<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Dinanzi ad un solo fatto storico – o anche, talvolta, ad una successione di fatti storici – potrebbe apparire operativa una pluralità di norme che, in realtà, convergono tra loro qualificando in via unitaria tale fatto (o tali fatti) come “</em>unico e solo<em>” inadempimento reato (piuttosto che come pluralità di inadempimenti-reato in concorso tra loro): una convergenza fondata sul mero raffronto strutturale tra le pertinenti fattispecie astratte o, muovendo da un’altra prospettiva, sulla irragionevolezza del punire due (o più volte) un fatto (o più fatti) il cui disvalore – anche in relazione all’interesse penalmente protetto – appare sostanzialmente riconducibile ad un unico inadempimento reato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel <strong>diritto romano </strong>solo apparentemente non si rinvengono <strong>specifici addentellati</strong> al c.d. <strong>concorso apparente di norme</strong>: se infatti si parte, secondo il consueto <strong>schema romanistico</strong>, dal <strong>processo</strong> per discendere alla <strong>sostanza</strong>, ci si avvede che è <strong>di ascendenza romanistica</strong> il <strong>principio del <em>ne bis in idem</em></strong>, ovvero della <strong>consumazione della lite</strong> attraverso il relativo <strong>esercizio</strong>, senza che possa poi essere <strong>riproposta</strong> nei confronti del <strong>medesimo convenuto</strong> (c.d. <strong><em>consumptio per litis contestationem</em></strong>), già in qualche modo affiorante dalla c.d. <strong><em>litis contestatio</em></strong> e dal relativo <strong>effetto preclusivo</strong>: nel Digesto, se ne rinvengono specifici richiami in <strong>Ulpiano</strong>, Dig. 48.2.7.2, mentre il principio viene citato anche da <strong>Gaio</strong> nelle sue Istituzioni (3.181). Si è osservato peraltro come il diritto romano sia stato <strong>assai intransigente</strong> in tema di <strong>concorso di reati</strong>, ogni volta che a carico di un individuo risultassero <strong>più fatti delittuosi</strong>, infliggendo <strong>tante sanzioni quanti erano i reati</strong> (secondo il noto principio <em>tot delicta quot poenae</em>), secondo una <strong>concezione autoritaria e assoluta dello Stato</strong> <strong>e del diritto</strong> alla cui stregua <em>numquam plura delicta concurrentiam faciunt ut ullius impunitas detur</em> (“<em>mai, in presenza di più delitti concorrenti, per taluno di essi può essere esclusa la pena</em>”) secondo l’efficace espressione di Dig., XLVII, 1, <em>de privatis delittis</em>, 2): per tale motivo i Romani – seppure hanno via via assunto <strong>ammissibile</strong> il mero "<strong><em>concorso ideale</em></strong>", ovvero <strong>l'assorbimento</strong> di un titolo di reato nell'altro – hanno tuttavia <strong>limitato tale ammissibilità</strong> alla sola ipotesi di <strong>più violazioni di legge</strong> originate da <strong>un unico<em> </em>fatto delittuoso</strong>, secondo lo schema oggi ricondotto al c.d. <strong>concorso formale</strong>, assumendolo piuttosto inammissibile in caso di concorso materiale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli non si occupa in via immediata e diretta del concorso apparente di norme: tuttavia in sede di disciplina del concorso di reati e di pene si prevede, all’art.79, che colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizione di legge penale è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave, così implicitamente disciplinando un concorso apparente di tipo “<em>valoriale</em>” assai più che “<em>strutturale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nel codice penale Rocco è l’art.15, ed il principio di specialità in esso iscritto, la norma cardine sul concorso apparente di norme, dovendo assumersi prevalente – al cospetto di una “<em>stessa materia</em>” regolata - la legge o la disposizione di legge speciale su quella generale salvo, peraltro, che sia “<em>diversamente stabilito</em>”: ciò viene riferito in particolare alla ipotesi del c.d. concorso formale apparente, additandosi quale stessa materia un unico fatto storico riconducibile, strutturalmente, a due fattispecie astratte, l’una speciale rispetto all’altra, generale. L’art.1 afferma, per parte sua, che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4329.html">reato</a> dalla legge, consacrando un principio di legalità-tassatività che entra in rotta di collisione con tutto quello che è indeterminatezza disciplinare in ambito penale (secondo taluni, anche laddove <em>pro reo</em>, come appunto nel caso che occupa), con particolare riguardo ad ipotesi di concorso apparente di norme diverse da quella, codificata, di “<em>specialità</em>” ex art.15 c.p. La figura del reato abituale, specie se improprio – tipico il caso dei maltrattamenti in famiglia ex art.572 c.p. in cui ciascuno dei fatti commessi in danno della vittima sarebbe di per sé reato – testimonia tuttavia come sia anche possibile che più fatti storici siano eccezionalmente abbracciati in un unico fatto inadempimento reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione ed in particolare il relativo art.25, secondo il cui comma 2 nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/292.html">entrata in vigore</a> prima del fatto commesso, in ciò consacrandosi il principio di legalità ed i relativi canoni di diretta derivazione, con peculiare riguardo a quello di tassatività, che impone di scegliere tutte le interpretazioni della legge penale capaci di scongiurare incertezze applicative, massime quando si tratti di applicazioni <em>contra reum</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 novembre viene varata la legge 689 in tema di sanzioni amministrative, alla stregua del cui articolo 9 laddove una norma penale concorra con una di natura amministrativa sanzionatoria, prevale quella tra le due che è speciale rispetto all’altra, da assumersi generale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 aprile esce la importante sentenza della Corte costituzionale n. 97 sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazioni di natura amministrativa, che – in tema di furto di selvaggina ad opera di cacciatori - afferma come per risolvere il problema del concorso apparente vadano “<em>… confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso</em>”, schierandosi dunque per una impostazione di tipo astratto e strutturale in ordine alla verifica del rapporto di specialità tra disposizioni che convergono su un medesimo fatto naturalistico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11395 che conferma come in tema di rapporti tra norma amministrativa sanzionatoria e norma penale, si applica quella delle due che è speciale rispetto all’altra, da intendersi generale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene licenziato il progetto di riforma del codice penale “<em>Grosso</em>”, che propone in tema di concorso apparente di norme un duplice criterio: da una parte il tradizionale principio di specialità fondato sul rapporto astratto-strutturale tra norme; dall’altro un canone maggiormente valoriale orientato ad applicare, al medesimo fatto riconducibile a più disposizioni di legge, solo quella tra esse che “<em>ne esprime per intero il disvalore</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 dicembre esce l’importante sentenza delle SSUU n.47164 che – in tema di concorso apparente di norme – assume applicabile (in fattispecie concernente ricettazione e diritto d’autore) il solo principio di specialità, con conseguente ripudio delle teorie c.d. pluralistiche, dovendo assumersi ammissibile la sola alternativa tra le ipotesi in cui l’incompatibilità tra fattispecie è stata direttamente additata dal legislatore attraverso clausole di riserva e quelle in cui essa può essere indagata dal giudice, ma solo sul crinale strutturale del rapporto tra le fattispecie astratte considerate. La Corte, in particolare, si scaglia contro le teorie c.d. dell’assorbimento e della consunzione, giudicandole in frizione con il principio di legalità e in particolare con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale; più in specie, ammettendo l’operatività di tali principi – fondati essenzialmente su giudizi di valore – si aprirebbe la strada alla legittimazione di valutazioni giurisdizionali di tipo intuitivo, incerto ed incontrollabile. Né potrebbe addursi a supporto la parte finale dell’art.15, laddove ammette che “<em>sia altrimenti stabilito</em>” rispetto all’applicazione del principio di specialità: in realtà, a “<em>stablire diversamente</em>” non può che essere la legge stessa (e non il giudice), come accade normalmente attraverso le c.d. clausole di riserva. Dal momento che ci si affida al giudice in modo del tutto disancorato dalla struttura della fattispecie normativa, rischia di prevalere la valutazione intuitiva del giudicante, con tendenziale contrasto rispetto al principio di legalità, tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale. Più in specie, per la Corte - nel vigore della <a href="http://www.altalex.com/documents/leggi/2010/03/24/nuove-norme-di-tutela-del-diritto-d-autore">legge n. 248/00</a>, e sino alla entrata in vigore del <a href="http://www.altalex.com/documents/news/2010/03/24/diritto-d-autore-e-diritti-della-societa-dell-informazione-attuazione-direttiva-29-2001">d.lgs. n. 68/2003</a> - la condotta di acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, laddove non faccia luogo a concorso ex art. 110 c.p. in uno dei reati previsti dagli artt. 171-171 <em>octies</em> legge n. 633/1941 (legge sul diritto d’autore), deve assumersi integrare solo l'illecito amministrativo di cui all'art. 16 della stessa legge 248.00, anche se l’acquisto sia destinato al commercio, non concorrendo tale disposizione, in virtù del principio di specialità previsto dall'art. 9 legge n. 689/1981, con l’art. 648 c.p. che punisce lo stesso fatto; mentre per i comportamenti posti in essere successivamente all’entrata in vigore del <a href="http://www.altalex.com/documents/news/2010/03/24/diritto-d-autore-e-diritti-della-societa-dell-informazione-attuazione-direttiva-29-2001">d.lgs. n. 68/03</a>, che ha abrogato l’art. 16 della <a href="http://www.altalex.com/documents/leggi/2010/03/24/nuove-norme-di-tutela-del-diritto-d-autore">legge n. 248/00 </a>e l’ha sostituito con il nuovo testo dell’art. 174 ter legge n. 633/1941, può configurarsi il concorso tra il reato di ricettazione e quello di cui all'art. 171 ter della legge n. 633/1941, quando l'agente, oltre ad acquistare semplicemente supporti audiovisivi fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, li detenga a fine di commercializzazione; e può invece configurarsi il solo illecito meramente amministrativo previsto dall’art. 174 ter legge n. 633/1941 quando l’acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale. La Corte aggiunge che la situazione non è mutata con il <a href="http://www.altalex.com/documents/leggi/2008/09/04/competitivita-processo-civile-professioni-fallimento-auto-dia-finanziamenti">decreto legge n. 35/05</a>, così che l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, di cose che, per la relativa qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di proprietà intellettuale, è punito con la sanzione amministrativa fino a 10.000 euro, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del citato decreto legge. In tal caso, l’illecito amministrativo previsto dall’art. 174 ter della legge n. 633/1941 si pone per la Corte in rapporto di specialità anche con la contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p., sempre tuttavia che l’acquisto non sia destinato all’immissione in commercio dei supporti illecitamente prodotti. Interessanti anche le considerazioni della Corte – che ne corroborano le conclusioni nel senso del concorso tra l’art.648 c.p. (ricettazione) e l’art.171.ter della legge 633.41 (immissione in commercio di videocassette abusivamente riprodotte) – in ordine alla propria giurisprudenza sui rapporti tra la ricettazione ed il diverso delitto di cui all’art.474 c.p., che punisce l’introduzione nel territorio dello Stato ed il commercio di prodotti con segni falsi: anche chi non ha contraffatto né ha ricettato (perché era in buona fede quando ricevette il prodotto da altri contraffatto), qualora consegua <em>ex post</em> la consapevolezza che i prodotti ricevuti recano segni falsi, ed in ogni caso li mette in commercio, va punito ex art.474 c.p., onde – non essendo necessario aver preventivamente consumato quei due reati, tra i quali è compresa la ricettazione, per essere punito a detto titolo – questo significa che non vi è neppure parziale coincidenza strutturale tra le due fattispecie astratte (altrimenti si dovrebbe “<em>passare per la ricettazione</em>” onde commettere il fatto di cui all’art.474 c.p.) , con l’ovvia conclusione del concorso di reati (e non già del concorso apparente di norme, non ravvisandosi la specialità tra le disposizioni).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7629 che - nell’occuparsi dei rapporti tra l’art.423 c.p. (incendio) e l’art.434, comma 2, c.p. (crollo di costruzione e altri disastri dolosi) – sembra sconfessare le SSUU di fine 2005. Queste ultime si sono orientate nel senso di ammettere il solo criterio di specialità di cui all’art.15 c.p. (teoria monistica) al fine di verificare se, in luogo del concorso di reati, si sia in presenza di un concorso apparente di norme, mentre la I sezione aderisce con consistente grado di consapevolezza alla teoria dell’assorbimento (o consunzione), e dunque alle teorie c.d. pluralistiche. Il problema è quello di capire se chi appicca il fuoco ad un edificio provocandone il crollo debba rispondere di entrambe le fattispecie, ovvero di una sola. Qui la Corte – muovendo dal principio del c.d. <em>bis in idem</em> sostanziale, del connesso divieto e del principio di assorbimento che meglio lo compendia – assume che la doppia punizione vada esclusa non già solo in forza del principio di specialità, ma anche quando, nella sostanza, si finisca per punire due volte per uno stesso fatto. Anche se non strutturale, un rapporto tra le due norme incriminatrici coinvolte dalla fattispecie sussiste, ed è un rapporto di valore: un’unica condotta implica un apprezzamento negativo del relativo, concreto accadere che si palesa tutto compreso nella norma che prevede la fattispecie più grave, con conseguente ingiusto moltiplicarsi della sanzione laddove si faccia applicazione di entrambe le fattispecie. Non resta dunque che fare applicazione, in queste ipotesi, del principio dell’assorbimento, con prevalenza della norma che prevede in concreto la pena più severa: in concreto appunto, e non in astratto, onde nel caso di specie va applicata la fattispecie corredata da circostanza aggravante specifica, concretamente più grave dell’altra. La Corte in conclusione fa applicazione alla fattispecie del solo crollo doloso di costruzione (art.434, comma 2, c.p.), che assorbe l’incendio quale offesa di carattere maggiore che assorbe l’offesa di carattere minore, in un’ottica tutta incentrata non già sui rapporti strutturali tra fattispecie astratte, ma sui diversi e concreti gradi dell’offesa ad un medesimo bene protetto da entrambe le norme penali, nel caso di specie identificato nella pubblica incolumità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16568 che si occupa dei rapporti tra l’art.640.bis c.p. e l’art.316.ter c.p., ritenendo che il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato è in rapporto di sussidiarietà, e non di specialità, con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, con la conseguenza che il primo (art.316.ter c.p.) è configurabile soltanto laddove difettino nella condotta gli estremi del secondo (art.640.bis c.p.), come del resto dimostra l’incipit della norma alla cui stregua “<em>salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'articolo <a href="http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xiii/capo-ii/art640bis.html">640bis</a>…</em>”. La sentenza è importante perché si occupa anche dei rapporti tra i delitti di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art.316.ter c.p. e falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art.483 c.p., assumendo come il primo sia assorbente rispetto al secondo, dal momento che la presentazione da parte del privato di dichiarazioni o documenti falsi è elemento essenziale per la configurazione del delitto di indebita percezione a danno dello Stato: si tratta di due fattispecie parzialmente identiche con riguardo alle quali una risulta speciale rispetto all’altra, e dunque da essa assorbita, a nulla rilevando il fatto che le due disposizioni abbiano “<em>oggetti materiali</em>” (bene-interesse penalmente tutelato) diversi, in quanto – contrariamente a quanto asserito da più risalente dottrina - ai fini della specialità ex art.15 c.p. (c.d. “<em>stessa materia</em>”) il bene tutelato dalle due norme in concorso apparente non rileva, rilevando soltanto la strutturale specialità di una norma rispetto all’altra.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.1235, che mostra di fare propria la teoria monistica in tema di applicazione del solo principio di specialità ex art.15 c.p. al fine di assumere presente un concorso apparente di norme. Nella fattispecie si tratta di verificare i rapporti tra truffa aggravata ai danni dello Stato ex art.640.bis c.p., da un lato, ed i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazione inesistenti (art.2 del decreto legislativo n.74.00) e di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art.8 del decreto legislativo n.74.00), dall’altro. Il problema della frizione con il principio di legalità – sul crinale della sufficiente determinatezza e tassatività della fattispecie penale – dei principi (in specie) della consunzione e dell’assorbimento, propugnato dalle teorie monistiche, appare vieppiù grave in ottica di diritto internazionale europeo, ed in particolare di CEDU, il cui articolo 7 fonda per l’appunto il principio di legalità qui rilevante <em>ratione materiae</em>: laddove, al fine di verificare se si sia al cospetto di un concorso di reati ovvero di un concorso apparente di norme, ci si dovesse affidare ai giudizi di valore (intuitivi) del singolo giudicante, ne discenderebbe una vulnerazione dei due principi fondamentali di carattere convenzionale nei quali si declina il canone della legalità, vale a dire la accessibilità della norma dalla cui violazione discende la sanzione penale (c.d. <em>accessibility</em>) e la connessa prevedibilità della sanzione che si rischia nel violare tale norma (<em>foreseeability</em>); poiché tanto l’accessibilità della norma che la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie sono collegati non già solo al diritto positivo, ma anche alla interpretazione applicativa che ne danno i giudici, per la Corte qualora si lasciasse al singolo giudice la verifica in ordine alla sussistenza di un concorso apparente di norme piuttosto che di un concorso di reati si assisterebbe ad una sostanziale incertezza e dunque ad una compromissione di quei principi. Venendo al caso di specie, per la Corte proprio l’applicazione del principio di specialità scolpito all’art. 15 c.p. preclude il configurarsi del concorso di reati, facendo optare per il concorso apparente di norme. Per la Corte il legislatore – nel forgiare le fattispecie penali tributarie – ha inteso anticipare la tutela penale a quei contegni che facciano luogo a dichiarazioni fiscali non rispondenti al vero, onde i delitti contemplati dal d.lgs. 74/2000 sono costruiti quali reati di mera condotta, ed in rapporto di specialità rispetto alla truffa ai danni dello Stato per essere essi caratterizzati da una particolare modalità di artificio compendiantesi nell’annotazione o emissione di fatture false, ovvero nella predisposizione di dette fatture false. Sul crinale del rapporto tra fattispecie astratte, per la Corte non solo la condotta del soggetto agente, ma anche tutti gli ulteriori elementi costitutivi del delitto di truffa trovano precisa corrispondenza nello schema normativo previsto per i delitti tributari, l’evento di danno patrimoniale ai danni dello Stato di cui all’art. 640 comma 2, n. 1 c.p., palesandosi non escluso dalla fattispecie tributaria, ma divenendo l’oggetto del dolo specifico, consistente nel “<em>fine di evadere le imposte</em>”; onde, se il reato tributario si consuma a prescindere dall’effettiva verificazione del danno nei confronti dello Stato, per la Corte dovrà comunque essere presente nel soggetto agente la finalità di cagionare un tale danno giusta predisposizione, nella relativa veste di contribuente, di un peculiare sistema fraudolento atto ad ingannare l’Erario, sicché il principio di specialità impone l’applicazione della sola fattispecie tributaria, peraltro assistita da una cornice sanzionatoria più elevata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.1963 che si occupa del custode del veicolo soggetto a sequestro amministrativo ex art.213 del Codice della Strata, allorché circoli abusivamente con lo stesso. Si profilano da un lato la mera sanzione amministrativa prevista dall’art.213, comma 4, del codice della strada, e dall’altro il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro ex art.334 c.p. Si tratta di una sentenza importante nel cui contesto letterale la Corte ribadisce il proprio orientamento inteso ad abbracciare la teoria monistica sul c.d. principio di specialità e a ripudiare le teorie pluralistiche (imperniantesi sui canoni della consuzione e dell’assorbimento). La Corte osserva che l'<a href="http://www.altalex.com/documents/news/2013/11/14/della-legge-penale#art15">art. 15 c.</a>p. si riferisce alla "<em>stessa materia</em>" senza specificare cosa si intenda con tale locuzione, potendosene dedurre che per "<em>stessa materia</em>" debba intendersi la stessa fattispecie astratta, il fatto tipico di reato nel quale si realizza l'ipotesi di reato, secondo una opzione ermeneutica confermata dalle Sezioni Unite della medesima Corte con la <a href="http://www.altalex.com/documents/massimario/2007/11/09/concorso-di-reati-indebita-percezione-di-erogazioni-a-danno-dello-stato">sentenza 16568</a>.07, riferita ad un caso di specialità unilaterale, caratterizzato dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie generale erano ricompresi in quella c.d. speciale. Per la Corte, perché possa assumersi applicabile l'<a href="http://www.altalex.com/documents/news/2013/11/14/della-legge-penale#art15">art. 15</a> all’ipotesi esaminata in concreto, è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica ovvero deve trattarsi di reati che devono riguardare tutti la medesima materia, oltre a possedere identità di struttura, richiamando anche la pronuncia della Corte costituzionale che, nella sentenza 3 aprile 1987, n. 97 sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazione di natura amministrativa, ebbe ad osservare come per risolvere il problema del concorso apparente vadano “… <em>confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso</em>”. Secondo la Corte, con riguardo al caso di specie, gli elementi specializzanti sono tutti contenuti nell'art. 213, comma 4, del codice della strada e dunque questa norma deve essere ritenuta speciale ai sensi dell'art. 9, primo comma, della <a href="http://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/10/28/legge-di-depenalizzazione">legge 24 novembre 1981, n. 689</a> (ma lo sarebbe anche con l’applicazione dell’<a href="http://www.altalex.com/documents/news/2013/11/14/della-legge-penale#art15">art. 15 cod. pen.</a>) con la conseguenza onde il concorso con l’art. 334 cod. pen. – limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in base alla medesima norma - deve essere ritenuto apparente. La Corte conclude dunque nel senso onde, nel caso esaminato, il concorso tra le norme ricordate è solo apparente ed è applicabile all’ipotesi in esame soltanto la violazione amministrativa prevista dall’art. 213 C.d.S., comma 4 .</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22225 che si occupa dei rapporti tra la ricettazione ex art.648 c.p. e l’art.1, comma 7, del decreto legge 35.05 (come risultante dalle successive modificazioni introdotte dal legislatore nel 2005 e nel 2009), che prefigura un illecito amministrativo per l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la qualità o per la condizione di chi le offre o per il prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, con sanzione particolarmente grave laddove il fatto abbia come soggetto agente un operatore commerciale, un importatore o qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale. La Corte chiarisce in primo luogo che ai sensi dell’art.9 della legge 689.81 va privilegiata la specialità laddove, specie se cronologicamente in tempi successivi, si aggiunga alla fattispecie penale una fattispecie di sanzione amministrativa. Passa poi – fedele come è alla teoria monistica ed al principio di specialità cui essa in via esclusiva si affida – a scandagliare i rapporti strutturali tra le fattispecie astratte considerate, onde sul crinale del soggetto attivo, mentre tanto la ricettazione che l’incauto acquisto possono essere commessi da chiunque, la fattispecie amministrativa divisata può essere posta in essere dalla figura specifica dell’acquirente finale (o da altre figure specifiche più professionali); sul crinale dell’oggetto del reato, mentre l’art.648 c.p. parla genericamente di cose provenienti da un qualsiasi delitto, l’art.1, comma 7 del decreto legge 35.05 si esprime in termini di cose che, per la qualità o per la condizione di chi le offre o per il prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale; sul crinale dell’elemento psicologico, mentre prima l’art.1, comma 7, del decreto legge 35.05 parlava di acquisto da parte dell’acquirente finale “<em>senza averne prima accertata la legittima provenienza</em>”, tale dicitura è stata eliminata, onde rileva l’acquisto soltanto, qualunque sia l’atteggiamento psicologico dell’acquirente finale, volendo la disposizione novellata - laddove dice “<em>inducano a ritenere</em>” – ricomprendere sia il mero e colposo sospetto, sia la più dolosa piena consapevolezza della provenienza illecita del bene acquistato. Né per la Corte potrebbe – nel percorso logico che la conduce ad assumere speciale la fattispecie sanzionatoria amministrativa rispetto a quella penale di ricettazione – essere di ostacolo il fatto che la ricettazione è a dolo specifico, così configurandosi - a propria volta - speciale “<em>per aggiunta</em>”, da questo punto di vista, rispetto alla fattispecie amministrativa (una sorta di specialità reciproca); ciò perché l’acquirente finale di un bene sospettato di contraffazione o certamente contraffatto si propone certamente un fine di vantaggio sotto un qualche profilo, onde il dolo specifico è nella sostanza presente anche nella fattispecie sanzionatoria amministrativa. Né per la Corte osta alla ricavata specialità della fattispecie sanzionatoria amministrativa (assunta come tale la sola applicabile) la corretta interpretazione della Direttiva 2004/48/CE – invocata dalla parte civile – sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in tema di rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, non implicando l’adeguamento a tale Direttiva la necessaria punizione penale (in luogo di quella amministrativa), né potendo la Direttiva stessa (<em>in malam partem</em>) determinare la responsabilità penale dei soggetti agenti (od aggravarla) in assenza di una legge dello Stato italiano in tal senso, e sempre che quest’ultimo predisponga - a tutela della proprietà intellettuale – misure, procedure e mezzi di ricorso che siano effettivi, proporzionati e dissuasivi. Parimenti, l’assenza di una legge che l’autorizzi preclude al giudice - sul versante interno e conformemente agli insegnamenti della Corte costituzionale – interpretazioni delle norme <em>in malam partem</em>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione onde il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere tra loro, atteso che le rispettive fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, non potendosi invocare la diversa interpretazione valevole con riguardo ai rapporti tra il reato di cui all’art. 453 cod. pen. (falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate) e la ricettazione, laddove è invece sostenibile, per il principio di specialità, l’assorbimento della ricettazione. In sostanza la disposizione dell’art.453 è in concorso apparente (per specialità) con la ricettazione perché essa (come anche l’art.455, spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate), prevede tra le condotte alternative o cumulative costituenti reato anche quella dell’apprensione, vale a dire dell’acquisto; tale condotta non è prevista invece dall’art.474 c.p., che – al cospetto di una precisa scelta in tal senso del legislatore – incrimina solo ed esclusivamente le condotte successive – tra cui la detenzione finalizzata alla vendita di prodotto contraffatto, con conseguente potenziale concorso con la ricettazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza delle SSUU n.25191, che si occupa dei rapporti tra riciclaggio e associazione mafiosa. Muovendo dalla constatazione onde l’associazione mafiosa ex art.416.bis c.p. è reato che può produrre proventi illeciti, l’associazione mafiosa può essere reato presupposto sia rispetto al reato di riciclaggio (art.648.bis), sia rispetto al reato di reimpiego di capitali (art.648.ter c.p.): secondo la Corte, quando il riciclaggio o il reimpiego riguardi beni o utilità provenienti dal delitto di associazione mafiosa, non è configurabile un concorso tra l’art.416.bis e gli articoli 648.bis e 648.ter, ma un mero concorso apparente di norme e ciò sulla base non di una valutazione di tipo strutturale tra fattispecie, ma sulla base di un giudizio di valore collegato alla clausola di riserva che impedisce (ancora) di punire il c.d. autoriciclaggio. Più in particolare, secondo il comma 6 dell’art.416.bis c.p. se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4904.html">prezzo</a>, il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/5515.html">prodotto</a>, o il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4382.html">profitto</a> di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà, configurandosi una aggravante per i partecipi ad un’associazione mafiosa che ricicla o reimpiega capitali: da questa disposizione nasce il problema di stabilire se i partecipi all’associazione mafiosa possano rispondere anche ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter, tenendo conto che normalmente la giurisprudenza esclude l’automatica punizione dei partecipi all’associazione per i reati fine che essa realizza. Inoltre, la punizione del riciclaggio viene esclusa laddove si concorra nel reato presupposto (c.d. autoriclaggio), ponendosi il problema di capire se l’associazione mafiosa sia o meno reato presupposto rispetto al riciclaggio, in quanto talvolta non è l’associazione (e la partecipazione alla stessa) a produrre direttamente il denaro, i beni o le altre utilità poi riciclate, ma i relativi reati fine, onde da questo punto di vista – escludendosi il concorso nel reato presupposto – sarebbe potenzialmente applicabile il concorso di reati. Le SSUU in primo luogo affermano che l’associazione mafiosa ex art.416.bis c.p. può essere già autonomamente reato presupposto (indipendentemente dai reati fine) rispetto ai reati di cui agli articoli 648.bis e 648.ter c.p., con la conseguenza – essendo allora (ancora) non punito l’autoriciclaggio – della potenziale esclusione della punibilità per chi partecipi (o promuova o organizzi) una associazione mafiosa. La Corte distingue allora, con sforzo di chiarezza, le varie fattispecie che possono presentarsi: a) chi agisce è fuori sia dall’associazione mafiosa sia dalla commissione dei relativi reati fine: risponde ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter; b) chi agisce è fuori dall’associazione mafiosa, ma concorre nei reati fine: in questo caso risponde dei reati fine, con l’aggravante del riciclaggio o del reimpiego se esso riguarda beni conseguiti attraverso tali reati fine; c) chi agisce è parte dell’associazione mafiosa, e non partecipa ai reati fine, ma ripulisce o reimpiega beni provenienti da quei reati fine (cui non ha partecipato): in questi casi risponde anche ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter, il cui reato presupposto è un reato fine cui non ha partecipato; d) chi agisce è parte dell’associazione mafiosa e, per il ruolo che gli viene assegnato, ricicla o reimpiega beni provenienti dall’associazione mafiosa cui partecipa (e non dai relativi reati fine): in questi casi non risponde per riciclaggio o reimpiego perché partecipa al reato presupposto (stante la non punibilità dell’autoriciclaggio); e) chi agisce non è parte dell’associazione mafiosa, ed è privo dell’<em>affectio societatis</em>, e tuttavia ricicla o reimpiega beni associativi, con ciò fornendo – sulla base di una valutazione <em>ex post</em> - un consapevole e volontario contributo causale alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione: in questi casi, viene punito a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa (articoli 110 e 416.bis c.p.), e dunque non viene punito né ai sensi dell’art.648.bis né ai sensi dell’art.648.ter.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 dicembre viene varata la legge n.186, il cui articolo 3 introduce nel codice penale il nuovo articolo 648.ter.1 c.p., che punisce il c.d. autoriciclaggio onde, a determinate condizioni, si risponde di riciclaggio anche quando si è concorso nel reato presupposto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.13849, che riferisce del problema nato – in tema di abuso d’ufficio - dalle divergenze in ordine alla portata applicativa della clausola di riserva «<em>salvo che il fatto non costituisca più grave reato</em>», introdotta per la prima volta nel 1990 nella disposizione incriminatrice pertinente, e poi riprodotta con la legge 16 luglio 1997, n. 234, in occasione della formulazione del testo attualmente vigente dell'art. 323 cod. pen. Numerose decisioni – chiosa la Corte - hanno affermato che tra il reato di falso ed il reato di abuso di ufficio sussiste un rapporto di assorbimento, quando la condotta del pubblico ufficiale si esaurisce in un fatto qualificabile come falso in atto pubblico (vengono richiamate, tra le tante: Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Platamone; Sez. 6 n. 42577 del 22/09/2009, Fanuli; Sez. 5, n. 45225 del 09/11/2005, Bernardi; Sez. 6, n. 27778 del 19/05/2004, Piccirillo; Sez. 5, n. 12226 del 21/10/1998, D'Asta). Molteplici sono – rammenta la Corte - le ragioni evidenziate a sostegno di questa soluzione. Si è rilevato, innanzitutto, che la previsione incriminatrice di cui all'art. 323 cod. pen. «<em>prevede il reato di abuso di ufficio come ipotesi residuale, ed indica quale criterio per l'assorbimento che altra norma punisca più gravemente lo stesso fatto costitutivo di reato, cioè proprio il fatto storico</em>». Si è inoltre osservato che la diversità di bene giuridico può assumere rilievo esclusivamente al fine di ritenere o escludere la «<em>stessa materia</em>» e, quindi, di applicare, o meno il principio di specialità tra norme, ai sensi dell'art. 15 cod. pen., e che porre a presupposto dell'operatività della clausola di riserva l'identità di bene giuridico tutelato dalla diverse fattispecie significherebbe svuotare il principio di sussidiarietà, riducendolo a quello di specialità. Si è pure rappresentato in linea generale, prosegue la Corte, che le progressive modifiche della disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la PA hanno avuto lo scopo «<em>di contenere la proliferazione delle incriminazioni non basate su un consistente tasso di tipicità del fatto</em>». Altre decisioni, invece, hanno escluso la sussistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure di reato, affermando il concorso tra le stesse (vengono richiamate: Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 2014, Cuppari; Sez. 5, n. 3349 del 01/02/2000, Palmegiani; Sez. 5, n. 7581 del 05/05/1999, Graci): a fondamento di questa soluzione si è osservato che le due fattispecie offendono beni giuridici distinti tutelando, precisamente, i delitti di falso la genuinità degli atti pubblici, e i delitti di abuso l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione. Una diversa soluzione, spesso indicata come intermedia ma in realtà – precisa la Corte - molto prossima a quella sostenuta dal primo dei due orientamenti richiamati, è espressa da Sez. 5, n. 1491, del 15/11/2005, dep. 2006, Cavallari, secondo la quale «<em>il concorso tra i delitti di abuso d'ufficio e falso ideologico in atto pubblico deve escludersi solo quando "la condotta addebitata si esaurisca nella commissione di un fatto qualificabile come falso ideologico in atto pubblico" [...]; mentre deve riconoscersi il concorso materiale dei due delitti quando ne sono distinte le condotte [...], come certamente accade, ad esempio, nel caso in cui il falso sia destinato ad occultare l'abuso</em>». La dottrina poi, rammenta ancora la Corte, tende generalmente ad escludere il concorso tra il reato di falso e quello di abuso, e ad affermare l'esistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure, quando l'abuso è commesso mediante la stessa condotta integrante gli estremi del delitto di falso, sottolineando, in particolare, che la funzione delle clausole di riserva è quella di delimitare l'ambito di operatività delle norme che le contengono, anche nelle ipotesi in cui la fattispecie che trova applicazione non si ponga, rispetto ad esse, in rapporto di specialità. Operata tutta la rassegna della giurisprudenza pertinente, la Corte dichiara alfine di aderire alla soluzione che appare ampiamente maggioritaria in giurisprudenza ed in dottrina, secondo cui deve escludersi il concorso formale tra i delitti di abuso di ufficio e falso ideologico o materiale quando la condotta addebitata si esaurisce nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico, in ragione della clausola di riserva prevista nell'art. 323 cod. pen. In effetti, chiosa la Corte, risponde ad un consolidato principio di interpretazione della legge in generale l'attribuzione agli enunciati linguistici contenuti nelle disposizioni normative, ove possibile, di un significato utile invece che di un significato inutile. Muovendo da questa premessa, la clausola di riserva non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi ad oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, poiché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità. Di conseguenza, a fronte di un fatto unico, detta clausola consente, anzi impone, di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha ad oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa. Né tale conclusione sembra per la Corte ostacolata dai rilievi concernenti la diversità di struttura dei due reati, per essere il delitto di cui all'art. 323 cod. pen. un reato di evento integrato dal dolo intenzionale, ed invece il delitto di cui all'art. 476 cod. pen. un reato di mera condotta integrato dal dolo generico. In effetti, quando l'evento ulteriore preso in considerazione da una sola delle due fattispecie venute in rilievo è un evento giuridico, ma non materiale, ovvero quando muta il solo contenuto del dolo, può comunque continuare a parlarsi di identità del fatto. Tale conclusione sembra raggiungibile alla luce della complessiva, e convergente, elaborazione della giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale che, con specifico riferimento alla materia del divieto di <em>bis in idem</em>, si è particolarmente impegnata ai fini della individuazione della nozione di identità del fatto (vengono richiamate per tutte, rispettivamente: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, nonché Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti; Corte cost., sent. n. 200 del 2016; Corte E.D.U., Grande Camera, 10 febbraio 2009, <em>Zolotoukhine</em> contro Russia). In particolare, precisa ancora la Corte, secondo la richiamata giurisprudenza sussiste identità del fatto «<em>quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona</em>», e l'evento può assumere rilevanza «<em>soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente</em>», secondo «<em>una lettura conforme all'attuale stadio di sviluppo dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla C.E.D.U</em>.» (le espressioni riportate sono tratte da Corte cost., sent. n. 200 del 2016). E' bene precisare – conclude la Corte - che il richiamato orientamento si è formato con espresso riferimento al problema dell'operatività del divieto di <em>bis in idem</em> processuale, e, quindi, non fissa una nozione di identità del fatto che deve necessariamente ritenersi valida sempre ed in ogni caso. Tuttavia, la nozione di identità del fatto elaborata in tema di applicazione del divieto di <em>bis in idem</em> processuale sembra esportabile ai fini della individuazione dell'area di operatività delle clausole di riserva, per affinità di funzione: la finalità delle clausole di riserva, infatti, è quella di evitare comunque una doppia incriminazione, sia pure per esigenze di tipo sostanziale, ma comunque in una prospettiva di contenimento dell'ordinamento penalistico, tanto da porsi oltre i limiti connaturati al principio di specialità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18116, che si occupa – in una fattispecie di rapina impropria - della questione, relativa al trattamento sanzionatorio irrogato nel caso di specie all’imputato e conseguente al riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n.2 cod. pen. (c.d. nesso telelogico) quando la violenza <em>ex post</em> sia trasmodata fino a cagionare un omicidio; sul punto, per la Corte il percorso argomentativo seguito dalla Corte di assise di appello di Genova appare ineccepibile, essendosi affermato che l'aggravante di cui all'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., contestata in relazione all'omicidio, al contrario di quanto affermato dalla difesa, non può assumersi assorbita. Non sussiste infatti per la Corte incompatibilità logico-giuridica tra il reato di rapina impropria e l'aggravante del nesso teleologico prefigurata dall'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., laddove la violenza posta in essere abbia ecceduto, come appunto nel caso in esame, quella indispensabile a integrare la fattispecie di cui all'art. 628, comma secondo, cod. pen. La Corte assume indispensabile richiamare in proposito la propria giurisprudenza onde non sussiste alcuna inconciliabilità strutturale tra il reato di rapina impropria e l'aggravante del nesso teleologico, ai sensi dell'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen. (tra omicidio e rapina impropria), quando la violenza esercitata dall'agente risulti esorbitante rispetto a quella idonea a configurare la rapina (vengono richiamate Sez. 2, n. 36901 del 22/09/2011, Kennedy; Sez. 2, n. 26435 del 31/05/2005, Infurna). La Corte si mostra per vero consapevole dell'esistenza di un pregresso contrasto interpretativo in ordine al problema della compatibilità tra il concorso formale di reati comprensivi di un elemento costitutivo comune e il concorso materiale di reati, da un lato, e l'aggravante del nesso teleologico, dall’altro; contrasto rispetto al quale si contrappongono una tesi affermativa (Sez. 6, n. 32703 del 17/04/2014, Bontempo; Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008, Dallara) e una tesi negativa (cfr. Sez. 1, n. 42371 del 16/11/2006, Timis; Sez. 1, n. 5189 del 18/03/1996, Semeraro). Il Collegio ritiene tuttavia di abbracciare la tesi affermativa, da tempo impostasi, muovendo dalla considerazione onde nel delitto di rapina impropria la violenza e la minaccia integrano elementi costitutivi della fattispecie insieme all'elemento oggettivo dell'impossessamento del bene e all'elemento soggettivo del dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. In particolare, prosegue la Corte, nel delitto di rapina, la violenza e la minaccia costituiscono modalità dell'impossessamento dei beni ovvero mezzi per consolidare la sottrazione già realizzata o assicurarsi l'impunità (Sez. 2, n. 36901 del 22/09/2011, Kennedy.; Sez. 2, n. 26435 del 31/05/2005, Infurna). La compresenza delle due fattispecie determina l'interrogativo sul rapporto esistente tra esse, la cui risoluzione è indispensabile per comprendere se il delitto di omicidio possa ritenersi strumentale al delitto di rapina impropria. Questo rapporto teleologico è per la Corte codificato in termini circostanziali dall'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., secondo cui costituisce circostanza aggravante l'avere commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il risultato del reato ovvero la impunità. Ricostruito in questi termini il rapporto esistente tra il reato di rapina impropria e quello di omicidio, deve osservarsi che, in ipotesi di questo genere, l'evidenza del nesso teleologico tra reato-fine (rapina) e reato-mezzo (omicidio) impone di assumere rilevante l'aggravante dell'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., correttamente contestata al all’imputato nel caso di specie. Né sussistono per la Corte, al contrario di quanto sostenuto dalla difesa nel caso di specie, i rischi una possibile duplicazione della valutazione del fatto costituito – sul crinale soggettivo - dalla finalità di conseguire il profitto del reato o la relativa impunità attraverso la violenza, trasmodata nell'omicidio, integrante sia l'elemento psicologico del delitto di rapina impropria sia il contenuto dell'aggravante teleologica. A ben vedere nel caso di specie, per la Corte, non sussiste alcuna duplicazione processuale nel senso prospettato dalla difesa, in quanto il dolo specifico del delitto di rapina impropria esaurisce la sua funzione nell'ambito di tale fattispecie, contenendo l'estensione della rilevanza penale dell'esercizio della minaccia o della violenza; viceversa, l'aggravante teleologica di cui all'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., lega due autonome fattispecie di reato, tra di loro non sovrapponibili, in questo caso rappresentate dalla rapina impropria e dall'omicidio. Ne discende che, commesso il delitto di rapina impropria, trasmodando l'azione violenta del soggetto attivo del reato nell'omicidio, si rende autonomamente rilevante accanto alla fattispecie di rapina quella dell'omicidio, con la conseguenza che l'aggravante teleologica di cui all'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen. collega queste due figure di reato secondo il rapporto strumentale esistente tra mezzo e fine. Né – chiosa ancora la Corte - potrebbe essere diversamente, atteso che oggetto del dolo specifico della rapina impropria non è la violenza in quanto tale, ma nei soli limiti di strumentalità di tale attività rispetto alla commissione del reato considerato; qualora, invece, l'azione violenta trasmodi quel livello massimo di intensità - connotazione, questa, pacificamente riscontrabile nel caso in esame - l'azione criminosa genera conseguenze ulteriori, non contenibili nella fattispecie della rapina impropria, autonomamente rilevanti per la legge penale. In altri termini, precisa la Corte, mentre la modalità violenta della condotta rapinosa non spiega autonoma rilevanza processuale quando non supera la soglia di intensità indispensabile a concretizzare tale azione criminosa, laddove trasmoda nell'omicidio e concretizza una figura di reato coesistente con quella della rapina impropria - come nel caso dell'omicidio contestato all’imputato nel caso di specie – essa determina un'autonoma rilevanza del nesso di collegamento teleologico tra i due delitti, in alcun modo assimilabile al rapporto esistente tra gli elementi costitutivi della fattispecie della rapina. Occorre pertanto ribadire – per la Corte - che, in tema di rapina impropria, qualora la violenza, esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni oggetto dell'impossessamento abbia cagionato la morte della persona offesa, tale autonomo reato concorre con quello di rapina e impone la configurazione della circostanza aggravante del nesso teleologico tra i due reati, così come contestata all’imputato ai sensi dell'art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile esce la sentenza delle SSUU n.20644, che si occupa dei rapporti tra la truffa aggravata ai danni dello Stato ex art.640.bis c.p. e la malversazione a danno dello Stato ex art.316.bis c.p. La Corte rileva come entrambi gli orientamenti interpretativi che si contendono il campo sul tema escludano il rapporto di specialità tra le due fattispecie, il primo assumendo il concorso di reati in virtù della diversa materia disciplinata dalle due disposizioni; il secondo optando per il concorso apparente di norme, e tuttavia invocando a sostegno della propria opzione ermeneutica il principio di sussidiarietà. Per la Corte tuttavia è il criterio di specialità l'unico criterio valutativo nell’ambito dell’istituto del concorso apparente di norme, essendo l’unico previsto dalla legge; un canone che, nondimeno, non si attaglia alle fattispecie in esame, potendo ravvisarsi solo in presenza di un identico contesto di fatto, laddove una norma contenga necessariamente tutti gli elementi dell’altra. Le fattispecie all’esame della Corte presentano tuttavia una genesi e uno sviluppo autonomo, dal momento che gli artifici e raggiri di cui all’art.640.bis c.p. non costituiscono l’unica modalità attraverso la quale possa ottenersi la percezione dei finanziamenti e delle altre forme di provvidenze previste dall’art. 316-bis cod. pen.; d’altra partre, la percezione illegittima di tali finanziamenti e provvidenze non necessariamente esita nello sviamento delle somme erogate dalla relativa finalità, circostanza questa che costituisce l’elemento caratterizzante della disposizione di cui all’<a href="http://www.altalex.com/documents/news/2014/10/22/dei-delitti-contro-il-patrimonio#art640bis">art. 640-bis cod. pen.</a> Nel senso indicato, depongono per la Corta tanto la lettera quanto lo sviluppo storico e sistematico delle due norme incriminatrici, rispetto alle quali la mancata previsione da parte del legislatore di clausole di riserva (come invece accade in seno all’art.316.ter) è da assumersi indiziante di una meditata (e voluta) autonomia delle fattispecie. Sotto altro profilo, anche la consumazione in tempi diversi dei due reati presuppone, per la Corte, una pianificazione autonoma da parte del soggetto attivo di entrambi i reati. Si configurano peraltro astrattamente situazioni diverse, elencate dalla Corte e tali da far concludere non già per un concorso apparente di norme, quanto piuttosto per un concorso materiale tra reati: “… a) il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati (l’ipotesi più frequente); b) il privato ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto (ipotesi più rara ma non certo impossibile); c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato. Nell’ultimo caso (il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato) si verte in ipotesi di malversazione "<em>pura</em>"; nel secondo (il privato ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto) viene in evidenza l’autonomia fra le due fattispecie, in quanto il privato pone in essere una truffa ma poi non compie una malversazione; nel primo caso (il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati), dopo aver compiuto la truffa, con una condotta anche cronologicamente autonoma ed eventuale, il privato pone in essere la malversazione”. Né possono per la Corte assumersi rilevanti ai fini dell’assorbimento della fattispecie minore in quella più grave, i casi in cui nel concreto il reato si atteggi come naturale prosecuzione della condotta truffaldina, poiché una tale chiave interpretativa trascura l’elemento essenziale dell’istituto del concorso di norme, che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie. Dovendo essere esclusa anche la possibilità di un <em>post factum</em> non punibile, la Corte enuncia infine il principio secondo cui, per l'appunto, il reato di malversazione ai danni dello Stato concorre materialmente con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.41588, che esclude la configurabilità di un concorso formale tra i due reati, rispettivamente, di detenzione e porto illegali di arma comune e di detenzione e porto di arma clandestina. Più in specie, la questione di diritto sottoposta alle SSUU è quella se il delitto di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo (artt. 4 e 7 legge n. 895 del 1967) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975) sono tra loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo. La giurisprudenza di legittimità – apre la Corte - risulta consolidata nell'escludere l'assorbimento dei reati di detenzione e di porto illegali di una arma comune da sparo, rispettivamente, in quelli di detenzione e porto di arma clandestina. Invero la Corte, sin dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, ha affermato che gli artt. 10 e 12 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (che hanno sostituito gli artt. 2 e 4 legge n. 895 del 1967), relativi alla detenzione e al porto di armi comuni da sparo, e gli artt. 2 e 23 della legge n. 110 del 1975, relativi al porto in luogo pubblico di armi comuni da sparo considerate clandestine, concorrono, giacché tutelano beni giuridici diversi (Sez. 2, n. 1026 del 16/10/1978, dep. 1979, Bertoli), ovvero sono diversi gli interessi rispettivamente protetti. L'art. 14 della legge n. 497 del 1974 – prosegue la Corte - soddisfa l'esigenza di porre l'autorità in grado di conoscere con tempestività l'esistenza di armi, i luoghi ove esse si trovano e le persone che le posseggono, mentre l'art. 23 della legge n. 110 del 1975 è dettato per escludere, in modo assoluto e senza possibilità di deroghe od autorizzazioni, la presenza nel territorio dello Stato di armi prive di segni o contrassegni di identificazione e tutela quindi l'interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione (Sez. 1, n. 5224 del 21/12/1982, dep. 1983, Delli Calici). Si è precisato – prosegue la Corte - che tra i reati di detenzione e porto di armi comuni da sparo e i reati previsti dall'art. 23 legge n. 110 del 1975, relativi alle armi comuni da sparo considerate clandestine, non si verifica alcun assorbimento, in quanto le norme rispettivamente indicate per i predetti reati tutelano un bene giuridico diverso (Sez. 1, n. 4862 del 16/02/1988, Mecca). Si è pure osservato che l'impossibilità dell'assorbimento discende dalla diversità della condotta posta in essere dall'agente (Sez. 1, n. 1833 del 04/11/1993, Marini). Si tratta, per la Corte, di orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, anche per quanto riguarda le ragioni ritenute ostative all'assorbimento dei reati (Sez. 6, n. 45903 del 16/10/2013, Iengo; Sez. 1, n. 5567 del 28/09/2011, dep. 2012, Deragna; Sez. 3, n. 11251 del 17/01/2008, Lusini; Sez. 1, n. 4436 del 22/06/1999, Lobina; Sez. 1, n. 7442 del 10/05/1995, De Lucia). Il quesito pone allora nuovamente all'esame delle Sezioni Unite il tema relativo al rapporto intercorrente tra fattispecie incriminatrici, il caso in esame involgendo il problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili in regime di concorso formale, a fronte della realizzazione di un'unica condotta materiale. La Corte assume che la sollecitazione della Sezione rimettente le impone di sottoporre a verifica le ragioni in forza delle quali il delitto di porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, di cui agli artt. 4 e 7 legge n. 895 del 1967 e il delitto di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo considerata clandestina, ex art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, realizzano ipotesi di concorso formale di reati. Per coerenza sistemica, l'indagine viene dalla Corte estesa al rapporto intercorrente fra le omologhe fattispecie di detenzione illegale di armi comuni da sparo (artt. 2 e 7 legge n. 895 del 1967) e di detenzione di armi comuni da sparo clandestine (art. 23, primo e terzo comma, legge n. 110 del 1975). Il tema di indagine è tutto interno alla categoria delle armi comuni da sparo. Se pure la nozione di clandestinità sia, per la Corte, in astratto riferibile a qualsiasi tipo di arma, anche da guerra, la categoria di arma clandestina è definita dall'art. 23, primo comma, legge n. 110 del 1975, in riferimento alle armi comuni da sparo non catalogate o sprovviste dei segni identificativi previsti dall'art. 11, della medesima legge n. 110 del 1975. La giurisprudenza delle Sezioni Unite – prosegue la Corte - risulta consolidata nel rilevare che l'unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è da rinvenirsi nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, GiordanoRv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, ove si osserva che i diversi criteri della sussidiarietà e della sussunzione sono da ritenersi tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità). È il principio di specialità, pertanto, che assurge a criterio euristico di riferimento: esso, definito dall'art. 15 cod. pen. consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la "<em>stessa materia</em>". Sul punto, prosegue la Corte, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano). In tale ambito ricostruttivo, prosegue la Corte, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato. L'insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per "<em>stessa materia</em>" deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l'ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all'interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo). In applicazione dei richiamati principi, la Corte rammenta di avere, nella sua massima espressione, ha rilevato che l'identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l'ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen. L'identità di materia è, invece, per la Corte da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all'altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo). Sul rapporto tra fattispecie incriminatrici – rammenta ancora la Corte - è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 200 del 2016), la quale si è soffermata sul tema della comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale nei confronti del medesimo soggetto, ai fini delle operatività del divieto di cui all'art. 649 cod. proc. pen. (<em>ne bis in idem</em>). Il ragionamento, non di meno, involge il tema del rapporto strutturale tra fattispecie di reato, secondo il principio di specialità, se pure colto nella dimensione dinamica del fenomeno, derivante dalla instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato. Nella sentenza richiamata si osserva che soltanto qualora il giudice abbia escluso che tra le norme incriminatrici viga un rapporto di specialità (ex artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell'altro, è dato attribuire all'imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un'unica condotta commissiva o omissiva, se pure il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico. Il Giudice delle leggi – rammenta ancora la Corte - si è in primo luogo soffermato sulla portata dell'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, ove è stabilito: «<em>Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato</em>». La Corte Costituzionale, richiamando la sentenza della Grande Camera del 10/02/2009 <em>Zolotukhin c. Russia</em>, ha considerato che la CEDU individua la portata dell'effetto preclusivo, rispetto alla celebrazione di un secondo giudizio, sulla base del più favorevole criterio dell'<em>idem factum</em>. Ciò posto, la Corte Costituzionale ha rilevato che la CEDU impone certamente agli Stati membri di applicare il divieto di <em>bis in idem</em> in base ad una concezione naturalistica del fatto, senza peraltro collocare quest'ultimo nella sfera della sola azione o omissione posta in essere dall'agente e trascurando l'evento naturalistico verificatosi per effetto della condotta ed il relativo nesso di causalità. Delineata, così, la garanzia convenzionale del divieto di <em>bis in idem</em>, la Corte Costituzionale – rammentano le SSUU - ha escluso che una interpretazione dell'art.649 cod. proc. pen., svincolata dalla sola condotta, ed estesa all'oggetto fisico di essa o all'evento in senso naturalistico, realizzi un contrasto con il vincolo derivante dalla CEDU; e ciò richiamando l'insegnamento espresso dalle Sezioni Unite, in base al quale l'identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del <em>ne bis in idem</em>, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, <em>Donati</em>), ribadendone la compatibilità con la richiamata giurisprudenza europea. La Corte Costituzionale – chiosano ancora le SSUU - si è poi soffermata sulla ulteriore questione, riguardante la regola enucleata dal diritto vivente, in base alla quale non trova applicazione il principio del <em>ne bis in idem</em> ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio; ed ha chiarito che, anche il tal caso, il giudice del merito non è esonerato dall'indagine relativa alla identità empirica del fatto, ai fini dell'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen. In conclusione, la Corte Costituzionale ha precisato che le valutazioni ora richiamate non impongono di applicare il divieto del <em>bis in idem</em> per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione od omissione, l'autorità giudiziaria, nel verificare l'ambito di operatività della preclusione di cui all'art. 649 cod. proc. pen., dovendo porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all'esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; con la precisazione che, a tale scopo, non esercita alcuna influenza l'esistenza di un concorso formale dei reati. Con la sentenza n. 200 del 2016 è stata quindi dichiarata – conclude la Corte - l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Preme alle SSUU sottolineare avere la Corte Costituzionale chiarito che, anche alla luce dei principi convenzionali che regolano la materia, la nozione di fatto di reato, nella delineata prospettiva, è l'accadimento materiale «<em>affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi</em>». Con la precisazione che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto non possono comportare il riemergere dell'<em>idem</em> legale, giacché esse non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Le argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale, nel delineare la nozione di <em>idem factum</em>, si collocano nell'alveo del richiamato orientamento espresso dalle medesime Sezioni Unite nell'interpretazione dell'art. 15 cod. pen., in base al quale il riferimento all'interesse tutelato dalle norme incriminatrici da porre in comparazione non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità; e attualizzano tale insegnamento, in conformità ai limiti imposti dalla cornice convenzionale. Tornando al caso di specie, l'argomento di ordine sistematico, posto alla base della tesi che afferma la sussistenza del concorso, poggia per la Corte sul rilievo che i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, ex artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, e di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo clandestina di cui all'art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, tutelano, rispettivamente, diversi beni giuridici; si tratta tuttavia di un criterio che, sempre per la Corte, non può, ad oggi, ritenersi conducente. La concezione naturalistica del fatto di reato, come da ultimo sviluppata dalla Corte Costituzionale, in riferimento all'ambito di operatività dell'art. 649 cod. proc. pen., ha messo in chiaro principi di garanzia che devono assistere l'interprete, nella valutazione sulla identità del fatto oggetto delle diverse norme incriminatrici poste a raffronto. Il giudizio sulla medesimezza del fatto di reato deve essere affrancato dalle mutevoli implicazioni derivanti dall'inquadramento giuridico delle fattispecie, giacché diversamente riemergerebbe il criterio dell'<em>idem</em> legale, bandito dall'ordinamento nel senso indicato dal Giudice delle leggi. Deve allora ribadirsi, chiosa la Corte, che il fatto penalmente rilevante involge l'accadimento storicamente verificatosi, tenuto anche conto dell'oggetto fisico su cui è caduta l'azione umana. Si introduce così per la Corte l'esame di un secondo argomento in base al quale l'impossibilità dell'assorbimento tra le fattispecie in esame discende dalla diversità della condotta realizzata dal soggetto agente. Come detto, ribadisce la Corte, al fine di verificare l'eventuale operatività del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., occorre porre in comparazione gli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato, siccome astrattamente configurate. Ebbene, non pare revocabile in dubbio che la condotta materiale oggetto delle coppie di reato prese in considerazione - la detenzione di arma comune da sparo rispetto alla detenzione di arma clandestina; il porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo rispetto al porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina - risulta naturalisticamente identica e differisce, unicamente, per il dato relativo alla clandestinità dell'arma oggetto di detenzione ovvero di porto. Rileva, pertanto, il Collegio che anche l'argomento in esame, che è stato opposto alla operatività del principio di specialità, non può essere condiviso. Va peraltro rimarcato – prosegue ancora la Corte - che la valutazione che si viene compiendo involge il tema della operatività del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., tra gli artt. 2, 4 e 7 della legge n. 895 del 1967 e l'art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, qualora venga realizzata dal soggetto agente l'unica condotta naturalistica, data dalla detenzione o dal porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un'arma comune da sparo clandestina. Resta, cioè, impregiudicata per la Corte la possibilità di ritenere sussistente, in concreto, il concorso tra i diversi reati citati, qualora l'agente ponga in essere una pluralità di condotte, nell'ambito di una progressione criminosa, nella quale alla detenzione o al porto illegali di un'arma comune da sparo faccia seguito la fisica alterazione della medesima arma, che venga resa clandestina in un secondo momento. Le considerazioni sin qui svolte conducono per la Corte ad escludere il concorso formale, rispettivamente, tra i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967 e quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975. L'identità della condotta materiale, sul piano storico-naturalistico, oggetto delle richiamate norme incriminatrici, induce infatti per la Corte a rilevare che il dato della clandestinità dell'arma integra un elemento specializzante per aggiunta unilaterale. I reati di cui all'art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 costituiscono ipotesi criminose speciali, rispetto a quelle di cui agli artt. 2, 4 e 7, legge n. 895 del 1967, giacché contengono tutti gli elementi costitutivi della condotta - detenzione e porto di un'arma comune da sparo - e, in più, quale elemento specializzante, il dato della clandestinità dell'arma comune da sparo, che risulta non catalogata o sprovvista dei segni identificativi previsti dall'art. 11, legge n. 110 del 1975. La Corte osserva che non risulta configurabile un rapporto di specialità reciproca fra le fattispecie in esame, atteso che le disposizioni di cui all'art. 23, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 non ripetono l'avverbio "<em>illegalmente</em>" impiegato dal legislatore per definire le condotte illecite di cui agli artt. 2 e 4 legge n. 895 del 1967, relative alla detenzione ed al porto di armi non clandestine. Ciò in quanto, l'arma clandestina non è mai legalmente detenibile, né può essere legalmente portata in luogo pubblico o aperto al pubblico. Conseguentemente, sfugge la giuridica configurabilità dei reati di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, qualora la condotta abbia ad oggetto un'arma comune da sparo clandestina, posto che l'elemento della clandestinità esclude in termini la configurabilità stessa dell'uso legale dell'arma. Per la Corte, proprio la possibilità di detenere o di portare in luogo pubblico o aperto al pubblico armi comuni da sparo, nel rispetto delle norme di pubblica sicurezza, di converso, costituisce il presupposto logico delle condotte incriminate dalle citate norme della legge n. 895 del 1967, qualificate dall'illegalità della detenzione o del porto. Pertanto, in base al principio di specialità, nei casi di detenzione e di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un'arma comune da sparo clandestina devono trovare applicazione le specifiche fattispecie di cui all'art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, dedicate rispettivamente alla detenzione (terzo comma) ed al porto (quarto comma) delle armi clandestine, e non le generali previsioni sulla detenzione ed il porto illegali delle armi comuni da sparo, di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967. Si tratta per le SSUU di un approdo interpretativo risulta coerente con l'impianto della legge n. 895 del 1967, il cui art. 4, secondo comma, nel prevedere specifiche circostanze aggravanti, derivanti dal concorso di più persone o dai luoghi nei quali la condotta viene realizzata, inserisce la clausola di sussidiarietà «<em>salvo che il porto d'arma costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica per il reato commesso</em>». Detta clausola di riserva, funzionale a scongiurare la superfetazione delle contestazioni e delle sanzioni, impone l'applicazione della sola norma incriminatrice di cui il porto dell'arma costituisce elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica, pure a fronte della ricorrenza degli elementi costitutivi delle richiamate aggravanti, di cui all'art. 4, comma 2, legge n. 895 del 1967. Nel caso di specie, già il primo giudice ha escluso la circostanza aggravante originariamente contestata del fatto commesso nelle immediate vicinanze dei luoghi destinati al pubblico trasporto - ex art. 4, comma 2, lett. c), legge n. 895 del 1967 - sul presupposto che il porto dell'arma clandestina integra il reato di cui all'art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 (l'imputato era stato sorpreso mentre stava per accedere con l'arma clandestina ad un'area aeroportuale). Oltre a verificare la configurabilità delle aggravanti di cui all'art. 4, comma 2, legge n. 895 del 1967, in applicazione della clausola di riserva espressa ora richiamata, l'interprete deve non di meno verificare se le stesse fattispecie di detenzione e porto di armi comuni da sparo, di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, risultino recessive rispetto ad altre ipotesi di reato, secondo la regola generale posta dall'art. 15 cod. pen. Deve, quindi, procedersi al confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurabili, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le diverse fattispecie di reato regolanti la stessa materia. E la razionalità complessiva del sistema sanzionatorio è per la Corte garantita dalla valorizzazione degli elementi integranti le fattispecie, anche circostanziali, pur non autonomamente applicabili, posto che nel momento della quantificazione della pena il giudice è chiamato a considerare la gravità del reato, secondo le specifiche modalità dell'azione. Tutto ciò premesso, la risposta al quesito sottoposto ad esame è per le SSUU quella onde i delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2, 4 e 7 legge 2 ottobre 1967, n. 895, non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.52950, che si occupa della introduzione di merce contraffatta nel territorio nazionale. Nel caso di specie l’imputato ha acquistato per corrispondenza all'estero i beni con marchio contraffatto e avendoli ricevuti, poi, nel territorio dello Stato ha per la Corte concorso inevitabilmente nella loro introduzione nello stesso territorio, così commettendo appunto il reato previsto dall'art. 474, comma 1, c.p. Invano, prosegue la Corte, la difesa dell'imputato si duole del fatto che l’imputato medesimo sia stato ritenuto responsabile del predetto reato di cui all'art. 474 del c.p. e non già dell'illecito amministrativo di cui all'art. 1, comma 7, L. 80/2005, evocando a sostegno della propria tesi, la sentenza delle Sezioni Unite 22225/2012. Per la Corte, si deve a tal proposito rilevare come il giudice di merito abbia evidenziato - con motivazione incensurabile in sede di legittimità - che l'imputato è titolare dell'omonima ditta individuale avente ad oggetto "<em>attività al dettaglio di commercio ambulante di tessuti ed articoli tessili</em>", ed è stato dunque correttamente escluso che egli fosse acquirente finale, configurandosi all’evidenza quale acquirente professionale; e, nel caso di acquirente professionale, non è mai applicabile l'illecito amministrativo che prevede quale soggetto attivo solo l'acquirente finale. La sentenza delle S.U. del 2012 richiamata dal ricorrente – prosegue poi la Corte - si occupa di un caso in cui è stata contestata la ricettazione e non il reato di cui all'art. 474 c.p. tanto è vero che a pagina 7 della predetta sentenza si evidenzia che "<em>la questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: «Se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata</em>». Le S.U. del 2012 – prosegue la Corte - risolvono la predetta questione affermando che l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell'illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall'avvenuta eliminazione della clausola di riserva "<em>salvo che il fatto non costituisca reato</em>", dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell'oggetto della condotta nonché dalla rinuncia legislativa alla formula "<em>senza averne accertata la legittima provenienza</em>", il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa (SSUU, sentenza n. 22225 del 19/01/2012 Ud. - dep. 08/06/2012). La stessa Corte di merito – prosegue ancora il Collegio - richiama, poi, correttamente la sentenza di Cassazione n. 6354 del 2016 che esclude ogni rapporto di specialità tra il reato di cui all'art. 474 del c.p. e l'illecito amministrativo di cui all'art. 1, comma 7, della L. 80/2005; onde, anche qualora l'introduzione nello Stato avvenisse per opera di un acquirente finale questi risponderebbe del reato di cui all'art. 474 e non già dell'illecito amministrativo. Nella sentenza di cui sopra, la Corte conferma la giustezza della condanna di un acquirente finale per il reato di cui all'art. 474 del c.p. proprio in base al principio di cui sopra; e poiché tale sentenza conferma e specifica la decisione delle Sezioni Unite già richiamata, il Collegio ritiene opportuno riportarne la motivazione, onde l'art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 (così come modificato dalla I. n. 99/2009) punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. Le Sezioni Unite hanno stabilito come l'illecito amministrativo sopra menzionato si ponga in rapporto di specialità rispetto ai reati di ricettazione (art. 648 c.p.) e di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.), precisando altresì come, per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, debba intendersi colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale (Sez. Un., n. 22225 del 19 gennaio 2012, <em>Micheli</em>). Il ricorrente – prosegue la Corte - sostiene che gli illustrati principi debbano applicarsi anche alla fattispecie di cui al primo comma dell'art. 474 c.p., rilevando la sostanziale omogeneità della situazione in cui si viene a trovare colui che, avendo acquistato per corrispondenza all'estero il bene con marchio contraffatto, lo riceva nel territorio dello Stato concorrendo inevitabilmente nella relativa introduzione nello stesso territorio; nessun dubbio sussisterebbe, infatti, in merito all'attribuibilità al soggetto in questione della qualifica di "<em>acquirente finale</em>", dovendosi per altro verso considerare come le Sezioni Unite abbiano pronunziato i suddetti principi proprio in relazione ad un caso di acquisto per corrispondenza all'estero di un orologio e cioè esattamente la fattispecie concreta in contestazione nel presente procedimento. Come accennato, la Corte considera detta tesi infondata in diritto, dovendosi innanzi tutto è necessario precisare come nel caso deciso dalle Sezioni Unite Micheli era stato contestato esclusivamente il reato di ricettazione, talché dall'apparente sovrapponibilità delle fattispecie non discende la pretesa specialità tra l'illecito amministrativo e quello penale configurato dall'art. 474 c.p. Il Supremo Collegio, facendo applicazione dei consolidati criteri individuati a tal fine dalla giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio ricordato in precedenza all'esito del confronto strutturale tra le fattispecie astratte previste, rispettivamente, dall'art. 1 comma 7 I. n. 80/2005 e dagli artt. 648 e 712 c.p., rinvenendo nella prima tutti gli elementi delle seconde con l'aggiunta di alcuni elementi effettivamente specializzanti, tra i quali, per l'appunto, la specifica qualifica dell'agente. In altri termini – chiosa ancora la Corte - le Sezioni Unite non hanno inteso affermare la specialità dell'illecito amministrativo rispetto a qualsiasi condotta penalmente rilevante avente ad oggetto prodotti contraffatti qualora autore della medesima sia l'acquirente finale dello stesso, bensì, più semplicemente, la specialità dello stesso illecito rispetto alle 2 figure di reato espressamente menzionate, i cui elementi costitutivi sono stati riscontrati nella fattispecie configurata dalla norma ritenuta speciale. In definitiva, prosegue il Collegio, il principio applicato è quello per cui il presupposto della convergenza di norme - necessario perché risulti applicabile la regola sull'individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 9 I. n. 689/1981 - può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza strutturale tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate. In tal senso il fatto punito cui si riferisce la disposizione menzionata non è quello in concreto realizzato dall'agente, bensì quello oggetto di incriminazione e pertanto per accertare se norma penale e norma sanzionatoria amministrativa effettivamente interferiscono deve esclusivamente effettuarsi la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie tipiche dalle stesse configurate. Ed allora, continua la Corte, proprio facendo ricorso ai principi dispiegati dalle Sezioni Unite Micheli, deve giungersi alla conclusione che il rapporto tra la fattispecie di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti con segni falsi e quella di ricettazione o incauto acquisto da parte dell'acquirente finale dei medesimi prodotti (punita per l'appunto con la sola sanzione amministrativa) sia di reciproca indifferenza. Infatti – precisa ancora la Corte - la condotta tipizzata dal primo comma dell'art. 474 c.p. non presuppone necessariamente l'acquisto del bene e non trova in ogni caso alcun riscontro nella fattispecie configurata dalla norma incriminatrice amministrativa; né per acquistare un prodotto contraffatto è necessario introdurlo illecitamente nel territorio dello Stato, condotta che conserva dunque la propria autonomia strutturale, integrando un diverso illecito eventualmente strumentale alla consumazione del primo, ma per l'appunto distinto ed autonomo. Non di meno la circostanza che entrambe le fattispecie siano caratterizzate dal fine di profitto (elemento implicito nell'illecito amministrativo ed invece espressamente previsto per la sussistenza del reato di cui si tratta) non può ritenersi interferenza da sola idonea ad evocare un rapporto di continenza strutturale tra le due norme incriminatrici. Conclusioni queste che, per la Corte, risultano asseverate dal proprio consolidato insegnamento onde il delitto di ricettazione e quelli previsti dall'art. 474 c.p. possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore (viene ricordata, <em>ex multis</em> Sez. Un., n. 23427 del 9 maggio 2001, P.M. in proc. Ndiaye). Tale principio ovviamente rimane inalterato laddove voglia sostituirsi al delitto di ricettazione l'illecito amministrativo menzionato, che, come più volte ribadito, deve considerarsi speciale rispetto alla menzionata fattispecie penale qualora commesso dall'acquirente finale. E nello stesso senso non è ultroneo per la Corte ricordare altresì come il vigente testo dell'art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 sia stato introdotto dalla L. n. 99/2009 e cioè il medesimo provvedimento legislativo che ha contestualmente riconfigurato l'art. 474 c.p. - tra l'altro isolando rispetto a quella di commercio e punendo più severamente proprio l'ipotesi di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti contraffatti - talché appare quantomeno inverosimile che la mancata riproduzione nella norma amministrativa di elementi idonei ad evocare in maniera esplicita la fattispecie penale di cui si tratta non sia stata oggetto di una scelta consapevole e intenzionale da parte del legislatore. Per tutto quanto sopra esposto, conclude la Corte, è evidente la manifesta infondatezza anche del motivo di ricorso con il quale si contesta la ritenuta responsabilità dell'imputato per il reato di ricettazione e non già dell'illecito amministrativo sempre sulla base del principio di specialità riconosciuto nella sentenza delle S.U. n. 22225 del 2012 dacché, come già detto, il ricorrente nel caso di specie non è un acquirente finale, ma un acquirente professionale e come tale non rientra nella previsione dell'illecito amministrativo di cui all'art. l, comma 7, L. 35/2005.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione civile n.30319, onde - in tema di diritto d'autore - la condotta di abusiva riproduzione e di illecita duplicazione è prevista sia come illecito penale ai sensi dell'art. 171-ter della legge n. 633 del 1941, e successive modificzioni, sia come illecito amministrativo, ex art. 174-bis della stessa legge. Tale condotta è sottoposta ad un regime di doppia punibilità, come si desume dal tenore letterale del citato art. 174-bis, il quale, mantenendo «<em>ferme le sanzioni penali applicabili</em>» e stabilendo la punizione con la sanzione amministrativa pecuniaria delle stesse violazioni delle disposizioni previste nella medesima sezione della legge e qualificate come reato, ha inteso assicurare l'effettività della risposta sanzionatoria per la protezione del diritto d'autore, configurando come illecito amministrativo le stesse condotte che integrano fattispecie autonome di reato. La sanzionabilità dell'abusiva riproduzione e della illecita duplicazione altresì a titolo di illecito amministrativo e l'identità della condotta materiale integrante le fattispecie amministrativa e penale escludono, per la Corte, che l'esistenza del reato dipenda dall'accertamento della violazione amministrativa (Cass., Sez. II, 22 dicembre 2011, n. 28381). Resta pertanto esclusa la sussistenza della connessione obiettiva per pregiudizialità di cui all'art. 24 della legge n. 689 del 1981, richiesta per radicare la competenza del giudice penale nell'accertamento della responsabilità per l'illecito amministrativo. Secondo la costante giurisprudenza richiamata dalla Corte infatti, la connessione obiettiva dell'illecito amministrativo con un reato che, ai sensi dell'articolo 24 della legge n. 689 del 1981, determina lo spostamento della competenza all'applicazione della sanzione dall'organo amministrativo al giudice penale, rileva esclusivamente nel caso in cui l'accertamento dell'illecito amministrativo costituisca l'antecedente logico necessario per l'esistenza dell'altro, mentre, in difetto di tale rapporto di pregiudizialità, la pendenza del procedimento penale non fa venir meno detta competenza all'irrogazione della sanzione (Cass., Sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22362; Cass., Sez. I, 9 novembre 2006, n. 23925).</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.57237 alla cui stregua, in ambito familiare, la condotta del genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento, integra esclusivamente il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. nel quale è assorbita la violazione meno grave prevista dall’art. 12 sexies, L. n. 898/1970, richiamato dall’art. 3, L. n. 54/2006. E’ tuttavia riscontrabile un opposto orientamento onde la diversità strutturale delle fattispecie criminose in disamina, caratterizzate ciascuna da un peculiare elemento specializzante – lo stato di bisogno dei beneficiari della dazione nella figura di cui all’art. 570, comma 2, c.p.; la sentenza di divorzio o di separazione, in quella di cui all’art.12 sexies, L. n. 898/1970 e di all’art. 3, L. n. 54/2006 - sarebbe tale da sospingere nel senso dell’autonomia di esse e del relativo concorso formale anche nell’ipotesi in cui si riferiscano ad una medesima situazione concreta (viene richiamata Sez. VI, 7 dicembre 2017, n. 55064; 2 aprile 2012, n. 12307; 26 settembre 2011, n. 34736; 25 agosto 2005, n. 32540). In tal senso si è sostenuto che, seppure il reato di cui all’art. 12 sexies, L. n. 898/1970 - richiamato dall’art. 3, L. n. 54/2006 - si perfeziona per effetto del solo omesso versamento dell’assegno periodico fissato dal giudice civile, ove tale condotta omissiva del genitore si traduca, altresì, nel far mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, è da assumersi realizzata anche la distinta fattispecie di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., dovendosi considerare peraltro che l’interesse giuridico tutelato dalla incriminazione di cui all’art. 3, L. n.54 del 2006 è l’esatto e puntuale adempimento dell’obbligo imposto dal giudice civile, mentre quello protetto dalla norma di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. si riferisce all’esigenza di non far mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 giugno esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.25651, che si occupa del rapporto tra appropriazione indebita e "<em>distrazione</em>" (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ovvero di una questione che ha trovato differenti soluzioni in giurisprudenza essendosi fatto riferimento - per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall'art. 649 cod. proc. pen. - alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell'uno e nell'altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all'art. 646 cod. pen. non è di ostacolo - una volta intervenuto il fallimento - alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (è stata tuttavia ritenuta praticabile, rammenta la Corte, anche la soluzione inversa). La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), rammenta la Corte essere imperniata sulla considerazione che all'unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell'ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un'unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l'imputato, agente di cambio, già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta - consistita, fra l'altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela - potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione – prosegue il Collegio - non esclude del tutto, però, l'operatività dell'art. 649 cod. proc. pen. e del principio del <em>ne bis in idem</em>, in esso trasfuso: ciò avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona). La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza più recente e più cospicua, afferma, invece, che l'appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art.84 cod. pen., sicché solo l'avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l'appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (vengono richiamate, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010,; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003. Una applicazione di tale principio – rammenta la Corte si è avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un'ipotesi di modifica dell'imputazione ex art. 516 cod. proc. pen., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all'evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l'identità del fatto, preclusiva, per l'art. 649 cod. proc. pen. , del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all'<em>idem factum</em>. La questione deve oggi essere risolta, prosegue il Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016 laddove ha escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "<em>nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato</em>" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 cod. pen., per il quale "<em>l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto</em>". La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che - per i giudici di Strasburgo - la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v'è nessuna ragione logica, ha però precisato la Corte Costituzionale e rammenta il Collegio, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "<em>all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente</em>". Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'<em>idem factum</em>, da condurre attraverso l'esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale e rammenta la Corte, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di <em>bis in idem</em> in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i relativi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005). Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 cod. proc. pen. - senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale - e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati. Muovendo da tali criteri. deve allora per la Corte censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull'appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perché, è detto in sentenza, "<em>alla apparente unicità della condotta non corrisponde l'unicità del fatto</em>". Invero, prosegue la sentenza, "<em>anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti</em>". La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realtà, a quella richiamata giurisprudenza onde la declaratoria di fallimento, pur non integrando - per pacifica giurisprudenza - un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all'art. 216 L.F. nella relativa specificità offensiva, per il fatto che attualizza l'offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell'imprenditore costituisce per i creditori. Vero è poi, prosegue la Corte, che la Corte d'appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui è pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che è proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato è sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. Assume il Collegio a questo punto che né l'impostazione della Corte d'appello di Trieste, né quelle che l'hanno preceduta possano essere condivise. Anche se si dovesse ritenere che l'appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è, ora - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale - condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall'impatto del <em>ne bis in idem</em> sul concorso reale di norme va risolta per la Corte alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione. Nemmeno l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità può per la Corte essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "<em>attualizza</em>" l'offesa insita nell'appropriazione. Occorre considerare però, prosegue la Corte, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente; perciò, anche se nel "<em>fatto</em>" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perché possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perché consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "<em>fatto</em>", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D'altra parte – chiosa ancora la Corte - la propria recente giurisprudenza (Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, nonché, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da SS.UU., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pt-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità (<em>contra</em>, però, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata - secondo lo schema dell'art. 44 cod. pen. - alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 cod. pen., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante. Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del <em>bis in idem</em>. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al <em>dictum</em> della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "<em>fatto</em>", perché attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del <em>ne bis in idem</em>. Evidentemente, chiosa ancora la Corte, proprio perché avvertita della fragilità della costruzione prima richiamata, la Corte d'appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell'appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della società. In pratica, il fallimento della società - intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto - costituirebbe, nella specie, l'evento del reato, perché collegato causalmente con la distrazione della somma da parte dell'amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell'impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l'identità del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell'accusa mossa all’imputato (al quale non è contestata la bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, legge fall., ma quella distrattiva ex art. 216), né che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi da cui desumere che il fallimento della società sia stato conseguenza della distrazione contestata all'imputato, sicché anche l'argomento speso, da ultimo, dal giudice d'appello si rivela inidoneo a superare le criticità insite nella conclusione cui è pervenuto. In conclusione, prosegue la Corte, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all'impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza più volte richiamata, né si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi è pronuncia passata in giudicato, sicché va escluso che l’imputato potesse nel caso di specie essere nuovamente sottoposto a procedimento penale. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna per la Corte giungere per altra via. E' generalmente riconosciuta l'esistenza, nell'ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell'accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto - che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto - siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, è ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che - se la preclusione di cui all'art. 649 cod. proc. pen. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un'ipotesi di "<em>concorso formale di reati</em>" (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) - tanto non vale allorché il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009). Ciò che vale per il concorso reale di norme incriminatrici vale, stante l'identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz'altro intervenuto - prima dell'avvio dell'azione penale per il reato complesso - un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato. Ebbene, l’imputato nel caso di specie è stato assolto - con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato - dall'accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell'art. 649 cod. proc. pen., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall'appropriazione, deve riconoscersi che l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, per la Corte la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa. La dottrina di commento fa rilevare come le ultime decisioni delle Sezioni Unite in tema di concorso di norme e di reati, e quelle a Sezioni semplici che vi si adeguano, come questa, per le relative correlazioni - espresse o implicite - con la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cedu in tema di <em>ne bis in idem</em> processuale, offrono suggestivi spunti per la configurazione di un <em>ne bis in idem</em> sostanziale, inteso quale declinazione dei principi di legalità, di tipicità, ragionevolezza e proporzione, quale parametro che, in sede applicativa, potrebbe compendiare un criterio (secondo giurisprudenza consolidata) strutturale, e tuttavia previamente illuminato da interpretazioni teleologiche delle singole disposizioni incriminatrici, con attenzione a scongiurare una duplicazione di valutazioni tipiche di profili del fatto concreto in cui si esprima una quota di offensività.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, alla cui stregua – in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “<em>stradali</em>” – vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del <em>bis in idem</em>, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all'imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del <em>bis in idem</em> è espressione di un cardine generale di civiltà dell'ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l'ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.). Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all'imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell'individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. "<em>ne bis in idem sostanziale</em>", che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell'ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l'art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all'imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata "<em>vicenda di vita</em>" si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell'azione penale talora ad elemento costitutivo dell'illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante. Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio già svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all'imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell'occasione dalla S.C.): a seguito dell'entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l'art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale "<em>Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni</em>" e, inoltre, "<em>nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto</em>" [...]. Precedentemente – prosegue la Corte - dall'entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l'art.589 cod. pen. disponeva, tra l'altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, "<em>Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni</em>" e che "<em>Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici</em>" [...] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della "<em>guida</em>", individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga "<em>alla guida di un veicolo a motore</em>"; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è "<em>chiunque cagioni per colpa</em> [ ] <em>con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale</em>....)". In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al "<em>conducente di un veicolo a motore</em>" e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l'esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell'art. 589-bis cod. pen. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada. Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al - condivisibile - ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell'omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone). Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all'imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone - ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse - dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell'art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell'applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all'assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.27530 in tema di rapporti tra la fuga per evitare l’alcool test e la resistenza a pubblico ufficiale. Per il Collegio la Corte territoriale - dopo aver adeguatamente riscostruito la vicenda storico fattuale - ha fatto corretta applicazione dei principi giuridici escludendo nel caso di specie l'applicazione delle regole sul concorso apparente di norme penali . Invero – chiosa la Corte - il reato di cui all'art. 186 comma 7 del D.Lvo 285/1992 è reato a condotta istantanea che si è consumato con il comportamento di fuga posta in essere dall'imputato, mentre i militari che lo avevano fermato in evidente stato di ebbrezza stavano provvedendo ad organizzare le prove alcolimetriche;e non può considerarsi certo assorbito bensì concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all'art. 337 c.p. ,che si è realizzato attraverso condotte distinte e materialmente susseguenti consistite ,come ampiamente descritto nel provvedimento impugnato, in spintonamenti e minacce per opporsi ai militari operanti che nel frattempo lo avevano raggiunto e cercavano di bloccarlo (viene richiamato il precedente della Sez. 6, n. 47585 del 10/12/2007, dep. 2007).</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.42918 che torna a pronunciarsi sul rapporto tra maltrattamenti in famiglia e stalking. La Corte ribadisce convintamente il principio di diritto per cui, in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 cod. pen. e quello di atti persecutori ex art. 612-bis, cod. pen., salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612-bis, comma primo, cod. pen. - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla relativa esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della relativa attualità temporale, circostanza che può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, dep. 2012, Frasca). È stato – prosegue la Corte - efficacemente osservato che l'oggettività giuridica delle due fattispecie, artt. 572 e 612-bis cod. pen., presenta distinti soggetti attivi e passivi, pur dovendosi ritenere le condotte materiali dei reati conformarsi quanto a modalità esecutive e lesività. Il reato di maltrattamenti è un reato contro l'assistenza familiare e il relativo oggetto giuridico è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell'interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. Il reato di atti persecutori è un reato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia "<em>reiterati</em>" e che non presuppone l'esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Nello specifico – prosegue la Corte - si è affermato che il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612-bis, comma primo, cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie; è, invece, configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla relativa esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della relativa attualità temporale. Ne deriva per la Corte che è configurabile il solo delitto di maltrattamenti in famiglia allorché le condotte criminose siano poste in essere in costanza di separazione legale (Sez. 5, Sentenza n. 41665 del 04/05/2016) I principi sopra esaminati si riferiscono ad ipotesi in cui, o sussistono contestualmente entrambe le condotte, che possono astrattamente integrare anche la fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen, ma, per la clausola di sussidiarietà di cui al comma primo dell'art, cit., una di esse risulta ovviamente assorbita dal reato più grave (parimenti con quanto avviene con minacce, percosse e violenze), ovvero allorché, nell'ambito di un unico rapporto, senza soluzione di continuità, proseguano le condotte vessatorie comunque sorte nell'ambito di una comunità di tipo familiare. Nel caso oggetto di scrutinio, chiosa la Corte, con motivazione logica e priva di aporie, la Corte territoriale ha evidenziato come, rispetto ad una condotta di maltrattamenti posta in essere da parte del ricorrente nel periodo di comune convivenza con la parte offesa, a fronte della cessazione di ogni rapporto con il ricorrente, nel frattempo ricoverato in ospedale ed andato a convivere coi genitori, lo stesso si sia reso esclusivamente artefice di comportamenti tesi ad importunare con plurimi messaggi offensivi e visite sia la ex convivente che i figli e, valutata la diversità dei beni giuridici tutelati, ha ritenuto integrato il delitto di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016 - dep. 19/07/2016). Il significativo scarto temporale tra le condotte di maltrattamento ex art. 572 cod. pen. e quelle di atti persecutori ex art. 612-bis cod. pen., inoltre, rende evidente tale possibilità, rilevata la cesura tra distinte condotte tali da ritenere astrattamente sussistenti ulteriori fattispecie solitamente assorbite in quelle di cui all'art. 572 cod. pen.; diversamente opinando non sarebbe ipotizzabile la fattispecie di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. che prevede proprio l'aggravante in ipotesi di condotte poste in essere ai danni del coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. Sotto questo profilo – prosegue la Corte - non devono fuorviare le massime secondo cui sarebbe comunque configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l'agente, quando quest'ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione, che in realtà o esaminano questioni non rilevanti al caso scrutinato, avendo ad oggetto il ritenuto assorbimento di condotta di ingiurie e minacce (v. Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014), ovvero precisano che il reato previsto dall'art. 612-bis cod. pen. è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto, principio affermato per rimarcare la clausola di sussidiarietà di cui all'art. 612-bis, comma primo, cod. pen., quanto a condotte vessatorie poste in essere in ambito di rapporti di convivenza o coniugio (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017, dep. 2018). In tal senso ricostruita l'autonomia delle singole condotte che come detto presentano beni giuridici diversi (v. anche Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016 -dep. 19/07/2016), deve ritenersi conforme ai principi già espressi dalla Corte il rigetto del motivo teso a rilevare l'assorbimento delle due condotte.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.44957 che si sofferma sul carattere sussidiario della contravvenzione prevista dall’art.650 c.p. in tema di inosservanza di provvedimenti della pubblica autorità. Per la Corte, va premesso che l'art. 650 cod. pen. è una norma penale in bianco a carattere appunto sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell'autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l'inosservanza del provvedimento dell'autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa (Sez. 1, n. 44126 del 19/04/2016, Azzarone; Sez. 1, n. 2653 del 29/11/1999, dep. 2000, Parlà; Sez. 1, n. 1711 del 07/12/1999, dep. 2000, Di Maggio). Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 650 cod. pen. è dunque necessario per la Corte che: a) l'inosservanza riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato, in occasione di eventi o circostanze tali da far ritenere necessario che proprio quel soggetto ponga in essere una certa condotta; e ciò per ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, o di igiene o di giustizia; b) l'inosservanza attenga ad un provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica ed autonoma sanzione; c) il provvedimento emesso per ragioni di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico, di igiene sia adottato nell'interesse della collettività e non di privati individui (Sez. 1, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata; Sez. 1, n. 33779 del 23/04/2014, Rasia, non massimata). Ciò posto, ed atteso il principio di sussidiarietà sancito dall'art. 650 cod. pen., il reato non è per la Corte configurabile, quando l'inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall'art.650 cod. pen. ridetto. Nel caso in esame la violazione di legge perpetrata non ha natura penale, in quanto, la condotta in questione risulta punita dall'art. 7 bis, commi 1 e 1-bis, D. Lgs n. 267 del 2000 ("1. <em>Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro. 1-bis. La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal sindaco e dal presidente della provincia sulla base di disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari</em>") (Sez. 1, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata). Dalla lettura della sentenza, infatti, emerge che l'ordinanza ineseguita del 15/10/2012 richiamava espressamente, oltre al precedente permesso di costruire rilasciato e ad una nota dell'A.S.L. della distanza inferiore all'abitazione di un terzo (vicino di casa), il Regolamento Locale di Igiene sulle distanze degli allevamenti degli animali dalle abitazioni, il D.Igs. n. 267 del 2000 e il TULLSS n. 1265 del 1934, onde la vicenda risulta inquadrabile nell'ambito di un illecito amministrativo per violazione dei regolamenti comunali e provinciali.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 45829 ove la Corte di Cassazione è intervenuta per la prima volta, dopo le rilevanti pronunce delle Corti sovranazionali, in tema di <em>ne bis in idem</em> nei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la Cassazione rileva come i precedenti europei, con l'obiettivo di trovare un giusto contemperamento di interessi tra le esigenze repressive dello Stato nazionale verso fatti illeciti di notevole disvalore sociale e le garanzie individuali, e probabilmente allo scopo di mitigare gli effetti dell'applicazione del divieto di <em>bis in idem</em> processuale, come sancito dalla sentenza Grande Stevens, ritenuto troppo rigido e che aveva provocato difficoltà applicative negli Stati membri, sono pervenuti all'elaborazione del principio dello stretto nesso materiale e temporale illustrato anche attraverso il riferimento e l'analisi dei sub - criteri materiali e temporali.</p> <p style="text-align: justify;">Tra questi il sub - criterio prevalente per verificare la presenza della stretta connessione è pacificamente individuato da tutte le pronunzie in quello della "proporzionalità" tra il cumulo di sanzioni irrogate (di cui quella amministrativa pecuniaria è ormai considerata di natura penale) e la gravità dell'illecito.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva - nel ricorrere degli altri indici rivelatori dello stretto nesso materiale e temporale - è considerata legittima la parallela instaurazione, prosecuzione e decisione sanzionatoria tramite il doppio binario di procedure, purchè esse formino un insieme integrato di procedimenti e di relative sanzioni, caratterizzato dalla prevedibilità; ed al Giudice nazionale, in base ai suindicati sub criteri, è affidato il compito di accertarne la ricorrenza nel caso concreto.</p> <p style="text-align: justify;">Di certo, tutto ciò comporta, in mancanza di un chiaro riferimento normativo, l'esercizio di compiti interpretativi molto complessi ed articolati, che non posso prescindere da una attenta valutazione dei singoli casi concreti con i quali il giudice si deve confrontare.</p> <p style="text-align: justify;">L'elemento dell'ordine in cui si tengono e giungono a conclusione i procedimenti, in considerazione del principio di proporzionalità complementare tra le sanzioni e dell'impatto complessivamente non troppo oneroso che esse devono avere sul soggetto interessato, quindi, non può essere decisivo per pronunciarsi sulla questione.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 48246 onde non esiste alcun rapporto di consunzione, assorbimento o specialità tra la fattispecie di reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, e quella di cui all'art. 10-ter, cit. decreto, tale per cui l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto indicata nella dichiarazione infedele costituirebbe un post-factum non punibile.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo il consolidato orientamento della Cassazione, nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Orbene, tra le due fattispecie non esiste alcun rapporto di specialità ai sensi dell'art. 15 c.p., nè la legge considera come elementi costitutivi del reato di dichiarazione infedele cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, fatti che costituirebbero il diverso delitto di omesso versamento dell'IVA di cui all'art. 10-ter, cit. decreto, e viceversa. Ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell'IVA di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è necessario e sufficiente che il relativo ammontare risulti dalla dichiarazione, senza ulteriori aggettivazioni, a prescindere, quindi, dalla natura fraudolenta o infedele della dichiarazione stessa. La condotta omissiva consiste nell'omesso versamento dell'IVA così come dichiarata. Nei reati cd. dichiarativi, invece, la condotta attiva consiste nell'indicare elementi passivi fittizi o elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.</p> <p style="text-align: justify;">I reati cd. dichiarativi sono connotati dalla natura fraudolenta della condotta, volta a rappresentare una base imponibile inferiore a quella reale; il reato di omesso versamento dell'IVA è privo di tale caratteristica. Il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, inoltre, è punito a titolo di dolo generico, a prescindere, quindi, dal fine di evasione che caratterizza tutti i reati cd. dichiarativi.</p> <p style="text-align: justify;">Le due fattispecie di reato, dunque, si pongono in rapporto di reciproca radicale estraneità e ben possono concorrere tra loro. La diversità delle relative condotte esclude, altresì, che possa ipotizzarsi la dedotta unicità del fatto sotto il profilo della corrispondenza storico-naturalistica tra condotta ed evento materiale. L'identità della dichiarazione non giustifica tale conclusione: il reato di dichiarazione infedele si consuma con la presentazione della dichiarazione stessa; il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto si consuma nel diverso termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 51063 che, analizzando la clausola di riserva di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup., afferma come La fattispecie incriminatrice, così come ridefinita da ultimo dalla L. n. 79 del 2014, concorre con ognuna di quelle previste dai primi quattro commi dello stesso articolo - come configurate precedentemente all'intervento della L. n. 49 del 2006, in quanto fatte rivivere dal giudice delle leggi con la citata sentenza n. 32 del 2014 - nel punire i medesimi fatti descritti da questi ultimi e che la stessa espressamente richiama. Si tratta, all'evidenza, di un caso di concorso solo apparente di norme incriminatrici, posto che il suddetto comma 5, isolando attraverso i ricordati parametri una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell'ambito di incriminazione di queste ultime.</p> <p style="text-align: justify;">Può allora suscitare qualche perplessità l'introduzione della menzionata clausola di riserva espressa, che sembra sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale, rendendo apparentemente sempre inapplicabile l'art. 73, comma 5, in favore delle norme "generali" contenute nei precedenti commi (e soprattutto nel primo e nel quarto) ovvero la cui previsione potrebbe essere intesa, al limite, nel senso di una deroga alla regola dell'applicazione della sola norma speciale di cui all'art. 15 c.p., con la conseguenza ancora più paradossale di configurare un'ipotesi di concorso formale tra la fattispecie di lieve entità e i reati previsti dalle altre disposizioni.</p> <p style="text-align: justify;">Conclusioni la cui irragionevolezza appare evidente, così come la loro incompatibilità con quella che era la volontà del legislatore storico e con la stessa scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo, al fine di garantire una più effettiva ed espansiva applicazione del più temperato regime sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità.</p> <p style="text-align: justify;">Non è dubbio che specializzazione e sussidiarietà - quando la stessa si manifesta attraverso la previsione di clausole di riserva assolutamente indeterminate o, come nel caso di specie, relativamente indeterminate - operino in senso opposto, atteso che la prima impone la applicazione della norma speciale sulla norma generale, la seconda della norma indicata come prevalente sulla norma sussidiaria che contiene la clausola. A ben vedere, però, attraverso entrambi i criteri il legislatore persegue un obiettivo unico e cioè ricondurre una determinata fattispecie esclusivamente alla previsione che meglio ne esaurisce il disvalore.</p> <p style="text-align: justify;">Attraverso la specializzazione viene però selezionata la reazione punitiva più conforme, individuando la norma che risulta meglio aderente alla fattispecie concreta dal punto di vista genuinamente strutturale, sul presupposto implicito che quanto più la valutazione normativa tiene conto dei caratteri distintivi di un determinato fatto, tanto più si presta a rispecchiarne, per l'appunto, l'effettivo disvalore. Il che consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva del tipo indicato, intenda far operare i due criteri su piani distinti ovvero sottrarre la relazione di specialità all'ambito di operatività della clausola di riserva.</p> <p style="text-align: justify;">Una interpretazione della norma rispettosa del contesto normativo in cui si inserisce e delle sue ragioni storiche, porta dunque a concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta - enfatizzando al contempo la scelta operata di configurare un titolo autonomo di reato - per disciplinare l'eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell'art. 73 T.U. STUP., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 55737 che si allinea all’orientamento secondo cui, in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), deve evidenziarsi che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612 bis c.p., comma 1, - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall'art. 612 bis c.p., comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata come nel caso di specie), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 144 che segue l’orientamento secondo cui la condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica costituisce circostanza aggravante dei delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime, dovendosi conseguentemente escludere, in applicazione della disciplina del reato complesso, che gli stessi possano concorrere con la contravvenzione di cui all'art. 186 cod. strada</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 gennaio esce la sentenza della VI sezione civile della Cassazione n. 1683 onde il sorpasso che, in quanto necessario per evitare intralci alla circolazione e sveltire il traffico, costituisce una manovra connaturale alla circolazione dei veicoli e sempre consentita, salvo che non ricorrano le condizioni di pericolo specificamente menzionate nell'art. 148 C.d.S., non comporta necessariamente l'invasione dell'opposta corsia di marcia e da essa prescinde la disciplina per esso stabilita, limitandosi questa a stabilire la regola comune che il sorpasso deve avvenire sulla sinistra del veicolo o di altro utente della strada che procede nella stessa corsia e che se la carreggiata o semicarreggiata sono suddivise in più corsie, il sorpasso deve essere effettuato sulla corsia immediatamente alla sinistra del veicolo che si intende sorpassare.</p> <p style="text-align: justify;">Il divieto di sorpasso in prossimità o in corrispondenza delle curve o dei dossi e in ogni caso di scarsa visibilità, stabilito dall'art. 148 C.d.S., comma 10, ha conseguentemente l'esclusiva finalità di prevenire il non avvertibile pericolo derivante dalla possibilità che un veicolo procedente in senso inverso abbia invaso la parte della carreggiata percorsa dai veicoli procedenti in senso inverso e, in generale, che la riduzione dello spazio di manovra non consenta ai veicoli coinvolti in un sorpasso di evitare gli ostacoli alla normale circolazione non percepibili dai loro conducenti con la normale tempestività.</p> <p style="text-align: justify;">L'obbligo imposto ai veicoli dall'art. 143 C.d.S., di circolare sulla parte destra della carreggiata, oltre che in prossimità del margine destro della medesima, anche quando la strada è libera, e la previsione di una particolare sanzione per colui che circola contromano in corrispondenza della curve e dei raccordi convessi o in ogni altro caso di limitata visibilità, non mira, invece, a tutelare la possibilità di reagire efficacemente ad un altrui comportamento pericoloso, ma ad impedire che la violazione del precetto venga posta in essere mediante l'invasione dell'opposta corsia di marcia in situazioni che non garantiscano che la stessa, oltre ad essere necessitata, sia anche consentita dalle condizioni del flusso veicolare opposto e che, in ogni caso, sia rilevabile dai veicoli sopraggiungenti nell'altra corsia e consenta ai loro conducenti di adeguare a detta invasione la propria condotta.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, l'effettuazione di una manovra di sorpasso in prossimità di una curva con l'invasione dell'opposta corsia di marcia, realizza, conseguentemente, tanto la fattispecie di un sorpasso vietato quanto quella della circolazione contro mano, non sussistendo tra le due violazioni un rapporto di specialità, bensì di concorso formale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13399 onde la provenienza illecita dei beni non esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacchè per beni del fallito L. Fall., ex art. 216, si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto, rientrandovi, pertanto, anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa, in quanto l'iter criminoso di quest'ultima si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'imprenditore decotto, mentre la sottrazione bancarottiera degli stessi beni a quest'ultimo è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere.</p> <p style="text-align: justify;">Siffatti principi sono stati, recentemente riaffermati dalla stessa Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.</p> <p style="text-align: justify;">Alla base di siffatta impostazione sono state ancora poste - come rilevato - le strutturali differenze delle condotte di distrazione rispetto alla presupposta fase acquisitiva dei proventi illeciti, che si pongono su di un piano cronologicamente distinto e progressivo nonchè logicamente (con)sequenziale, precludendo, in tal guisa, la unitaria riconduzione delle fattispecie all'idem factum.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte dedica poi un'ulteriore riflessione sulla ricaduta, su siffatta impostazione, della preclusione derivante dall'applicazione del principio del <em>ne bis in idem</em>, come (re)interpretato nella sua portata convenzionale e costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016, ha statuito l'illegittimità costituzionalmente, per violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e iniziato il nuovo procedimento penale.</p> <p style="text-align: justify;">Nella delineata prospettiva, la Consulta ha escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "<em>nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato</em>" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 c.p., per il quale "<em>l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto</em>".</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza della Corte EDU porta solo ad affermare - ha precisato la Corte Costituzionale - che, per i giudici di Strasburgo, la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie. Non v'è nessuna ragione logica - ha però precisato la Corte Costituzionale - per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "<em>all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Parimenti - ha proseguito la Corte Costituzionale - nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'idem factum, da condurre attraverso l'esame della sola condotta. Anzi, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che consente la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente.</p> <p style="text-align: justify;">Al contrario - ha concluso la Corte Costituzionale - sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Tanto a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicchè anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In tal modo, è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 c.p.p., senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale, e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, ad una valutazione sostanzialistica dell'idem factum questa Corte si è già conformata, affermando come ai fini della preclusione del "<em>ne bis in idem</em>", l'identità del fatto debba essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato, al fine di presidiare, secondo effettività, le garanzie che la predetta norma è intesa a tutelare.</p> <p style="text-align: justify;">La valutazione sostanzialistica dell'<em>idem factum</em> deve procedere tenendo conto dei rapporti di interferenza strutturale tra i reati.</p> <p style="text-align: justify;">Nel delineato contesto, in tema di valutazione comparativa, in concreto, delle fattispecie coinvolte in una verifica in termini di idem factum, è stato innovativamente ritenuto come, alla luce dei principi sovranazionali recepiti dalla Consulta, il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisca, in ragione del divieto di "<em>bis in idem</em>", di giudicare l'imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, non è quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso.</p> <p style="text-align: justify;">E' stato, in tal senso, sottolineato come la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p., e come gli elementi normativi descrittivi della bancarotta siano diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacchè nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato; pur tuttavia, anche ammessa la ricorrenza di una ipotesi di concorso formale di reati, la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è stata ritenuta - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale sopra richiamata - condizionata alla possibilità di riconoscere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento.</p> <p style="text-align: justify;">Si è, quindi, ritenuto come "<em>la problematica posta dall'impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta alla stregua dei criteri enunciati... secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perchè con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Alla luce di siffatta impostazione, è stata sottoposta a "prova di resistenza" anche la più recente giurisprudenza di legittimità, in quanto "<em>essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perchè la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "attualizza" l'offesa insita nell'appropriazione. Occorre considerare, però, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente; perciò, anche se nel "fatto" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perchè possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perchè consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazioni del Tribunale fallimentare, sicchè non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "fatto", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva</em>".</p> <p style="text-align: justify;">E' stata, perciò, richiamata la recente giurisprudenza di questa sezione, che, sviluppando consequenzialmente le premesse poste da S.U., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che nella bancarotta la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata alla dichiarazione di fallimento, concludendo che "<em>se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 c.p., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Di talchè si è concluso come "<em>Depurata...di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicchè non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta di una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "fatto", perchè attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Escluso il profilarsi situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresentasse, in concreto, un fatto diverso dal reato per cui vi era stata pronuncia passata in giudicato, nel caso in disamina la Corte ha escluso che l'imputato potesse essere nuovamente sottoposto a procedimento penale, esplorando anche il tema dei limiti del giudicato parziale in riferimento al reato complesso ed escludendo, anche sotto tale profilo, che ci si trovasse al cospetto di fatti diversi, in quanto "<em>l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicchè su di esso si era formato il giudicato</em>".</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14995 onde non è configurabile il rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacchè sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l'uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l'altro, da quella di privare taluno della libertà personale; sicchè il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall'art. 572 c.p., soltanto quando le condotte di arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima non sono ulteriori ed autonome rispetto a quelle specificatamente maltrattanti.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione onde, siccome nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non si verifica l'assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in assenza di una qualsivoglia affinità strutturale tra le fattispecie. In senso contrario non depone la clausola di riserva, o di sussidiarietà, espressa in esordio dall'art. 612 bis c.p. con la precisazione del "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", perchè essa, al di là della questione circa una sua reale ed effettiva utilità, non può aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell'area di possibile interferenza con il reato abituale di atti persecutori.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 21987 che, pur dando atto della presenza di un orientamento secondo cui i reati di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., potrebbero concorrere (dal momento che il delitto di accesso abusivo è strutturato come reato di pericolo, la norma di cui all'art. 615-quater delinea una fattispecie di pericolo necessariamente indiretto: dalla condotta diretta a procurare a sè o ad altri il codice di accesso al sistema informatico altrui deriva, infatti, il pericolo sia di una successiva, immediata introduzione abusiva nel sistema stesso - che è situazione di per sè pericolosa per la riservatezza dei dati e/o dei programmi che vi sono contenuti -, sia di una ulteriore condotta di diffusione del codice - in favore di soggetti - che potranno, a loro volta, servirsene per realizzare un accesso abusivo oppure cederlo a terzi), ritiene che i due reati non possano concorrere.</p> <p style="text-align: justify;">I delitti di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., sono collocati entrambi tra quelli contro l'inviolabilità del privato domicilio (meramente residuale appare la disarmonia conseguente alla previsione dell'aggravante di cui all'art. 615 ter, comma 3, che tutela domicili non privati, ma considerati piuttosto per la loro dimensione pubblicistica), avendo il Legislatore ritenuto che i sistemi informatici costituiscano "<em>un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantito dallo art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali agli artt. 614 e 615 c.p.</em>" (cfr. Relazione sul disegno di legge che ha introdotto i predetti reati).</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, l'incriminazione dell'accesso abusivo al sistema informatico altrui (art. 615 ter) è sostanzialmente finalizzata a contrastare il rilevante fenomeno degli hackers, e cioè di quei soggetti che, servendosi del proprio elaboratore, collegato con la rete telefonica, riescono a entrare in comunicazione con i diversi sistemi informatici che a quella stessa rete sono collegati, aggirando le misure di protezione predisposte dal titolare del sistema.</p> <p style="text-align: justify;">Con l'art. 615 quater, il Legislatore ha inteso, inoltre, rafforzare la tutela e la segretezza dei dati e dei programmi contenuti in un elaboratore, già assicurata dall'incriminazione dell'accesso e della permanenza in un sistema informatico o telematico prevista dal citato art. 615 ter.</p> <p style="text-align: justify;">I predetti reati sono, quindi, posti a tutela del medesimo bene giuridico, ovvero il c.d. "domicilio informatico", che l'art. 615 quater, protegge in misura meno ampia (ovvero limitatamente alla riservatezza informatica del soggetto) e l'art. 615 ter, più incisivamente, operando un più ampio riferimento al domicilio informatico tout court, da intendere, in linea con quanto emergente dalla Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 9 del 1989, quale "spazio ideale di esclusiva pertinenza di una persona fisica o giuridica", delimitabile prendendo come parametro il domicilio delle persone fisiche, ed al quale risulta estensibile la tutela della riservatezza della sfera individuale, che costituisce bene costituzionalmente protetto.</p> <p style="text-align: justify;">Lo stesso orientamento innanzi menzionato riconosce che l'art. 615 quater, "reprime una serie di condotte prodromiche alla (possibile) realizzazione del delitto di accesso abusivo in un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza, e, quindi, pericolose per il bene giuridico tutelato attraverso l'art. 615 ter c.p.".</p> <p style="text-align: justify;">Proprio da tali (pacificamente condivise) connotazioni emerge, a parere del collegio con evidenza, che il reato di cui all'art. 615 quater costituisce necessario antefatto del reato di cui all'art. 615 ter, poichè le due fattispecie criminose si pongono in stretta connessione, tutelando entrambe il medesimo bene giuridico, ovvero il domicilio informatico, passando da condotte meno invasive a condotte più invasive, poichè indiscriminate, che, sotto un profilo naturalistico, necessariamente presuppongono le prime.</p> <p style="text-align: justify;">In generale, l'antefatto non punibile ricorre nei casi in cui la commissione di un reato meno grave costituisce ordinariamente strumento per la commissione di un reato più grave Esso (come la progressione criminosa ed il postfatto non punibile) non costituisce fattispecie autonomamente disciplinata, poichè rientra tra i casi di concorso apparente di norme da risolvere ai sensi dell'art. 15 c.p., attraverso una operazione interpretativa che impone la considerazione "congiunta" di due fattispecie tipiche, resa oggettivamente evidente dal fatto che per una di esse, destinata ad essere assorbita nell'altra, sia prevista una sanzione più lieve.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza ha, in proposito, già chiarito che, nei casi in cui, al contrario, detta operazione interpretativa sembrerebbe sortire esito inverso, ovvero comportare l'assorbimento della fattispecie più grave in quella meno grave, l'assorbimento andrebbe negato, dovendosi ravvisare un intento di consentire, attraverso un effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi criminose, il regime del concorso dei reati. Invero, l'avere sottoposto a più benevolo trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la punisce è applicabile in concorso con l'altra, senza incorrere in duplicità di addebito.</p> <p style="text-align: justify;">Ad esempio, la Cassazione è ferma nel ritenere che possa verificarsi l'assorbimento della contravvenzione del possesso ingiustificato di arnesi atti allo scasso (art. 707 c.p.) nel delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose (art. 625 c.p., comma 1, n. 2) quando ricorra un nesso di immediatezza e strumentalità tra il possesso degli arnesi atto allo scasso ed il loro uso; perchè si verifichi questa situazione, occorre che:</p> <p style="text-align: justify;">1) gli strumenti siano stati effettivamente usati per la commissione del furto;</p> <p style="text-align: justify;">2) il loro possesso sia stato limitato all'uso momentaneo necessario per l'effrazione;</p> <p style="text-align: justify;">3) non vi sia stato distacco temporale e spaziale tra la commissione del furto e l'accertamento del possesso degli arnesi;</p> <p style="text-align: justify;">4) tali arnesi non siano di natura e quantità tali da assumere una rilevanza giuridica autonoma rispetto all'ambito di consumazione del delitto circostanziato.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, in tema di furto di documenti, è stato escluso il concorso tra il reato di furto (art. 624 c.p.) e quello di falso per soppressione (art. 490 c.p.) nei casi in cui vi sia contestualità cronologica tra sottrazione e distruzione, e l'azione sia stata compiuta all'unico scopo di eliminare la prova di un diritto, in quanto, in tal caso, la sottrazione deve essere considerata come un antefatto non punibile, destinato ad essere assorbito nella condotta unitaria finalisticamente individuata dallo scopo unico che anima ab initio la coscienza e volontà dell'agente, e che caratterizza la fattispecie di cui all'art. 490.</p> <p style="text-align: justify;">In virtù di tali considerazioni, la Corte conclude che il meno grave - quoad poenam - delitto di cui all'art. 615 quater, non possa concorrere con quello, più grave, di cui all'art. 615 ter, del quale costituisce naturalisticamente un antecedente necessario, sempre che quest'ultimo - come nel caso di specie - sia contestato, procedibile (la fattispecie di reato prevista dall'art. 615 ter, comma 1, non aggravata, è, diversamente dalle fattispecie aggravate di cui ai commi 2 e 3, procedibile a querela di parte; il reato di cui all'art. 615 quater è sempre procedibile d'ufficio) ed integrato nel medesimo contesto spazio-temporale in cui fu perpetrato l'antefatto, ed in danno della medesima persona fisica (titolare del bene protetto).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 25538 secondo cui le fattispecie di lesioni e omicidio stradale sono disciplinate dal 589 bis e 590 bis che sono speciali rispetto agli artt. 589 e 590 c.p., in quanto si riferiscono a condotte tenute "con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale". Di tale assetto normativo deve tenersi conto nell'interpretazione dell'art. 586, il quale dispone che, quando da un fatto preveduto come doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art. 83, ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590, sono aumentate; ovvero dispone che il soggetto risponda, oltre che del delitto doloso commesso, anche, a titolo di colpa, dell'evento non voluto. Afferma dunque la Corte che l'art. 586 non prevede per ogni categoria di omicidio e lesioni colpose l'automatica applicazione dell'art. 589 e 590, ma solo che, qualora l'evento effettivamente cagionato sia sussumibile in tali disposizioni, le relative pene siano aumentate. Quando, invece, i fatti sono sussumibili nelle fattispecie speciali di cui agli artt. 589 bis e 590 bis, l'aumento di pena previsto dall'art. 586, non si applica, perchè esso trova applicazione solo se sono configurabili i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p..</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Lo stesso giorno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 25558 che, in tema di reato di cui all’art. 600-quater c.p., afferma come all'indomani delle modifiche legislative di cui alla L. n. 38 del 2006possono configurarsi due condotte: il procurarsi ed il detenere.</p> <p style="text-align: justify;">Prima della riforma, la norma puniva le condotte, tra loro alternative, del procurarsi, che implica qualsiasi modalità di procacciamento compresa la via telematica, e del disporre, che implica un concetto più ampio della detenzione, allo scopo di rendere la norma sicuramente applicabile anche al possesso di immagini pedopornografiche ottenute mediante l'accesso a siti internet opportunamente protetti. Tutte le attività, telematiche o non, idonee a fare ottenere il materiale pedopornografico al detentore integravano la nozione del procurarsi.</p> <p style="text-align: justify;">Ora la fattispecie prevede due modalità della condotta e segnatamente il procurarsi e il detenere. Detiene il materiale pedopornografico colui che in precedenza se l'è procurato. Non v'è dubbio che le due forme con cui può manifestarsi detenere ed il procurarsi, anche se sembrano tra loro alternative, hanno tuttavia un elemento comune che è costituito dalla detenzione sia pure momentanea del materiale pedopornografico in capo a colui che se lo procura.</p> <p style="text-align: justify;">Dai principi dianzi esposti, emerge che non si tratta di due reati diversi, ma di due diverse modalità di perpetrazione del medesimo reato e quindi le due condotte non possono concorrere tra di loro. Esse hanno un elemento comune, che è costituito dalla disponibilità ossia dalla detenzione del materiale pedopornografico. La condotta di procurarsi si consuma al momento dell'accesso sulla rete mentre quelle di detenzione ha carattere permanente e si consuma nel momento in cui perde la disponibilità - di norma - con il sequestro. Invero, il comportamento di colui il quale, dopo essersi procurato materiale pedopornografico, lo detiene, configura un reato commissivo permanente la cui consumazione inizia con il procacciamento del materiale e si perpetua per tutto il tempo in cui permane in capo all'agente la disponibilità del materiale e, quindi, l'illiceità della condotta.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 26604 che dà continuità all’orientamento secondo cui il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica, diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate, in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello "<em>ius excludendi alios</em>", anche in relazione alle modalità che regolano l'accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l'alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 28364 onde il d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4 prevedono due reati caratterizzati dalla medesima condotta e dalla mancata autorizzazione di cui all'art. 17, che tuttavia si distinguono per l'oggetto materiale della condotta e per la pena comminata. Si tratta comunque di reati autonomi e pertanto nel caso in cui un medesimo comportamento abbia ad oggetto sia le sostanze stupefacenti di cui alla tabella I che quelle di cui alla tabella II, si avranno reati distinti con possibile continuazione, dal momento che le condotte non sono alternative e non sono quindi inquadrabili in un rapporto di assorbimento reciproco. Al contrario, nel caso in cui un soggetto ponga in essere condotte contestuali inerenti a sostanze della medesima specie avremo un unico reato.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, in materia di reati concernenti sostanze stupefacenti, in presenza di più condotte riconducibili a quelle descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, quando unico è il fatto concreto che integra contestualmente più azioni tipiche alternative, le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell'ipotesi più grave; quando invece le differenti azioni tipiche sono distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono distinti reati concorrenti materialmente.</p> <p style="text-align: justify;">La norma in esame è infatti a più fattispecie e pertanto il reato è configurabile allorchè il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste e deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto ed aventi come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia, affinchè si realizzi detto assorbimento è necessario che il dato quantitativo ed il contesto temporale siano i medesimi. Ed infatti, in base a quanto affermato dalla Cassazione (Cass. Sez. 4, n. 9496 del 31/01/2008), le diverse condotte previste dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, in alternatività formale tra loro, perdono la loro individualità quando si riferiscano alla stessa sostanza stupefacente e siano indirizzate ad un unico fine, talchè, se consumate senza un'apprezzabile soluzione di continuità, devono considerarsi come condotte plurime di un unico reato e, al fine della determinazione della competenza per territorio, deve farsi riferimento al luogo di consumazione della prima di esse. Nello specifico la Corte di Cassazione ha ritenuto inesistente il concorso formale di reati sia qualora il soggetto detenga la droga per uso personale e contestualmente la porti con sè, sia qualora egli contestualmente detenga e venda la sostanza stupefacente, ritenendo in tal caso che le condotte illecite minori perdono la loro individualità per essere assorbite nell'ipotesi più grave.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa si risolve il concorso apparente di norme?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>in <strong>un solo fatto storico</strong> (compendiantesi in <strong>un’azione</strong> o in <strong>un’omissione</strong>), penalmente rilevante (o talvolta in <strong>più fatti storici</strong>);</li> <li>in una <strong>pluralità di norme incriminatrici</strong>, <strong>tutte</strong> all’apparenza applicabili <strong>a quell’unico fatto storico</strong> (o a <strong>ciascuno</strong> dei plurimi fatti storici), qualificandolo (o qualificandoli) come <strong>fatto-inadempimento reato</strong>;</li> <li>nella <strong>mera apparenza di tale convergenza</strong> di <strong>più norme incriminatrici</strong>, essendone alfine <strong>applicabile una sola</strong>; laddove fossero invece applicabili <strong>più norme incriminatrici</strong>, un unico fatto storico, commissivo od omissivo, farebbe luogo a <strong>più fatti inadempimento reato</strong>, facendo luogo ad un <strong>concorso formale di reati </strong>(o, in presenza di più fatti storici penalmente rilevanti, ad un <strong>concorso materiale di reati</strong>);</li> <li>si ha <strong>mera apparenza di convergenza</strong> di più norme incriminatrici anche nella fattispecie del <strong>d. reato abituale improprio</strong>, nel cui contesto <strong>tutti gli episodi fattuali</strong> hanno una <strong>rilevanza penale</strong>, ma è <strong>una sola la norma</strong> che <strong>li disciplina tutti</strong>, onde quello che sarebbe un <strong>concorso materiale di reati</strong> è in realtà <strong>un concorso apparente di norme</strong>, essendo <strong>una sola</strong> la fattispecie incriminatrice astratta che si applica alla <strong>condotta plurima e frazionata</strong> del soggetto agente; analogamente <strong>una sola</strong> è la <strong>fattispecie incriminatrice astratta che si applica</strong> nel caso di <strong>c.d. reato progressivo nell’evento</strong>, come nell’ipotesi di <strong>lottizzazione abusiva</strong>;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali teorie si agitano in tema di concorso apparente di norme?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la <strong>teoria monistica</strong>: esiste <strong>un solo criterio</strong> capace di <strong>dirimere un conflitto apparente di norme</strong>, ed è il <strong>criterio di specialità di cui all’art.15</strong> del codice penale; <strong>altri criteri</strong>, come quello di <strong>assorbimento o “<em>consunzione</em>”</strong>, oltre a <strong>non essere previsti dal sistema</strong>, si risolvono in una <strong>vuota formula</strong>, sorte che è da ascrivere anche al <strong>d. principio di sussidiarietà</strong>, non previsto <strong>da nessuna norma in via generale</strong> e per giunta <strong>inutile</strong> perché riproducente – laddove ammissibile – il <strong>criterio di specialità</strong>, del quale <strong>sottolineerebbe</strong> solo maggiormente <strong>la funzione</strong> (rispetto alla classica struttura); previsto dal sistema è invece il meccanismo della <strong>c.d. clausola di riserva</strong> (“<em>salvo che il fatto costituisca un diverso reato</em>…” e simili), ipotesi nella quale tuttavia <strong>non si ha un concorso “<em>apparente</em>” di norme</strong>, in quanto è lo stesso legislatore penale qui a dire che <strong>non si configura alcun concorso</strong>, <strong>una sola essendo</strong> la norma applicabile al fatto compiuto;</li> <li>le <strong>teorie pluralistiche</strong>: accanto al <strong>principio di specialità</strong>, <strong>altri principi</strong> presidiano al concorso apparente di norme, che dunque ha una <strong>estensione molto più ampia</strong> di quella <strong>letteral-codicistica di parte generale</strong>, essendo operativi <em>ratione materiae</em> il canone di <strong>sussidiarietà</strong>, il principio di <strong>accessorietà</strong> e quello di <strong>consunzione o assorbimento</strong>; lo dimostra il fatto che <strong>nello stesso art.15</strong>, in coda, si dice “<strong><em>salvo che sia altrimenti stabilito</em></strong>”, prefigurando dunque il legislatore penale <strong>ipotesi</strong> di concorso apparente di norme <strong>diverse dalla specialità</strong>. Più in particolare, occorre dare seguito ad <strong>esigenze di tipo equitativo</strong> che impongono, dinanzi ad <strong>un solo fatto storico</strong>, di erogare un <strong>trattamento sanzionatorio</strong> che sia <strong>proporzionato</strong> rispetto all’<strong>offesa</strong> al bene (interesse) giuridico <strong>in concreto realizzata</strong> e che non risulti <strong>di gravità irragionevole</strong> per il reo, valorizzando all’uopo proprio il concetto di <strong>solo apparente convergenza</strong> di più norme punitive rispetto al ridetto, <strong>unico fatto storico</strong> in concreto commesso.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa consiste il principio di specialità scolpito all’art.15 c.p. e quali problemi pone?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la <strong>norma generale</strong> contiene <strong>un certo numero di elementi</strong>; la <strong>norma speciale</strong> contiene il <strong>medesimo numero di elementi</strong> della norma generale, <strong>più degli altri</strong> di tipo <strong>specializzante</strong>;</li> <li>occorre capire in primo luogo <strong>cosa si intende per “<em>più leggi penali</em>”:</strong> da un punto di vista ampio, il <strong>diritto penale commerciale</strong> o il <strong>diritto penale militare</strong> sono <strong>speciali</strong> rispetto al <strong>diritto penale comune</strong>;</li> <li>occorre verificare i rapporti tra <strong>diritto penale</strong> e <strong>diritto amministrativo sanzionatorio</strong> (“<strong><em>para-penale</em></strong>”): il principio di specialità <strong>è qui “<em>reciproco</em>”</strong>, in quanto si applica <strong>la norma penale se speciale</strong> rispetto a quella amministrativa sanzionatoria, mentre all’opposto qualora <strong>sia questa ad essere speciale</strong> rispetto alla norma penale (generale), prevale la <strong>norma amministrativa sanzionatoria</strong>;</li> <li>laddove si tratti di <strong>due norme penali</strong> in ordine alle quali <strong>non è possibile <em>ictu oculi</em> stabilire quale sia speciale</strong> rispetto all’altra (come accade, esemplificativamente, nel caso di <strong>norma penale comune</strong> e di <strong>norma penale militare</strong>), ciò che consente di parlare di <strong>rapporto di specialità</strong> è indefettibilmente il fatto che <strong>entrambe le norme</strong> disciplinino la “<strong><em>stessa materia</em></strong>”, come si evince dall’art.15 c.p.; da questo punto di vista si distingue: d.1) chi ritiene (dottrina <strong>risalente</strong>) che “<strong><em>stessa materia</em></strong>” significa, in presenza di <strong>un solo fatto storico</strong>, <strong>più norme apparentemente concorrenti</strong> nella disciplina del fatto stesso, tutte aventi il <strong>medesimo oggetto materiale</strong>, e dunque <strong>tutelando il medesimo bene</strong> (interesse) penalmente rilevante, onde laddove le due (o più) norme convergenti sul medesimo fatto <strong>presidino in realtà beni diversi</strong> (come nel caso dell’oltraggio a pubblico ufficiale e dell’ingiuria), <strong>non può parlarsi di specialità</strong> ai sensi dell’art.15 c.p.; si tratta di una presa di posizione che, oltre a condurre a <strong>palesi irragionevolezze</strong>, antepone ad un <strong>criterio meramente logico</strong> (che sembra quello abbracciato dal legislatore del codice con la formulazione dell’art.15) un <strong>canone di valore</strong> legato, per giunta, ad una figura quale è il c.d. “<strong><em>oggetto materiale</em></strong>” del reato sovente oggetto di <strong>aspre controversie interpretative</strong> in relazione ai singoli casi; d.2) chi ritiene (dottrina più <strong>recente ed accreditata</strong>) che per applicare il principio di specialità sia sufficiente <strong>un solo fatto storico</strong> sul quale convergono <strong>più norme penali</strong>, senza che abbia la <strong>minima rilevanza</strong> il <strong>bene giuridico tutelato</strong> da ciascuna di tali norme penali, dovendosi peraltro tenere conto della circostanza onde il codice penale, all’art.15, parla di “<strong><em>stessa materia</em></strong>” - e non già di “<strong><em>stesso fatto</em></strong>” – per far sì che, dato un <strong>determinato fatto storico</strong>, più norme convergenti possono far luogo a concorso apparente <strong>anche laddove taluna</strong> di tali norme abbia <strong>natura incriminatrice</strong>, e talaltra abbia <strong>diversa natura</strong>, anche <strong><em>pro reo</em></strong> (circostanze, cause di giustificazione, cause estintive e così via): laddove il codice penale avesse parlato di “<strong><em>stesso fatto</em></strong>” (piuttosto che di “<strong><em>stessa materia</em></strong>”) sarebbe stato possibile, da questo crinale ermeneutico, predicare il concorso apparente di norme <strong>solo in presenza di due o più norme incriminatrici pure</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa si intende, più specificamente, per specialità?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="609"> <li><strong>specialità unilaterale</strong> o <strong>a cerchi concentrici</strong>: una norma si presenta, dal punto di vista <strong>astratto e strutturale</strong>, speciale rispetto ad un’altra, che è generale, in quanto <strong>ne annovera tutti gli elementi</strong> con <strong>in più qualcosa di diverso</strong>; in questa fattispecie si ha sempre una <strong>norma generale</strong> e l’<strong>altra speciale</strong> rispetto ad essa, trovando luogo un concorso apparente di norme dal momento che la norma speciale appartiene ad un <strong>sottoinsieme</strong>, o <strong>cerchio concentrico</strong>, rispetto a quella generale che è <strong>un insieme o cerchio maggiore contenente</strong>, onde se si applica la norma speciale <strong>sono certamente presenti tutti gli elementi di quella generale</strong>, mentre quest’ultima è operativa <strong>anche se difetta</strong> uno o più elementi propri della norma speciale. Si distingue, nell’ambito di queste ipotesi: a.1) dal punto di vista <strong>quantitativo</strong>, la <strong>specialità “<em>per aggiunta</em>”</strong>: il sequestro di persona è disciplinato all’art.605 c.p., ma se chi lo commette <strong>ha uno scopo di estorsione</strong>, tale scopo è “<strong><em>in aggiunta</em></strong>” (elemento in più) rispetto al sequestro di persona, onde si ha concorso apparente di norme e si applica <strong>solo l’art.630 c.p.,</strong> come norma speciale rispetto all’art.605 che è norma generale; a.2) dal punto di vista <strong>qualitativo</strong>, la <strong>specialità “<em>per specificazione</em>”</strong>: la <strong>violenza privata</strong>, quale norma generale, è disciplinata dall’art.610 c.p., ma se dal punto di vista <strong>qualitativo</strong> si atteggia a <strong>violenza sessuale</strong>, si tratta di violenza (privata) sessuale (stessi elementi, di cui uno peculiarmente qualificato), <strong>particolarmente specificata</strong>, e si applica <strong>quale norma speciale l’art.609.bis c.p.</strong>, senza che si applichi anche la norma generale sulla violenza privata; si tratta in entrambi i casi di una <strong>specialità astratta e strutturale</strong>, come tale pienamente riconducibile all’art.15 c.p., sicché <strong>non può realizzarsi la fattispecie speciale</strong> se non <strong>realizzando anche, in tutti i relativi elementi, la fattispecie generale</strong>; quando in relazione ad un unico fatto storico convergono due fattispecie che <strong>non sono in relazione strutturale di specialità astratta</strong> tra loro, si parla di <strong>d. specialità “<em>in concreto</em>”,</strong> che tuttavia appare dagli <strong>incerti confini</strong> (seppure giustificata in qualche modo dal principio del <strong><em>favor rei</em></strong>) e certamente <strong>non riconducibile</strong> all’alveo precettivo dell’art.15 c.p.;</li> <li><strong>specialità bilaterale o reciproca</strong>, o <strong>a cerchi intersecantisi</strong>: esiste un <strong>nucleo comune</strong> <strong>identico</strong> in due fattispecie normative astratte A e B, al di fuori del quale – con riguardo dunque a taluni elementi - <strong>A è speciale rispetto a B</strong> e, ad un tempo, <strong>B è speciale rispetto ad A</strong>. L’<strong>aggiotaggio comune</strong> ex art.501 c.p. può essere commesso da <strong>chiunque</strong>, e dunque è generico rispetto all’<strong>aggiotaggio societario</strong> ex art.2628 c.c., che può essere commesso solo da <strong>peculiari figure soggettive di ambito societario</strong> (soci, promotori, fondatori e amministratori di s.p.a.); ma, ad un tempo, mentre l’aggiotaggio societario ex art.2628 c.c. è <strong>a dolo generico</strong>, l’aggiotaggio di cui all’art.501 c.p. è <strong>a dolo specifico</strong> e dunque – da quest’altro punto di vista – è l’aggiotaggio societario ad essere <strong>generico</strong> e quello ordinario “<strong><em>specifico</em></strong>”. Si tratta di fattispecie in cui <strong>non è operante in via immediata e diretta l’art.15</strong>, onde: b.1) si può far riferimento alla <strong>norma “<em>più speciale</em>”</strong>, secondo un criterio tuttavia empirico ed approssimativo; b.2) si può fare riferimento alla <strong>norma che prevede la sanzione più grave</strong>, ed anche in questo caso, a parte le <strong>incertezze</strong> questa volta di tipo <strong>valoriale</strong>, resta da domandarsi perché non si possa e non si debba, piuttosto, fare applicazione di <strong>entrambe le disposizioni convergenti</strong> sull’unico fatto storico; b.3) si possono, per l’appunto, assumere applicabili <strong>entrambe le disposizioni</strong>, affidando al giudice la <strong>discrezionalità</strong> di <strong>calibrare bene il trattamento sanzionatorio complessivo</strong>, soluzione che dunque <strong>esclude il concorso apparente</strong> di norme ed ammette il <strong>concorso formale di reati</strong>, onde un solo fatto fa luogo a <strong>due inadempimenti-reato</strong> con <strong>doppia sanzione</strong> (seppure adeguatamente calibrata in considerazione del nucleo comune presente in entrambe le fattispecie astratte in concreto operative); b.4) si può, infine, fare appello al <strong>principio processuale del divieto di “<em>bis in idem</em>”,</strong> scolpito agli articoli 649 e 669 c.p.p., per ritrarne un <strong>canone speculare di “<em>bis in idem</em>” sostanziale</strong>, tale da <strong>imporre l’applicazione in questi casi di una sola</strong> delle due o più norme apparentemente operative e convergenti sul fatto commesso: il <strong>principio del <em>favor rei</em></strong>, unito alla <strong>identità di <em>ratio</em></strong> tra le norme la cui operatività appare convergente, consente di applicare <strong>una sola disposizione</strong> (delle due o più coinvolte) onde rispettare un <strong>principio del <em>bis in idem</em> sostanziale</strong> ritraibile dalla disciplina delle <strong>clausole di riserva esplicite</strong> (massime se <strong>indeterminate</strong> o <strong>relativamente determinate</strong>, che dunque non richiamano un altro reato specifico, ma genericamente un “<strong><em>diverso reato</em></strong>”), dalla stessa disciplina delle <strong>circostanze</strong> e del <strong>reato complesso</strong> ex art.84 c.p., laddove un <strong>disvalore apparentemente duplice</strong> <strong>o plurimo</strong> diviene <strong>disvalore unico</strong>, con trattamento sanzionatorio unificato; la sola norma (e sanzione) applicabile da chi abbraccia questa opzione ermeneutica è <strong>quella più grave</strong> o, secondo altra tesi, quella che <strong>meglio si adatta al caso concreto</strong>, con soluzione che tuttavia, pur partendo dal <strong>dato strutturale della specialità reciproca</strong>, finisce con l’invadere il campo più propriamente del “<strong><em>valore</em></strong>” in termini di imputazione di una (non duplice, ma) <strong>semplice responsabilità penale unitaria</strong> pur al cospetto del convergere (assunto solo apparente) di più norme incriminatrici.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nell’ambito delle c.d. teorie pluralistiche, cosa si intende per principio di sussidiarietà?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di un principio che <strong>si affianca a quello di specialità</strong>, al fine di identificare un concorso apparente di norme in luogo del concorso formale di reati;</li> <li>compendia un principio che si fonda su un <strong>giudizio di valore</strong>, piuttosto che su una <strong>mera analisi delle fattispecie astratte</strong> in concorso;</li> <li>si parte dal fatto che esiste <strong>un solo bene (interesse) giuridico offeso</strong>, che subisce <strong>diversi gradi o stadi di aggressione</strong>, come dimostrano le fattispecie di <strong>pericolo</strong> rispetto a quelle di <strong>danno</strong>, ovvero quelle di <strong>danno</strong> rispetto a quelle di <strong>maggior danno</strong>; ovvero dal fatto che, pur esistendo più beni (interessi) penalmente tutelati dalle <strong>diverse norme incriminatrici</strong> in apparente convergenza, esiste <strong>una gerarchia di valori tra i ridetti beni</strong>, onde è sufficiente applicare al fatto commesso <strong>la sanzione comminata per il pregiudizio inferto all’interesse più importante e di maggior valore</strong>, perché ricomprende in sé anche l’altro o gli altri interessi tutelati dalle altre norme incriminatrici apparentemente convergenti (laddove sia difficile operare una <strong>gerarchia precisa</strong> tra i vari interessi tutelati, va fatta applicazione della <strong>norma che prevede la più grave sanzione</strong>);</li> <li>in queste ipotesi, laddove <strong>una sola</strong> delle norme apparentemente in concorso <strong>assorba l’intero disvalore del fatto</strong> (unico) commesso, sarà <strong>quest’ultima</strong> a dover essere esclusivamente applicata come <strong>norma principale</strong>, mentre l’altra o le altre norme in concorso si atteggiano a <strong>complementari</strong> e <strong>meramente sussidiarie</strong>, non trovando dunque applicazione;</li> <li>in taluni casi il giudizio di valore viene operato <strong>dallo stesso legislatore</strong> attraverso apposite <strong>clausole di riserva</strong> (“<em>salvo che il fatto non costituisca il reato di cui</em>…”), parlandosi in tali casi di <strong>sussidiarietà espressa</strong>; in altri il ridetto giudizio di valore viene lasciato alla <strong>discrezionalità del giudice</strong> (<em>pro reo</em>), e si parla allora di <strong>sussidiarietà indiretta e implicita</strong>;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nell’ambito delle c.d. teorie pluralistiche, cosa si intende per principio di consunzione o assorbimento?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di un principio che <strong>si affianca</strong> a quello di specialità, al fine di identificare un concorso apparente di norme in luogo del concorso formale di reati;</li> <li>compendia un principio che si fonda <strong>su un giudizio di valore</strong>, piuttosto che su una <strong>mera analisi delle fattispecie astratte</strong> in concorso;</li> <li>si fa riferimento da un lato a quello che <strong>normalmente accade nella commissione di certi reati</strong> (<strong><em>id quod plerumque accidit</em></strong>) in un <strong>dato contesto sociale</strong> e, dall’altro, al concetto di <strong>disvalore del fatto commesso</strong> dal soggetto agente; in queste ipotesi una norma incriminatrice riveste uno <strong>scopo normativamente più importante</strong> della seconda, <strong>“<em>consumandone</em>” l’applicabilità</strong>;</li> <li>si configura allora, in rapporto all’unico fatto commesso, una <strong>norma “<em>consumante</em>”</strong> e una <strong>norma “<em>consumata</em>”:</strong> l’<strong>intero disvalore penalmente rilevante</strong> del fatto commesso è riconducibile alla <strong>norma “<em>consumante</em>”</strong> che reca seco – secondo quello che <strong>normalmente accade</strong> in episodi di tal fatta – anche la <strong>solo apparente operatività</strong> della <strong>norma “<em>consumata</em>”</strong>, che come tale non trova applicazione;</li> <li>normalmente, anche se non sempre, <strong>per commettere certi reati occorre commetterne altri</strong>: ad esempio, se si commette <strong>furto in abitazione</strong> (reato-fine) normalmente – anche se non necessariamente - <strong>si commette anche danneggiamento</strong> (reato-mezzo), ed il legislatore <strong>ha previsto la punizione</strong> del furto in abitazione <strong>tenendo conto di questa evenienza correlativa</strong>, non occorrendo dunque punire anche per danneggiamento laddove questo <strong>in concreto si verifichi</strong> (come invece imporrebbe la rigida applicazione del principio di specialità);</li> <li>da questo punto di vista, il fatto che <strong>non operi il principio di specialità</strong> autorizza il giudice – <strong><em>pro reo</em></strong> – a scandagliare (in ciò autorizzato dallo stesso art.15 c.p., laddove <strong>fa salvi i casi in cui sia “<em>altrimenti stabilito</em></strong>”: anche se questa espressione sembra riferita più ad <strong>altri casi previsti dalla stessa legge penale</strong>, piuttosto che affidati <strong>al giudice</strong>) se <strong>l’intero “<em>significato delittuoso</em>”</strong> (espressione dottrinale) del fatto unico commesso possa assumersi <strong>assorbito dalla esclusiva applicazione di solo una delle norme</strong> apparentemente convergenti, in termini applicativi, sulla fattispecie;</li> <li>al principio dell’assorbimento o consunzione viene ricondotta anche la fattispecie <strong>dell’antefatto e del post-fatto non punibile</strong> e della <strong>progressione criminosa</strong>, che ne costituiscono <strong>precipua applicazione</strong>;</li> <li>questo evidenzia un aspetto molto importante di questo principio: esso <strong>non opera solo in presenza di un unico fatto commesso</strong> nella medesima unità di tempo ma anche in fattispecie di <strong>pluralità di fatti commessi anche in momenti diversi</strong> (e che farebbero luogo non già a concorso formale, ma <strong>materiale</strong> di reati), laddove – guardando ai <strong>beni (interessi) tutelati</strong> dalle pertinenti norme incriminatrici – il fatto concretamente commesso (inteso in senso <strong>storico</strong>, anche come evoluzione di più episodi naturalistici singoli tra loro connessi, e dunque di più “<strong><em>condotte</em></strong>”) presenti un <strong>disvalore complessivo tale</strong> da meritare <strong>una sola punizione</strong>;</li> <li>in questi casi, secondo la dottrina che abbraccia questo canone al fine di identificare un concorso apparente di norme, <strong>l’assorbimento tra norme</strong> è in realtà – più a monte – un <strong>assorbimento tra interessi</strong>, quello <strong>più rilevante</strong> (offeso) “<strong><em>consumando</em></strong>” quello <strong>meno importante</strong> (del pari offeso), in un’ottica di <strong>punizione ragionevole</strong> in cui singoli illeciti vengono riguardati come “<strong><em>momenti</em></strong>” di <strong>un unico e complessivo illecito</strong> punito <strong>una sola volta</strong> facendo applicazione della <strong>norma “<em>consumante</em>”.</strong></li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In che modo il reato complesso intercetta la disciplina del concorso apparente di norme?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>nel <strong>reato complesso</strong> si verifica un (<strong>apparente</strong>) <strong>concorso di reati</strong> tutt’affatto peculiare, in cui <strong>non si applica la disciplina sanzionatoria</strong> dei <strong>diversi reati che si fondono</strong>, quanto piuttosto – e <strong>soltanto</strong> – la <strong>disciplina sanzionatoria del reato che è “<em>complesso</em>”</strong> appunto perché <strong>prodotto dalla fusione in parola</strong>, e dunque <strong>speciale</strong> <strong>rispetto alle fattispecie che si fondono </strong>ai sensi<strong> dell’art.15 c.p.</strong>; in luogo di un <strong>concorso di reati</strong> si ha allora un <strong>concorso apparente di norme</strong> in cui rileva, dal punto di vista <strong>strutturale</strong>, la <strong>specialità astratta di una fattispecie di reato</strong> rispetto ad <strong>una o più fattispecie “<em>generali</em>” </strong>(si pensi alla classica ipotesi della <strong>rapina</strong>, che è <strong>speciale</strong> tanto nei confronti del <strong>furto</strong>, quanto rispetto alla <strong>violenza privata</strong>);</li> <li>muovendo poi dalla figura di <strong>d. reato complesso “<em>eventuale</em>”</strong>, si assume in dottrina quest’ultima appartenere ad una <strong>categoria più ampia</strong> nel cui novero si inserisce anche la <strong>progressione criminosa</strong>: in entrambi i casi <strong>un elemento costitutivo</strong> può <strong>compendiare o meno, autonomamente, reato</strong>, ma resta <strong>comunque assorbito</strong> da <strong>altra fattispecie di reato</strong>; mentre tuttavia nel <strong>reato “<em>eventualmente</em>” complesso</strong> un <strong>reato “<em>eventuale</em>”</strong> <strong>confluisce puramente e semplicemente</strong> nell’altro (senza <strong>alcuna progressione lesiva</strong> rispetto ad un medesimo bene-interesse protetto), nel <strong>reato progressivo</strong> il fatto inadempimento “<strong><em>eventuale</em></strong>” che confluisce è <strong>sempre quello che offende di meno</strong> il bene (interesse) giuridico penalmente protetto, mentre <strong>il reato “<em>a valle</em>”</strong> è sempre quello che <strong>consuma l’offesa maggiore</strong> al medesimo bene (interesse); in <strong>entrambi i casi</strong> tuttavia, e dunque nell’ottica della categoria generale che li ricomprende, <strong>a campeggiare è un giudizio di valore</strong> che impone – anche quando il fatto che confluisce <strong>è titolo autonomo di reato</strong> – di <strong>non punire due volte</strong> un comportamento che <strong>appare meritevole di una sola</strong> (quand’anche <strong>appropriata</strong>) <strong>sanzione penale</strong> (c.d. <strong><em>ne bis in idem</em> sostanziale</strong>), onde fattispecie di “<strong><em>specialità reciproca</em></strong>” che <strong>di per sé</strong> <strong>non rientrerebbero</strong> sotto l’egida precettiva dell’<strong>art.15</strong> c.p. (specialità <strong>strutturale ed astratta</strong>), possono far luogo ad <strong>una sola punizione</strong> (piuttosto che <strong>a due</strong>) giusta ricorso <strong>proprio</strong> all’<strong>art.84</strong> c.p.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p>