Massima
Il reato “complesso” è tale anche perché è figura meno semplice di quanto possa apparire a prima vista: i fatti inadempimento reato che vi confluiscono si sciolgono fondendosi in un fatto inadempimento reato nuovo che è la sintesi – e non la mera sommatoria – delle relative componenti; dietro al reato complesso si cela tuttavia anche – pro reo – un concorso apparente di norme tutt’affatto peculiare, collocantesi a metà strada tra l’astratta specialità dell’art.15 c.p. e la sostanza “valoriale” dell’assorbimento finalizzato a scongiurare il c.d. ne bis in idem sostanziale.
Crono-articolo
Nel diritto romano, anche se a livello teorico non viene elaborata una figura corrispondente a quella del moderno reato complesso, se ne ritrovano tuttavia i peculiari effetti pratici osservando l’evoluzione del reato di lesioni (e di connesse percosse); mentre infatti la lesione come illecito civile è già prevista nelle XII tavole (c.d. membrum ruptum), quella penale rientra nella più generica ed imprecisa figura dell’iniuria (“complessa” dunque in senso moderno): anche quando – nell’82 a.C. – con la Lex Cornelia dei iniuriis vengono isolati tre casi specifici di iniuria penalmente rilevante, vale a dire la pulsatio (percosse), la verberatio (frustate ferimenti: lesioni) ed il vi domum introire (introdursi con la forza in casa altrui) – in costanza dei quali la vittima, piuttosto che agire per un risarcimento di tipo privatistico, poteva provocare contro il “reo” una “quaestio” e dunque invocare contro di lui una pena di tipo pubblicistico – la corrispondente actio iniuriarum aestimatoria rimaneva comunque nel potere del privato leso quanto a concreto esperimento, con la conseguenza onde per far valere tale tipo di lesioni occorreva chiedere tutela avverso la corrispondente iniuria subita. Solo le leggi barbariche ed il successivo diritto germanico sganciano in modo più palese le percosse e le lesioni dall’iniuria, configurandole come delitto autonomo.
1889
La codificazione liberale Zanardelli accenna alla consistenza del reato complesso all’art.77 in tema di nesso teleologico, onde colui che – per eseguire (ex ante) od occultare (ex post) un reato, ovvero in occasione di esso – commette altri fatti costituenti essi pure reato, ove questi non siano considerati dalla legge come elementi costitutivi o circostanze aggravanti del reato medesimo, soggiace alle pene da infliggere per tutti i reati commessi. E’ evidente che – all’opposto – laddove la legge annoveri un fatto costituente reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato, si applica solo la pena per il reato che ingloba l’altro (appunto quale relativo elemento costitutivo o circostanza aggravante).
1930
Nel codice penale Rocco il reato complesso trova posto all’art.84, onde le disposizioni sul concorso di reati non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato; la norma prosegue affermando che qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79. All’art.581, comma 2, poi è prevista una specificazione di quanto previsto in via generale dall’art.84 in ordine al reato complesso, alla cui stregua le percosse sono un delitto che rimane assorbito in tutti quei reati che annoverano la violenza come elemento costitutivo (tipico il caso della rapina o dell’estorsione) o circostanza aggravante (tipico il caso della violazione di domicilio, nella versione originaria del codice e prima della relativa trasformazione in figura autonoma di reato). Secondo l’art.42, comma 2, il titolo soggettivo ordinario di imputazione del delitto è il dolo, salvi i casi in cui la legge assuma espressamente sufficienti la preterintenzione o la colpa. Stando poi al successivo art.59, le circostanze anche aggravanti vengono imputate a livello oggettivo, e dunque anche se sconosciute al soggetto agente. Ex art.131 del codice penale, per il reato complesso si procede sempre di ufficio, se per taluno dei reati, che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si deve procedere di ufficio, onde anche laddove uno dei reati che confluiscono nel reato complesso sia perseguibile a querela, in ogni caso per il reato complesso a valle si procede sempre d’ufficio (tipico il caso del della violazione di domicilio ex art.614 c.p. e del danneggiamento ex art.635 c.p., entrambi perseguibili a querela, che tuttavia quando confluiscono il primo nel furto in abitazione ex art. 625, n.1, c.p. ed il secondo nel furto con effrazione ex art.625, n.2, c.p., diventano perseguibili d’ufficio come “furto complesso”, essendo il furto perseguibile d’ufficio). Ancora, ai sensi dell’art.170, comma 2, c.p., la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso, il che palesa ancora una volta come per volontà del legislatore penale del codice la fusione nel reato complesso sia definitiva ed irreversibile, senza che le sorti (estintive) dell’elemento costitutivo o della circostanza aggravante (che di per sé sarebbero potenzialmente reato) possano incidere sul reato complesso a valle. La disciplina del reato complesso si ispira tuttavia, per esplicita presa di posizione dei lavori preparatori al codice, ad un innegabile favor rei, proprio laddove scongiura l’applicazione del concorso di reati (che potrebbe rilevare se non vi fosse l’art.84 c.p.) per fare applicazione delle conseguenze sanzionatorie previste per il solo reato inadempimento “derivato” a valle della confluenza di altre figure di reato. Unica eccezione divisata (non a caso) espressamente dal codice è quella dell’art.301 comma 3, c.p., onde – in tema di delitti contro la personalità internazionale o interna dello Stato, ovvero di delitti contro Stati esteri, loro capi e rappresentanti – quando l’offesa alla vita, alla incolumità, alla libertà o all’onore è considerata dalla legge come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato, questo cessa di costituire un reato complesso, e il colpevole soggiace a pene distinte, secondo le norme sul concorso dei reati, applicandosi, per le dette offese, le disposizioni contenute nei pertinenti capi: l’esempio tipico che si porta è quello della rapina al Capo dello Stato, laddove il soggetto agente – stante la peculiare natura del soggetto passivo del reato – non risponde di rapina ex art. 628 c.p., il reato complesso scindendosi nei relativi elementi costitutivi, con conseguente imputazione per furto ex art. 624 c.p. in concorso con il reato di offesa alla libertà del Presidente della Repubblica ex art. 277 c.p..
1948
Viene varata la Costituzione che prevede all’art.25, comma 2, che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, così cristallizzando a livello costituzionale il principio di legalità del fatto-inadempimento reato e della corrispondente pena: per quest’ultima, emblematico il riferimento implicitamente contenuto nella parola “punito” utilizzata dai Costituenti, come peraltro dimostra il successivo comma 3 laddove si dispone che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza (e, dunque, a fortiori a “pene”) se non nei casi previsti dalla legge.
1955
Il 31 marzo esce la sentenza della Cassazione che si occupa dell’art.385, comma 2, c.p. in tema di evasione aggravata dalla violenza sulle persone ovvero dall’effrazione. Si tratta di una fattispecie di reato complesso in cui, per la Corte, la violenza sulle persone resta assorbita ex art.84 c.p. nell’evasione (aggravata) soltanto laddove si fermi a livello di percosse (art.581, comma 2, c.p.) ovvero di minacce (art.612 c.p.), mentre laddove si configuri resistenza o violenza a pubblico ufficiale, dette fattispecie concorrono con l’evasione. Si tratta di una delle prime decisioni in cui la Corte si occupa del c.d. limite della proporzionalità nella continenza che connota il reato complesso.
1962
Il 23 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Gozzoli, che riafferma come – nel caso in cui un reato che normalmente è una componente del reato complesso non vi venga in realtà assorbito per superamento del limite della proporzionalità nel rapporto di continenza tra reato complesso appunto (necessariamente più grave) e reato “contenuto” (necessariamente meno grave), per essere il secondo, nella fattispecie, più grave del primo e capace di esprimere un maggiore disvalore – si configura concorso tra reato complesso e fattispecie contenuta non assorbita.
1963
*Il 19 aprile esce la sentenza della della Cassazione che riafferma come – nel caso in cui un reato che normalmente è una componente del reato complesso non vi venga in realtà assorbito per superamento del limite della proporzionalità nel rapporto di continenza tra reato complesso appunto (necessariamente più grave) e reato “contenuto” (necessariamente meno grave), per essere il secondo, nella fattispecie, più grave del primo e capace di esprimere un maggiore disvalore – si configura concorso tra reato complesso e fattispecie contenuta non assorbita.
1974
L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, attraverso il quale viene consentita la bilanciabilità, ex art.69 c.p., anche delle circostanze c.d. ad effetto speciale, con conseguente ampliamento del regime del bilanciamento che farà assumere tale meccanismo applicabile anche alle circostanze aggravanti che costituiscono di per sé reato e che si fondono nel reato complesso c.d. circostanziato.
Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte con modificazioni il decreto legge 99.
1980
Il 15 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.10352 che si occupa della proporzione nel rapporto di continenza tra reato complesso e fattispecie di reato che vi confluiscono. In particolare, per la Corte è proprio la figura del reato complesso che, di norma, consente l’assorbimento nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle persone o sulle cose: articoli 393 e 392 c.p.) di quei fatti che, pur costituendo astrattamente per sé stessi reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti del primo, come il danneggiamento nelle ipotesi di ragion fattasi con violenza sulle cose ovvero la minaccia o le semplici percosse nella fattispecie di ragion fattasi con violenza sulle persone. Nondimeno, per la Corte si ha invece concorso di reati allorché la ragion fattasi venga compiuta dall’agente ponendo in essere fatti che vadano oltre i predetti limiti, come nel caso delle lesioni personali o del sequestro di persona; ipotesi nelle quali si ha appunto concorso tra tali fattispecie e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
1981
Il 16 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7097 alla cui stregua, secondo giurisprudenza consolidata, perché possa configurarsi un reato complesso non è sufficiente che più fatti – i quali, isolatamente considerati, costituiscono altrettanti reati – abbiano qualche elemento comune, ma occorre piuttosto che uno dei reati, convergendo per volontà legislativa nell’altro quale elemento costitutivo o circostanza aggravante, perda la propria autonomia fondendosi, per l’identità dell’elemento oggettivo, rappresentato dalla condotta dell’agente e dal relativo risultato (evento) e per l’identità anche dell’elemento soggettivo, consistente nella volontà cosciente diretta al fine perseguito, in un solo reato. Nel riferimento che la Corte fa alla identità dell’elemento soggettivo “doloso” si rinviene una traccia della necessità di imputare, in caso di reato complesso circostanziato, anche la circostanza aggravante (già autonomo reato) a titolo di dolo all’autore del reato complesso, e non a titolo di responsabilità oggettiva (e, in futuro, di colpa).
1984
*Il 28 giugno esce la sentenza della Cassazione, Piacentini, che – in una fattispecie in tema di evasione aggravata dalla violenza – riafferma come – nel caso in cui un reato che normalmente è una componente del reato complesso non vi venga in realtà assorbito per superamento del limite della proporzionalità nel rapporto di continenza tra reato complesso appunto (necessariamente più grave) e reato “contenuto” (necessariamente meno grave), per essere il secondo, nella fattispecie, più grave del primo e capace di esprimere un maggiore disvalore – si configura concorso tra reato complesso e fattispecie contenuta non assorbita.
1988
Il 18 aprile esce la sentenza della Cassazione n.8421 che in una fattispecie in tema di rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale, riafferma come – nel caso in cui un reato che normalmente è una componente del reato complesso non vi venga in realtà assorbito per superamento del limite della proporzionalità nel rapporto di continenza tra reato complesso appunto (necessariamente più grave) e reato “contenuto” (necessariamente meno grave), per essere il secondo, nella fattispecie, più grave del primo e capace di esprimere un maggiore disvalore – si configura concorso tra reato complesso e fattispecie contenuta non assorbita.
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui articolo 4 – ai fini della individuazione del giudice competente – esclude la rilevanza delle circostanze, fatta eccezione per le circostanze aggravanti autonome e quelle aggravanti ad effetto speciale. Si pone il problema di verificare, con riguardo al reato complesso “circostanziato”, se la circostanza che sarebbe di per sé figura autonoma di reato incide o meno sulla determinazione della competenza del giudice.
*Il 7 dicembre esce la sentenza della Cassazione, Zamboni, che ribadisce il principio di indefettibile proporzione che deve assistere il rapporto di continenza tra reato complesso e fattispecie di reato che vi confluiscono. In particolare, per la Corte è proprio la figura del reato complesso che, di norma, consente l’assorbimento nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle persone o sulle cose: articoli 393 e 392 c.p.) di quei fatti che, pur costituendo astrattamente per sé stessi reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti del primo, come il danneggiamento nelle ipotesi di ragion fattasi con violenza sulle cose ovvero la minaccia o le semplici percosse nella fattispecie di ragion fattasi con violenza sulle persone. Nondimeno, per la Corte si ha invece concorso di reati allorché la ragion fattasi venga compiuta dall’agente ponendo in essere fatti che vadano oltre i predetti limiti, come nel caso delle lesioni personali o del sequestro di persona; ipotesi nelle quali si ha appunto concorso tra tali fattispecie e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
1990
Il 7 febbraio vede la luce la legge n.19 che, in tema di circostanze, opera una importante riforma in punto di criterio di imputazione delle aggravanti, novellando l’art.59, comma 1, del c.p.: mentre le circostanze attenuanti possono continuare ad essere imputate al soggetto agente a titolo oggettivo, quelle aggravanti possono essere imputate solo se se da lui conosciute, ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Si tratta di una riforma che inciderà sul regime di imputazione soggettiva della circostanza aggravante che confluisce, già autonomo reato, in un reato complesso c.d. circostanziato, che come tale andrebbe (integralmente) punito a titolo di dolo ex art.42, comma 2, c.p.
*Il 19 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, n.2425, che ribadisce il principio di indefettibile proporzione che deve assistere il rapporto di continenza tra reato complesso e fattispecie di reato che vi confluiscono. In particolare, per la Corte è proprio la figura del reato complesso che, di norma, consente l’assorbimento nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle persone o sulle cose: articoli 393 e 392 c.p.) di quei fatti che, pur costituendo astrattamente per sé stessi reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti del primo, come il danneggiamento nelle ipotesi di ragion fattasi con violenza sulle cose ovvero la minaccia o le semplici percosse nella fattispecie di ragion fattasi con violenza sulle persone. Nondimeno, per la Corte si ha invece concorso di reati allorché la ragion fattasi venga compiuta dall’agente ponendo in essere fatti che vadano oltre i predetti limiti, come nel caso delle lesioni personali o del sequestro di persona; ipotesi nelle quali si ha appunto concorso tra tali fattispecie e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Il 24 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Platania, che – inserendosi in un consolidato filone giurisprudenziale – statuisce come il delitto di sequestro di persona resti assorbito dal reato di rapina aggravata ai sensi dell’art.628, comma 3, n.2, c.p. – che è reato complesso – solo quando la violenza usata per il sequestro si identifichi e si esaurisca col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l’attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo, anche se finalisticamente collegato con quello successivo (rapina), ancora da porre in esecuzione, o ne segua l’attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione della rapina e, perciò, con carattere di condotta delittuosa autonoma, anche se finalisticamente collegata al detto reato; pertanto la privazione della libertà personale costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina e rimane in esso assorbita (a titolo di reato complesso ex art.84 c.p.) solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con l’esecuzione della rapina stessa, mentre nell’ipotesi in cui la privazione della libertà non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina, ma si protragga oltre tale termine temporale, il reato de quo concorre con quello di sequestro di persona.
2008
Il 17 ottobre esce la sentenza della sezione V della Cassazione n.43219, stando alla quale il delitto di violenza privata ex art.610 c.p. si configura come un reato complesso, atteso come relativo elemento costitutivo sia una condotta (di minaccia, o di violenza) che, isolatamente considerata, costituirebbe l’elemento materiale di un altro reato.
2010
Il 28 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.3359, che di occupa dei rapporti intercorrenti tra l’omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale ex art.589 c.p. e la guida in stato di ebbrezza ex art.186 del codice della strada. Per la Corte in primo luogo le due disposizioni tutelano beni (interessi) giuridici diversi, poiché l’art.589 c.p. tutela la vita, mentre la contravvenzione del codice della strada presidia la pubblica incolumità, onde tra esse non è ravvisabile alcun rapporto di genere a specie. La Corte di sofferma poi a valutare se possa configurarsi un reato complesso ex art.84 c.p., ravvisando la ratio di tale disposizione nell’assicurare un trattamento sanzionatorio equo laddove un reato smarrisca la propria autonomia ed identità fondendosi in un altro: si tratta di un fenomeno che non si riscontra nel caso di specie, in quanto le contravvenzioni contenute nel codice della strada, ed in particolare quella di cui all’art.186, non smarriscono la loro identità per fondersi nel delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme del codice della strada: in altri termini, l’art.589 del codice penale – nel richiamare genericamente le “norme sulla circolazione stradale” senza distinguere le contravvenzioni, i meri illeciti amministrativi e le disposizioni financo prive di sanzione – palesa una voluntas legis diversa da quella della costruzione di un reato complesso in cui le fattispecie contravvenzionali del codice della strada finirebbero per perdere la loro autonomia ed identità. Peraltro, occorre per la Corte rintracciare un concreto nesso di causalità immediata tra il reato che si fonde e quello che ingloba al fine di ravvisare la operatività dell’art.84 c.p., mentre nel caso di specie l’autore del crimine dapprima ha guidato in stato di ebbrezza e poi ha commesso l’omicidio colposo. La conclusione è il concorso tra il delitto colposo e la contravvenzione.
2012
Il 19 aprile esce la sentenza delle SSUU n.34952, che si occupa della particolare fattispecie in cui il soggetto agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa mobile altrui, non portati alfine a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di chi cerca di ostacolarlo al fine di procurarsi l’impunità. Il problema in questo caso è verificare se si configura un tentativo di reato complesso (rapina impropria tentata), ovvero il tentativo di furto in concorso con la violenza o minaccia consumata, giusta scomposizione del reato complesso nei relativi elementi costitutivi-reato. Per ben comprendere la decisione della Corte – che si schiera nel solco dell’indirizzo pretorio maggioritario – occorre riflettere sul fatto che la rapina impropria configura appunto un reato complesso nel quale al furto si somma la minaccia o altro delitto violento contro la persona; per aversi tentativo occorrono gli atti idonei diretti in modo inequivoco a realizzare la rapina impropria, circostanza che è pacifica laddove, intervenuta la sottrazione della cosa mobile altrui, il soggetto agente prenda ad usare minaccia o addirittura violenza per – alternativamente – assicurare a sé o ad altri il possesso di essa ovvero l’impunità; ben più complessa si profila invece la fattispecie quando la minaccia o la violenza intervengano prima della sottrazione, stavolta evidentemente al solo fine di garantirsi l’impunità (in quanto la cosa non è stata ancora sottratta, per cause non imputabili al soggetto agente medesimo): una fattispecie in cui la dottrina e la giurisprudenza minoritaria negano la configurabilità di un tentativo di rapina impropria (predicando la presenza di un tentato furto, se del caso aggravato, unito ad una violenza o ad una minaccia consumate), mentre la giurisprudenza maggioritaria ammette anche in questo caso (oltre che in quello in cui la res sia stata già sottratta) il tentativo di reato complesso. Per la Corte invano soprattutto la dottrina richiama l’art.628, comma 2, c.p., nella parte in cui afferma che la violenza o la minaccia nella rapina impropria intervengono immediatamente dopo la sottrazione, e questo sarebbe il motivo per il quale potrebbe configurarsi tentativo di rapina impropria solo laddove dette violenza o minaccia intervengano per l’appunto dopo la sottrazione ridetta, mentre se intervengono prima si sommerebbe ad un furto tentato una violenza o una minaccia consumate. Per le SSUU occorre – dal punto di vista letterale – prendere spunto dalle norme del codice per giungere alla soluzione esattamente contraria, muovendo dal fatto che la rapina (anche impropria) è un reato complesso in cui affiora un nesso di contestualità dell’azione complessivamente posta in essere dal soggetto agente, che aggredisce insieme il patrimonio e la persona: una aggressione contestuale che può consumarsi o arrestarsi a livello di mero tentativo. Peraltro, nella rapina impropria il soggetto agisce, alternativamente, o per assicurarsi il possesso della cosa o per procurarsi l’impunità, e mentre il primo corno dell’alternativa (assicurarsi il possesso della res) presuppone una sottrazione già avvenuta, il secondo (procurarsi l’impunità) non presuppone necessariamente una previa sottrazione già realizzata, dovendo quest’ultima intendersi come fase diacronica che muove, quanto a pertinente epifania, dall’iniziale tentativo di impossessamento per chiudersi con il ridetto impossessamento e che, se resta nello stadio del tentativo, ben può essere affiancata da una contestuale aggressione alla persona che partecipa del tentativo di rapina (impropria) globalmente considerato, sub specie di ricerca di impunità dopo il colpo fallito. Né per la Corte potrebbe invocarsi – come pure fa parte della dottrina – il divieto di analogia, che vieterebbe di estendere il tentativo di rapina impropria dall’ipotesi certa dell’avvenuta sottrazione a quella, assunta dubbia, della non intervenuta sottrazione. Ciò in quanto, precisano le SSUU, il divieto di analogia è espressione del principio di legalità che va letto – oltre che alla luce della Costituzione, anche alla stregua dei parametri di cui all’art.7 della CEDU, che, per come interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU, si compendiano nei due valori della accessibilità della norma penale violata (accessibility) e nella prevedibilità della pertinente sanzione in caso di violazione (foreseeability); questi due valori sono a loro volta il prodotto – prosegue la Corte – non già solo delle norme scritte, ma anche di come la giurisprudenza, specie se consolidata, le interpreta, ed è proprio il caso del tentativo di rapina impropria, che – anche in difetto di previa sottrazione della cosa – è comunque assunto configurabile da una decennale e granitica giurisprudenza, che non può assumersi scalfita da poche ed isolate pronunce in senso difforme.
Il 24 aprile esce la sentenza della sezione V della Cassazione n.15715, che ribadisce pacifico che il delitto di violenza privata ex art.610 c.p. sia un reato complesso, atteso come relativo elemento costitutivo sia una condotta che, isolatamente considerata, costituirebbe l’elemento materiale di un altro reato. L’agente infatti, prosegue la Corte, ai sensi dell’art. 610 cod. pen., può utilizzare, alternativamente o congiuntamente, violenza e minaccia per raggiungere il suo scopo, coartando fisicamente o psicologicamente la vittima, onde quando in un unico contesto, vengano posti in essere comportamenti violenti oppure minacciosi, ed entrambe queste condotte siano finalizzate a imporre alla vittima un facere o un pati, non è dubbio che resti integrata la ipotesi di violenza privata, se l’agente raggiunge il suo scopo ovvero quella di tentativo del predetto reato, se lo scopo non è raggiunto.
Il 30 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.46441 che ribadisce che in caso di omicidio colposo o di lesione colposa, da un lato, e di contemporanea violazione delle norme sulla circolazione stradale, dall’altro, non si configura una fattispecie di reato complesso, ma di concorso tra delitto e contravvenzione. Conseguentemente è inapplicabile l’art.84 c.p. Ciò per la Corte anche dopo la nuova formulazione dell’art. 589 c.p. per effetto del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125, onde si configura il concorso materiale – nella specie – tra l’omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia di per sé luogo ad un illecito contravvenzionale, e la contravvenzione di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti.
2013
Il 28 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.14755 che si occupa di una fattispecie peculiare in cui un Sindaco ed il responsabile tecnico di un Comune affidano ad una società che fa loro capo la progettazione ed esecuzione di opere (nel caso di specie, disinquinamento di uno stagno) per conto di un Comune, appropriandosi poi delle somme che il Comune ha erogato alla società, dopo aver falsamente attestato che la prestazione è stata regolarmente eseguita. Le fattispecie che si configurano (in disparte il falso) sono quelle da un lato dell’abuso d’ufficio e dall’altro del peculato, in ordine alle quali si pone il problema di verificare se fondendosi facciano luogo, nel caso di specie, ad un reato complesso ex art.84 c.p. La Corte esclude questa ipotesi per abbracciare quella del concorso materiale di reati, a fronte dell’accertamento onde, nel caso di specie, si è consumato dapprima l’abuso d’ufficio – con ingiusto vantaggio patrimoniale compendiatosi nell’affidamento della progettazione ed esecuzione di opere alla società – e poi, in via successiva ed ulteriore, l’appropriazione delle somme; quest’ultima, che realizza il peculato, non può dunque assumersi assorbita dell’abuso d’ufficio ex art.323 c.p.
2014
L’11 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.46412 onde, in tema di rapina, la sottrazione (e le modalità con cui essa è attuata) costituisce il punto di snodo che consente di distinguere la rapina propria dalla rapina impropria. Per la Corte mentre nella rapina propria la sottrazione deve avvenire mediante violenza o minaccia e, quindi, essa segue (e non precede) la violenza o la minaccia medesime, configurandosi come il risultato divisato; nella rapina impropria invece, la sottrazione deve avvenire (come nel furto) senza violenza o minaccia e, perciò, essa precede (e non segue) la violenza o minaccia, le quali sono poste in essere, non al fine di sottrarre la cosa mobile altrui, ma al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta (impossessamento o, che è uguale, spossessamento della vittima) o al fine di procurare a sé o ad altri l’impunità. La “sottrazione” peraltro – a propria volta – costituisce per la Corte, a seconda che sia consumata o meno, l’elemento che consente di distinguere la rapina impropria consumata dalla rapina impropria tentata, e ciò in quanto, alla stregua di quanto accennato dianzi, non è configurabile il tentativo di rapina impropria per procurarsi l’impossessamento, ma solo eventualmente per assicurarsi l’impunità: essendo infatti l’impossessamento – precisa la Corte – un elemento che fa parte del “dolo specifico” (quale fine dell’azione), e non costituisce l’evento del reato, perché la rapina impropria sia consumata non è necessario che l’agente consegua effettivamente l’impossessamento della res, essendo sufficiente che abbia agito al fine di conseguirlo; onde, se vi è stata la sottrazione della cosa mobile altrui, l’aver adoperato violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della res, costituisce rapina impropria consumata, e non rapina impropria tentata, anche se l’impossessamento non si verifica. La Corte conclude allora nel senso, già affermato dalle SSUU del 2012, per cui ricorre la rapina impropria tentata allorquando l’agente, dopo avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui a chi la detiene ma non riuscendo in tale intento (difetta dunque la sottrazione) per la costante vigilanza della persona offesa o di un suo delegato, adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità; ricorre invece la rapina impropria consumata quando l’agente, dopo l’amotio (sottrazione) della res, riesce a portare a termine anche l’ablatio – ossia lo spossessamento dell’avente diritto (o impossessamento proprio), che fa perdere a costui il controllo sulla cosa, dimodoché non è più in grado di recuperarla autonomamente, senza l’ausilio di terzi o delle forze dell’ordine – e adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità.
2017
Il 12 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.29167 che si occupa di una fattispecie in cui rileva l’art.576, comma 1, n.5, c.p. vale a dire dell’omicidio aggravato dal fatto di essere stato commesso in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 572, 600 bis, 600 ter, 609 bis, 609 quater e 609 octies. Si tratta di una evidente ipotesi di reato complesso circostanziato, in quanto fatti che di per sé costituirebbero reato (come ad esempio i maltrattamenti in famiglia o la violenza sessuale) divengono circostanze aggravanti del delitto di omicidio doloso. Perché scatti l’applicazione di questa norma, nondimeno, per la Corte occorre l’occasionalità tra le condotte in essa citate (e di per sé già reato) rispetto all’omicidio, una delle ipotesi della quale è la contestualità delle ridette condotte – tutte caratterizzate da violenza fisica – rispetto all’omicidio (aggravato) medesimo. Onde, attenendosi alla fattispecie scrutinata, per la Corte la commissione contestuale dei delitti di violenza sessuale e di omicidio doloso determina l’assorbimento del primo nel secondo in conformità appunto allo schema del reato complesso circostanziato; laddove invece tale contestualità faccia difetto non può trovare applicazione l’art. 84 c.p., ma piuttosto l’art. 81 c.p. in materia di reato continuato.
2018
Il 24 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.3271, alla cui stregua integra il delitto di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.), la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi, arrecando offesa a diverse persone di genere femminile abitanti nello stesso edificio, provocano turbamento a tutte le altre. (Sez. 5, n. 20895 del 07/04/2011 – dep. 25/05/2011, A.,). Occorre ovviamente, per la Corte, che siano realizzati tutti elementi, di natura oggettiva e soggettiva, tipici della fattispecie criminosa in questione, nei confronti di ciascuna delle persone offese dal reato; con ciò si vuole fare riferimento alla reiterazione di condotte, costituenti minaccia o molestie, etiologicamente connesse alla determinazione, nel soggettivo passivo del reato, di un perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero di un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata affettivamente ovvero di una costrizione a modificare le proprie abitudini di vita. Ovviamente, chiosa ancora la Corte, trattasi di condotte necessariamente sorrette dall’elemento soggettivo, tipico della fattispecie contestata, che, nel delitto di atti persecutori, è integrato dal dolo generico, consistente nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia con la consapevolezza dell’idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; trattandosi di reato abituale di evento, il dolo generico, richiesto dalla norma, dev’essere unitario e indicativo di un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014 – dep. 08/05/2014, C e altro). Tali assunti comportano necessariamente l’individuazione precisa dei soggetti passivi del reato e la verifica delle condizioni di sussistenza del reato di stalking per ciascuno di loro; ciò in considerazione del fatto che, in assenza di tali presupposti, si verterebbe nel campo di operatività, così come sostenuto dalla parte ricorrente nel caso di specie, di altre disposizioni penali, quale, per l’appunto, il reato di molestia, realizzabile anche con l’invio di missive anonime al diretto interessato o ad altri. In quest’ottica è bene per la Corte distinguere le due fattispecie, essendo il reato di molestia o disturbo alle persone, costituito dalla contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., diretto a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata, fattispecie distinta, autonoma e, in ipotesi, concorrente rispetto al reato di atti persecutori, di cui all’art. 612 bis, cod. pen., stante la diversità dei beni giuridici tutelati (Sez. 1, n. 19924 del 04/04/2014 – dep. 14/05/2014, Napolitano). Per l’inverso, il delitto di atti persecutori è reato abituale, che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno“, consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di “pericolo“, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015 – dep. 03/03/2015, P.C. in proc.G.), elemento del tutto assente nella prospettazione della contravvenzione, di cui all’art. 660 cod. pen.. Proprio tali differenziazioni e tali diversità confermano ulteriormente l’esigenza di una verifica, da effettuarsi su piano individuale, inerente a ciascuna delle posizioni della pluralità dei soggetti passivi del reato, dovendosi, all’evidenza, escludere una generalizzazione, indeterminata, all’indirizzo di una comunità non meglio specificata nelle connotazioni singolari.
Il 6 giugno esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.25651, che si occupa del rapporto tra appropriazione indebita e “distrazione” (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ovvero di una questione che ha trovato differenti soluzioni in giurisprudenza essendosi fatto riferimento – per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall’art. 649 cod. proc. pen. – alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell’uno e nell’altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all’art. 646 cod. pen. non è di ostacolo – una volta intervenuto il fallimento – alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (è stata tuttavia ritenuta praticabile, rammenta la Corte, anche la soluzione inversa). La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), rammenta la Corte essere imperniata sulla considerazione che all’unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell’ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un’unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l’imputato, agente di cambio, già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta – consistita, fra l’altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela – potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione – prosegue il Collegio – non esclude del tutto, però, l’operatività dell’art. 649 cod. proc. pen. e del principio del ne bis in idem, in esso trasfuso: ciò avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona). La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza più recente e più cospicua, afferma, invece, che l’appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell’art.84 cod. pen., sicché solo l’avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l’appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell’appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all’altra figura di reato (vengono richiamate, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010,; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003. Una applicazione di tale principio – rammenta la Corte si è avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un’ipotesi di modifica dell’imputazione ex art. 516 cod. proc. pen., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all’evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l’identità del fatto, preclusiva, per l’art. 649 cod. proc. pen. , del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all’idem factum. La questione deve oggi essere risolta, prosegue il Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016 laddove ha escluso che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 cod. pen., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto“. La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che – per i giudici di Strasburgo – la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v’è nessuna ragione logica, ha però precisato la Corte Costituzionale e rammenta il Collegio, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, “all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente“. Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale e rammenta la Corte, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i relativi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005). Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 cod. proc. pen. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati. Muovendo da tali criteri. deve allora per la Corte censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull’appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perché, è detto in sentenza, “alla apparente unicità della condotta non corrisponde l’unicità del fatto“. Invero, prosegue la sentenza, “anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti“. La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realtà, a quella richiamata giurisprudenza onde la declaratoria di fallimento, pur non integrando – per pacifica giurisprudenza – un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all’art. 216 L.F. nella relativa specificità offensiva, per il fatto che attualizza l’offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell’imprenditore costituisce per i creditori. Vero è poi, prosegue la Corte, che la Corte d’appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui è pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che è proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato è sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. Assume il Collegio a questo punto che né l’impostazione della Corte d’appello di Trieste, né quelle che l’hanno preceduta possano essere condivise. Anche se si dovesse ritenere che l’appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull’appropriazione è, ora – dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale – condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all’appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall’impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta per la Corte alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all’istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione. Nemmeno l’impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità può per la Corte essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l’elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che “attualizza” l’offesa insita nell’appropriazione. Occorre considerare però, prosegue la Corte, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall’azione o dall’omissione dell’agente; perciò, anche se nel “fatto” vanno ricompresi – secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite – le conseguenze della condotta (l’evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall’agire del soggetto, perché possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell’agente, perché consegue all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del “fatto“, nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D’altra parte – chiosa ancora la Corte – la propria recente giurisprudenza (Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, nonché, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da SS.UU., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pt-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità (contra, però, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata – secondo lo schema dell’art. 44 cod. pen. – alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l’agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all’art. 646 cod. pen., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante. Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all’appropriazione indebita, sta, in realtà, nell’offesa che essa reca all’interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del “fatto“, perché attiene – insieme all’oggetto giuridico, alla natura dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem. Evidentemente, chiosa ancora la Corte, proprio perché avvertita della fragilità della costruzione prima richiamata, la Corte d’appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell’appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della società. In pratica, il fallimento della società – intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto – costituirebbe, nella specie, l’evento del reato, perché collegato causalmente con la distrazione della somma da parte dell’amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell’impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l’identità del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell’accusa mossa all’imputato (al quale non è contestata la bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, legge fall., ma quella distrattiva ex art. 216), né che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi da cui desumere che il fallimento della società sia stato conseguenza della distrazione contestata all’imputato, sicché anche l’argomento speso, da ultimo, dal giudice d’appello si rivela inidoneo a superare le criticità insite nella conclusione cui è pervenuto. In conclusione, prosegue la Corte, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all’impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza più volte richiamata, né si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi è pronuncia passata in giudicato, sicché va escluso che l’imputato potesse nel caso di specie essere nuovamente sottoposto a procedimento penale. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna per la Corte giungere per altra via. E’ generalmente riconosciuta l’esistenza, nell’ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell’accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto – che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto – siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, è ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che – se la preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un’ipotesi di “concorso formale di reati” (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) – tanto non vale allorché il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009). Ciò che vale per il concorso reale di norme incriminatrici vale, stante l’identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz’altro intervenuto – prima dell’avvio dell’azione penale per il reato complesso – un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato. Ebbene, l’imputato nel caso di specie è stato assolto – con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato – dall’accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell’art. 649 cod. proc. pen., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall’appropriazione, deve riconoscersi che l’unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell’avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l’imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, per la Corte la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa.
Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, alla cui stregua – in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “stradali” – vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del bis in idem, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all’imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.). Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale“, che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l’art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante. Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio già svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all’imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell’occasione dalla S.C.): a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l’art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni” e, inoltre, “nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto” […]. Precedentemente – prosegue la Corte – dall’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l’art.589 cod. pen. disponeva, tra l’altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, “Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni” e che “Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici” […] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della “guida“, individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga “alla guida di un veicolo a motore“; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è “chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale….)”. In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al “conducente di un veicolo a motore” e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell’art. 589-bis cod. pen. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada. Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al – condivisibile – ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone). Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).
2019
Il 6 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 18802 onde la condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica costituisce circostanza aggravante dei delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime, dovendosi conseguentemente escludere, in applicazione della disciplina del reato complesso, che gli stessi possano concorrere con la contravvenzione di cui all’art. 186 cds.
A seguito dell’entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l’art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni” e, inoltre, “Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto“.
Precedentemente, dall’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l’art. 589 cod. pen. disponeva, invece, che, in ipotesi di omicidio colposo, si applicasse la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto fosse commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni e che nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applicasse la pena che si sarebbe dovuta infliggere per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non potesse superare gli anni quindici.
E’ stato, perciò, condivisibilmente rilevato come la formulazione della novella del 2016 abbia, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della “guida”, individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga “alla guida di un veicolo a motore”; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è “chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale….)”.
In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al “conducente di un veicolo a motore” e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza”.
Ciò ha dunque portato condivisibilmente la giurisprudenza a ritenere che, in caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso possa emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell’art. 589-bis cod. pen. successivi al primo, quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada» (Sez. 4, n. 2403 del 15/12/2016).
Perciò, con le sopra ricordate sentenze 26857/2018 e 50325/2018 si è inteso dare continuità a tale – condivisibile – ragionamento, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, cgr. Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale.
E si è quindi affermato il seguente principio di diritto: nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica o sotto l’influenza di stupefacenti viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati.
2020
Il 6 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 30931, onde tra gli art. 576, comma 1, n. 5.1, c.p. e 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p., non essendo ravvisabile un reato complesso: ciò implica che il delitto di atti persecutori non trovi applicazione autonoma qualora l’omicidio della vittima avvenga al culmine di molteplici condotte persecutorie poste in essere precedentemente ai danni della stessa persona offesa.
Questioni intriganti
In cosa consiste il reato complesso c.d. in senso stretto?
- si tratta di una peculiare ipotesi disciplinare al cospetto di una pluralità di fattispecie di reato;
- la disciplina la si rinviene nell’ambito del concorso di reati, sedes materiae di collocazione dell’84 c.p.;
- la pluralità di reati non fa luogo, in realtà, ad un concorso di reati, in quanto il reato a valle è uno solo, che è appunto il reato complesso;
- i due o più altri reati – a monte – ne costituiscono un elemento costitutivo o una circostanza aggravante;
- ciascuno dei due o più reati che convergono nel reato complesso perde pertanto la propria autonomia ed invididualità, fondendosi in esso;
- il reato complesso non è dunque la sommatoria, ma la sintesi della pluralità di reati che ne costituiscono elementi costitutivi o circostanze aggravanti;
- in questi casi non si applicano le norme sul concorso di reati: si è dunque al cospetto di una figura di concorso apparente di norme, tanto che non è mancato chi ne ha sottolineato la foggia di precipua concretizzazione del principio di specialità ex art.15 c.p.;
- peraltro, secondo il disposto della seconda parte dell’art.84 c.p., qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78e 79, onde anche quando il concorso apparente di norme torna ad essere concorso di reati, per esigenze di certezza giuridica resta fermo che non possono essere superati, per l’appunto, i limiti massimi di pena fissati in dette due disposizioni;
- il legislatore può discrezionalmente forgiare, a proprio piacimento, figure di reato complesso in cui il confluire (in termini di fusione) di più fatti inadempimento reato in uno solo scongiura l’applicazione della disciplina sul concorso di reati (con i gravosi effetti del tot crimina, tot poenae) per far luogo a quella più favorevole, per l’appunto, del reato complesso; si nota tuttavia, quale componente di tipo generalizzante, un frequente nessod. di “normalità delittuosa” o di “connessione sostanziale e strumentale tra condotte” ovvero ancora di “rilevanza causale tra condotte” che sembra guidare il legislatore penale nel disegnare figure di reato complesso, come palmarmente affiorante proprio dall’originario furto con violazione di domicilio (poi divenuto furto in abitazione), laddove la violazione di domicilio è funzionale al furto; seguendo l’id quod plerumque accidit, il legislatore sembra unificare dal punto di vista giuridico quello che è già unito in termini (se non proprio ontologici, quanto meno) di prassi, tanto che si parla di “unificazione prasseologica di reati”, onde un conto è commettere prima un furto e poi una violazione di domicilio, in tempi diversi, mentre altro conto è violare il domicilio altrui per commettere furto; a fare il paio con l’oggettiva “normalità delittuosa” si staglia poi, sul crinale soggettivo, un particolare atteggiamento psicologico del soggetto agente indicato dalla dottrina più accreditato come “unità di motivo”, onde se si guardano le singole fattispecie che confluiscono nel reato complesso, con riferimento ad esse isolatamente considerate affiora un deficit psicologico, tanto che non sarebbe sufficiente la mera occasionalità nel compimento simultaneo di più reati autonomi per far luogo alla corrispondente figura di reato complesso siccome disegnata dal legislatore, occorrendo appunto questo peculiare atteggiamento psicologico di sintesi, onde – nel furto con effrazione – laddove la violenza sulle cose non sia ancillare al furto, ma affiori come del tutto gratuita e per nulla funzionale alla sottrazione della cosa mobile altrui, essa tornerebbe ad essere punibile a titolo (autonomo) di danneggiamento ex art.635 c.p. in aggiunta al furto ex art.624 c.p., palesandosi in queste evenienze solo apparente la rilevanza dell’art.625, n.2, c.p.. Nel reato complesso la dottrina vede allora una peculiare gestione della c.d. “pluralità delittuosa” da parte del legislatore, che forgia le pertinenti figure tenendo conto sul crinale oggettivo della “normalità” che per prassi lega la simultaneità tra un fatto inadempimento reato ed un altro; e sul crinale soggettivo di un atteggiamento psicologico complessivo del soggetto agente che non ha consapevolmente voluto il reato A ed il reato B, ma ha piuttosto consapevolmente voluto il (solo) reato C, che ha realizzato ponendo in essere le condotte di cui ai reati A e B con una partecipazione psicologica “deficitaria” se riferita alle due condotte isolatamente considerate, e dunque con una minore rimproverabilità complessiva, riassumentesi non già in termini di pertinente sommatoria, quanto piuttosto di pertinente sintesi, con valenza minore in termini di penal-rilevanza.
In cosa consiste il reato complesso c.d. in senso lato?
- si tratta di una figura in cui non convergono due reati, quanto piuttosto un solo reato cui aderiscono degli elementi ulteriori, che tuttavia non costituiscono di per sé reato; se la minaccia o le percosse inducono taluno ad un determinato comportamento, si ha violenza privata (610 c.p.), dove tuttavia l’induzione ad un determinato comportamento non costituisce di per sé reato; se la minaccia o le percosse sfociano in un congiungimento carnale, si fa luogo a violenza carnale (come peculiare ipotesi oggi di violenza sessuale (art.609.bis c.p.) laddove, tuttavia, il congiungimento carnale non costituisce di per sé reato;
- si fronteggiano 2 teorie: b.1) teoria recessiva: l’art.84 si riferisce tanto al reato complesso tout court (o in senso stretto), quanto al reato complesso “in senso lato”: oltre ai lavori preparatori al codice penale e alla possibilità, dal punto di vista semantico, di ricondurre al reato complesso entrambe le fattispecie, si rappresenta – sul crinale strutturale – come ambedue le fenomenologie siano accomunate dalla d. specialità “per aggiunta”, in cui ad una prototipo generale se ne accosta uno specializzante aggiunto, in disparte poi se tale elemento specializzante compendi di per sé reato (fattispecie complessa in senso stretto) o meno (fattispecie complessa in senso lato); b.2) teoria più accreditata: sia l’art.84, comma 2, sia l’art.131 e l’art.170, comma 2, fanno chiaro riferimento al solo reato complesso in senso stretto, che fonde in sé fattispecie autonome di reato (laddove possano assumere una qualche rilevanza), onde le ipotesi normalmente additate come di reato complesso in senso lato vanno ricondotte non già all’art.84 c.p., quanto piuttosto (e più semplicemente) all’art.15 c.p. e al principio di specialità ivi inscritto.
In cosa consiste la c.d. “continenza” del reato complesso e cosa occorre ricordare?
- dal momento che si assiste ad un reato a valle (il reato complesso, appunto) ed ad uno o più reati a monte (quelli che vi confluiscono come elementi costitutivi o circostanze aggravanti), il reato complesso viene detto “continente” rispetto ai reati che vi si fondono, c.d. “contenuti”;
- questo rapporto di continenza presenta, secondo la dottrina e la giurisprudenza, un limite specifico compendiantesi nella proporzione, onde non è ammissibile che i reati confluenti siano puniti con pena più elevata rispetto al reato complesso “continente” nel quale essi si fondono, dovendo sempre il disvalore di quest’ultimo essere per l’appunto proporzionalmente maggiore rispetto a quello dei primi;
- laddove tale proporzione non venga rispettata, la disciplina del reato complesso non scatta: è l’ipotesi in cui la violenza sulle persone che di norma confluisce nel reato complesso (ad esempio, nella rapina) superi la soglia delle mere percosse (che, ex 581, comma 2, c.p., vengono per l’appunto assorbite dal reato complesso), come nei più gravi casi di lesioni o addirittura di omicidio, ma anche di resistenza a pubblico ufficiale; è l’ipotesi in cui la violenza sulle cose che di norma confluisce nel reato complesso superi la soglia del mero danneggiamento, per sconfinare nella devastazione o in altro più grave reato;
- quando la continenza è sproporzionata, si fronteggiano 2 possibili tesi: d.1) tesi giurisprudenziale: si applica il reato complesso in concorso con il reato che, già confluito nel reato complesso, non rispetta tuttavia il limite della proporzione (ad esempio, rapina in concorso con lesioni personali); si obietta tuttavia che una medesima condotta finisce in tal modo con l’essere punita due volte, dapprima perché contenuta nel reato complesso, e poi perché sproporzionata e dunque autonomamente sanzionabile; e.2) tesi dottrinale: in ossequio al c.d. ne bis in idem sostanziale, occorre scomporre il reato complesso in senso stretto e punire in concorso tra loro tanto il reato “proporzionato” quanto quello alfine risultato sproporzionato (nell’esempio fatto, il furto da un lato e le lesioni personali dall’altro); ove invece si tratti di reato complesso in senso lato, poiché la scomposizione non è possibile, si punisce per il reato complesso (in senso lato) in concorso con la fattispecie di reato sproporzionata, ma si evita di applicare l’aggravante del c.d. nesso teleologico di cui all’61, n.2, c.p., che invece sarebbe di regola applicabile.
Quante tipologie di reato complesso in senso stretto si configurano?
Si configurano 2 tipologie di reato complesso:
- il reato complesso speciale: due inadempimenti reato si fondano e fanno luogo ad un terzo, nuovo ed autonomo inadempimento reato che è la sintesi risultante dai primi due; quando il furto (art.624 c.p.) abbraccia la violenza (art.610 c.p.) e i due reati inadempimento si fondono, ne sortisce un terzo ed autonomo inadempimento reato che è la rapina (art.628 c.p.);
- il reato complesso aggravato o circostanziato: di due inadempimenti reato autonomi, uno diviene circostanza aggravante rispetto all’altro, fondendosi al quale fa luogo appunto al reato complesso aggravato (o circostanziato); quando il furto (art.624 c.p.) abbraccia la violazione di domicilio (art.614 c.p.) e i due reati inadempimento si fondono, ne sortisce un terzo ed autonomo reato inadempimento che è il furto aggravato dalla violazione di domicilio, che tuttavia è per l’appunto una figura autonoma di inadempimento reato (art.625, n.1, c.p.) e non già una forma aggravata di furto.
Da quali altre figure va distinto il reato complesso?
- dal reato continuato; in entrambi i casi la volontà unificante è legislativa, ma mentre nel reato continuato l’unione resta tale solo in ottica di favor rei, dissolvendosi nella pluralità dei reati che compongono la figura laddove tale ritrovata plurimità giovi al soggetto agente, nel reato complesso la volontà unificante resta ex lege non dissolvibile, perdendo i reati confluenti definitivamente la propria autonomia;
- dal reato abituale: anche in questo caso si assiste ad un concorso apparente di norme, in quanto in un solo fatto inadempimento reato convegono più condotte che (specie nel reato abituale improprio) di per sé sole costituirebbero inadempimento reato, e tuttavia mentre nel reato abituale tali condotte si susseguono nel tempo facendo luogo ad un contegno, per l’appunto, abituale, nel caso del reato complesso le condotte che fondendosi fanno luogo ad un solo inadempimento reato (pur sfociando già di per sé stesse, astrattamente, in autonomi eventi inadempimento reato) sono simultanee.
Quali problematiche solleva il reato complesso c.d. circostanziato?
- un autonomo reato inadempimento si fonde in un altro rappresentandone una circostanza aggravante;
- questo significa che, tra tutte le circostanze aggravanti, ve ne sono talune che – laddove non fuse in un altro inadempimento reato – costituirebbero per sé stesse inadempimento reato;
- un primo problema è quello di verificare quale sia il regime di imputazione della circostanza che di per sé costituirebbe reato; c.1) secondo una prima e meno accreditata opzione ermeneutica, si segue in ogni caso il disposto dell’art.59 c.p. novellato, onde la circostanza aggravante è imputabile soggettivamente se dolosa (perché conosciuta) ma anche se soltanto colposa (perché conoscibile e sconosciuta per colpa); c.2) secondo altra e più accreditata teoria, quando si è al cospetto di un reato complesso circostanziato, la circostanza (che già di per sé costituirebbe reato) deve essere imputata a titolo di dolo secondo la disciplina generale di cui all’42, comma 2, c.p., e non anche a titolo di colpa; si tratta tuttavia in massima parte di un falso problema, e ciò dal momento che quando il legislatore disegna un reato complesso “circostanziato”, la circostanza (già autonomo reato) che vi confluisce presuppone necessariamente l’atteggiamento doloso del soggetto agente (come nel tipico caso della violazione di domicilio);
- un secondo problema è quello di applicare a tali peculiare circostanze il meccanismo del bilanciamento di cui all’69 c.p.: d.1) secondo una prima e più remota tesi, tale bilanciamento non è applicabile, coinvolgendo solo circostanze “pure”, e dunque non circostanze che, isolatamente considerate, costituiscono di per sé reato; d.2) secondo la tesi più recente e più accreditata, anche le circostanze che convergono nel reato complesso possono essere bilanciate con altre circostanze, e ciò sia perché l’art.84 parla genericamente di circostanze aggravanti, senza dunque limitarsi a quelle di peculiare natura e regime, sia perché il bilanciamento delle circostanze, a partire dal 1974, coinvolge anche le circostanze ad effetto speciale, e dunque palesa una capacità espansiva che non può non coinvolgere anche le circostanze aggravanti che si fondono in un reato complesso;
- un terzo problema è quello di verificare, in caso di reati che confluiscono in un reato complesso, quali circostanze aggravanti contribuiscano o meno a determinare il giudice competente ai sensi dell’4 del c.p.p.; si fronteggiano due tesi: e.1) secondo una prima opzione ermeneutica, dal momento che l’art.4 del c.p.p. taglia fuori in genere “le circostanze” quanto a pertinente rilevanza per individuare il giudice competente, anche la circostanza che confluisce nel reato complesso circostanziato è da intendersi non rilevante all’uopo; e.2) secondo altra tesi, più accreditata, dal momento che l’aggravamento di pena conseguente al confluire di un autonomo reato, in veste di circostanza aggravante, in un reato complesso circostanziato non è indifferente, scatta l’eccezione prevista dall’art.4 del codice per le circostanze autonome e per quelle ad effetto speciale, che invece rilevano al fine di individuare il giudice competente ad accertare il fatto inadempimento reato;
In cosa consiste il reato complesso c.d. eventuale?
- si parla anche di reato “eventualmente complesso”, che si oppone al reato “necessariamente complesso”;
- la fattispecie tipica prevede che – dato un certo inadempimento reato – un relativo elemento costitutivo od una relativa circostanza aggravante costituiscano, eventualmente ma non necessariamente, di per sé reato; potrebbero dunque anche non compendiare, di per sé, inadempimento reato;
- nel reato necessariamente complesso si fondono sempre ed indefettibilmente almeno due reati, sicchè un reato è di necessità elemento costitutivo o circostanza aggravante dell’altro; nel reato eventualmente complesso, si ha reato “a valle” quand’anche l’elemento costitutivo o la circostanza aggravante non sia di per sé reato, onde laddove tale evenienza in concreto si configuri, il reato – che in partenza è solo eventualmente complesso – diviene complesso in senso stretto;
- molte fattispecie apparentemente di reato complesso in senso stretto si profilano per parte della dottrina – a ben vedere – come fattispecie a reato solo eventualmente complesso: d.1) le fattispecie in cui un fatto, che già di per sé sarebbe inadempimento reato, confluisce nel reato complesso come circostanza aggravante: qui in realtà, il reato si profila eventualmente complesso dal momento che – ove la circostanza aggravante (già reato autonomo) sia imputata all’autore a titolo di colpa ex art.59 c.p. piuttosto che di dolo (che occorrerebbe invece per assumere appunto la fattispecie come autonomo titolo di reato) – il reato affiora per l’appunto solo come “eventualmente” (e non già necessariamente) complesso; d.2) le fattispecie di reato complesso a base violenta, molto numerose a livello codicistico, in cui l’elemento costitutivo “violenza” costituisce spesso di per sé reato, ma ciò non è predicabile in senso assoluto, potendo configurarsi violenze che non sono in via autonoma inadempimento reato (quanto alla violenza propria, l’esempio tipico è lo spintone; quanto alla violenza impropria, l’esempio tipico è lo sparo in aria con arma giocattolo), con la conseguenza onde il reato complesso “per violenza” si profila sempre come “eventualmente” (e non già necessariamente) complesso; lo stesso 581, comma 2, c.p., nell’assumere irrilevanti penalmente le percosse tutte le volte che la legge considera la “violenza” come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato, disegnerebbe – in questo prisma ermeneutico – proprio una fattispecie di reato “eventualmente” complesso in cui la violenza può assumere rilievo anche laddove non giunga ad atteggiarsi a percossa (né tampoco a lesione), non identificandosi né sovrapponendosi (neppure semanticamente) ad essa.
Quali problemi pone il reato complesso in rapporto al tentativo?
- la questione riguarda il momento “a quo” del tentativo punibile;
- ciò in quanto il reato complesso ingloba in sé fatti di per sé costituenti reato, onde occorre capire rispetto a cosa (reato complesso o sue singole componenti) gli atti del soggetto agente debbono intendersi idonei ed inequivoci;
- a seconda delle concrete circostanze, occorre in particolare distinguere quando il tentativo riguarda singolarmente uno dei reati che si fonderebbero nel reato complesso e quando, piuttosto, si tratta di tentativo di reato complesso globalmente considerato;
- la dottrina e la giurisprudenza individuano due possibili ipotesi alternative: d.1) tentativo di reato complesso che ingloba altri reati come elementi costitutivi: è sicuramente tentativo quando esso si configura come tale in relazione a ciascun reato componente, onde si ha tentativo di rapina quando si realizza un tentativo di furto unito ad un tentativo di violenza privata; non manca tuttavia chi parla di tentativo di reato complesso, in questa fattispecie, anche quando uno degli elementi costitutivi-reato sia rimasto alla soglia del tentativo, mentre l’altro sia stato consumato, come accade nella rapina impropria laddove, se il furto è rimasto alla soglia del tentativo, ma la violenza è stata perpetrata, si configura almeno secondo la giurisprudenza tentativo di rapina impropria (e non già furto aggravato tentato + violenza privata consumata), giusta scomposizione della fattispecie complessa nelle relative componenti; d.2) tentativo di reato complesso che ingloba altri reati come circostanze aggravanti (c.d. reato complesso circostanziato: tipico l’esempio del furto come reato base e della violazione di domicilio come reato circostanza): laddove il reato-circostanza preceda il (e sia finalizzato al) reato base, e dalla relativa fusione affiori il reato complesso, normalmente il tentativo di reato-circostanza è già tentativo di reato-base, e dunque – in senso globale – tentativo di reato complesso; laddove il reato-circostanza sia concomitante al reato base, anche in questo caso – se il tentativo del reato circostanza coincide temporalmente con il tentativo di reato base – può dirsi configurato il tentativo di reato complesso; laddove il reato circostanza sia successivo al reato-base, in taluni casi si configura concorso (ad esempio, furto consumato e successiva tentata violazione di domicilio), mentre in altri la struttura della fattispecie può far assumere consumato il reato complesso anche se la componente reato-circostanza è rimasta al mero stadio del tentativo, come nell’ipotesi tutt’affatto peculiare della rapina ex 628, comma 3, n.2 c.p. in cui la violenza consiste nel porre taluno, dopo aver consumato il furto, in stato di incapacità di volere o di agire, laddove si ha comunque tentativo di rapina laddove via sia stato per l’appunto furto consumato e (solo) tentata violenta induzione in stato di incapacità.
In che modo il reato complesso intercetta la disciplina del concorso apparente di norme?
- nel reato complesso si verifica un (apparente) concorso di reati tutt’affatto peculiare, in cui non si applica la disciplina sanzionatoria dei diversi reati che si fondono, quanto piuttosto – e soltanto – la disciplina sanzionatoria del reato che è “complesso” appunto perché prodotto dalla fusione in parola, e dunque speciale rispetto alle fattispecie che si fondono ai sensi dell’art.15 c.p.; in luogo di un concorso di reati si ha allora un concorso apparente di norme in cui rileva, dal punto di vista strutturale, la specialità astratta di una fattispecie di reato rispetto ad una o più fattispecie “generali” (si pensi alla classica ipotesi della rapina, che è speciale tanto nei confronti del furto, quanto rispetto alla violenza privata);
- muovendo poi dalla figura di d. reato complesso “eventuale”, si assume in dottrina quest’ultima appartenere ad una categoria più ampia nel cui novero si inserisce anche la progressione criminosa: in entrambi i casi un elemento costitutivo può compendiare o meno, autonomamente, reato, ma resta comunque assorbito da altra fattispecie di reato; mentre tuttavia nel reato “eventualmente” complesso un reato “eventuale” confluisce puramente e semplicemente nell’altro (senza alcuna progressione lesiva rispetto ad un medesimo bene-interesse protetto), nel reato progressivo il fatto inadempimento “eventuale” che confluisce è sempre quello che offende di meno il bene (interesse) giuridico penalmente protetto, mentre il reato “a valle” è sempre quello che consuma l’offesa maggiore al medesimo bene (interesse); in entrambi i casi tuttavia, e dunque nell’ottica della categoria generale che li ricomprende, a campeggiare è un giudizio di valore che impone – anche quando il fatto che confluisce è titolo autonomo di reato – di non punire due volte un comportamento che appare meritevole di una sola (quand’anche appropriata) sanzione penale (c.d. ne bis in idem sostanziale), onde fattispecie di “specialità reciproca” che di per sé non rientrerebbero sotto l’egida precettiva dell’art.15 c.p. (specialità strutturale ed astratta), possono far luogo ad una sola punizione (piuttosto che a due) giusta ricorso proprio all’art.84 c.p.