabria - n. 862, onde mentre sussiste la giurisdizione del giudice civile quando sia contestato il provvedimento con cui il Prefetto, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2426">d.lgs. n. 235 del 2012 (c.d. legge Severino)</a>, accerta la sussistenza dei presupposti della sospensione di diritto nei confronti di chi sia stato condannato in primo grado per uno dei delitti che comportino la medesima sospensione, sussiste invece la giurisdizione del GA nel caso di impugnazione degli atti adottati dal soggetto colpito dalla sospensione dalla carica prevista dalla predetta norma, sotto il profilo onde egli, essendo stato condannato in primo grado (nel caso di specie, per abuso d’ufficio), non poteva adottare alcun atto, in ragione appunto della “<em>sospensione di diritto”</em>. Quando poi una controversia comunque riguarda la materia elettorale, rileva per il Collegio la necessità di definire rapidamente quali siano le autorità titolari di poteri pubblici nell’assetto costituzionale, principio che si applica anche quando siano stati contestualmente impugnati altri atti per illegittimità derivata, di cui si prospetti una sostanziale unicità procedimentale. Pertanto, in assenza di una specifica norma legislativa sui rapporti tra il rito ordinario e quello speciale sul contenzioso sulle operazioni elettorali, non può che prevalere (quando sussista la connessione tra gli atti impugnati) il rito su tale contenzioso, ispirato ad una logica di particolare rapidità dei giudizi. L’art. 11, comma 5, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2426">d.lgs. n. 235 del 2011</a>, nel prevedere la sospensione “<em>di diritto</em>” di coloro che abbiano riportato in primo grado una condanna per il delitto di abuso d’ufficio, non dispone che l’atto di accertamento vada notificato a chi versi nella situazione di sospensione di diritto: essa infatti produce effetto nel momento stesso in cui vi è la proclamazione degli eletti e inibisce l’esercizio delle pubbliche funzioni a chi sia stato già condannato in sede penale. In altri termini, per il Tar l’inibizione all’esercizio delle pubbliche funzioni non discende dall’atto del Prefetto (che accerta la sussistenza della causa di sospensione, al fine di renderla nota agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina), tanto che neppure l’atto va notificato all’interessato, derivando la pertinente preclusione, di per sé, dalla condanna di primo grado. Nel caso in cui un soggetto, eletto Sindaco nonostante abbia riportato una condanna alla pena di un anno di reclusione per il delitto di abuso d’ufficio (che, pertanto, ai sensi dell’art. 11, comma 5, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2426">d.lgs. n. 235 del 2011</a>, era da ritenere sospeso di diritto), abbia nominato il Vicesindaco, adottando quindi un atto riferibile allo <em>status</em> di Sindaco, tale atto deve ritenersi illegittimo in quanto emesso da un soggetto che, per effetto della sospensione, non poteva esercitare le relative funzioni, e tuttavia non nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 ottobre esca la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 24876 che afferma come ai sensi dell’art. 43 del r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611 – modificato dall’art. 11 della legge 3 aprile 1979 n. 103 – la facoltà per le Università statali di derogare, “<em>in casi speciali</em>” al “<em>patrocinio autorizzato</em>” spettante ex lege all’Avvocatura dello Stato per avvalersi dell’opera di liberi professionisti sia subordinata all’adozione di una specifica e motivata deliberazione dell’ente (vale a dire, del Rettore) da sottoporre agli organi di vigilanza per un controllo di legittimità (e dunque al Consiglio di amministrazione). Come regola generale, prosegue il Collegio, la mancanza di tale controllo determina la nullità del mandato alle liti, non rilevando che esso sia stato conferito con le modalità prescritte dal Regolamento o dallo Statuto dell’Università, le quali sono fonti di rango secondario insuscettibili di derogare alla legislazione primaria. Sono fatte salve, nondimeno, due eccezioni: a) la prima opera nei casi in cui ricorra una vera e propria urgenza, ai sensi dell’art. 12 del r.d. n. 1592 del 1933, laddove il Rettore, nella qualità di Presidente del Consiglio d’amministrazione, può provvedere direttamente al conferimento dell’incarico all’avvocato del libero foro, purché curi di far approvare sollecitamente la relativa delibera dal Consiglio di amministrazione, così sanando la originaria irregolarità; b) inoltre, in base al citato art. 43, è da assumersi valido il mandato conferito ad avvocati del libero foro con il solo provvedimento del Rettore non seguito dal vaglio del Consiglio di amministrazione nel caso in cui si verifichi in concreto un conflitto di interessi sostanziali tra più enti pubblici che sono parti nel medesimo giudizio: infatti, la presenza di un simile conflitto di interessi – che deve essere reale, non meramente ipotetico e documentato – rende non ipotizzabile il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in favore dell’Università, sicché non vi è alcuna ragione di richiedere la suindicata preventiva autorizzazione. In queste due ipotesi dunque il mandato alle liti deve assumersi valido e non già nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre esce la sentenza della III sezione bis del Tar Lazio n. 10484, onde una verbalizzazione sintetica, prosegue il Tar, non può invalidare una procedura concorsuale, a meno che non sia dedotta una influenza sulla valutazione o sullo svolgimento del concorso; nei concorsi pubblici non occorre, infatti, che il verbale contenga una puntuale descrizione dell’attività svolta dalla commissione giudicatrice, atteso che l’oggetto del processo verbale sono soltanto gli aspetti salienti e significativi dell’attività amministrativa oggetto di documentazione, con la conseguenza che l’omessa verbalizzazione delle sedute e delle prove d’esame di una procedura di concorso non comporta la nullità delle sedute e delle operazioni concorsuali medesime.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° dicembre 2017 esce la sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa – Trento n. 319 la quale afferma che è nullo il bando di una gara per servizi intellettuali (nella specie per l’affidamento di servizi assicurativi) nella parte in cui è stata prevista la sanzione automatica dell’esclusione dalla gara medesima nel caso di mancata indicazione degli oneri aziendali per la sicurezza nell’offerta : infatti tale disciplina contrasta con l’art. 83, comma 8, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/3163">decreto legislativo n. 50/2016</a> (nella parte in cui dispone che i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice e da altre disposizioni di legge vigenti e che dette eventuali prescrizioni sono comunque nulle, in quanto: a) né nel codice dei contratti, né nella legislazione provinciale (nella specie si trattava di quella della Provincia di Trento) si rinvengono disposizioni che pongano, a pena di esclusione, l’obbligo di indicare gli oneri aziendali per la sicurezza; b) l’art. 95, comma 10, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/3163">decreto legislativo n. 50/2016</a>, come modificato dal <a href="http://www.lexitalia.it/n/3373">decreto legislativo n. 56/2017</a>, esonera espressamente i concorrenti dall’indicazione degli oneri aziendali per la sicurezza laddove l’appalto abbia ad oggetto “<em>servizi di natura intellettuale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre vede la luce la sentenza della III sezione del TAR TOSCANA, n. 1576 la quale afferma che è nullo, e non semplicemente annullabile, il provvedimento con il quale un Comune ha rigettato una istanza di un privato, tendente ad ottenere l’autorizzazione alla occupazione permanente di suolo pubblico, nel caso in cui sia stato sottoscritto da un funzionario non dirigente; infatti, la stabile attribuzione a funzionari privi di qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell’art. 17, comma 1 bis, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/2637">D. Lgs. n. 165/2001</a>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 gennaio esce l'ordinanza della VI sezione della Corte di Cassazione n. 1548 che ribadisce il principio per il quale la <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=4%3DJbRSN%26I%3DLZ%267%3DYMZSc%260%3DRJbNVQ%26R%3D3KCM_Crlw_N2_Axnq_KC_Crlw_M7FTH.52O4KCLz82RDK2W42.2Q_Crlw_M77BHJ_Axnq_KCLZ_Axnq_KCUaSgUYPcPT_Axnq_KCg2_6894tQv_J8QEFB0C0IF0Ex_AzC_AR0C8_Av_GtOE6_wB7_7DKK08KvI2L_9F7_AzKxO8078_72_7R7C2Qv_5xI7_2CQ0.9CJ7_Ijzk_TyRED_BLFIvB_Crlw_N5WBb_ExTDCxQE6A_Olti_YQLCJ_86wFFD_Axnq_LAzDtF7_Ijzk_SO2t8vRED_v88GtF2E_Axnq_LAY6Z%26A%3D%264J%3DLYTZJ">mancata sottoscrizione del ruolo o della cartella esattoriale da parte del funzionario competente non determina la nullità dell'atto, poiché l’apposizione della firma è essenziale solo quando la legge lo prevede espressamente.</a> Invero, fatta eccezione per alcuni limitati e specifici atti fiscali, ricorda la Corte come viga il principio che l’atto amministrativo non è invalido solo perché privo di sottoscrizione, in quanto la riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato può essere desunta anche dal contesto dell’atto stesso (viene richiamato il precedente n.11458\12, laddove la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva annullato un provvedimento di diniego di condono esclusivamente in ragione dell’assenza di firma, omettendo qualunque ulteriore verifica). Sulla base di tale principio, per il Collegio il difetto di sottoscrizione del ruolo da parte del capo dell’ufficio – al pari della mancanza di sottoscrizione della cartella di pagamento, quando non è in dubbio la riferibilità di questo o quella all’Autorità da cui promana – non incide in alcun modo sulla validità dell’iscrizione a ruolo del tributo, poiché si tratta di atto interno e privo di autonomo rilievo esterno, trasfuso nella cartella da notificare al contribuente; ciò in ossequio al principio elaborato dal diritto vivente (vengono richiamate le sentenze n. 19671 del 2016, n. 26053/15, n. 6199/15, n. 6610/13, nonché Corte cost. n. 117 del 2000) in base al quale l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi previsti dalla legge, ed è regola sufficiente che dai dati contenuti nel documento sia possibile individuare con certezza l’autorità da cui l’atto proviene.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 643, secondo la quale è’ illegittima la determinazione della stazione appaltante di portare a conclusione l’originaria gara la cui <em>lex specialis</em> conteneva una clausola nulla che abbia influito sulla concorrenza; in tal caso, infatti, la stazione appaltante illegittimamente ignora l’efficacia fattuale (in senso distorsivo della concorrenza) rivestita dalla clausola <em>de qua</em> nello svolgimento della gara medesima ed aggiudica la gara – quando già tale clausola sia stata dichiarata nulla, con sentenza passata in giudicato – al soggetto che di tale effetto distorsivo ha potuto avvantaggiarsi;</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 marzo esce la sentenza della sezione II bis del Tar Lazio n. 2555 alla cui stregua , in materia di gare pubbliche e principio di tassatività delle cause di esclusione. Quest’ultimo comporta <em>in primis</em> che l’esclusione dalla gara può essere disposta in modo legittimo solo quando il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali della P.A. o a protezione della <em>par condicio</em> tra i concorrenti; il suddetto principio è finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le ragioni di esclusione dalle gare che siano incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella <em>lex specialis</em>. Con il ridetto principio di tassatività delle cause di esclusione, prosegue il Collegio, il legislatore ha ridotto la discrezionalità della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale sia richiesto a pena di esclusione. In quest’ottica è stata eliminata in radice la possibilità per l’Amministrazione di prescindere dall’onere di una preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente sulla base della riscontrata carenza documentale, indipendentemente da ogni verifica sulla valenza “<em>sostanziale</em>” della forma documentale risultata carente. Proprio sulla scorta di questi principi, per il Tar non può essere legittimamente disposta l’esclusione di una ditta nel caso in cui l’offerta presentata sia priva del timbro di congiunzione tra le varie pagine di cui essa si compone, atteso che l’apposizione del suddetto timbro non risulta prescritta come essenziale dal codice dei contratti, o dal regolamento o da altre disposizioni vigenti e la relativa mancanza non appare idonea a determinare incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, o dubbi sulla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o, ancora, pregiudizio al principio di segretezza delle offerte, cosicché un’esclusione da parte dell’Amministrazione per tale circostanza sarebbe certamente illegittima, in quanto contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione introdotto al comma 1 bis dell’art. 46 del codice dei contratti dal d.l. n. 70/2011.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 marzo esce l'ordinanza della VI sezione della Corte di Cassazione n. 7588 che ribadisce un orientamento ormai consolidato in materia di nullità del decreto di espulsione dello straniero qualora sia stato tradotto nella lingua c.d. veicolare (inglese, francese o spagolo) a causa della mera irreperibilità immediata di un traduttore nella lingua conosciuta dallo straniero medesimo. In ottica spiccatamente garantistica, nella specie, la Corte, a fronte della mancata traduzione, ha ritenuto del tutto incongruente ed anzi in collisione con il principio sopra riportato la circostanza che lo straniero si sia legittimamente e tempestivamente difeso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 luglio vede la luce la sentenza della I sezione del Tar Calabria che applica una serie di importanti principi sull’attività del “<em>commissario ad acta</em>” e sul principio di nullità dei provvedimenti. Sotto quest’ultimo specifico profilo, la disposizione normativa di cui all’art. 21 septies l. n. 241/90 ha consentito per il Collegio di positivizzare la cd. nullità “<em>strutturale</em>” del provvedimento amministrativo, rinvenibile esclusivamente nei casi tassativi ivi contemplati, tanto da far ritenere che le cause di nullità debbano assumersi a numero chiuso, e ciò a tutela delle ragioni di certezza dell’azione amministrativa e di stabilità degli assetti plasmati dagli atti amministrativi a presidio di interessi superindividuali. Da ciò consegue per il Collegio che la mancata pubblicazione sul BURC telematico della Regione Calabria (prevista dalla l.r. n. 11/2011) dei decreti adottati dal Presidente della Giunta Regionale ovvero il preteso mancato assolvimento degli obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti amministrativi, siccome sanciti dal D.lgs. n. 33/2013, non compromettono i cd. “<em>elementi essenziali</em>” del provvedimento, così da determinarne la nullità ovvero, addirittura, la radicale inesistenza, trattandosi piuttosto di adempimenti che, al più, potrebbero sospensivamente condizionare l’efficacia nei confronti dei terzi, ma non anche del Comune che ne abbia inequivocabilmente avuto immediata e diretta conoscenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 agosto esce la sentenza del della V Sezione del Consiglio di Stato n. 4775 alla cui stregua nelle gare di appalto la regola generale è quella per cui il possesso dei requisiti soggettivi da parte delle imprese per partecipare alle procedure di gara deve essere valutato al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, e poi essere mantenuto, senza soluzione di continuità, anche nella fase successiva all’aggiudicazione e per tutta la durata del contratto. Alla stregua poi di quanto disposto dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, dall’accertata contrarietà delle clausole del bando o, come nel caso di specie, del capitolato speciale, rispetto al principio di tassatività delle cause di esclusione, discende la nullità della clausola stessa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 agosto esce la sentenza della IV sezione del Tar Sicilia – Catania n. 1671 per la quale è da assumersi nulla per difetto assoluto di attribuzione, l’ordinanza contingibile ed urgente adottata per ragioni asseritamente igenico-sanitarie dal Sindaco ai sensi dell’art. 50, del Dlgs. n. 267\2000, nella relativa qualità di rappresentante della Comunità locale e non di Ufficiale di governo, laddove ha di fatto vietato ai proprietari di immobili ubicati nel territorio comunale di concedere in locazione o altro uso detti beni ad organizzazioni ed a privati che si occupano di accoglienza dei migranti. Per il Collegio in primis è riservata, alla competenza del Ministero dell’Interno e della Prefettura territoriale l’individuazione delle strutture da adibire all’accoglienza degli immigrati irregolari e la valutazione dell’idoneità delle stesse a soddisfare le esigenze indicate all’art. 10 comma 1 del D.Lgs. n.142 del 2015, ed ossia, il rispetto della sfera privata (comprese le differenze di genere), delle esigenze connesse all’età, della tutela della salute fisica e mentale dei richiedenti, dell’unità dei nuclei familiari composti da coniugi e da parenti entro il primo grado, dell’apprestamento delle misure necessarie per le persone portatrici di particolari esigenze ai sensi dell'articolo 17, nonché delle misure idonee a prevenire ogni forma di violenza ed a garantire la sicurezza e la protezione dei richiedenti. Di conseguenza, prosegue il Collegio, con l’ordinanza contingibile ed urgente emanata, il Sindaco ha introdotto una disciplina derogatoria rispetto a quella nazionale in un settore, come quello dell’immigrazione, riservato alla competenza legislativa, regolamentare ed amministrativa esclusiva dello Stato, onde il provvedimento impugnato è da assumersi nullo, ai sensi dell’art. 21 septies L. n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzione. Analoghe considerazioni valgono, per il Tar, con riguardo alla materia dell’anagrafe; anche sotto questo profilo, va ravvisata la nullità per difetto assoluto di attribuzione del provvedimento impugnato poiché il Sindaco, nella dichiarata qualità di organo del Comune, ha esercitato funzioni di competenza esclusiva dell’apparato amministrativo dello Stato. Ulteriore causa di nullità si rinviene per il Collegio anche nella dedotta violazione degli artt.41 e 42 Cost., poiché l’impugnato provvedimento, statuendo il divieto di alienazione o di concessione in locazione o in comodato di immobili siti all’interno del territorio comunale per l’ospitalità di migranti, viola il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e disciplina, limitandole, le facoltà di godimento della proprietà privata fuori dai casi previsti dalla legge. Pertanto, l’ordinanza impugnata è nulla per difetto assoluto di attribuzione in quanto, statuendo limiti all’attività negoziale dei privati ed al godimento della proprietà privata in contrasto con gli artt.41 co.1 e 42 co.2 Cost., introduce una disciplina propriamente di diritto privato, come tale, rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile e, quindi, di esclusiva competenza dello Stato ai sensi dell’art.117 co.2 lett. l) Cost.. Infine, prosegue il Tar, l’ordinanza impugnata va dichiarata nulla anche perché integrante un atto discriminatorio. Il Collegio su questo punto dichiara infatti di ritenere che i provvedimenti amministrativi aventi natura discriminatoria perché adottati in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 sono da ritenersi nulli e non annullabili. A favore della tesi della nullità depone anzitutto, per il Tar, la disciplina contemplata proprio dal richiamato art.44 co.1 del D.Lgs. n.286/1998 nella parte in cui, affermando la giurisdizione del Giudice Ordinario, consente al Giudice Civile di ordinare alla Pubblica Amministrazione convenuta l’immediata cessazione del comportamento discriminatorio, condannandola anche alla rimozione degli effetti dell’atto impugnato. In questi casi, come più precisamente chiarito dall’art.28 co.5 del D.Lgs. n.150/2011 (richiamato dall’art.44 co.2 del D.Lgs. n.286/1998), il Giudice Civile può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. L’espresso riferimento alla Pubblica Amministrazione in entrambe le richiamate disposizioni normative induce l’interprete a ritenere la condotta discriminatoria perpetrata da una Autorità Amministrativa con l’adozione di un provvedimento amministrativo rilevante sempre e soltanto sul piano meramente fattuale, ossia quale comportamento illecito dell’autore che lo ha posto in essere, a siffatto esito dovendosi pervenire proprio in ragione dell’ampia tutela (non soltanto risarcitoria) esperibile dinanzi al Giudice Civile. La possibilità infatti, prosegue il Tar, di chiedere ed ottenere in un giudizio civile la condanna della Pubblica Amministrazione convenuta tanto alla cessazione immediata della condotta discriminatoria perpetrata mediante l’adozione (come nella specie) di un atto ai sensi dell’art.43 co.2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998 quanto, soprattutto, ad un “<em>facere</em>” specifico preordinato a riparare le conseguenze lesive della pregressa condotta illecita presuppone l’assenza di qualsivoglia spendita di potere pubblicistico e la necessaria considerazione degli atti posti in essere dalla P.A. quali comportamenti meramente materiali e non amministrativi, ossia non riconducibili all’esercizio di un alcun potere pubblico neanche in via mediata, poiché diversamente opinando, la decisione del Giudice Civile sarebbe affetta da nullità per difetto di giurisdizione in ragione del limite stabilito dall’art. 4 della L. n. 2248/1865 all. E. Poiché – chiosa ancora il Tar - l’art. 44 co.1 del D.Lgs. n. 286/1998 è proprio una norma sulla giurisdizione, il presupposto necessario per garantire ai soggetti discriminati l’effettività degli strumenti di tutela previsti nella richiamata disposizione e meglio articolati nell’art.28 del D.Lgs. n.150/2011 è la nullità per carenza assoluta di potere del provvedimento amministrativo discriminatorio, adottato ai sensi dell’art.43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998, e la necessaria considerazione dello stesso esclusivamente nella relativa realtà fattuale e non provvedimentale, ossia quale atto rappresentativo di una condotta meramente materiale e non esplicativo dell’esercizio di alcun potere pubblicistico di tipo autoritativo. A sostegno di quanto affermato depone per il Collegio anche una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della disciplina in esame, muovando da quanto desumibile dalla congiunta lettura degli artt. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 e 28 del D.Lgs. n. 150/2011, onde gli atti discriminatori, nella relativa ampia eterogeneità ed atipicità, sono considerati tutti allo stesso modo sul piano della tutela, senza distinzione di sorta a seconda che la discriminazione sia perpetrata mediante un contratto o un negozio o un atto amministrativo, essendo in tutte le ipotesi possibile l’esperimento delle tutele previste dalla richiamata normativa. Di conseguenza, sarebbe erroneo, in quanto contrario al tenore ed alla ratio della disciplina in esame, sostenere l’annullabilità del provvedimento amministrativo discriminatorio, con conseguente onere di tempestiva impugnazione dinanzi al Giudice Amministrativo, per contrarietà alla norma imperativa di cui all’art.43 del D.Lgs. n. 286/1998 (e, dunque, per violazione di legge ai sensi dell’art.21 octies co.1 della L. n.241/1990) quando per la stessa ragione il contratto od il negozio discriminatorio è, invece, nullo, ai sensi degli artt.1418 co.1 c.c., tanto più considerato che né l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 né l’art. 28 del D.lgs. n.150/2011 riconoscono al Giudice Civile un potere di annullamento degli atti amministrativi discriminatori. Né peraltro, prosegue il Tar, potrebbe ritenersi sufficiente a garantire piena tutela ai diritti fondamentali dello straniero discriminato l’eventuale disapplicazione del provvedimento amministrativo discriminatorio da parte del GO ai sensi dell’art.5 della L. n.2248/1865 all. E, poiché la condanna dell’Autorità Amministrativa convenuta ad un “facere” specifico di tipo riparatorio presuppone, come detto, l’assenza di qualsivoglia potere pubblicistico, in ragione del limite alla giurisdizione del Giudice Ordinario stabilito dall’art.4 L. n.2248/1865 all. E. I principi, dunque, di effettività della tutela giurisdizionale e di simmetria delle tutele desumibili dagli artt. 3, 24 e 113 Cost. inducono il Collegio ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata degli artt. 43 e 44 D.Lgs. n. 286/1998 e 28 D.Lgs. n.150/2011 ed alla conseguente considerazione del provvedimento amministrativo discriminatorio come nullo per carenza assoluta di potere, dovendosi ritenere l’art. 43 del D.Lgs. n. 286/1998 una norma, non disciplinante ma, inibente l’esercizio del potere, implicando l’esclusione ab origine dell’esercizio di qualsivoglia potestà pubblicistica eventualmente evocata dalla P.A. per l’adozione di un atto di tipo discriminatorio. Elementi in tal senso indicativi si desumono peraltro, a detta del Collegio, anche dalle fonti internazionali ed euro unitarie, il divieto di discriminazione costituendo un principio generalmente riconosciuto anche a livello internazionale. Su questo crinale, l’art.14 della C.E.D.U. stabilisce che “<em>Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione</em>”. Il medesimo principio è ribadito anche dall’art.1 del Protocollo n.12 allegato alla C.E.D.U., secondo cui “<em>1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. 2. Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al paragrafo 1”. Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – prosegue il Collegio - afferma il divieto di discriminazione, laddove, dopo avere chiarito all’art.1 che “la dignità umana è inviolabile</em>” e “<em>deve essere rispettata e tutelata</em>”, all’art.21 precisa essere “<em>vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali</em>”. Una disciplina più dettagliata si rinviene, poi, nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale conclusa a New York il 21 dicembre 1965, laddove all’art.2 si afferma che “<em>1. Gli Stati contraenti condannano la discriminazione razziale e si impegnano a continuare, con tutti i mezzi adeguati e senza indugio, una politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale ed a favorire l’intesa tra tutte le razze, e, a tale scopo: a) ogni Stato contraente si impegna a non porre in opera atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di individui od istituzioni ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo</em>”; all’art.4 si prevede che<em> “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione, ed in particolare: a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento; b) a dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda organizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività; c) a non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o l’incoraggiamento alla discriminazione razziale”; </em>all’art.5 si stabilisce che<em> “In base agli obblighi fondamentali di cui all’articolo 2 della presente Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica, nel pieno godimento dei seguenti diritti” […] tra i quali quello all’alloggio”; </em>all’art.6 si afferma che<em> “Gli Stati contraenti garantiranno ad ogni individuo sottoposto alla propria giurisdizione una protezione ed un mezzo di gravame effettivi davanti ai tribunali nazionali ed agli altri organismi dello Stato competenti, per tutti gli atti di discriminazione razziale che, contrariamente alla presente Convenzione, ne violerebbero i diritti individuali e le libertà fondamentali nonché il diritto di chiedere a tali tribunali soddisfazione o una giusta ed adeguata riparazione per qualsiasi danno di cui potrebbe essere stata vittima a seguito di una tale discriminazione</em>”. L’universalità del richiamato principio induce il Collegio a ritenere la dignità umana un valore fondamentale ed assoluto, da tutelare nei confronti di chiunque intenda lederlo o lo abbia leso, ivi incluse le Pubbliche Autorità. L’adesione, infatti, ai richiamati trattati internazionali costituisce una condotta indicativa non soltanto della condivisione di un principio, ma, più che altro, della volontà di assicurare piena e completa tutela (civile e penale) alla dignità umana, escludendo, tra l’altro, qualsivoglia possibilità di atti discriminatori, prima di tutto, ad opera delle Autorità amministrative nazionali deputate all’esercizio dei molteplici pubblici poteri tramite i quali si esplica la sovranità degli Stati, essendo notorio che la discriminazione perpetrata da una Pubblica Autorità sia maggiormente offensiva, poiché percepita dal discriminato con maggiore lesività, rispetto a quella posta in essere da un privato, in conseguenza della logica percezione della sensazione di non essere accettati da un’intera comunità, come, ad esempio, avviene quando ad agire in senso discriminatorio sia un Ente Pubblico Territoriale, come nel caso in esame. Costituendo principio generalmente riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Unione Europea la considerazione della dignità umana quale diritto fondamentale dell’essere umano e limite alla sovranità degli Stati, va osservato che la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi, ecc…, poiché espone a responsabilità internazionale lo Stato che ne sia autore, va prevenuta nell’ambito dell’ordinamento interno, inibendo <em>in nuce</em>, anzitutto, qualsivoglia esercizio di potestà pubblicistiche per il soddisfacimento di finalità discriminatorie o, implicanti, anche se soltanto indirettamente, effetti discriminatori. Dovendosi, dunque, escludere a priori il possibile esercizio di poteri autoritativi per il compimento di atti discriminatori, la funzione dei richiamati trattati internazionali deve rinvenirsi nell’assunzione di responsabilità per gli Stati firmatari, come l’Italia, dell’obbligo di tutelare il rispetto della dignità umana anche da provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni mediante l’introduzione negli ordinamenti nazionali di norme, non tanto disciplinanti le modalità di esercizio del potere, bensì preclusive dell’esercizio stesso del potere ogniqualvolta ciò possa implicare l’adozione di un provvedimento discriminatorio. In conclusione, per il Tar l’art. 43 del D.lgs. n. 286/1998 va dunque concepito non come semplice parametro di legittimità dell’agire della Pubblica Amministrazione implicante in caso di inosservanza la mera annullabilità del provvedimento discriminatorio, ma come norma statuente un divieto assoluto, con effetto inibitorio, dell’esercizio di qualsivoglia potere pubblicistico che si traduca in un atto discriminatorio, essendo la sfera più intima dell’essere umano, nel suo complesso considerata e costituita dai valori e diritti fondamentali generalmente riconosciuti ad ogni persona, un ambito non suscettibile di ingerenze lesive da parte di nessuna Pubblica Autorità, sia per espressa scelta della nostra Carta Fondamentale, che all’art. 2 riconosce e garantisce i “<em>diritti inviolabili dell’uomo</em>”, sia per adesione ai richiamati trattati internazionali. Il Legislatore nazionale con l’art.43 del D.Lgs. n.286/1998 ha inteso assicurare, in conformità agli impegni internazionali assunti, la più ampia tutela possibile, incidendo, con riguardo ai provvedimenti amministrativi discriminatori, direttamente sulla norma attributiva del potere esercitato, rendendola transitoriamente inefficace in ragione della scelta <em>ab origine</em> dello Stato di non ledere con l’esercizio dei suoi poteri autoritativi la dignità umana, discriminando un essere umano rispetto ad un altro per nessun motivo. Onde, l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 assolve alla funzione di privare di efficacia, prima ancora che l’atto discriminatorio, la norma attributiva del potere esercitato nella circostanza, rendendo di riflesso privo di effetti il provvedimento emesso dall’Autorità Pubblica. Con riguardo al caso in esame, il Collegio assume dunque che la nullità dell’ordinanza sindacale impugnata discenda dalla inefficacia della norma attributiva del potere, ossia l’art.50 del D.Lgs. n.267/2000, in conseguenza della natura discriminatoria dell’atto adottato ai sensi dell’art.43 co.2 lett.a) e c) del D.Lgs. n.286/1998.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 settembre esce la sentenza della II sezione del Tar Campania n. 5530 alla cui stregua in primo luogo – in tema di gare di appalto - una volta che la PA abbia verificato il mancato possesso dei requisiti soggettivi in capo all’ausiliaria di un contratto di avvalimento, deve poi consentire alla società ausiliata di procedere alla relativa sostituzione onde evitare l’esclusione della stessa dalla gara, in conformità a quanto previsto dall’art. 89, comma 3 del <a href="http://www.lexitalia.it/n/3163">D.Lgs. n. 50/2016</a>; tale disposizione va assunta generale e imperativa non potendo essere, in forza del principi di gerarchia e di specialità delle fonti disapplicata dal disciplinare di gara e che si inserisce nell’atto unilaterale amministrativo anche in presenza di clausole contrastanti difformi <em>ex</em> artt.1339 e 1419 c.c. Il Collegio soggiunge che il potere affidato dalla legge al giudice di dichiarare di ufficio la nullità dell’atto <em>ex </em>art. 31, comma 4 <a href="http://www.lexitalia.it/n/2369">c.p.a.</a> – al pari di ogni altra rilevabilità <em>ope iudicis</em>, come quella dell’incompetenza – costituisce una potestà (c.d. potere-dovere) il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, quale corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge ha assegnato al GA medesimo che dunque, quando rileva una nullità, come nella fattispecie, espressamente comminata dalla legge alla quale è riconnesso il potere di rilievo giudiziale ufficioso, è sempre tenuto a dichiararla d’ufficio, statuendo in conformità</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 settembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.5492 che assume nulla una clausola del disciplinare di gara onde “<em>saranno considerate inammissibili, ai sensi dell’art. 87 (recte, art. 97), comma 6, del D.Lgs. 50/2016 e pertanto automaticamente escluse, le offerte nelle quali il costo medio orario del lavoro risulti inferiore al costo stabilito dal CCNL</em>” di settore e dalle tabelle ministeriali; simile clausola, integra infatti per il Collegio una fattispecie di “<em>nullità nominata</em>”, ai sensi del combinato-disposto di cui all’art. 83, comma 8, del d.l.vo n. 50/2016 (secondo il quale “<em>i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle</em>”) e all’art. 97, comma 5, lett. d) del d.l.vo n. 50/2016 (onde “<em>l’offerta è anormalmente bassa in quanto il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 16”). Peraltro, soggiunge il Collegio, una clausola di tal fatta condiziona la conformazione delle offerte economiche da parte delle imprese partecipanti e determina la necessità di disporre la rinnovazione della pertinente gara di appalto.</em></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. 9 novembre 2018, n. 28651 che si pronuncia sulla sussistenza di giurisdizione in capo al giudice ordinario anche in ipotesi di atto nullo, adottato in difetto assoluto di attribuzione (ovvero, di potere pubblico) da parte di un organismo di diritto pubblico. Il ricorso del privato è ritenuto infondato e viene riconosciuta la giurisdizione del g.c.. Così motiva la Corte : “ A norma dell'art. 7, comma 1, primo periodo, CPA: "Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni". Aggiunge il comma 2 che: "Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo". Escluso che, nella specie, ricorra un caso di giurisdizione esclusiva, non rientrando la questione dibattuta (impugnazione della delibera consortile di approvazione del bilancio) in nessuna delle tassative ipotesi disciplinate dall'art. 133 CPA, la controversia non rientra neppure nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo. Ed, infatti, perché possa radicarsi la giurisdizione del giudice amministrativo non è sufficiente che il soggetto procedente possa ricomprendersi nell'ambito delle "pubbliche amministrazioni" come definite dal comma 2 del citato art. 7, ma è necessario che la controversia abbia ad oggetto atti o condotte riconducibili all'esercizio delle funzioni istituzionali delle stesse, in quanto, come si legge nella relazione trasmessa dal Governo al Senato e come già osservato da questa Corte (Cass. SU ord. n. 28330 del 2011), la disposizione in esame "definisce la giurisdizione del giudice amministrativo in ossequio alle norme costituzionali e ai noti principi dettati dalla Corte Costituzionale, in particolare nelle sentenze nn. 204 del 2004 e 191 del 2006. In applicazione di tali regole e principi la giurisdizione amministrativa è strettamente connessa all'esercizio (o al mancato esercizio) del potere amministrativo e in tale ambito rientrano in essa le controversie concernenti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente a detto potere. L'articolo 7 costituisce una clausola generale tesa a spiegare la ratio delle diverse ipotesi di giurisdizione amministrativa in termini unitari". In definitiva, ciò che rileva, ai fini del riparto della giurisdizione, è la riconducibilità dell'atto, del provvedimento o del comportamento all'esercizio di un pubblico potere (cfr. C. Cost. n. 191 del 2006, n. 35 del 2010). La decisività di tale accertamento appare vieppiù evidente quando, come nel caso in esame, il soggetto agente, pur appartenendo al sistema mediante il quale la pubblica amministrazione locale gestisce i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzioni di beni ed attività rivolte a soddisfare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, sia un Consorzio costituito ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 267 del 2000, disposizione che rinvia alle norme previste per le aziende speciali di cui all'articolo 114, in quanto compatibili. Nella specie, l'art. 1 comma 3 dello Statuto consortile specifica che esso è lo strumento organizzatorio dei soggetti costituenti, dotato -come rammenta la ricorrente- "di autonomia imprenditoriale e gestionale" e precisa, tra l'altro, che esso gestisce in forma diretta i servizi allo stesso affidati dagli enti locali consorziati "ai sensi dell'art. 113 lettera c) del d.lgs. n. 267/2000", id est quale azienda speciale (secondo l'originario testo di tale norma, che enunciava le possibili diverse forme di gestione dei servizi pubblici locali), azienda di cui queste Sezioni Unite (Cass. SU n. 20684 del 2018), nell'escludere la necessità di adozione della forma scritta ad substantiam per la stipula dei contratti, hanno di recente evidenziato la natura composita, caratterizzata da compresenza ed interazione di elementi marcatamente pubblicistici e pienamente privatistici…l'atto qui impugnato riguarda, come si è detto, la delibera assembleare di approvazione del bilancio consuntivo dell'anno 2008, che costituisce un atto certamente privo di qualsiasi valenza autoritativa, essendo piuttosto un atto espositivo della situazione patrimoniale del Consorzio, in conseguenza della gestione dell'impresa in detto esercizio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza del Giudice di Pace di Frosinone, n. 1213, che sancisce la nullità del verbale di accertamento, emesso nei confronti del conducente per aver violato le norme sulla velocità, in caso di omessa segnalazione del sistema di rilevazione automatico della velocità. Pertanto, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=8%3d7U7WA%26B%3d1d%26t%3dS1aCY%26o%3dV7U3ZD%26K%3dhOzF_rvYp_36_xqSu_86_rvYp_2A3Mw.9oHiOzEeBoKsOoPi6.oJ_rvYp_2At5wN_xqSu_868_MWsP_WlZ0eFZ9WCU1_MWsP_WlnuGrE_iG_25r7gBe_KkH_e8i5sNu_4i_QkBo8oJa_Nk_9l_NoIt0s1_tPzEr_IuD_eMg_1d0mKaOgCeIz5_s0mDaGgJo.CzCl_MWsP_XlKtH_yEuMi5_rvYp_39J5G_IkMsGkJt0x_HQxV_R6PzC_m0j9uH_xqSu_94eHg9l_MWsP_WBKtH_6g1ai1mKg9gI_xqSu_94D0M%264%3d%26iN%3d0S3d0">In tema di sanzioni amministrative per eccesso di velocità ed ai fini della validità del verbale, è necessaria la presenza della segnaletica di preventiva informazione agli automobilisti in transito circa il posizionamento del sistema di rilevamento.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza del Tar Campania – Napoli, sez. I, n. 6691 che in accoglimento del ricorso del privato, avverso un provvedimento di esclusione disposto dalla stazione appaltante, dichiara che va dichiarata la nullità della clausola del bando di gara che impone a pena di esclusione che, in caso di avvalimento, l’impresa ausiliata deve essere in possesso di una propria attestazione SOA; infatti, la disciplina dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89 del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 non riconosce alcun potere alla stazione appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque, restrittive dell’avvalimento, tantomeno di sanzionarne la mancanza con l’immediata esclusione del concorrente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili, n. 30757, che si pronuncia sull’ipotesi di mancato rilascio del permesso di soggiorno e sulla questione di giurisdizione. Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sull’impugnazione del provvedimento del questore di diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari, richiesto ex art. 5, 6 comma, del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto al questore non è più attribuita alcuna discrezionalità valutativa in ordine all’adozione dei provvedimenti riguardanti i permessi umanitari. E ciò in base alla considerazione che la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli art. 2 cost. e 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e, pertanto, non degradabile ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo: all’autorità amministrativa è richiesto soltanto l’accertamento dei presupposti di fatto legittimanti la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, poiché il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato al legislatore. Alle medesime conclusioni si deve pervenire anche con riguardo alla speciale forma di permesso di soggiorno introdotta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 16 luglio 2012, n. 109, che ha attuato la direttiva n. 2009/52/CE sulle norme minime relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (in termini, Cass., ord. 27 aprile 2018, n. 10291). La misura colma una lacuna normativa in materia di lavoro irregolare dello straniero in Italia e si connota per la sua vocazione premiale, giacché si applica in favore del cittadino straniero che, trovandosi in una situazione di particolare sfruttamento lavorativo, abbia presentato denuncia contro il proprio datore di lavoro e cooperi nel procedimento penale instaurato a suo carico. Significativa conferma della devoluzione al giudice ordinario delle controversie in questione emerge poi dall’art. 1, 3 co., lett. a), del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, che le attribuisce alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, istituite presso i tribunali ordinari del luogo dove hanno sede le Corti d’appello dal d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito dalla legge 13 aprile 2017, n. 46. Il caso concreto, così si sviluppava: un cittadino senegalese N.P.A.D. aveva chiesto l’accertamento del proprio diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari a norma degli artt. 5 e 22, comma 12-quater, del tu. sull’immigrazione. L’adito Tribunale di Lecce, accogliendo l’eccezione del Ministero dell’interno, il quale aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sostenendo che la controversia dovesse essere devoluta alla cognizione di quello amministrativo, riteneva che la situazione soggettiva azionata in giudizio avesse consistenza d’interesse legittimo. La Corte d’appello rigettava il successivo appello e confermava la sussistenza in materia della giurisdizione del giudice amministrativo: ha ribadito che, ai fini del rilascio del permesso in questione, la valutazione dell’Amministrazione è discrezionale, dovendo riguardare caso per caso la contestualità delle condizioni della denuncia e della cooperazione dello straniero nel procedimento penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza n. 12 del Tar Basilicata, Sez. I, che, in accoglimento del ricorso proposto da una società, sancisce che sussiste la nullità <em>ex</em> art. 83, comma 8, D.Lg.vo n. 50/2016 di una clausola del Disciplinare di gara la quale ha previsto che all’offerta economica doveva essere allegato, a pena di esclusione, il Computo metrico estimativo dei lavori offerti, elaborato sulla base del computo metrico estimativo allegato al progetto posto a base di gara, comprendente anche le lavorazioni oggetto delle proposte migliorative e delle opere aggiuntive offerte, che doveva “coincidere” con quello non estimativo, allegato all’offerta tecnica, e che doveva “essere elaborato sulla base dei prezzi unitari offerti al netto della sicurezza”, il cui “importo complessivo” doveva “corrispondere all’importo netto offerto”. La nullità di tali clausole del disciplinare viene sancita in conformità con del principio di “tassatività delle cause di esclusione”, sancito dal comma 8 dell’articolo suddetto (a mente del quale <em>i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti</em>) in quanto le suddette prescrizioni, a pena di esclusione, stabilite nella citata disposizione della <em>lex specialis</em> di gara non sono previste dal Codice degli appalti e/o da altre norme vigenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 febbraio esce la sentenza n. 1143 del Consiglio di Stato, Sez. V, che, pronunciandosi su un ricorso avverso una clausola di un disciplinare di gara che escludente, ne sancisce la nullità. Sostiene il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa che “è’ da ritenere nulla la clausola del disciplinare che disponga l’esclusione dell’operatore economico in ragione della discrepanza tra l’importo totale del computo metrico estimativo del progetto e il prezzo a corpo derivante dall’applicazione del ribasso percentuale offerto all’importo a base di gara; tale clausola infatti si pone in contrasto con la previsione dell’art. 118 d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 che, al secondo comma, prevede che: “<em>Ai sensi dell’art. 53, comma 4, del codice, per le prestazioni a corpo, il prezzo convenuto non può essere modificato sulla base della verifica della quantità o della qualità della prestazione, per cui il computo metrico estimativo, posto a base di gara ai soli fini di agevolare lo studio dell’intervento, non ha valore negoziale</em>”. L’art. 118, comma 2, è applicabile a tutti i casi di contratto “a corpo”, giusto il rinvio in apertura all’art. 53, comma 4, del codice dei contratti pubblici, il quale a sua volta ha quale ambito di applicazione proprio i contratti di appalto di lavori (anche se integrati) “stipulati a corpo”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce l’ordinanza n. 5077 della Corte di Cassazione, sez. V civile, che si pronuncia su un ricorso avverso una sentenza della Commissione Tributaria Regionale, proposto dall’Agenzia delle Entrate, con cui era stato annullato un avviso di accertamento per omessa prova del perfezionamento della notifica tramite ufficio postale. Precisamente, l'Ufficio della Riscossione lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 8 della I. n. 890 del 1982, e dell'art.2700 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., deducendo che ai fini della regolarità della notifica a mezzo posta è sufficiente che l'Ufficiale postale dia atto di aver effettuato i prescritti adempimenti, e che sia fornita la prova della spedizione della raccomandata di avviso dell'avvenuto deposito (cd. C.A.D.), senza che sia necessaria anche l'esibizione in giudizio del secondo avviso di ricevimento relativo a tale comunicazione. Secondo la Cassazione, il motivo di ricorso non merita accoglimento. Nel caso di cui si controverte è incontestato che gli avvisi di accertamento, che costituiscono gli atti presupposti della cartella esattoriale impugnata, siano stati notificati a mezzo del servizio postale ai sensi della I. n. 890 del 1992. In base all'art. 14 di tale legge "La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l'impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonché, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall'Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui agli articoli 26, 45 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nonché le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta." È altresì pacifico tra le parti che per tutti e tre gli avvisi, il piego che li conteneva non sia stato consegnato per temporanea assenza del destinatario, o di altre persone abilitate a riceverlo, e quindi depositato presso l'ufficio postale, ove non risulta ritirato. Trova pertanto applicazione l'art. 8 della I. n. 890 del 1982, nel testo modificato dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità di cui alla sentenza della Corte cost. 22 settembre 1998, n. 346, che in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario (o per mancanza, inidoneità od assenza delle persone sopra menzionate), prevede l'obbligo per l'ufficiale postale di dare notizia, al destinatario medesimo, del compimento delle relative formalità e del deposito del piego, con raccomandata con avviso di ricevimento. In quanto modalità espressamente prevista dalla legge, è indubbio che l'omesso invio dell'avviso di deposito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, sia in caso di mancato invio sia in caso di invio con affrancatura o raccomandata semplice, comporti la nullità della notifica. Questione controversa è se, in caso di contestazione in giudizio della legittimità della notifica effettuata a mezzo posta, ai sensi dell'art. 8 della I. n. 890 del 1982, ai fini della prova della sua regolarità sia sufficiente la prova dell'avvenuta spedizione della seconda raccomandata di cui al comma 2, che contiene la comunicazione di avvenuto deposito, generalmente desumibile dall'avviso di ricevimento dell'atto ove viene riportato il numero della raccomandata, o sia necessaria la produzione in giudizio anche di tale secondo avviso di ricevimento per verificarne l'effettività e regolarità dell'invio. Giova a questo punto ricostruire quale sia il procedimento previsto per la notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità relativa, e quale la funzione della comunicazione di avvenuto deposito da esso previsto. Va precisato che tali regole valgono per la notifica di tutti gli atti in materia civile, amministrativa e penale per i quali, ai sensi dell'art. 1 della I. n. 890 del 1992, l'ufficiale giudiziario scelga di avvalersi del servizio postale (possibilità che gli viene preclusa solo se l'autorità giudiziaria disponga o la parte richieda che la notificazione sia eseguita personalmente), e per la notifica degli atti in materia civile ed amministrativa da eseguirsi fuori del comune ove ha sede l'ufficio per i quali l'ufficiale giudiziario è obbligato ad avvalersi del servizio eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita di persona. Ebbene, in caso di notifica a mezzo del servizio postale, nell'ipotesi di irreperibilità relativa è prevista la compilazione di due avvisi di ricevimento: il primo, di colore verde, conforme al modello di cui all'art. 2 della I. n. 890 del 1992, relativo alla raccomandata che contiene l'atto, viene presentato dall'ufficiale giudiziario all'ufficio postale, ai sensi del comma 3 dell'art. 3 della stessa legge, unitamente alla busta chiusa contenente l'atto da notificare di cui al comma 2, e poi completato dall'addetto al recapito in base agli esiti della notifica; il secondo, relativo alla comunicazione di avvenuto deposito (C.A.D.), viene redatto, ai sensi del comma 4 dell'art. 8 cit., a cura dell'agente postale all'atto dell'invio della raccomandata spedita quando non sia stato possibile notificare l'atto giudiziario per assenza del destinatario o di altre persone idonee al ritiro. La comunicazione di avvenuto deposito ha un ruolo centrale per tale modalità di notifica in quanto ha la finalità di dare notizia al destinatario del tentativo di notifica del piego e del suo deposito a cura dell'operatore postale presso il punto di deposito più vicino. Ai sensi del comma 4 dell'art. 8 va inviato in busta chiusa, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d'ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'ufficio o dell'azienda; deve contenere l'indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell'ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell'indirizzo del punto di deposito, nonché l'espresso invito al destinatario a provvedere al ritiro del piego entro il termine massimo di sei mesi, con l'avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita per "compiuta giacenza" trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui sopra e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l'atto sarà restituito al mittente. Come è noto la Corte costituzionale, con sentenza n. 346 del 23 settembre 1998, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 8 della I. n. 890 del 1982 nella parte in cui non prevedeva che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego fosse data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. La decisione si fonda sul rilievo che l'omessa previsione di tale formalità aggiuntiva, quindi quella della seconda raccomandata con avviso di ricevimento, risultava priva di ragionevolezza, lesiva della possibilità di conoscenza dell'atto da parte del notificatario e del suo diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione. A tale conclusione il Giudice delle leggi giunge dopo aver rilevato che per l'ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall'ufficiale giudiziario, l'art. 140 c.p.c. impone a quest'ultimo di dare comunicazione al destinatario, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del compimento delle formalità indicate (deposito dell'atto nella casa comunale e affissione dell'avviso di deposito alla porta dell'abitazione, dell'azienda o dell'ufficio). E ciò allo scopo di garantire che il notificatario abbia una effettiva possibilità di conoscenza dell'avvenuto deposito dell'atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l'affissione del relativo avviso alla porta d'ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione, dell'azienda o dell'ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito. In conclusione, rilevato che la comunicazione di avvenuto deposito, ai sensi del comma 4 dell'art. 8 della I. n. 890 del 1992, deve essere inviata con lettera raccomandata con avviso di ricevimento; che tale adempimento è stato ritenuto indispensabile sia dalla Corte costituzionale che dal legislatore al fine di assicurare la effettiva conoscibilità da parte del destinatario dell'avvenuto deposito dell'atto presso l'ufficio postale; che secondo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale si impone una lettura omogenea del sistema di notificazione a mezzo ufficiale giudiziario diretta o a mezzo del servizio postale; va ritenuto che, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio di cui all'art. 8 della I. n. 890 del 1992, sia necessario che la parte fornisca la prova dell'effettivo e regolare invio dell'avviso di ricevimento relativo alla raccomandata di inoltro della comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), verifica che presuppone l'esibizione in giudizio del relativo avviso, fermo restando che, risultando tale seconda raccomandata regolata dalle norme relative al regime postale ordinario, la regolarità delle modalità di invio e di ricezione dello stesso andranno verificate secondo le norme del regolamento postale applicabile.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 marzo esce la sentenza del Tar Toscana, Sez. II, n. 359, che dichiara nulla la clausola del bando di gara secondo cui “i concorrenti che ricorrono all’istituto dell’avvalimento devono, pena esclusione, essere in possesso di propria attestazione SOA ….”, essendo tesa a porre un requisito a pena di esclusione ulteriore rispetto a quelli previsti dalla legge, in violazione dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, secondo cui “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle” . Inoltre, nelle gare di appalto l’identificazione del settore di operatività dell’impresa non può essere condotta sulla base del codice ATECO, dato di carattere statistico attribuito all’impresa in sede di iscrizione alla Camera di Commercio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili, n. 13246, che si pronuncia in tema di responsabilità civile aquiliana, precisamente sul nesso di occasionalità necessaria del Ministero della Giustizia per i danni cagionati in caso di peculato commesso che abbia violato i propri doveri di ufficio. Il caso concreto, riguardava l’ipotesi di illecita sottrazione di somme depositate presso un ufficio giudiziario, alle quali avrebbe avuto diritto quale parte di un giudizio di divisione, un privato che convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Catania, il cancelliere ed il Ministero della Giustizia, chiedendone la condanna al risarcimento del danno a lui derivato dal comportamento illecito dello Scuderi, il quale si era appropriato di quelle somme, poi venendo condannato per peculato. Il Ministero convenuto si costituì e chiese il rigetto della domanda; il Tribunale condannò il Ministero convenuto al pagamento della somma di € 46.896,32, ritenuti sussistenti i presupposti dell'estensione della responsabilità all'Amministrazione, a norma dell'art. 28 della Costituzione. L'appello del Ministero fu in parte accolto dalla corte territoriale, che mandò assolto l'appellante da ogni pretesa risarcitoria per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all'Amministrazione e addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, idoneo ad escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Catania, il privato propose ricorso basato su un unico motivo. Fu disposta la trattazione del ricorso in pubblica udienza (con ordinanza della sesta sezione di questa Corte, 27/05/2017, n. 12861) e poi la rimessione alle Sezioni Unite (ordinanza 05/11/2018, n. 28079) della questione, ritenuta oggetto di giurisprudenza non univoca, sulla «sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica amministrazione per i fatti illeciti dei propri dipendenti, qualora il dipendente, profittando delle sue precipue funzioni, commetta un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale». La Corte, per la sua decisione, richiama gli orientamenti consolidati, ovvero che, ad esempio, la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11 agosto 2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza di uno degli «elementi essenziali» - ex art. 21 septies, I. n. 241 del 1990 - individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa). Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di poteri pubblicistici. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona - ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130 - e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché: - si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché - si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di diritto: «lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo».</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza n. 1421 del Tar Sicilia – Palermo, sez. II, che si pronuncia sulla natura e funzione del campione nelle procedure che richiedono il deposito di tale prodotto. Nelle gare di appalto, il campione non costituisce un elemento costitutivo, ma semplicemente dimostrativo dell’offerta tecnica, che consente all’Amministrazione di considerare e vagliare l’idoneità tecnica del prodotto offerto; non è sua parte integrante, per quanto sia oggetto di un’apposita valutazione da parte della commissione giudicatrice, perché la sua funzione è quella, chiaramente stabilita dall’All. XVII, parte II,d.lgs. n. 50/2016, di “<em>provare le capacità tecniche degli operatori economici di cui all’articolo 83”, attraverso la produzione di “campioni, descrizioni o fotografie la cui autenticità deve poter essere certificata a richiesta dall’amministrazione aggiudicatrice</em>”. È evidente, pertanto, che l’eventuale adempimento alla richiesta di produzione di un campione non costituisce, ai sensi della <em>lex specialis</em>, un adempimento essenziale ai fini dell’ammissibilità dell’offerta.</p> <p style="text-align: justify;">Tanto premesso, viene ritenuta nulla la clausola inserita nel capitolato di gara secondo cui “<em>le aziende partecipanti dovranno presentare, a pena d’esclusione, campionatura pari a numero cinque unità per voce</em>”; infatti, non costituendo il campione un elemento essenziale dell’offerta e attenendo la clausola in questione ad un requisito di ammissione non previsto dalla legge o da altri atti normativi, la previsione incorre nel divieto posto dall’art. 83, co. 8 d.lgs. n. 50 del 2016: si tratta di clausola nulla, la cui nullità è rilevabile d’ufficio <em>ex</em> art. 31, comma 1, c.p.a.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa accomuna e cosa distanzia la nullità amministrativa e quella civilistica?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="21"> <li>in entrambi i casi è possibile che la nullità abbia una <strong>valenza di tipo strutturale</strong>, essendo legata al <strong>difetto di requisiti del contratto</strong> (art.1325 c.c.), da un lato, e di <strong>elementi essenziali</strong> <strong>del provvedimento amministrativo</strong> (art.21.septies della legge 241.90), dall’altro;</li> <li>nel diritto civile il <strong>rimedio generale</strong> per il contratto che contrasti con norme imperative è <strong>la nullità</strong>, configurandosi la annullabilità come <strong>tipica</strong>; nel diritto amministrativo, all’opposto, il <strong>rimedio generale è invece la annullabilità</strong>, configurandosi la <strong>nullità</strong> come <strong>tipica</strong>, anche in considerazione della necessità di garantire <strong>certezza e stabilità all’azione amministrativa</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Da dove (e perché) nasce la figura della c.d. carenza di potere?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la conia la <strong>giurisprudenza della Corte di Cassazione</strong>;</li> <li>ha lo scopo di garantire una <strong>tutela più estesa</strong> ai <strong>soggetti privati</strong> dinanzi a <strong>macroscopiche invalidità</strong> dell’atto amministrativo rispetto al quadro legale di riferimento;</li> <li>una esigenza connessa alla <strong>d. imperatività del provvedimento amministrativo</strong>, ovvero alla relativa <strong>capacità di incidere unilateralmente</strong> nella sfera giuridica del privato destinatario, quand’anche <strong>macroscopicamente illegittimo</strong>, <strong>degradandone</strong> il diritto soggettivo ad interesse legittimo;</li> <li>ne discende la necessità – ordinariamente – di <strong>impugnare dapprima nei termini il provvedimento amministrativo</strong> dinanzi al GA; solo <strong>una volta ottenuta tutela dal GA</strong> - con caducazione dell’atto e riespansione dell’interesse legittimo a diritto soggettivo (leso dalla PA) - è possibile invocare <strong>tutela risarcitoria, reintegratoria o ripristinatoria dinanzi al GO</strong>; in queste ipotesi <strong>il potere pubblico esiste</strong>, ma è stato <strong>mal esercitato</strong> (c.d. <strong>cattivo uso del potere</strong>), senza tuttavia che tale mal-esercizio abbia implicato <strong>perdita di imperatività</strong> in capo al provvedimento, che è comunque <strong>capace di degradare</strong> la posizione del privato da diritto soggettivo (originario, ante esercizio del potere) ad <strong>interesse legittimo</strong> (a valle, post esercizio, quand’anche illegittimo, del potere medesimo);</li> <li>diversi sono i casi, coniati appunto dalla giurisprudenza della Cassazione, della <strong>carenza di potere</strong>: in simili fattispecie, il <strong>difetto del potere</strong> in capo alla PA di adottare il provvedimento apre al privato, <strong>in via immediata e diretta</strong>, la strada della <strong>tutela del proprio diritto soggettivo</strong> (mai degradato, stante proprio la carenza di potere) dinanzi al GO: il provvedimento <strong>non è previsto dalla legge nell’interesse pubblico</strong>, <strong>difetta il potere (funzionalizzato)</strong> di relativa adozione, esso <strong>non è imperativo</strong>, <strong>non degrada</strong> il diritto soggettivo e consente di <strong>adire in via immediata e diretta il GO</strong> senza prima dover passare dall’annullamento ad opera del GA.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale tipo di contrasto giurisprudenziale ha innescato la “carenza di potere” tra il GA e il GO?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la c.d. <strong>carenza di potere in astratto</strong>, sostanzialmente riconducibile al <strong>difetto di attribuzione in capo alla PA adottante</strong> (non esiste <strong>alcuna norma</strong> che attribuisca alla PA il <strong>potere di adottare</strong> quel provvedimento), non ha mai creato problemi in termini di <strong>difetto</strong>, in capo all’atto, del requisito della <strong>imperatività</strong>, con conseguente <strong>giurisdizione del GO</strong> riconosciuta tanto dalla giurisprudenza civile (Cassazione) che da quella amministrativa (Consiglio di Stato, e poi anche Tar);</li> <li>la c.d. <strong>carenza di potere in concreto</strong> ha invece innescato un aspro scontro tra <strong>giurisprudenza civile e giurisprudenza amministrativa</strong>: si tratta delle ipotesi in cui <strong>esiste una norma di legge</strong> che attribuisce il potere, ma questo viene esercitato dalla PA senza il rispetto di <strong>quei limiti</strong> e di <strong>quelle condizioni</strong> (anche temporali) ad essa fissate proprio dalla legge. In queste fattispecie, mentre per il GO si è trattato comunque di <strong>carenza di potere</strong>, con ogni precipitato pertinente (difetto di <strong>imperatività</strong> del provvedimento; difetto di <strong>degradazione</strong> da diritto soggettivo ad interesse legittimo; giurisdizione del GO; possibilità di chiedere <strong>il risarcimento anche dopo che siano scaduti i termini</strong> per impugnare l’atto), per il GA si è trattato all’opposto di <strong>cattivo esercizio del potere</strong>, con le differenti conseguenze che si riconnettono a tale diversa opzione ermeneutica (<strong>imperatività</strong> del provvedimento; <strong>degradazione</strong> da diritto soggettivo ad interesse legittimo; giurisdizione <strong>del GA</strong>; possibilità di chiedere il risarcimento <strong>solo dopo che si sia impugnato l’atto nei termini</strong> e si sia ottenuta sentenza demolitoria passata in giudicato). Solo di recente, con <strong>l’invalere <em>ex lege</em></strong> della giurisdizione amministrativa anche in presenza di un <strong>potere solo mediato o indiretto</strong>, GO e GA si sono orientati entrambi – in questi casi - per la <strong>giurisdizione del GA</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In caso di atto amministrativo nullo, quale rito si applica?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="21"> <li>si tratta di <strong>nullità che si fanno valere innanzi al GA</strong> ai sensi dell’art.21.septies della legge 241.90 (esempio: <strong>nullità strutturali</strong> del provvedimento amministrativo): si applica l’<strong>31, comma 4</strong>, del codice del processo amministrativo; nella particolare ipotesi di <strong>atti nulli per violazione o elusione del giudicato</strong>, si applica l’<strong>art.114, comma 4, lettera b</strong> ed il GA ha <strong>giurisdizione esclusiva</strong> (deve intendersi implicitamente, <strong>di ottemperanza</strong>) ex <strong>art.133, comma 1, lettera a.5</strong>;</li> <li>si tratta di nullità per <strong>carenza di potere in astratto</strong>, che si fa valere innanzi <strong>al GO</strong>: secondo parte della dottrina, si applicano le norme del <strong>codice civile</strong> sulla <strong>nullità dei contratti</strong> (articoli 1421 e 1422 c.c.), e <strong>non l’art.31, comma 4</strong>, del codice del processo amministrativo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dal punto di vista strutturale, cosa distingue la nullità civilistica da quella amministrativa?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la <strong>nullità del contratto</strong>, <strong>atipica</strong> e (potenzialmente) <strong>virtuale</strong>, è connessa all’<strong>autonomia negoziale</strong>; il codice civile parla di <strong>requisiti (strutturali) del contratto</strong>: se difetta il <strong>soggetto</strong>, il contratto è nullo; se difetta la <strong>volontà</strong>, il contratto è nullo; se la volontà si è formata <strong>in modo illecito</strong>, ciò ridonda in <strong>illiceità della causa</strong> e il contratto è nullo; se difetta <strong>la forma</strong> prescritta dalla legge a pena di nullità, il contratto è nullo; se difetta <strong>la causa</strong>, ovvero essa <strong>è impossibile o illecita</strong>, il contratto è nullo; se difetta <strong>l’oggetto</strong>, ovvero esso è indeterminato o indeterminabile (art.1346 c.c.), il contratto è nullo;</li> <li>la <strong>nullità del provvedimento</strong>, <strong>tipica e tassativa</strong>, è connessa al <strong>potere autoritativo</strong>; l’art.21 septies parla di <strong>elementi essenziali</strong> (<strong>strutturali</strong>) del provvedimento: se difetta il <strong>soggetto titolare del potere autoritativo</strong>, il provvedimento – riconducibile ad un usurpatore di pubbliche funzioni, e che pare più apprezzarsi come ipotesi di <strong>difetto assoluto di attribuzione</strong> piuttosto che come precipitato di un vizio strutturale puro - è stato sempre ritenuto <strong>nullo</strong>, laddove l’esercizio dei poteri abbia ingenerato un <strong>affidamento</strong> nei destinatari dell’atto, ed <strong>inesistente</strong> laddove tale affidamento <strong>non possa dirsi ingenerato</strong>; se difetta (magari perché deceduto), o comunque non è identificabile, il <strong>soggetto destinatario</strong> del provvedimento, esso va assunto <strong>strutturalmente nullo</strong>; se difetta la <strong>volontà</strong> (manca il dispositivo), il provvedimento è stato sempre assunto <strong>inesistente</strong>, e continua ad essere assunto tale (per taluni, <strong>nullo</strong>) anche dopo l’art.21.septies; se la volontà <strong>si è formata in modo illecito</strong> (collusione tra pubblico ufficiale e privato), il provvedimento è stato invece sempre considerato <strong>illegittimo</strong> ed <strong>annullabile per eccesso di potere</strong>, non nullo, e continua ad assumersi tale anche dopo l’avvento dell’art.21.septies; se difetta <strong>la forma</strong> prescritta dalla legge a pena di nullità, il provvedimento <strong>è nullo</strong>, mentre se la legge nulla dice, il provvedimento è nullo solo laddove <strong>non sia possibile risalire alla volontà concreta</strong> dell’Amministrazione o alla stessa Amministrazione come soggetto adottante; se difetta <strong>la causa</strong>, da riconnettersi al <strong>fine pubblico perseguito</strong>, occorre distinguere il caso in cui <strong>manchi la norma attributiva del potere</strong> in vista dell’interesse pubblico da perseguire, laddove si ha <strong>nullità per carenza di potere</strong> (l’interesse pubblico esiste, ma quella PA non ha il potere di perseguirlo) dall’ipotesi – che lambisce tuttavia la tematica del soggetto agente - in cui <strong>esiste la norma attributiva del potere</strong>, ma chi agisce lo fa “<strong><em>docendi causa</em></strong>” o “<strong><em>ioci causa</em></strong>”, e dunque non per perseguire quel determinato interesse pubblico (provvedimento <strong>nullo</strong> o addirittura <strong>inesistente</strong>); laddove si utilizzi il potere attribuito <strong>per un fine (interesse pubblico) diverso</strong> rispetto a quello per il quale detto potere è stato attribuito, si ha <strong>sviamento di potere</strong> e, dunque, provvedimento <strong>illegittimo</strong> (annullabile e <strong>non nullo</strong>), vizio predicabile anche nel caso civilmente definibile di <strong>causa illecita</strong> (disparità di trattamento) o <strong>impossibile</strong> (si utilizza il potere attribuito per perseguire un interesse pubblico impossibile da perseguire); se difetta (o comunque non è identificabile o determinabile) <strong>l’oggetto</strong> sul quale il provvedimento <strong>incide</strong>, esso viene assunto <strong>strutturalmente nullo</strong>, come nelle ipotesi dell’Amministrazione che espropria un terreno già di sua proprietà o un fondo inesistente; se l’oggetto è indeterminato o indeterminabile (art.1346 c.c., ritenuto applicabile anche in sede amministrativa) il provvedimento <strong>è nullo</strong>; se tuttavia non si tratta di inesistenza o indeterminatezza dell’oggetto, ma di <strong>travisamento di fatti o presupposti</strong>, ovvero di <strong>difetto di istruttoria</strong>, il provvedimento è <strong>annullabile</strong> (e non nullo).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’incompetenza assoluta è ipotesi di difetto assoluto di attribuzione ex art.21.septies della legge 241.90?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="21"> <li><strong>si</strong>: si è al cospetto di una fattispecie in cui <strong>chi adotta il provvedimento</strong> è <strong>organo appartenente ad un plesso della PA diverso</strong> da quello che ne è attributario del pertinente potere (ad esempio, è la Regione piuttosto che un Ministero), con conseguente <strong>nullità</strong> del provvedimento amministrativo; del resto, l’ipotesi di <strong>carenza assoluta di potere in astratto</strong> appare <strong>di mera scuola</strong>, sicché a ragionare diversamente l’area operativa del difetto assoluto di attribuzione di cui all’art.21.septies sarebbe <strong>pressoché nulla</strong> (tesi <strong>maggioritaria</strong>);</li> <li><strong>no</strong>: anche in questi casi si è al cospetto di una <strong>mera carenza di potere in concreto</strong>, ormai ricondotta nell’alveo della <strong>illegittimità-annullabilità del provvedimento amministrativo</strong> (tesi del tutto <strong>minoritaria</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>La carenza di potere in astratto è sempre ipotesi di difetto assoluto di attribuzione ex art.21.septies della legge 241.90?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="21"> <li><strong>si</strong>: quando si ha <strong>carenza di potere in astratto</strong>, il legislatore <strong>non ha attribuito ad alcuna PA il potere</strong> di adottare il provvedimento, e in questo caso esso è da assumersi <strong>nullo</strong> ai sensi dell’art.21.septies (dottrina <strong>maggioritaria</strong>);</li> <li><strong>no</strong>: la carenza di potere in astratto si configura quando <strong>nessuna PA ha il potere di adottare il provvedimento</strong>, e dunque quest’ultimo, ove adottato, <strong>non può dirsi autoritativo</strong> e non può neppure qualificarsi come <strong>provvedimento amministrativo</strong>, dovendo assumersi <strong>inesistente</strong> (c.d. <strong>vie di fatto</strong>); del resto, l’espressione “<strong><em>difetto assoluto di attribuzione</em></strong>” evoca ipotesi non già di <strong>inesistenza</strong> <strong>del potere (</strong>per l’appunto,<strong> carenza di potere in astratto)</strong>, quanto piuttosto di <strong>violazione delle regole che disciplinano la distribuzione del potere</strong> tra i vari plessi della Pubblica Amministrazione, e dunque si può invocare l’art.21.septies solo nei casi di <strong>d. incompetenza assoluta</strong> (dottrina <strong>minoritaria</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Una volta maturato un silenzio assenso, quale vizio affetta l’eventuale provvedimento tardivo esplicito di rigetto dell’istanza del privato?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>è un <strong>provvedimento nullo</strong>, che dunque <strong>non occorre impugnare nei termini di decadenza</strong> tradizionali, ma nell’<strong>ordinario termine decennale di prescrizione</strong> o, secondo altra voce, <strong>in ogni tempo</strong> a cagione della relativa imprescrittibilità (tesi minoritaria);</li> <li>è un <strong>provvedimento annullabile</strong>, che dunque va <strong>impugnato nei termini ordinari di impugnazione</strong>, pena il relativo consolidarsi con conseguente inoppugnabilità (tesi <strong>maggioritaria</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa succede all’atto amministrativo adottato sulla base di una legge, se questa viene (retroattivamente) dichiarata incostituzionale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’atto è da considerarsi <strong>meramente annullabile</strong>, con conseguente <strong>necessità di gravarlo nei termini davanti al GA</strong> (qualora questi non provveda ad un <strong>rilievo <em>ex officio</em></strong> in veste di <strong>giudice <em>a quo</em></strong>, se vi è stato <strong>motivo di ricorso specifico</strong> avente ad oggetto la norma denunciata, ovvero non provveda all’annullamento <strong>direttamente la PA adottante in via di autotutela</strong>); diversamente esso <strong>resta in vita e produce effetti</strong>; si tratta di un atto che non può essere assunto <strong>nullo per incompetenza assoluta</strong>, essendo esso <strong>pienamente in vigore</strong> nel periodo precedente la declaratoria di incostituzionalità della legge che lo fonda, ed alla quale <strong>non è legato da un nesso di consequenzialità</strong> analogo a quello che avvince <strong>l’atto presupposto</strong> e <strong>quello presupponente</strong>; a ragionare diversamente, verrebbe vulnerato anche il <strong>principio di affidabilità, di stabilità e di certezza</strong> dell’azione amministrativa, in quanto l’atto sarebbe <strong>soggetto <em>sine die</em></strong> ad una <strong>possibile declaratoria di nullità</strong> anche qualora, intervenuta sentenza di incostituzionalità della norma che lo fonda, esso <strong>non sia stato impugnato nei termini</strong> (tesi <strong>maggioritaria</strong>, abbracciata da chi ritiene la norma incostituzionale affetta da una <strong>nullità mista</strong>, <strong>originaria <em>quoad causam</em></strong> e <strong>sopravvenuta <em>quoad effectum</em></strong>, onde <strong>l’esistenza del potere</strong> al tempo in cui esso viene esercitato con l’adozione dell’atto non è compromessa dalla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità);</li> <li>l’atto – ove la norma dichiarata incostituzionale sia <strong>attributiva del potere alla PA</strong>, non limitandosi a <strong>disciplinarne l’esercizio</strong> – è <strong>nullo</strong>, e come tale <strong>può essere attaccato in ogni tempo</strong> (o nell’ordinario termine di <strong>prescrizione</strong>) <strong>dinanzi al GO con azione di nullità</strong>, stante la <strong>palese carenza di potere</strong> che lo affetta (e non trattandosi di fattispecie di <strong>nullità</strong> legata a <strong>violazione o elusione del giudicato</strong>, per la quale sola è prevista la giurisdizione esclusiva <strong>del GA</strong>); solo laddove la norma dichiarata incostituzionale non sia attributiva del potere, <strong>disciplinandone piuttosto il solo esercizio</strong>, l’atto amministrativo a valle può dirsi <strong>annullabile</strong> e non nullo (tesi <strong>minoritaria</strong>, abbracciata da chi ritiene la norma dichiarata incostituzionale <strong>nulla ed inefficacie <em>ab origine</em></strong>, e chi la ritiene <strong>nulla <em>ab origine</em> ma efficace</strong> fino a quando la Corte costituzionale non la dichiari inefficace, ma con <strong>sentenza <em>ex tunc</em></strong>, che dunque rende <strong>inesistente il potere</strong> che ha fondato l’atto adottato sulla base della medesima).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa succede all’atto amministrativo adottato sulla base di un decreto legge, se questo viene (retroattivamente) a cadere perché non convertito in legge?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’atto deve assumersi <strong>affetto da invalidità originaria</strong> e, come tale, <strong>caducato</strong> ovvero, in sostanza, <strong>nullo</strong>, con possibilità di <strong>far valere la nullità senza limiti di tempo</strong>, e ciò in quanto i decreti legge non convertiti <strong>perdono efficacia in via retroattiva</strong> (art.77, comma 3, Cost.), onde se viene <strong>caducata retroattivamente la legge</strong> che lo fonda, <strong><em>a fortiori</em></strong> deve ritenersi <strong>caducato retroattivamente l’atto amministrativo a valle</strong>, in quanto esso viene adottato <strong>sulla base di un norma che in realtà non esiste</strong> (tesi dottrinale minoritaria);</li> <li>l’atto deve assumersi <strong>non già caducato</strong> (effetto <strong>caducante</strong>), quanto piuttosto <strong>meramente viziato</strong> (effetto <strong>viziante</strong>), non perdendo la relativa <strong>natura imperativa</strong> e dovendo pertanto <strong>essere impugnato nei termini per sopravvenuta illegittimità</strong>, divenendo in caso opposto <strong>inoppugnabile</strong>; se il ricorrente ha <strong>già impugnato il provvedimento per altri motivi</strong>, può impugnarlo anche (se del caso, con <strong>motivi aggiunti</strong>) perché fondato su un <strong>decreto legge poi non convertito</strong>; se il ricorrente <strong>non ha impugnato</strong> il provvedimento e siano <strong>scaduti i termini di impugnazione</strong> quando il decreto legge che lo fonda decade, deve essere reso beneficiario della <strong>remissione in termini</strong> (tesi giurisprudenziale e dottrinale <strong>maggioritaria</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>A chi spetta la giurisdizione in caso di atto amministrativo nullo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>nullità</strong> per <strong>violazione o elusione del giudicato</strong>: la giurisdizione spetta <strong>al GA in sede di giurisdizione esclusiva</strong> per esplicita disposizione di legge (art.133, comma 1, lett. a.5 del c.p.a.: salvo poi dover verificare i rapporti con il <strong>giudizio di ottemperanza</strong>, che in ogni caso è <strong>una delle ipotesi di giurisdizione esclusiva</strong>, peraltro estesa al merito);</li> <li>altri casi di nullità previsti dall’art.21.septies: b.1) la giurisdizione <strong>è sempre del GO</strong>, in quanto l’atto, proprio perché <strong>nullo</strong>, non produce effetti, <strong>non ha carattere autoritativo</strong> e <strong>non è idoneo ad incidere</strong> sulla situazione soggettiva del privato, il quale vanta sempre una posizione di <strong>diritto soggettivo</strong> che gli consente di agire dinanzi <strong>al GO</strong> (non vi è potere pubblico) per la declaratoria di nullità (giurisprudenza minoritaria); b.2) poiché la <strong>Costituzione</strong> radica la <strong>giurisdizione</strong> non sulla base della <strong>gravità del vizio che affetta l’atto amministrativo</strong>, ma sulla base della <strong>natura giuridica della posizione azionata</strong> (diritto soggettivo o interesse legittimo), è a questa che occorre guardare per stabilire a chi spetti la giurisdizione, onde se il privato vanta <strong>un interesse oppositivo</strong>, la nullità dell’atto lascia inalterata la <strong>originaria posizione di diritto soggettivo</strong> (che <strong>non “<em>degrada</em>”</strong>) e la giurisdizione <strong>è del GO</strong>, mentre nel caso in cui <strong><em>ab origine</em> la posizione sia di interesse pretensivo</strong> (ad un <strong>provvedimento ampliativo</strong> della sfera giuridica), la nullità e dunque la <strong>improduttività di effetti</strong> dell’atto (ampliativo) <strong>non può mutare la natura della posizione vantata</strong> dal privato, che resta di <strong>interesse legittimo</strong>, con conseguente <strong>giurisdizione del GA</strong> (dottrina e giurisprudenza maggioritaria); b.3) tutte le volte che <strong>una norma</strong>, in <strong>astratto</strong>, <strong>attribuisce il potere</strong> all’Amministrazione <strong>l’atto è nullo</strong> (mentre laddove <strong>non vi sia</strong> tale norma attributiva del potere, l’atto <strong>è addirittura inesistente</strong>: difetto assoluto di attribuzione), onde – laddove sia <strong>configurabile in astratto un potere autoritativo</strong> normativamente attribuito, e prescindendo comunque dalla verifica se <strong>il relativo, concreto esercizio</strong> ha prodotto <strong>effetti c.d. “<em>degradatori</em>”</strong> – ci si trova dinanzi ad ipotesi di <strong>giurisdizione del GA</strong>, come ha insegnato la <strong>Corte costituzionale</strong> con le sentenze 204.04 e 191.06; in sostanza, <strong>l’atto autoritativo</strong> (<em>ex lege</em>) <strong>nullo</strong> resta sempre <strong>atto autoritativo</strong>, degradi o non degradi il diritto soggettivo del privato, onde <strong>la giurisdizione resta del GA</strong>, potendosi predicare <strong>la giurisdizione del GO solo</strong> (difetto assoluto di attribuzione) al cospetto di un <strong>atto non riconoscibile come autoritativo</strong>, e dunque <strong>inesistente</strong> (dottrina minoritaria); 4) è fuorviante e anacronistico discorrere di “<strong><em>degradazione</em></strong>” ed “<strong><em>affievolimento</em></strong>” della <strong>situazione soggettiva del privato</strong>, peraltro distinguendo <strong>interessi oppositivi</strong> (dai quali risorgerebbe il diritto soggettivo) e <strong>pretensivi</strong>: poiché, come ha insegnato <strong>la Corte costituzionale con le sentenze 204.04 e 191.06</strong>, tutte le volte che <strong>c’è un potere dell’Amministrazione</strong> c’è <strong>un interesse legittimo</strong>, tanto nell’ipotesi in cui l’atto sia <strong>annullabile</strong> quanto in quella in cui esso si riveli <strong>nullo</strong>, la giurisdizione <strong>spetta in ogni caso al GA</strong>, da intendersi quale <strong>giudice della funzione amministrativa</strong> (dottrina minoritaria, che invoca anche a supporto l’ipotesi in cui l’atto sia <strong>illegittimo</strong> <strong>e parzialmente nullo</strong>: non accettandosene la tesi, il privato sarebbe costretto a <strong>scindere l’impugnativa dell’atto</strong>, davanti al GA per l’ipotesi di annullabilità, e davanti al GO per quelle di nullità).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia e come viene risolto, dal punto di vista processuale, il problema della declaratoria di nullità (testuale) degli atti amministrativi prima dell’art.21.septies?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>le <strong>azioni di mero accertamento</strong> nel processo amministrativo <strong>non sono ammissibili</strong>, ad eccezione dei <strong>casi espressamente previsti dalla legge</strong> (giudizio sul <strong>silenzio</strong>; giudizio in materia di diritto di <strong>accesso agli atti</strong>);</li> <li>il GA può difatti <strong>solo annullare</strong> il provvedimento amministrativo, non già <strong>meramente accertarne l’illegittimità</strong>;</li> <li>è dunque <strong>inammissibile</strong> una <strong>azione intesa a far dichiarare la nullità</strong> del provvedimento amministrativo, anche se tale nullità <strong>è prevista dalle legge</strong> (come nel caso degli atti nulli per <strong>scadenza del regime di <em>prorogatio</em></strong> dell’organo che li ha adottati);</li> <li>del resto, <strong>non esiste la nullità come categoria generale</strong>, e l’atto è nullo solo laddove <strong>testualmente additato dalla legge</strong> come tale, mentre nelle ipotesi di <strong>carenza di potere</strong> incidente su interessi oppositivi non si pongono problemi per essere la controversia <strong>devoluta al GO</strong> a cagione del riespandersi del diritto soggettivo sottostante;</li> <li>quando l’atto è viziato da <strong>nullità testuale</strong>, ovvero si tratti di (rara) <strong>carenza di potere che incide su interessi pretensivi</strong> (e non oppositivi: in questo caso la giurisdizione come visto è del GO), il privato <strong>impugna il provvedimento</strong> come farebbe se l’atto fosse solo annullabile, dovendo la nullità essere considerata <strong>una ipotesi più grave di illegittimità</strong> del provvedimento stesso;</li> <li>la base del ricorso orientato all’annullamento dell’atto nullo è <strong>l’interesse ad agire</strong> per <strong>la caducazione</strong> del medesimo, con conseguente <strong>rimozione dei relativi effetti</strong>;</li> <li>ma l’atto nullo è <strong>originariamente improduttivo di effetti</strong>: il GA dichiara il ricorso del privato (volto all’annullamento dell’atto) <strong>inammissibile per difetto di interesse</strong>, con una <strong>pronuncia in rito</strong> che <strong>accerta l’inutilità</strong> per il privato di una <strong>caducazione giurisdizionale</strong> che a nulla serve dinanzi ad un atto (già) nullo;</li> <li>nella <strong>sentenza di inammissibilità</strong> (in rito) il GA motiva affermando <strong>la carenza di interesse</strong> ed evocando, sullo sfondo, <strong>proprio la nullità dell’atto</strong> quale presupposto logico-giuridico della propria decisione; un accertamento che tuttavia <strong>fa stato tra le parti</strong> quando passa <strong>in giudicato </strong>(conclusione che in seguito sarà invece <strong>sconfessata</strong>);</li> <li>a questo punto il privato può chiedere <strong>anche il risarcimento del danno</strong>, in quanto <strong>non può valere il principio della pregiudizialità</strong> dell’azione demolitoria rispetto a quella risarcitoria in una ipotesi in cui l’atto <strong>non sia semplicemente illegittimo</strong> (annullabile: si consolida se non viene impugnato tempestivamente, anche al fine di garantire stabilità e certezza all’<em>agere</em> pubblico), ma <strong>nullo</strong> e come tale <strong>improduttivo di effetti <em>ab origine</em></strong>, e dichiarato tale dal GA nella sentenza che <strong>dichiara inammissibile il ricorso</strong> del privato per <strong>carenza di interesse</strong>;</li> <li>lo stesso privato può chiedere altresì al GA, in sede di <strong>ottemperanza</strong> alla sentenza (che pure <strong>gli è sfavorevole in rito)</strong>, di <strong>rimuovere atti elusivi o violativi del giudicato</strong>, e di ordinare la <strong>rimozione degli effetti</strong> che sono derivati dall’esecuzione dell’atto dichiarato nullo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia e come viene risolto, dal punto di vista processuale, il problema della declaratoria di nullità (testuale) degli atti amministrativi dopo l’art.21.septies e prima dell’avvento del c.p.a.?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>anche se è stata <strong>sdoganata la categoria generale della nullità</strong> dell’atto amministrativo, <strong>non esiste</strong> una <strong>norma di natura processuale</strong> che autorizzi il GA a varare <strong>pronunce dichiarative</strong> e <strong>di mero accertamento</strong>, onde continua ad applicarsi il <strong>meccanismo antecedente</strong> imperniantesi su <strong>pronunce di rito</strong> (inammissibilità per carenza di interesse) che presuppongono dal punto di vista logico-giuridico <strong>la nullità <em>ab origine</em></strong> del provvedimento impugnato dal privato (tesi <strong>minoritaria</strong>);</li> <li>l’azione di <strong>accertamento della nullità</strong> innanzi al GA resta <strong>inammissibile</strong>, ma è sempre possibile agire <strong>con la tradizionale azione di annullamento</strong>, con la quale si chiede al GA di accertare la <strong>inesistenza giuridica del potere</strong> dell’Amministrazione: il giudice <strong>annulla l’atto</strong>, lo rende <strong>improduttivo di effetti</strong> e raggiunge in concreto l’effetto che il privato ricorrente si propone; del resto, se è pur vero che <strong>una quota di accertamento è sempre presente</strong> in ogni processo, è del pari vero che le disposizioni del <strong>codice di procedura civile</strong> sono applicabili solo laddove <strong>espressione di un principio generale</strong> ed in <strong>difetto di specifiche deroghe</strong> nel processo amministrativo, nel quale ultimo tuttavia – <em>ratione materiae</em> – una <strong>deroga espressa</strong> si rintraccia nell’<strong>26, comma 2, della legge 1034.71</strong> che, con l’imporre al GA <strong>di annullare l’atto impugnato</strong>, gli impedisce di dichiararne la nullità (tesi <strong>minoritaria</strong>);</li> <li>in realtà, <strong>ogni azione spiccata</strong> ed <strong>ogni conseguente attività giurisdizionale</strong> e <strong>sentenza finale</strong> presuppongono <strong>un minimo di attività accertativa</strong> che – nel processo civile – talvolta <strong>resta solo tale</strong>, ed altre volte <strong>si accompagna a statuizioni costitutive o di condanna</strong>; non occorre pertanto una <strong>esplicita norma processuale</strong> per autorizzare il GA ad emettere <strong>sentenze di natura accertativa</strong> quando scandaglia le nuove ipotesi di nullità dell’atto amministrativo; dal punto di vista <strong>sostanziale</strong> poi, il riconoscimento della <strong>nullità come categoria generale</strong> che affetta il provvedimento amministrativo, unita allo <strong>spostamento dell’asse della tutela</strong> del privato <strong>dall’atto al rapporto</strong>, impone di assumere <strong>ormai ammissibile nel processo amministrativo</strong> un’<strong>azione di accertamento della nullità</strong> medesima, il diverso avviso incontrando <strong>ostacoli di ordine costituzionale</strong> (articoli 24, 103 e 113 Cost. e diritto di difesa in essi consacrato, peraltro proprio nelle fattispecie in cui occorre fronteggiare <strong>il vizio attizio più grave</strong>) e di ordine logico, in considerazione del fatto che la nullità viene accertata <strong><em>incidenter tantum</em></strong> con una <strong>sentenza di mero rito</strong> (ricorso inammissibile per carenza di interesse), sicché in realtà <strong>difetta il giudicato</strong> e la questione della nullità <strong>potrebbe nuovamente coinvolgere</strong> non già <strong>solo i terzi</strong> che non hanno partecipato al processo, ma <strong>anche lo stesso ricorrente</strong> laddove <strong>la PA sani l’atto</strong>, ovvero <strong>lo reiteri</strong>; infine, <strong>non è vero che difetta l’interesse</strong> nel ricorso con il quale si impugna per nullità il provvedimento, sia perché <strong>l’interesse ad agire</strong> può avere ad oggetto <strong>anche la rimozione di una situazione di incertezza o di contestazione</strong>, sia perché può sussistere un <strong>concreto interesse ad agire</strong> in <strong>ipotesi specifiche</strong> (non si può accedere a provvidenze economiche a cagione di un atto nullo che appare come valido), sia infine perché non è detto che l’atto, <strong>pur non producendo effetti</strong> dal punto di vista giuridico, <strong>ne produca concretamente di materiali</strong> per essere <strong>portato ad esecuzione</strong> dall’Amministrazione che lo ha adottato (tesi <strong>maggioritaria</strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Da chi e quando deve essere rilevata la nullità dell’atto amministrativo prima dell’avvento del codice del processo nel 2010?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>Da chi</strong> (<strong>parte</strong>, e non giudice: <strong>azione ed eccezione</strong>): la legittimazione spetta a “<strong><em>chiunque vi abbia interesse</em></strong>” ex <strong>1421 c.c.</strong> e dunque – coordinando la norma con il regime amministrativo sostanziale e processuale – a <strong>chiunque abbia rispetto all’atto nullo una situazione giuridica rilevante</strong> <strong>differenziata e qualificata</strong> (interesse oppositivo o pretensivo), assunta lesa dal provvedimento nullo</li> <li><strong>Quando</strong>: b.1) la giurisdizione <strong>spetta al GO</strong> (carenza di potere; nullità dell’atto a fronte di <strong>interessi oppositivi “<em>degradati</em>”</strong>): si applica il <strong>regime civilistico della imprescrittibilità dell’azione di nullità</strong>, benché comunque l’azione vada esercitata entro il <strong>termine di prescrizione o di decadenza</strong> previsto per <strong>l’esercizio del singolo diritto</strong> coinvolto nell’azione pubblica; non manca chi tuttavia, in nome della <strong>stabilità dell’atto amministrativo</strong> e della <strong>necessaria certezza</strong> da assicurare all’<em>agere</em> pubblico, ritiene che l’azione sia spiccabile <strong>entro il consueto termine di decadenza di 60 giorni</strong>; b.2) <strong>la giurisdizione spetta al GA</strong> (per la dottrina dominante, soprattutto nel caso di <strong>interesse originariamente pretensivo</strong>, che non è il risultato della “<strong><em>degradazione</em></strong>” di un diritto soggettivo): si applica il <strong>regime amministrativo</strong>, sicché l’azione di nullità va esercitata nel <strong>tradizionale termine di decadenza di 60 giorni</strong>; non manca tuttavia chi assume che anche dinanzi al GA l’azione per far valere la nullità <strong>sia imprescrittibile</strong>, dal momento che essa <strong>si giustappone ad un atto nullo</strong> che, come tale, <strong>non è idoneo a produrre effetti</strong> (senza che un freno a ciò possa essere trovato nella necessità di garantire certezza e stabilità all’<em>agere</em> pubblico, quando ciò ridondi in deficit di tutela per il privato ricorrente); b.3) la giurisdizione <strong>spetta al GA</strong> perché trattasi di <strong>violazione o elusione del giudicato</strong>: in questa ipotesi, per parte della giurisprudenza va applicato <strong>l’art.2953 c.c.,</strong> sicché l’azione di nullità va fatta valere <strong>nel termine di prescrizione decennale</strong>;</li> <li><strong>Da chi</strong> (<strong>giudice</strong>: rilievo d’ufficio): c.1) laddove si ammette il <strong>termine di decadenza</strong> per il privato ricorrente, il relativo spirare suona come <strong>preclusione per il rilievo ufficioso del giudice</strong>; c.2) laddove <strong>non si ammette il termine di decadenza</strong> per il privato ricorrente, <strong>anche per il giudice</strong> il rilievo d’ufficio <strong>è sempre ammesso</strong>; in particolare, laddove il privato agisca per ottenere (non la <strong>declaratoria di nullità</strong> dell’atto, ma piuttosto) <strong>l’esecuzione di un provvedimento nullo</strong>, egli vanta una pretesa della quale deve provare, secondo i principi generali, <strong>i fatti costitutivi</strong>, tra i quali appunto il provvedimento amministrativo (nullo) del quale invoca l’esecuzione e che porta nel processo: anche ai sensi dell’art.112 c.p.c., laddove il giudice <strong>rilevi d’ufficio</strong> la nullità dell’atto, egli <strong>non supera i limiti della domanda</strong> del ricorrente; c.3) se il privato ha dichiaratamente agito <strong>per ottenere l’annullamento</strong> dell’atto, il GA - seguendo sul punto l’orientamento della giurisprudenza civile della Cassazione, con riferimento ai casi in cui si sia agito per l’annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto (e non per la relativa declaratoria di nullità) - <strong>non può dichiarare la nullità</strong> dell’atto amministrativo, diversamente garantendo al ricorrente una <strong>utilità più ampia</strong> di quella richiesta ed incorrendo in <strong>violazione dell’art.112 c.p.c.</strong> e del relativo principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ivi sancito.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia e come viene risolto, dal punto di vista processuale, il problema della declaratoria di nullità (testuale) dopo l’avvento del c.p.a.?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="21"> <li>pur non inserendo nel codice <strong>una disciplina generale dell’azione di accertamento</strong> nel processo amministrativo, il legislatore ha tuttavia dato seguito – sul crinale <strong>processuale</strong> – alla <strong>disposizione sostanziale di cui all’art.21.septies</strong> della legge 241.90, prevedendo una <strong>specifica ipotesi di azione di accertamento della nullità</strong> del provvedimento amministrativo all’<strong>31, comma 4</strong>, alla cui stregua la domanda volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge si propone <strong>entro il termine di decadenza di 180 giorni</strong>; detta nullità dell'atto <strong>può sempre essere opposta dalla parte resistente</strong> (che in genere è la PA) o <strong>essere rilevata d'ufficio dal giudice</strong>; tali disposizioni <strong>non si applicano</strong> tuttavia alle <strong>nullità di cui all'articolo 114, comma 4, lettera b),</strong> ovvero agli <strong>atti nulli per violazione o elusione del giudicato</strong>,per i quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV sul <strong>giudizio di ottemperanza</strong>, sicché il giudice dell’ottemperanza <strong>può rilevare d’ufficio</strong>, <strong>in ogni tempo</strong>, la <strong>nullità</strong> dell’atto adottato dalla PA in violazione o elusione del giudicato, sempre però che sia stata spiccata <strong>la relativa azione di ottemperanza</strong>;</li> <li>in sostanza, l’azione di accertamento nel processo amministrativo <strong>è oggi ammissibile</strong> se avente ad oggetto <strong>la nullità del provvedimento</strong>; la norma specifica sul processo amministrativo <strong>esclude ormai</strong> l’applicazione del <strong>regime</strong> previsto in <strong>ambito civilistico</strong> per far valere <strong>la nullità del contratto</strong> o comunque dell’atto negoziale;</li> <li>il <strong>termine di decadenza di 180 giorni</strong> previsto per il ricorrente <strong>ha natura processuale, e non sostanziale</strong>: una volta spirato, l’atto dal punto di vista sostanziale <strong>resta nullo</strong>, come dimostra il fatto che il resistente (la PA) e il giudice possono, rispettivamente, <strong>eccepire e rilevare la nullità in ogni tempo</strong>;</li> <li>qualora il ricorrente spicchi <strong>azione di nullità in via diretta</strong> contro l’atto nullo quando <strong>è ormai spirato il termine di decadenza di 180 giorni</strong>, al fine di scongiurare che detto termine venga eluso, il GA deve <strong>dichiarare il ricorso irricevibile</strong> (per tardività), in via <strong>preliminare e di rito</strong>, non potendo egli – in merito - rilevare d’ufficio la nullità dell’atto, o accogliere l’eccezione della PA resistente; il potere officioso del giudice può invece, per la più avvertita dottrina, <strong>essere sollecitato dallo stesso ricorrente</strong>, ovvero <strong>dalla PA resistente</strong>, quando la nullità dell’atto <strong>non sia aggredita in via diretta</strong>, ma il giudizio abbia ad oggetto <strong>un atto che presuppone l’atto nullo</strong> (che è atto presupposto o generale, rispetto all’atto presupponente o applicativo, e concretamente lesivo, in ordine al quale si controverte); discorso a parte riguarda l’ipotesi in cui il privato <strong>abbia impugnato nei termini l’atto con azione di annullamento</strong>: il potere del GA di <strong>rilevare d’ufficio la nullità</strong> dell’atto amministrativo, introdotto dall’art.31, comma 4, del c.p.a., fa propendere parte della dottrina nel senso di <strong>recepire l’orientamento estensivo</strong> (ma <strong>minoritario</strong>) della Cassazione civile in ordine alla possibilità per il GA medesimo di <strong>rilevare d’ufficio e dichiarare la nullità</strong> dell’atto, senza incorrere nella violazione dell’art.112 c.p.c., mentre per altra parte della dottrina <strong>in ogni caso il GA</strong> (come anche il GO, secondo l’orientamento <strong>maggioritario</strong>) tuttora <strong>non può dichiarare nullo</strong> un atto del quale sia stato invocato <strong>l’annullamento</strong>, senza incorrere nel <strong>vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato</strong>;</li> <li>se si tratta di <strong>nullità per violazione o elusione</strong> del giudicato, il regime è integralmente quello del <strong>processo di ottemperanza</strong> ex art.114 c.p.a.;</li> <li>sul crinale della <strong>legittimazione a far valere</strong> (e, in particolare, ad eccepire) la nullità, l’art.31, comma 4, del c.p.a. tace in ordine alla figura del <strong>controinteressato</strong>, menzionando solo il <strong>potere di eccezione del resistente</strong>, e dunque <strong>della PA</strong>: la dottrina sollecita una <strong>interpretazione costituzionalmente orientata</strong> della norma (alla luce degli articoli 24, 111 e 113 Cost.), tale da far assumere legittimato ad eccepire la nullità dell’atto, assieme all’Amministrazione, <strong>anche il controinteressato</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>