Massima
Dinanzi ad un solo fatto storico – o anche, talvolta, ad una successione di fatti storici – potrebbe apparire operativa una pluralità di norme che, in realtà, convergono tra loro qualificando in via unitaria tale fatto (o tali fatti) come “unico e solo” inadempimento reato (piuttosto che come pluralità di inadempimenti-reato in concorso tra loro): una convergenza fondata sul mero raffronto strutturale tra le pertinenti fattispecie astratte o, muovendo da un’altra prospettiva, sulla irragionevolezza del punire due (o più volte) un fatto (o più fatti) il cui disvalore – anche in relazione all’interesse penalmente protetto – appare sostanzialmente riconducibile ad un unico inadempimento reato.
Crono-articolo
Nel diritto romano solo apparentemente non si rinvengono specifici addentellati al c.d. concorso apparente di norme: se infatti si parte, secondo il consueto schema romanistico, dal processo per discendere alla sostanza, ci si avvede che è di ascendenza romanistica il principio del ne bis in idem, ovvero della consumazione della lite attraverso il relativo esercizio, senza che possa poi essere riproposta nei confronti del medesimo convenuto (c.d. consumptio per litis contestationem), già in qualche modo affiorante dalla c.d. litis contestatio e dal relativo effetto preclusivo: nel Digesto, se ne rinvengono specifici richiami in Ulpiano, Dig. 48.2.7.2, mentre il principio viene citato anche da Gaio nelle sue Istituzioni (3.181). Si è osservato peraltro come il diritto romano sia stato assai intransigente in tema di concorso di reati, ogni volta che a carico di un individuo risultassero più fatti delittuosi, infliggendo tante sanzioni quanti erano i reati (secondo il noto principio tot delicta quot poenae), secondo una concezione autoritaria e assoluta dello Stato e del diritto alla cui stregua numquam plura delicta concurrentiam faciunt ut ullius impunitas detur (“mai, in presenza di più delitti concorrenti, per taluno di essi può essere esclusa la pena”) secondo l’efficace espressione di Dig., XLVII, 1, de privatis delittis, 2): per tale motivo i Romani – seppure hanno via via assunto ammissibile il mero “concorso ideale“, ovvero l’assorbimento di un titolo di reato nell’altro – hanno tuttavia limitato tale ammissibilità alla sola ipotesi di più violazioni di legge originate da un unico fatto delittuoso, secondo lo schema oggi ricondotto al c.d. concorso formale, assumendolo piuttosto inammissibile in caso di concorso materiale.
1889
La codificazione liberale Zanardelli non si occupa in via immediata e diretta del concorso apparente di norme: tuttavia in sede di disciplina del concorso di reati e di pene si prevede, all’art.79, che colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizione di legge penale è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave, così implicitamente disciplinando un concorso apparente di tipo “valoriale” assai più che “strutturale”.
1930
Nel codice penale Rocco è l’art.15, ed il principio di specialità in esso iscritto, la norma cardine sul concorso apparente di norme, dovendo assumersi prevalente – al cospetto di una “stessa materia” regolata – la legge o la disposizione di legge speciale su quella generale salvo, peraltro, che sia “diversamente stabilito”: ciò viene riferito in particolare alla ipotesi del c.d. concorso formale apparente, additandosi quale stessa materia un unico fatto storico riconducibile, strutturalmente, a due fattispecie astratte, l’una speciale rispetto all’altra, generale. L’art.1 afferma, per parte sua, che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, consacrando un principio di legalità-tassatività che entra in rotta di collisione con tutto quello che è indeterminatezza disciplinare in ambito penale (secondo taluni, anche laddove pro reo, come appunto nel caso che occupa), con particolare riguardo ad ipotesi di concorso apparente di norme diverse da quella, codificata, di “specialità” ex art.15 c.p. La figura del reato abituale, specie se improprio – tipico il caso dei maltrattamenti in famiglia ex art.572 c.p. in cui ciascuno dei fatti commessi in danno della vittima sarebbe di per sé reato – testimonia tuttavia come sia anche possibile che più fatti storici siano eccezionalmente abbracciati in un unico fatto inadempimento reato.
1948
Viene varata la Costituzione ed in particolare il relativo art.25, secondo il cui comma 2 nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, in ciò consacrandosi il principio di legalità ed i relativi canoni di diretta derivazione, con peculiare riguardo a quello di tassatività, che impone di scegliere tutte le interpretazioni della legge penale capaci di scongiurare incertezze applicative, massime quando si tratti di applicazioni contra reum.
1981
Il 24 novembre viene varata la legge 689 in tema di sanzioni amministrative, alla stregua del cui articolo 9 laddove una norma penale concorra con una di natura amministrativa sanzionatoria, prevale quella tra le due che è speciale rispetto all’altra, da assumersi generale.
1987
Il 3 aprile esce la importante sentenza della Corte costituzionale n. 97 sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazioni di natura amministrativa, che – in tema di furto di selvaggina ad opera di cacciatori – afferma come per risolvere il problema del concorso apparente vadano “… confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso”, schierandosi dunque per una impostazione di tipo astratto e strutturale in ordine alla verifica del rapporto di specialità tra disposizioni che convergono su un medesimo fatto naturalistico.
1993
Il 14 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11395 che conferma come in tema di rapporti tra norma amministrativa sanzionatoria e norma penale, si applica quella delle due che è speciale rispetto all’altra, da intendersi generale.
1999
Viene licenziato il progetto di riforma del codice penale “Grosso”, che propone in tema di concorso apparente di norme un duplice criterio: da una parte il tradizionale principio di specialità fondato sul rapporto astratto-strutturale tra norme; dall’altro un canone maggiormente valoriale orientato ad applicare, al medesimo fatto riconducibile a più disposizioni di legge, solo quella tra esse che “ne esprime per intero il disvalore”.
2005
Il 20 dicembre esce l’importante sentenza delle SSUU n.47164 che – in tema di concorso apparente di norme – assume applicabile (in fattispecie concernente ricettazione e diritto d’autore) il solo principio di specialità, con conseguente ripudio delle teorie c.d. pluralistiche, dovendo assumersi ammissibile la sola alternativa tra le ipotesi in cui l’incompatibilità tra fattispecie è stata direttamente additata dal legislatore attraverso clausole di riserva e quelle in cui essa può essere indagata dal giudice, ma solo sul crinale strutturale del rapporto tra le fattispecie astratte considerate. La Corte, in particolare, si scaglia contro le teorie c.d. dell’assorbimento e della consunzione, giudicandole in frizione con il principio di legalità e in particolare con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale; più in specie, ammettendo l’operatività di tali principi – fondati essenzialmente su giudizi di valore – si aprirebbe la strada alla legittimazione di valutazioni giurisdizionali di tipo intuitivo, incerto ed incontrollabile. Né potrebbe addursi a supporto la parte finale dell’art.15, laddove ammette che “sia altrimenti stabilito” rispetto all’applicazione del principio di specialità: in realtà, a “stablire diversamente” non può che essere la legge stessa (e non il giudice), come accade normalmente attraverso le c.d. clausole di riserva. Dal momento che ci si affida al giudice in modo del tutto disancorato dalla struttura della fattispecie normativa, rischia di prevalere la valutazione intuitiva del giudicante, con tendenziale contrasto rispetto al principio di legalità, tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale. Più in specie, per la Corte – nel vigore della legge n. 248/00, e sino alla entrata in vigore del d.lgs. n. 68/2003 – la condotta di acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, laddove non faccia luogo a concorso ex art. 110 c.p. in uno dei reati previsti dagli artt. 171-171 octies legge n. 633/1941 (legge sul diritto d’autore), deve assumersi integrare solo l’illecito amministrativo di cui all’art. 16 della stessa legge 248.00, anche se l’acquisto sia destinato al commercio, non concorrendo tale disposizione, in virtù del principio di specialità previsto dall’art. 9 legge n. 689/1981, con l’art. 648 c.p. che punisce lo stesso fatto; mentre per i comportamenti posti in essere successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 68/03, che ha abrogato l’art. 16 della legge n. 248/00 e l’ha sostituito con il nuovo testo dell’art. 174 ter legge n. 633/1941, può configurarsi il concorso tra il reato di ricettazione e quello di cui all’art. 171 ter della legge n. 633/1941, quando l’agente, oltre ad acquistare semplicemente supporti audiovisivi fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, li detenga a fine di commercializzazione; e può invece configurarsi il solo illecito meramente amministrativo previsto dall’art. 174 ter legge n. 633/1941 quando l’acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale. La Corte aggiunge che la situazione non è mutata con il decreto legge n. 35/05, così che l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, di cose che, per la relativa qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di proprietà intellettuale, è punito con la sanzione amministrativa fino a 10.000 euro, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del citato decreto legge. In tal caso, l’illecito amministrativo previsto dall’art. 174 ter della legge n. 633/1941 si pone per la Corte in rapporto di specialità anche con la contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p., sempre tuttavia che l’acquisto non sia destinato all’immissione in commercio dei supporti illecitamente prodotti. Interessanti anche le considerazioni della Corte – che ne corroborano le conclusioni nel senso del concorso tra l’art.648 c.p. (ricettazione) e l’art.171.ter della legge 633.41 (immissione in commercio di videocassette abusivamente riprodotte) – in ordine alla propria giurisprudenza sui rapporti tra la ricettazione ed il diverso delitto di cui all’art.474 c.p., che punisce l’introduzione nel territorio dello Stato ed il commercio di prodotti con segni falsi: anche chi non ha contraffatto né ha ricettato (perché era in buona fede quando ricevette il prodotto da altri contraffatto), qualora consegua ex post la consapevolezza che i prodotti ricevuti recano segni falsi, ed in ogni caso li mette in commercio, va punito ex art.474 c.p., onde – non essendo necessario aver preventivamente consumato quei due reati, tra i quali è compresa la ricettazione, per essere punito a detto titolo – questo significa che non vi è neppure parziale coincidenza strutturale tra le due fattispecie astratte (altrimenti si dovrebbe “passare per la ricettazione” onde commettere il fatto di cui all’art.474 c.p.) , con l’ovvia conclusione del concorso di reati (e non già del concorso apparente di norme, non ravvisandosi la specialità tra le disposizioni).
2006
Il 2 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7629 che – nell’occuparsi dei rapporti tra l’art.423 c.p. (incendio) e l’art.434, comma 2, c.p. (crollo di costruzione e altri disastri dolosi) – sembra sconfessare le SSUU di fine 2005. Queste ultime si sono orientate nel senso di ammettere il solo criterio di specialità di cui all’art.15 c.p. (teoria monistica) al fine di verificare se, in luogo del concorso di reati, si sia in presenza di un concorso apparente di norme, mentre la I sezione aderisce con consistente grado di consapevolezza alla teoria dell’assorbimento (o consunzione), e dunque alle teorie c.d. pluralistiche. Il problema è quello di capire se chi appicca il fuoco ad un edificio provocandone il crollo debba rispondere di entrambe le fattispecie, ovvero di una sola. Qui la Corte – muovendo dal principio del c.d. bis in idem sostanziale, del connesso divieto e del principio di assorbimento che meglio lo compendia – assume che la doppia punizione vada esclusa non già solo in forza del principio di specialità, ma anche quando, nella sostanza, si finisca per punire due volte per uno stesso fatto. Anche se non strutturale, un rapporto tra le due norme incriminatrici coinvolte dalla fattispecie sussiste, ed è un rapporto di valore: un’unica condotta implica un apprezzamento negativo del relativo, concreto accadere che si palesa tutto compreso nella norma che prevede la fattispecie più grave, con conseguente ingiusto moltiplicarsi della sanzione laddove si faccia applicazione di entrambe le fattispecie. Non resta dunque che fare applicazione, in queste ipotesi, del principio dell’assorbimento, con prevalenza della norma che prevede in concreto la pena più severa: in concreto appunto, e non in astratto, onde nel caso di specie va applicata la fattispecie corredata da circostanza aggravante specifica, concretamente più grave dell’altra. La Corte in conclusione fa applicazione alla fattispecie del solo crollo doloso di costruzione (art.434, comma 2, c.p.), che assorbe l’incendio quale offesa di carattere maggiore che assorbe l’offesa di carattere minore, in un’ottica tutta incentrata non già sui rapporti strutturali tra fattispecie astratte, ma sui diversi e concreti gradi dell’offesa ad un medesimo bene protetto da entrambe le norme penali, nel caso di specie identificato nella pubblica incolumità.
2007
Il 27 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16568 che si occupa dei rapporti tra l’art.640.bis c.p. e l’art.316.ter c.p., ritenendo che il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato è in rapporto di sussidiarietà, e non di specialità, con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, con la conseguenza che il primo (art.316.ter c.p.) è configurabile soltanto laddove difettino nella condotta gli estremi del secondo (art.640.bis c.p.), come del resto dimostra l’incipit della norma alla cui stregua “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640bis…”. La sentenza è importante perché si occupa anche dei rapporti tra i delitti di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art.316.ter c.p. e falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art.483 c.p., assumendo come il primo sia assorbente rispetto al secondo, dal momento che la presentazione da parte del privato di dichiarazioni o documenti falsi è elemento essenziale per la configurazione del delitto di indebita percezione a danno dello Stato: si tratta di due fattispecie parzialmente identiche con riguardo alle quali una risulta speciale rispetto all’altra, e dunque da essa assorbita, a nulla rilevando il fatto che le due disposizioni abbiano “oggetti materiali” (bene-interesse penalmente tutelato) diversi, in quanto – contrariamente a quanto asserito da più risalente dottrina – ai fini della specialità ex art.15 c.p. (c.d. “stessa materia”) il bene tutelato dalle due norme in concorso apparente non rileva, rilevando soltanto la strutturale specialità di una norma rispetto all’altra.
2011
Il 19 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.1235, che mostra di fare propria la teoria monistica in tema di applicazione del solo principio di specialità ex art.15 c.p. al fine di assumere presente un concorso apparente di norme. Nella fattispecie si tratta di verificare i rapporti tra truffa aggravata ai danni dello Stato ex art.640.bis c.p., da un lato, ed i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazione inesistenti (art.2 del decreto legislativo n.74.00) e di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art.8 del decreto legislativo n.74.00), dall’altro. Il problema della frizione con il principio di legalità – sul crinale della sufficiente determinatezza e tassatività della fattispecie penale – dei principi (in specie) della consunzione e dell’assorbimento, propugnato dalle teorie monistiche, appare vieppiù grave in ottica di diritto internazionale europeo, ed in particolare di CEDU, il cui articolo 7 fonda per l’appunto il principio di legalità qui rilevante ratione materiae: laddove, al fine di verificare se si sia al cospetto di un concorso di reati ovvero di un concorso apparente di norme, ci si dovesse affidare ai giudizi di valore (intuitivi) del singolo giudicante, ne discenderebbe una vulnerazione dei due principi fondamentali di carattere convenzionale nei quali si declina il canone della legalità, vale a dire la accessibilità della norma dalla cui violazione discende la sanzione penale (c.d. accessibility) e la connessa prevedibilità della sanzione che si rischia nel violare tale norma (foreseeability); poiché tanto l’accessibilità della norma che la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie sono collegati non già solo al diritto positivo, ma anche alla interpretazione applicativa che ne danno i giudici, per la Corte qualora si lasciasse al singolo giudice la verifica in ordine alla sussistenza di un concorso apparente di norme piuttosto che di un concorso di reati si assisterebbe ad una sostanziale incertezza e dunque ad una compromissione di quei principi. Venendo al caso di specie, per la Corte proprio l’applicazione del principio di specialità scolpito all’art. 15 c.p. preclude il configurarsi del concorso di reati, facendo optare per il concorso apparente di norme. Per la Corte il legislatore – nel forgiare le fattispecie penali tributarie – ha inteso anticipare la tutela penale a quei contegni che facciano luogo a dichiarazioni fiscali non rispondenti al vero, onde i delitti contemplati dal d.lgs. 74/2000 sono costruiti quali reati di mera condotta, ed in rapporto di specialità rispetto alla truffa ai danni dello Stato per essere essi caratterizzati da una particolare modalità di artificio compendiantesi nell’annotazione o emissione di fatture false, ovvero nella predisposizione di dette fatture false. Sul crinale del rapporto tra fattispecie astratte, per la Corte non solo la condotta del soggetto agente, ma anche tutti gli ulteriori elementi costitutivi del delitto di truffa trovano precisa corrispondenza nello schema normativo previsto per i delitti tributari, l’evento di danno patrimoniale ai danni dello Stato di cui all’art. 640 comma 2, n. 1 c.p., palesandosi non escluso dalla fattispecie tributaria, ma divenendo l’oggetto del dolo specifico, consistente nel “fine di evadere le imposte”; onde, se il reato tributario si consuma a prescindere dall’effettiva verificazione del danno nei confronti dello Stato, per la Corte dovrà comunque essere presente nel soggetto agente la finalità di cagionare un tale danno giusta predisposizione, nella relativa veste di contribuente, di un peculiare sistema fraudolento atto ad ingannare l’Erario, sicché il principio di specialità impone l’applicazione della sola fattispecie tributaria, peraltro assistita da una cornice sanzionatoria più elevata.
Il 21 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.1963 che si occupa del custode del veicolo soggetto a sequestro amministrativo ex art.213 del Codice della Strata, allorché circoli abusivamente con lo stesso. Si profilano da un lato la mera sanzione amministrativa prevista dall’art.213, comma 4, del codice della strada, e dall’altro il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro ex art.334 c.p. Si tratta di una sentenza importante nel cui contesto letterale la Corte ribadisce il proprio orientamento inteso ad abbracciare la teoria monistica sul c.d. principio di specialità e a ripudiare le teorie pluralistiche (imperniantesi sui canoni della consuzione e dell’assorbimento). La Corte osserva che l’art. 15 c.p. si riferisce alla “stessa materia” senza specificare cosa si intenda con tale locuzione, potendosene dedurre che per “stessa materia” debba intendersi la stessa fattispecie astratta, il fatto tipico di reato nel quale si realizza l’ipotesi di reato, secondo una opzione ermeneutica confermata dalle Sezioni Unite della medesima Corte con la sentenza 16568.07, riferita ad un caso di specialità unilaterale, caratterizzato dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie generale erano ricompresi in quella c.d. speciale. Per la Corte, perché possa assumersi applicabile l’art. 15 all’ipotesi esaminata in concreto, è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica ovvero deve trattarsi di reati che devono riguardare tutti la medesima materia, oltre a possedere identità di struttura, richiamando anche la pronuncia della Corte costituzionale che, nella sentenza 3 aprile 1987, n. 97 sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazione di natura amministrativa, ebbe ad osservare come per risolvere il problema del concorso apparente vadano “… confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso”. Secondo la Corte, con riguardo al caso di specie, gli elementi specializzanti sono tutti contenuti nell’art. 213, comma 4, del codice della strada e dunque questa norma deve essere ritenuta speciale ai sensi dell’art. 9, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (ma lo sarebbe anche con l’applicazione dell’art. 15 cod. pen.) con la conseguenza onde il concorso con l’art. 334 cod. pen. – limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in base alla medesima norma – deve essere ritenuto apparente. La Corte conclude dunque nel senso onde, nel caso esaminato, il concorso tra le norme ricordate è solo apparente ed è applicabile all’ipotesi in esame soltanto la violazione amministrativa prevista dall’art. 213 C.d.S., comma 4 .
2012
L’8 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22225 che si occupa dei rapporti tra la ricettazione ex art.648 c.p. e l’art.1, comma 7, del decreto legge 35.05 (come risultante dalle successive modificazioni introdotte dal legislatore nel 2005 e nel 2009), che prefigura un illecito amministrativo per l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la qualità o per la condizione di chi le offre o per il prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, con sanzione particolarmente grave laddove il fatto abbia come soggetto agente un operatore commerciale, un importatore o qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale. La Corte chiarisce in primo luogo che ai sensi dell’art.9 della legge 689.81 va privilegiata la specialità laddove, specie se cronologicamente in tempi successivi, si aggiunga alla fattispecie penale una fattispecie di sanzione amministrativa. Passa poi – fedele come è alla teoria monistica ed al principio di specialità cui essa in via esclusiva si affida – a scandagliare i rapporti strutturali tra le fattispecie astratte considerate, onde sul crinale del soggetto attivo, mentre tanto la ricettazione che l’incauto acquisto possono essere commessi da chiunque, la fattispecie amministrativa divisata può essere posta in essere dalla figura specifica dell’acquirente finale (o da altre figure specifiche più professionali); sul crinale dell’oggetto del reato, mentre l’art.648 c.p. parla genericamente di cose provenienti da un qualsiasi delitto, l’art.1, comma 7 del decreto legge 35.05 si esprime in termini di cose che, per la qualità o per la condizione di chi le offre o per il prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale; sul crinale dell’elemento psicologico, mentre prima l’art.1, comma 7, del decreto legge 35.05 parlava di acquisto da parte dell’acquirente finale “senza averne prima accertata la legittima provenienza”, tale dicitura è stata eliminata, onde rileva l’acquisto soltanto, qualunque sia l’atteggiamento psicologico dell’acquirente finale, volendo la disposizione novellata – laddove dice “inducano a ritenere” – ricomprendere sia il mero e colposo sospetto, sia la più dolosa piena consapevolezza della provenienza illecita del bene acquistato. Né per la Corte potrebbe – nel percorso logico che la conduce ad assumere speciale la fattispecie sanzionatoria amministrativa rispetto a quella penale di ricettazione – essere di ostacolo il fatto che la ricettazione è a dolo specifico, così configurandosi – a propria volta – speciale “per aggiunta”, da questo punto di vista, rispetto alla fattispecie amministrativa (una sorta di specialità reciproca); ciò perché l’acquirente finale di un bene sospettato di contraffazione o certamente contraffatto si propone certamente un fine di vantaggio sotto un qualche profilo, onde il dolo specifico è nella sostanza presente anche nella fattispecie sanzionatoria amministrativa. Né per la Corte osta alla ricavata specialità della fattispecie sanzionatoria amministrativa (assunta come tale la sola applicabile) la corretta interpretazione della Direttiva 2004/48/CE – invocata dalla parte civile – sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in tema di rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, non implicando l’adeguamento a tale Direttiva la necessaria punizione penale (in luogo di quella amministrativa), né potendo la Direttiva stessa (in malam partem) determinare la responsabilità penale dei soggetti agenti (od aggravarla) in assenza di una legge dello Stato italiano in tal senso, e sempre che quest’ultimo predisponga – a tutela della proprietà intellettuale – misure, procedure e mezzi di ricorso che siano effettivi, proporzionati e dissuasivi. Parimenti, l’assenza di una legge che l’autorizzi preclude al giudice – sul versante interno e conformemente agli insegnamenti della Corte costituzionale – interpretazioni delle norme in malam partem.
2013
Il 27 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione onde il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere tra loro, atteso che le rispettive fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, non potendosi invocare la diversa interpretazione valevole con riguardo ai rapporti tra il reato di cui all’art. 453 cod. pen. (falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate) e la ricettazione, laddove è invece sostenibile, per il principio di specialità, l’assorbimento della ricettazione. In sostanza la disposizione dell’art.453 è in concorso apparente (per specialità) con la ricettazione perché essa (come anche l’art.455, spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate), prevede tra le condotte alternative o cumulative costituenti reato anche quella dell’apprensione, vale a dire dell’acquisto; tale condotta non è prevista invece dall’art.474 c.p., che – al cospetto di una precisa scelta in tal senso del legislatore – incrimina solo ed esclusivamente le condotte successive – tra cui la detenzione finalizzata alla vendita di prodotto contraffatto, con conseguente potenziale concorso con la ricettazione.
2014
Il 13 giugno esce la sentenza delle SSUU n.25191, che si occupa dei rapporti tra riciclaggio e associazione mafiosa. Muovendo dalla constatazione onde l’associazione mafiosa ex art.416.bis c.p. è reato che può produrre proventi illeciti, l’associazione mafiosa può essere reato presupposto sia rispetto al reato di riciclaggio (art.648.bis), sia rispetto al reato di reimpiego di capitali (art.648.ter c.p.): secondo la Corte, quando il riciclaggio o il reimpiego riguardi beni o utilità provenienti dal delitto di associazione mafiosa, non è configurabile un concorso tra l’art.416.bis e gli articoli 648.bis e 648.ter, ma un mero concorso apparente di norme e ciò sulla base non di una valutazione di tipo strutturale tra fattispecie, ma sulla base di un giudizio di valore collegato alla clausola di riserva che impedisce (ancora) di punire il c.d. autoriciclaggio. Più in particolare, secondo il comma 6 dell’art.416.bis c.p. se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà, configurandosi una aggravante per i partecipi ad un’associazione mafiosa che ricicla o reimpiega capitali: da questa disposizione nasce il problema di stabilire se i partecipi all’associazione mafiosa possano rispondere anche ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter, tenendo conto che normalmente la giurisprudenza esclude l’automatica punizione dei partecipi all’associazione per i reati fine che essa realizza. Inoltre, la punizione del riciclaggio viene esclusa laddove si concorra nel reato presupposto (c.d. autoriclaggio), ponendosi il problema di capire se l’associazione mafiosa sia o meno reato presupposto rispetto al riciclaggio, in quanto talvolta non è l’associazione (e la partecipazione alla stessa) a produrre direttamente il denaro, i beni o le altre utilità poi riciclate, ma i relativi reati fine, onde da questo punto di vista – escludendosi il concorso nel reato presupposto – sarebbe potenzialmente applicabile il concorso di reati. Le SSUU in primo luogo affermano che l’associazione mafiosa ex art.416.bis c.p. può essere già autonomamente reato presupposto (indipendentemente dai reati fine) rispetto ai reati di cui agli articoli 648.bis e 648.ter c.p., con la conseguenza – essendo allora (ancora) non punito l’autoriciclaggio – della potenziale esclusione della punibilità per chi partecipi (o promuova o organizzi) una associazione mafiosa. La Corte distingue allora, con sforzo di chiarezza, le varie fattispecie che possono presentarsi: a) chi agisce è fuori sia dall’associazione mafiosa sia dalla commissione dei relativi reati fine: risponde ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter; b) chi agisce è fuori dall’associazione mafiosa, ma concorre nei reati fine: in questo caso risponde dei reati fine, con l’aggravante del riciclaggio o del reimpiego se esso riguarda beni conseguiti attraverso tali reati fine; c) chi agisce è parte dell’associazione mafiosa, e non partecipa ai reati fine, ma ripulisce o reimpiega beni provenienti da quei reati fine (cui non ha partecipato): in questi casi risponde anche ai sensi degli articoli 648.bis e 648.ter, il cui reato presupposto è un reato fine cui non ha partecipato; d) chi agisce è parte dell’associazione mafiosa e, per il ruolo che gli viene assegnato, ricicla o reimpiega beni provenienti dall’associazione mafiosa cui partecipa (e non dai relativi reati fine): in questi casi non risponde per riciclaggio o reimpiego perché partecipa al reato presupposto (stante la non punibilità dell’autoriciclaggio); e) chi agisce non è parte dell’associazione mafiosa, ed è privo dell’affectio societatis, e tuttavia ricicla o reimpiega beni associativi, con ciò fornendo – sulla base di una valutazione ex post – un consapevole e volontario contributo causale alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione: in questi casi, viene punito a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa (articoli 110 e 416.bis c.p.), e dunque non viene punito né ai sensi dell’art.648.bis né ai sensi dell’art.648.ter.
Il 15 dicembre viene varata la legge n.186, il cui articolo 3 introduce nel codice penale il nuovo articolo 648.ter.1 c.p., che punisce il c.d. autoriciclaggio onde, a determinate condizioni, si risponde di riciclaggio anche quando si è concorso nel reato presupposto.
2017
Il 21 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.13849, che riferisce del problema nato – in tema di abuso d’ufficio – dalle divergenze in ordine alla portata applicativa della clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca più grave reato», introdotta per la prima volta nel 1990 nella disposizione incriminatrice pertinente, e poi riprodotta con la legge 16 luglio 1997, n. 234, in occasione della formulazione del testo attualmente vigente dell’art. 323 cod. pen. Numerose decisioni – chiosa la Corte – hanno affermato che tra il reato di falso ed il reato di abuso di ufficio sussiste un rapporto di assorbimento, quando la condotta del pubblico ufficiale si esaurisce in un fatto qualificabile come falso in atto pubblico (vengono richiamate, tra le tante: Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Platamone; Sez. 6 n. 42577 del 22/09/2009, Fanuli; Sez. 5, n. 45225 del 09/11/2005, Bernardi; Sez. 6, n. 27778 del 19/05/2004, Piccirillo; Sez. 5, n. 12226 del 21/10/1998, D’Asta). Molteplici sono – rammenta la Corte – le ragioni evidenziate a sostegno di questa soluzione. Si è rilevato, innanzitutto, che la previsione incriminatrice di cui all’art. 323 cod. pen. «prevede il reato di abuso di ufficio come ipotesi residuale, ed indica quale criterio per l’assorbimento che altra norma punisca più gravemente lo stesso fatto costitutivo di reato, cioè proprio il fatto storico». Si è inoltre osservato che la diversità di bene giuridico può assumere rilievo esclusivamente al fine di ritenere o escludere la «stessa materia» e, quindi, di applicare, o meno il principio di specialità tra norme, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., e che porre a presupposto dell’operatività della clausola di riserva l’identità di bene giuridico tutelato dalla diverse fattispecie significherebbe svuotare il principio di sussidiarietà, riducendolo a quello di specialità. Si è pure rappresentato in linea generale, prosegue la Corte, che le progressive modifiche della disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la PA hanno avuto lo scopo «di contenere la proliferazione delle incriminazioni non basate su un consistente tasso di tipicità del fatto». Altre decisioni, invece, hanno escluso la sussistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure di reato, affermando il concorso tra le stesse (vengono richiamate: Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 2014, Cuppari; Sez. 5, n. 3349 del 01/02/2000, Palmegiani; Sez. 5, n. 7581 del 05/05/1999, Graci): a fondamento di questa soluzione si è osservato che le due fattispecie offendono beni giuridici distinti tutelando, precisamente, i delitti di falso la genuinità degli atti pubblici, e i delitti di abuso l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione. Una diversa soluzione, spesso indicata come intermedia ma in realtà – precisa la Corte – molto prossima a quella sostenuta dal primo dei due orientamenti richiamati, è espressa da Sez. 5, n. 1491, del 15/11/2005, dep. 2006, Cavallari, secondo la quale «il concorso tra i delitti di abuso d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico deve escludersi solo quando “la condotta addebitata si esaurisca nella commissione di un fatto qualificabile come falso ideologico in atto pubblico” […]; mentre deve riconoscersi il concorso materiale dei due delitti quando ne sono distinte le condotte […], come certamente accade, ad esempio, nel caso in cui il falso sia destinato ad occultare l’abuso». La dottrina poi, rammenta ancora la Corte, tende generalmente ad escludere il concorso tra il reato di falso e quello di abuso, e ad affermare l’esistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure, quando l’abuso è commesso mediante la stessa condotta integrante gli estremi del delitto di falso, sottolineando, in particolare, che la funzione delle clausole di riserva è quella di delimitare l’ambito di operatività delle norme che le contengono, anche nelle ipotesi in cui la fattispecie che trova applicazione non si ponga, rispetto ad esse, in rapporto di specialità. Operata tutta la rassegna della giurisprudenza pertinente, la Corte dichiara alfine di aderire alla soluzione che appare ampiamente maggioritaria in giurisprudenza ed in dottrina, secondo cui deve escludersi il concorso formale tra i delitti di abuso di ufficio e falso ideologico o materiale quando la condotta addebitata si esaurisce nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico, in ragione della clausola di riserva prevista nell’art. 323 cod. pen. In effetti, chiosa la Corte, risponde ad un consolidato principio di interpretazione della legge in generale l’attribuzione agli enunciati linguistici contenuti nelle disposizioni normative, ove possibile, di un significato utile invece che di un significato inutile. Muovendo da questa premessa, la clausola di riserva non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi ad oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, poiché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità. Di conseguenza, a fronte di un fatto unico, detta clausola consente, anzi impone, di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha ad oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa. Né tale conclusione sembra per la Corte ostacolata dai rilievi concernenti la diversità di struttura dei due reati, per essere il delitto di cui all’art. 323 cod. pen. un reato di evento integrato dal dolo intenzionale, ed invece il delitto di cui all’art. 476 cod. pen. un reato di mera condotta integrato dal dolo generico. In effetti, quando l’evento ulteriore preso in considerazione da una sola delle due fattispecie venute in rilievo è un evento giuridico, ma non materiale, ovvero quando muta il solo contenuto del dolo, può comunque continuare a parlarsi di identità del fatto. Tale conclusione sembra raggiungibile alla luce della complessiva, e convergente, elaborazione della giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale che, con specifico riferimento alla materia del divieto di bis in idem, si è particolarmente impegnata ai fini della individuazione della nozione di identità del fatto (vengono richiamate per tutte, rispettivamente: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, nonché Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti; Corte cost., sent. n. 200 del 2016; Corte E.D.U., Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia). In particolare, precisa ancora la Corte, secondo la richiamata giurisprudenza sussiste identità del fatto «quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona», e l’evento può assumere rilevanza «soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente», secondo «una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla C.E.D.U.» (le espressioni riportate sono tratte da Corte cost., sent. n. 200 del 2016). E’ bene precisare – conclude la Corte – che il richiamato orientamento si è formato con espresso riferimento al problema dell’operatività del divieto di bis in idem processuale, e, quindi, non fissa una nozione di identità del fatto che deve necessariamente ritenersi valida sempre ed in ogni caso. Tuttavia, la nozione di identità del fatto elaborata in tema di applicazione del divieto di bis in idem processuale sembra esportabile ai fini della individuazione dell’area di operatività delle clausole di riserva, per affinità di funzione: la finalità delle clausole di riserva, infatti, è quella di evitare comunque una doppia incriminazione, sia pure per esigenze di tipo sostanziale, ma comunque in una prospettiva di contenimento dell’ordinamento penalistico, tanto da porsi oltre i limiti connaturati al principio di specialità.
Il 10 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18116, che si occupa – in una fattispecie di rapina impropria – della questione, relativa al trattamento sanzionatorio irrogato nel caso di specie all’imputato e conseguente al riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n.2 cod. pen. (c.d. nesso telelogico) quando la violenza ex post sia trasmodata fino a cagionare un omicidio; sul punto, per la Corte il percorso argomentativo seguito dalla Corte di assise di appello di Genova appare ineccepibile, essendosi affermato che l’aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., contestata in relazione all’omicidio, al contrario di quanto affermato dalla difesa, non può assumersi assorbita. Non sussiste infatti per la Corte incompatibilità logico-giuridica tra il reato di rapina impropria e l’aggravante del nesso teleologico prefigurata dall’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., laddove la violenza posta in essere abbia ecceduto, come appunto nel caso in esame, quella indispensabile a integrare la fattispecie di cui all’art. 628, comma secondo, cod. pen. La Corte assume indispensabile richiamare in proposito la propria giurisprudenza onde non sussiste alcuna inconciliabilità strutturale tra il reato di rapina impropria e l’aggravante del nesso teleologico, ai sensi dell’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen. (tra omicidio e rapina impropria), quando la violenza esercitata dall’agente risulti esorbitante rispetto a quella idonea a configurare la rapina (vengono richiamate Sez. 2, n. 36901 del 22/09/2011, Kennedy; Sez. 2, n. 26435 del 31/05/2005, Infurna). La Corte si mostra per vero consapevole dell’esistenza di un pregresso contrasto interpretativo in ordine al problema della compatibilità tra il concorso formale di reati comprensivi di un elemento costitutivo comune e il concorso materiale di reati, da un lato, e l’aggravante del nesso teleologico, dall’altro; contrasto rispetto al quale si contrappongono una tesi affermativa (Sez. 6, n. 32703 del 17/04/2014, Bontempo; Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008, Dallara) e una tesi negativa (cfr. Sez. 1, n. 42371 del 16/11/2006, Timis; Sez. 1, n. 5189 del 18/03/1996, Semeraro). Il Collegio ritiene tuttavia di abbracciare la tesi affermativa, da tempo impostasi, muovendo dalla considerazione onde nel delitto di rapina impropria la violenza e la minaccia integrano elementi costitutivi della fattispecie insieme all’elemento oggettivo dell’impossessamento del bene e all’elemento soggettivo del dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. In particolare, prosegue la Corte, nel delitto di rapina, la violenza e la minaccia costituiscono modalità dell’impossessamento dei beni ovvero mezzi per consolidare la sottrazione già realizzata o assicurarsi l’impunità (Sez. 2, n. 36901 del 22/09/2011, Kennedy.; Sez. 2, n. 26435 del 31/05/2005, Infurna). La compresenza delle due fattispecie determina l’interrogativo sul rapporto esistente tra esse, la cui risoluzione è indispensabile per comprendere se il delitto di omicidio possa ritenersi strumentale al delitto di rapina impropria. Questo rapporto teleologico è per la Corte codificato in termini circostanziali dall’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., secondo cui costituisce circostanza aggravante l’avere commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il risultato del reato ovvero la impunità. Ricostruito in questi termini il rapporto esistente tra il reato di rapina impropria e quello di omicidio, deve osservarsi che, in ipotesi di questo genere, l’evidenza del nesso teleologico tra reato-fine (rapina) e reato-mezzo (omicidio) impone di assumere rilevante l’aggravante dell’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., correttamente contestata al all’imputato nel caso di specie. Né sussistono per la Corte, al contrario di quanto sostenuto dalla difesa nel caso di specie, i rischi una possibile duplicazione della valutazione del fatto costituito – sul crinale soggettivo – dalla finalità di conseguire il profitto del reato o la relativa impunità attraverso la violenza, trasmodata nell’omicidio, integrante sia l’elemento psicologico del delitto di rapina impropria sia il contenuto dell’aggravante teleologica. A ben vedere nel caso di specie, per la Corte, non sussiste alcuna duplicazione processuale nel senso prospettato dalla difesa, in quanto il dolo specifico del delitto di rapina impropria esaurisce la sua funzione nell’ambito di tale fattispecie, contenendo l’estensione della rilevanza penale dell’esercizio della minaccia o della violenza; viceversa, l’aggravante teleologica di cui all’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen., lega due autonome fattispecie di reato, tra di loro non sovrapponibili, in questo caso rappresentate dalla rapina impropria e dall’omicidio. Ne discende che, commesso il delitto di rapina impropria, trasmodando l’azione violenta del soggetto attivo del reato nell’omicidio, si rende autonomamente rilevante accanto alla fattispecie di rapina quella dell’omicidio, con la conseguenza che l’aggravante teleologica di cui all’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen. collega queste due figure di reato secondo il rapporto strumentale esistente tra mezzo e fine. Né – chiosa ancora la Corte – potrebbe essere diversamente, atteso che oggetto del dolo specifico della rapina impropria non è la violenza in quanto tale, ma nei soli limiti di strumentalità di tale attività rispetto alla commissione del reato considerato; qualora, invece, l’azione violenta trasmodi quel livello massimo di intensità – connotazione, questa, pacificamente riscontrabile nel caso in esame – l’azione criminosa genera conseguenze ulteriori, non contenibili nella fattispecie della rapina impropria, autonomamente rilevanti per la legge penale. In altri termini, precisa la Corte, mentre la modalità violenta della condotta rapinosa non spiega autonoma rilevanza processuale quando non supera la soglia di intensità indispensabile a concretizzare tale azione criminosa, laddove trasmoda nell’omicidio e concretizza una figura di reato coesistente con quella della rapina impropria – come nel caso dell’omicidio contestato all’imputato nel caso di specie – essa determina un’autonoma rilevanza del nesso di collegamento teleologico tra i due delitti, in alcun modo assimilabile al rapporto esistente tra gli elementi costitutivi della fattispecie della rapina. Occorre pertanto ribadire – per la Corte – che, in tema di rapina impropria, qualora la violenza, esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni oggetto dell’impossessamento abbia cagionato la morte della persona offesa, tale autonomo reato concorre con quello di rapina e impone la configurazione della circostanza aggravante del nesso teleologico tra i due reati, così come contestata all’imputato ai sensi dell’art. 61, comma primo, n. 2, cod. pen.
Il 28 aprile esce la sentenza delle SSUU n.20644, che si occupa dei rapporti tra la truffa aggravata ai danni dello Stato ex art.640.bis c.p. e la malversazione a danno dello Stato ex art.316.bis c.p. La Corte rileva come entrambi gli orientamenti interpretativi che si contendono il campo sul tema escludano il rapporto di specialità tra le due fattispecie, il primo assumendo il concorso di reati in virtù della diversa materia disciplinata dalle due disposizioni; il secondo optando per il concorso apparente di norme, e tuttavia invocando a sostegno della propria opzione ermeneutica il principio di sussidiarietà. Per la Corte tuttavia è il criterio di specialità l’unico criterio valutativo nell’ambito dell’istituto del concorso apparente di norme, essendo l’unico previsto dalla legge; un canone che, nondimeno, non si attaglia alle fattispecie in esame, potendo ravvisarsi solo in presenza di un identico contesto di fatto, laddove una norma contenga necessariamente tutti gli elementi dell’altra. Le fattispecie all’esame della Corte presentano tuttavia una genesi e uno sviluppo autonomo, dal momento che gli artifici e raggiri di cui all’art.640.bis c.p. non costituiscono l’unica modalità attraverso la quale possa ottenersi la percezione dei finanziamenti e delle altre forme di provvidenze previste dall’art. 316-bis cod. pen.; d’altra partre, la percezione illegittima di tali finanziamenti e provvidenze non necessariamente esita nello sviamento delle somme erogate dalla relativa finalità, circostanza questa che costituisce l’elemento caratterizzante della disposizione di cui all’art. 640-bis cod. pen. Nel senso indicato, depongono per la Corta tanto la lettera quanto lo sviluppo storico e sistematico delle due norme incriminatrici, rispetto alle quali la mancata previsione da parte del legislatore di clausole di riserva (come invece accade in seno all’art.316.ter) è da assumersi indiziante di una meditata (e voluta) autonomia delle fattispecie. Sotto altro profilo, anche la consumazione in tempi diversi dei due reati presuppone, per la Corte, una pianificazione autonoma da parte del soggetto attivo di entrambi i reati. Si configurano peraltro astrattamente situazioni diverse, elencate dalla Corte e tali da far concludere non già per un concorso apparente di norme, quanto piuttosto per un concorso materiale tra reati: “… a) il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati (l’ipotesi più frequente); b) il privato ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto (ipotesi più rara ma non certo impossibile); c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato. Nell’ultimo caso (il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato) si verte in ipotesi di malversazione “pura“; nel secondo (il privato ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto) viene in evidenza l’autonomia fra le due fattispecie, in quanto il privato pone in essere una truffa ma poi non compie una malversazione; nel primo caso (il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati), dopo aver compiuto la truffa, con una condotta anche cronologicamente autonoma ed eventuale, il privato pone in essere la malversazione”. Né possono per la Corte assumersi rilevanti ai fini dell’assorbimento della fattispecie minore in quella più grave, i casi in cui nel concreto il reato si atteggi come naturale prosecuzione della condotta truffaldina, poiché una tale chiave interpretativa trascura l’elemento essenziale dell’istituto del concorso di norme, che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie. Dovendo essere esclusa anche la possibilità di un post factum non punibile, la Corte enuncia infine il principio secondo cui, per l’appunto, il reato di malversazione ai danni dello Stato concorre materialmente con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Il 22 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.41588, che esclude la configurabilità di un concorso formale tra i due reati, rispettivamente, di detenzione e porto illegali di arma comune e di detenzione e porto di arma clandestina. Più in specie, la questione di diritto sottoposta alle SSUU è quella se il delitto di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo (artt. 4 e 7 legge n. 895 del 1967) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975) sono tra loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo. La giurisprudenza di legittimità – apre la Corte – risulta consolidata nell’escludere l’assorbimento dei reati di detenzione e di porto illegali di una arma comune da sparo, rispettivamente, in quelli di detenzione e porto di arma clandestina. Invero la Corte, sin dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, ha affermato che gli artt. 10 e 12 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (che hanno sostituito gli artt. 2 e 4 legge n. 895 del 1967), relativi alla detenzione e al porto di armi comuni da sparo, e gli artt. 2 e 23 della legge n. 110 del 1975, relativi al porto in luogo pubblico di armi comuni da sparo considerate clandestine, concorrono, giacché tutelano beni giuridici diversi (Sez. 2, n. 1026 del 16/10/1978, dep. 1979, Bertoli), ovvero sono diversi gli interessi rispettivamente protetti. L’art. 14 della legge n. 497 del 1974 – prosegue la Corte – soddisfa l’esigenza di porre l’autorità in grado di conoscere con tempestività l’esistenza di armi, i luoghi ove esse si trovano e le persone che le posseggono, mentre l’art. 23 della legge n. 110 del 1975 è dettato per escludere, in modo assoluto e senza possibilità di deroghe od autorizzazioni, la presenza nel territorio dello Stato di armi prive di segni o contrassegni di identificazione e tutela quindi l’interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione (Sez. 1, n. 5224 del 21/12/1982, dep. 1983, Delli Calici). Si è precisato – prosegue la Corte – che tra i reati di detenzione e porto di armi comuni da sparo e i reati previsti dall’art. 23 legge n. 110 del 1975, relativi alle armi comuni da sparo considerate clandestine, non si verifica alcun assorbimento, in quanto le norme rispettivamente indicate per i predetti reati tutelano un bene giuridico diverso (Sez. 1, n. 4862 del 16/02/1988, Mecca). Si è pure osservato che l’impossibilità dell’assorbimento discende dalla diversità della condotta posta in essere dall’agente (Sez. 1, n. 1833 del 04/11/1993, Marini). Si tratta, per la Corte, di orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, anche per quanto riguarda le ragioni ritenute ostative all’assorbimento dei reati (Sez. 6, n. 45903 del 16/10/2013, Iengo; Sez. 1, n. 5567 del 28/09/2011, dep. 2012, Deragna; Sez. 3, n. 11251 del 17/01/2008, Lusini; Sez. 1, n. 4436 del 22/06/1999, Lobina; Sez. 1, n. 7442 del 10/05/1995, De Lucia). Il quesito pone allora nuovamente all’esame delle Sezioni Unite il tema relativo al rapporto intercorrente tra fattispecie incriminatrici, il caso in esame involgendo il problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili in regime di concorso formale, a fronte della realizzazione di un’unica condotta materiale. La Corte assume che la sollecitazione della Sezione rimettente le impone di sottoporre a verifica le ragioni in forza delle quali il delitto di porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, di cui agli artt. 4 e 7 legge n. 895 del 1967 e il delitto di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo considerata clandestina, ex art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, realizzano ipotesi di concorso formale di reati. Per coerenza sistemica, l’indagine viene dalla Corte estesa al rapporto intercorrente fra le omologhe fattispecie di detenzione illegale di armi comuni da sparo (artt. 2 e 7 legge n. 895 del 1967) e di detenzione di armi comuni da sparo clandestine (art. 23, primo e terzo comma, legge n. 110 del 1975). Il tema di indagine è tutto interno alla categoria delle armi comuni da sparo. Se pure la nozione di clandestinità sia, per la Corte, in astratto riferibile a qualsiasi tipo di arma, anche da guerra, la categoria di arma clandestina è definita dall’art. 23, primo comma, legge n. 110 del 1975, in riferimento alle armi comuni da sparo non catalogate o sprovviste dei segni identificativi previsti dall’art. 11, della medesima legge n. 110 del 1975. La giurisprudenza delle Sezioni Unite – prosegue la Corte – risulta consolidata nel rilevare che l’unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è da rinvenirsi nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, GiordanoRv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, ove si osserva che i diversi criteri della sussidiarietà e della sussunzione sono da ritenersi tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità). È il principio di specialità, pertanto, che assurge a criterio euristico di riferimento: esso, definito dall’art. 15 cod. pen. consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la “stessa materia“. Sul punto, prosegue la Corte, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano). In tale ambito ricostruttivo, prosegue la Corte, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato. L’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo). In applicazione dei richiamati principi, la Corte rammenta di avere, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen. L’identità di materia è, invece, per la Corte da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo). Sul rapporto tra fattispecie incriminatrici – rammenta ancora la Corte – è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 200 del 2016), la quale si è soffermata sul tema della comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale nei confronti del medesimo soggetto, ai fini delle operatività del divieto di cui all’art. 649 cod. proc. pen. (ne bis in idem). Il ragionamento, non di meno, involge il tema del rapporto strutturale tra fattispecie di reato, secondo il principio di specialità, se pure colto nella dimensione dinamica del fenomeno, derivante dalla instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato. Nella sentenza richiamata si osserva che soltanto qualora il giudice abbia escluso che tra le norme incriminatrici viga un rapporto di specialità (ex artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, è dato attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, se pure il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico. Il Giudice delle leggi – rammenta ancora la Corte – si è in primo luogo soffermato sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, ove è stabilito: «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato». La Corte Costituzionale, richiamando la sentenza della Grande Camera del 10/02/2009 Zolotukhin c. Russia, ha considerato che la CEDU individua la portata dell’effetto preclusivo, rispetto alla celebrazione di un secondo giudizio, sulla base del più favorevole criterio dell’idem factum. Ciò posto, la Corte Costituzionale ha rilevato che la CEDU impone certamente agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, senza peraltro collocare quest’ultimo nella sfera della sola azione o omissione posta in essere dall’agente e trascurando l’evento naturalistico verificatosi per effetto della condotta ed il relativo nesso di causalità. Delineata, così, la garanzia convenzionale del divieto di bis in idem, la Corte Costituzionale – rammentano le SSUU – ha escluso che una interpretazione dell’art.649 cod. proc. pen., svincolata dalla sola condotta, ed estesa all’oggetto fisico di essa o all’evento in senso naturalistico, realizzi un contrasto con il vincolo derivante dalla CEDU; e ciò richiamando l’insegnamento espresso dalle Sezioni Unite, in base al quale l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati), ribadendone la compatibilità con la richiamata giurisprudenza europea. La Corte Costituzionale – chiosano ancora le SSUU – si è poi soffermata sulla ulteriore questione, riguardante la regola enucleata dal diritto vivente, in base alla quale non trova applicazione il principio del ne bis in idem ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio; ed ha chiarito che, anche il tal caso, il giudice del merito non è esonerato dall’indagine relativa alla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. In conclusione, la Corte Costituzionale ha precisato che le valutazioni ora richiamate non impongono di applicare il divieto del bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione od omissione, l’autorità giudiziaria, nel verificare l’ambito di operatività della preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen., dovendo porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; con la precisazione che, a tale scopo, non esercita alcuna influenza l’esistenza di un concorso formale dei reati. Con la sentenza n. 200 del 2016 è stata quindi dichiarata – conclude la Corte – l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Preme alle SSUU sottolineare avere la Corte Costituzionale chiarito che, anche alla luce dei principi convenzionali che regolano la materia, la nozione di fatto di reato, nella delineata prospettiva, è l’accadimento materiale «affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi». Con la precisazione che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto non possono comportare il riemergere dell’idem legale, giacché esse non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Le argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale, nel delineare la nozione di idem factum, si collocano nell’alveo del richiamato orientamento espresso dalle medesime Sezioni Unite nell’interpretazione dell’art. 15 cod. pen., in base al quale il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici da porre in comparazione non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità; e attualizzano tale insegnamento, in conformità ai limiti imposti dalla cornice convenzionale. Tornando al caso di specie, l’argomento di ordine sistematico, posto alla base della tesi che afferma la sussistenza del concorso, poggia per la Corte sul rilievo che i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo, ex artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, e di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo clandestina di cui all’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, tutelano, rispettivamente, diversi beni giuridici; si tratta tuttavia di un criterio che, sempre per la Corte, non può, ad oggi, ritenersi conducente. La concezione naturalistica del fatto di reato, come da ultimo sviluppata dalla Corte Costituzionale, in riferimento all’ambito di operatività dell’art. 649 cod. proc. pen., ha messo in chiaro principi di garanzia che devono assistere l’interprete, nella valutazione sulla identità del fatto oggetto delle diverse norme incriminatrici poste a raffronto. Il giudizio sulla medesimezza del fatto di reato deve essere affrancato dalle mutevoli implicazioni derivanti dall’inquadramento giuridico delle fattispecie, giacché diversamente riemergerebbe il criterio dell’idem legale, bandito dall’ordinamento nel senso indicato dal Giudice delle leggi. Deve allora ribadirsi, chiosa la Corte, che il fatto penalmente rilevante involge l’accadimento storicamente verificatosi, tenuto anche conto dell’oggetto fisico su cui è caduta l’azione umana. Si introduce così per la Corte l’esame di un secondo argomento in base al quale l’impossibilità dell’assorbimento tra le fattispecie in esame discende dalla diversità della condotta realizzata dal soggetto agente. Come detto, ribadisce la Corte, al fine di verificare l’eventuale operatività del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., occorre porre in comparazione gli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato, siccome astrattamente configurate. Ebbene, non pare revocabile in dubbio che la condotta materiale oggetto delle coppie di reato prese in considerazione – la detenzione di arma comune da sparo rispetto alla detenzione di arma clandestina; il porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo rispetto al porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina – risulta naturalisticamente identica e differisce, unicamente, per il dato relativo alla clandestinità dell’arma oggetto di detenzione ovvero di porto. Rileva, pertanto, il Collegio che anche l’argomento in esame, che è stato opposto alla operatività del principio di specialità, non può essere condiviso. Va peraltro rimarcato – prosegue ancora la Corte – che la valutazione che si viene compiendo involge il tema della operatività del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., tra gli artt. 2, 4 e 7 della legge n. 895 del 1967 e l’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, qualora venga realizzata dal soggetto agente l’unica condotta naturalistica, data dalla detenzione o dal porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma comune da sparo clandestina. Resta, cioè, impregiudicata per la Corte la possibilità di ritenere sussistente, in concreto, il concorso tra i diversi reati citati, qualora l’agente ponga in essere una pluralità di condotte, nell’ambito di una progressione criminosa, nella quale alla detenzione o al porto illegali di un’arma comune da sparo faccia seguito la fisica alterazione della medesima arma, che venga resa clandestina in un secondo momento. Le considerazioni sin qui svolte conducono per la Corte ad escludere il concorso formale, rispettivamente, tra i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967 e quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975. L’identità della condotta materiale, sul piano storico-naturalistico, oggetto delle richiamate norme incriminatrici, induce infatti per la Corte a rilevare che il dato della clandestinità dell’arma integra un elemento specializzante per aggiunta unilaterale. I reati di cui all’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 costituiscono ipotesi criminose speciali, rispetto a quelle di cui agli artt. 2, 4 e 7, legge n. 895 del 1967, giacché contengono tutti gli elementi costitutivi della condotta – detenzione e porto di un’arma comune da sparo – e, in più, quale elemento specializzante, il dato della clandestinità dell’arma comune da sparo, che risulta non catalogata o sprovvista dei segni identificativi previsti dall’art. 11, legge n. 110 del 1975. La Corte osserva che non risulta configurabile un rapporto di specialità reciproca fra le fattispecie in esame, atteso che le disposizioni di cui all’art. 23, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 non ripetono l’avverbio “illegalmente” impiegato dal legislatore per definire le condotte illecite di cui agli artt. 2 e 4 legge n. 895 del 1967, relative alla detenzione ed al porto di armi non clandestine. Ciò in quanto, l’arma clandestina non è mai legalmente detenibile, né può essere legalmente portata in luogo pubblico o aperto al pubblico. Conseguentemente, sfugge la giuridica configurabilità dei reati di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, qualora la condotta abbia ad oggetto un’arma comune da sparo clandestina, posto che l’elemento della clandestinità esclude in termini la configurabilità stessa dell’uso legale dell’arma. Per la Corte, proprio la possibilità di detenere o di portare in luogo pubblico o aperto al pubblico armi comuni da sparo, nel rispetto delle norme di pubblica sicurezza, di converso, costituisce il presupposto logico delle condotte incriminate dalle citate norme della legge n. 895 del 1967, qualificate dall’illegalità della detenzione o del porto. Pertanto, in base al principio di specialità, nei casi di detenzione e di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma comune da sparo clandestina devono trovare applicazione le specifiche fattispecie di cui all’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, dedicate rispettivamente alla detenzione (terzo comma) ed al porto (quarto comma) delle armi clandestine, e non le generali previsioni sulla detenzione ed il porto illegali delle armi comuni da sparo, di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967. Si tratta per le SSUU di un approdo interpretativo risulta coerente con l’impianto della legge n. 895 del 1967, il cui art. 4, secondo comma, nel prevedere specifiche circostanze aggravanti, derivanti dal concorso di più persone o dai luoghi nei quali la condotta viene realizzata, inserisce la clausola di sussidiarietà «salvo che il porto d’arma costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica per il reato commesso». Detta clausola di riserva, funzionale a scongiurare la superfetazione delle contestazioni e delle sanzioni, impone l’applicazione della sola norma incriminatrice di cui il porto dell’arma costituisce elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica, pure a fronte della ricorrenza degli elementi costitutivi delle richiamate aggravanti, di cui all’art. 4, comma 2, legge n. 895 del 1967. Nel caso di specie, già il primo giudice ha escluso la circostanza aggravante originariamente contestata del fatto commesso nelle immediate vicinanze dei luoghi destinati al pubblico trasporto – ex art. 4, comma 2, lett. c), legge n. 895 del 1967 – sul presupposto che il porto dell’arma clandestina integra il reato di cui all’art. 23, primo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 (l’imputato era stato sorpreso mentre stava per accedere con l’arma clandestina ad un’area aeroportuale). Oltre a verificare la configurabilità delle aggravanti di cui all’art. 4, comma 2, legge n. 895 del 1967, in applicazione della clausola di riserva espressa ora richiamata, l’interprete deve non di meno verificare se le stesse fattispecie di detenzione e porto di armi comuni da sparo, di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967, risultino recessive rispetto ad altre ipotesi di reato, secondo la regola generale posta dall’art. 15 cod. pen. Deve, quindi, procedersi al confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurabili, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le diverse fattispecie di reato regolanti la stessa materia. E la razionalità complessiva del sistema sanzionatorio è per la Corte garantita dalla valorizzazione degli elementi integranti le fattispecie, anche circostanziali, pur non autonomamente applicabili, posto che nel momento della quantificazione della pena il giudice è chiamato a considerare la gravità del reato, secondo le specifiche modalità dell’azione. Tutto ciò premesso, la risposta al quesito sottoposto ad esame è per le SSUU quella onde i delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2, 4 e 7 legge 2 ottobre 1967, n. 895, non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110.
Il 21 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.52950, che si occupa della introduzione di merce contraffatta nel territorio nazionale. Nel caso di specie l’imputato ha acquistato per corrispondenza all’estero i beni con marchio contraffatto e avendoli ricevuti, poi, nel territorio dello Stato ha per la Corte concorso inevitabilmente nella loro introduzione nello stesso territorio, così commettendo appunto il reato previsto dall’art. 474, comma 1, c.p. Invano, prosegue la Corte, la difesa dell’imputato si duole del fatto che l’imputato medesimo sia stato ritenuto responsabile del predetto reato di cui all’art. 474 del c.p. e non già dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, L. 80/2005, evocando a sostegno della propria tesi, la sentenza delle Sezioni Unite 22225/2012. Per la Corte, si deve a tal proposito rilevare come il giudice di merito abbia evidenziato – con motivazione incensurabile in sede di legittimità – che l’imputato è titolare dell’omonima ditta individuale avente ad oggetto “attività al dettaglio di commercio ambulante di tessuti ed articoli tessili“, ed è stato dunque correttamente escluso che egli fosse acquirente finale, configurandosi all’evidenza quale acquirente professionale; e, nel caso di acquirente professionale, non è mai applicabile l’illecito amministrativo che prevede quale soggetto attivo solo l’acquirente finale. La sentenza delle S.U. del 2012 richiamata dal ricorrente – prosegue poi la Corte – si occupa di un caso in cui è stata contestata la ricettazione e non il reato di cui all’art. 474 c.p. tanto è vero che a pagina 7 della predetta sentenza si evidenzia che “la questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: «Se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata». Le S.U. del 2012 – prosegue la Corte – risolvono la predetta questione affermando che l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall’avvenuta eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca reato“, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell’oggetto della condotta nonché dalla rinuncia legislativa alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza“, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa (SSUU, sentenza n. 22225 del 19/01/2012 Ud. – dep. 08/06/2012). La stessa Corte di merito – prosegue ancora il Collegio – richiama, poi, correttamente la sentenza di Cassazione n. 6354 del 2016 che esclude ogni rapporto di specialità tra il reato di cui all’art. 474 del c.p. e l’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, della L. 80/2005; onde, anche qualora l’introduzione nello Stato avvenisse per opera di un acquirente finale questi risponderebbe del reato di cui all’art. 474 e non già dell’illecito amministrativo. Nella sentenza di cui sopra, la Corte conferma la giustezza della condanna di un acquirente finale per il reato di cui all’art. 474 del c.p. proprio in base al principio di cui sopra; e poiché tale sentenza conferma e specifica la decisione delle Sezioni Unite già richiamata, il Collegio ritiene opportuno riportarne la motivazione, onde l’art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 (così come modificato dalla I. n. 99/2009) punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. Le Sezioni Unite hanno stabilito come l’illecito amministrativo sopra menzionato si ponga in rapporto di specialità rispetto ai reati di ricettazione (art. 648 c.p.) e di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.), precisando altresì come, per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, debba intendersi colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale (Sez. Un., n. 22225 del 19 gennaio 2012, Micheli). Il ricorrente – prosegue la Corte – sostiene che gli illustrati principi debbano applicarsi anche alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 474 c.p., rilevando la sostanziale omogeneità della situazione in cui si viene a trovare colui che, avendo acquistato per corrispondenza all’estero il bene con marchio contraffatto, lo riceva nel territorio dello Stato concorrendo inevitabilmente nella relativa introduzione nello stesso territorio; nessun dubbio sussisterebbe, infatti, in merito all’attribuibilità al soggetto in questione della qualifica di “acquirente finale“, dovendosi per altro verso considerare come le Sezioni Unite abbiano pronunziato i suddetti principi proprio in relazione ad un caso di acquisto per corrispondenza all’estero di un orologio e cioè esattamente la fattispecie concreta in contestazione nel presente procedimento. Come accennato, la Corte considera detta tesi infondata in diritto, dovendosi innanzi tutto è necessario precisare come nel caso deciso dalle Sezioni Unite Micheli era stato contestato esclusivamente il reato di ricettazione, talché dall’apparente sovrapponibilità delle fattispecie non discende la pretesa specialità tra l’illecito amministrativo e quello penale configurato dall’art. 474 c.p. Il Supremo Collegio, facendo applicazione dei consolidati criteri individuati a tal fine dalla giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio ricordato in precedenza all’esito del confronto strutturale tra le fattispecie astratte previste, rispettivamente, dall’art. 1 comma 7 I. n. 80/2005 e dagli artt. 648 e 712 c.p., rinvenendo nella prima tutti gli elementi delle seconde con l’aggiunta di alcuni elementi effettivamente specializzanti, tra i quali, per l’appunto, la specifica qualifica dell’agente. In altri termini – chiosa ancora la Corte – le Sezioni Unite non hanno inteso affermare la specialità dell’illecito amministrativo rispetto a qualsiasi condotta penalmente rilevante avente ad oggetto prodotti contraffatti qualora autore della medesima sia l’acquirente finale dello stesso, bensì, più semplicemente, la specialità dello stesso illecito rispetto alle 2 figure di reato espressamente menzionate, i cui elementi costitutivi sono stati riscontrati nella fattispecie configurata dalla norma ritenuta speciale. In definitiva, prosegue il Collegio, il principio applicato è quello per cui il presupposto della convergenza di norme – necessario perché risulti applicabile la regola sull’individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 9 I. n. 689/1981 – può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza strutturale tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate. In tal senso il fatto punito cui si riferisce la disposizione menzionata non è quello in concreto realizzato dall’agente, bensì quello oggetto di incriminazione e pertanto per accertare se norma penale e norma sanzionatoria amministrativa effettivamente interferiscono deve esclusivamente effettuarsi la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie tipiche dalle stesse configurate. Ed allora, continua la Corte, proprio facendo ricorso ai principi dispiegati dalle Sezioni Unite Micheli, deve giungersi alla conclusione che il rapporto tra la fattispecie di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti con segni falsi e quella di ricettazione o incauto acquisto da parte dell’acquirente finale dei medesimi prodotti (punita per l’appunto con la sola sanzione amministrativa) sia di reciproca indifferenza. Infatti – precisa ancora la Corte – la condotta tipizzata dal primo comma dell’art. 474 c.p. non presuppone necessariamente l’acquisto del bene e non trova in ogni caso alcun riscontro nella fattispecie configurata dalla norma incriminatrice amministrativa; né per acquistare un prodotto contraffatto è necessario introdurlo illecitamente nel territorio dello Stato, condotta che conserva dunque la propria autonomia strutturale, integrando un diverso illecito eventualmente strumentale alla consumazione del primo, ma per l’appunto distinto ed autonomo. Non di meno la circostanza che entrambe le fattispecie siano caratterizzate dal fine di profitto (elemento implicito nell’illecito amministrativo ed invece espressamente previsto per la sussistenza del reato di cui si tratta) non può ritenersi interferenza da sola idonea ad evocare un rapporto di continenza strutturale tra le due norme incriminatrici. Conclusioni queste che, per la Corte, risultano asseverate dal proprio consolidato insegnamento onde il delitto di ricettazione e quelli previsti dall’art. 474 c.p. possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore (viene ricordata, ex multis Sez. Un., n. 23427 del 9 maggio 2001, P.M. in proc. Ndiaye). Tale principio ovviamente rimane inalterato laddove voglia sostituirsi al delitto di ricettazione l’illecito amministrativo menzionato, che, come più volte ribadito, deve considerarsi speciale rispetto alla menzionata fattispecie penale qualora commesso dall’acquirente finale. E nello stesso senso non è ultroneo per la Corte ricordare altresì come il vigente testo dell’art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 sia stato introdotto dalla L. n. 99/2009 e cioè il medesimo provvedimento legislativo che ha contestualmente riconfigurato l’art. 474 c.p. – tra l’altro isolando rispetto a quella di commercio e punendo più severamente proprio l’ipotesi di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti contraffatti – talché appare quantomeno inverosimile che la mancata riproduzione nella norma amministrativa di elementi idonei ad evocare in maniera esplicita la fattispecie penale di cui si tratta non sia stata oggetto di una scelta consapevole e intenzionale da parte del legislatore. Per tutto quanto sopra esposto, conclude la Corte, è evidente la manifesta infondatezza anche del motivo di ricorso con il quale si contesta la ritenuta responsabilità dell’imputato per il reato di ricettazione e non già dell’illecito amministrativo sempre sulla base del principio di specialità riconosciuto nella sentenza delle S.U. n. 22225 del 2012 dacché, come già detto, il ricorrente nel caso di specie non è un acquirente finale, ma un acquirente professionale e come tale non rientra nella previsione dell’illecito amministrativo di cui all’art. l, comma 7, L. 35/2005.
Il 18 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione civile n.30319, onde – in tema di diritto d’autore – la condotta di abusiva riproduzione e di illecita duplicazione è prevista sia come illecito penale ai sensi dell’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941, e successive modificzioni, sia come illecito amministrativo, ex art. 174-bis della stessa legge. Tale condotta è sottoposta ad un regime di doppia punibilità, come si desume dal tenore letterale del citato art. 174-bis, il quale, mantenendo «ferme le sanzioni penali applicabili» e stabilendo la punizione con la sanzione amministrativa pecuniaria delle stesse violazioni delle disposizioni previste nella medesima sezione della legge e qualificate come reato, ha inteso assicurare l’effettività della risposta sanzionatoria per la protezione del diritto d’autore, configurando come illecito amministrativo le stesse condotte che integrano fattispecie autonome di reato. La sanzionabilità dell’abusiva riproduzione e della illecita duplicazione altresì a titolo di illecito amministrativo e l’identità della condotta materiale integrante le fattispecie amministrativa e penale escludono, per la Corte, che l’esistenza del reato dipenda dall’accertamento della violazione amministrativa (Cass., Sez. II, 22 dicembre 2011, n. 28381). Resta pertanto esclusa la sussistenza della connessione obiettiva per pregiudizialità di cui all’art. 24 della legge n. 689 del 1981, richiesta per radicare la competenza del giudice penale nell’accertamento della responsabilità per l’illecito amministrativo. Secondo la costante giurisprudenza richiamata dalla Corte infatti, la connessione obiettiva dell’illecito amministrativo con un reato che, ai sensi dell’articolo 24 della legge n. 689 del 1981, determina lo spostamento della competenza all’applicazione della sanzione dall’organo amministrativo al giudice penale, rileva esclusivamente nel caso in cui l’accertamento dell’illecito amministrativo costituisca l’antecedente logico necessario per l’esistenza dell’altro, mentre, in difetto di tale rapporto di pregiudizialità, la pendenza del procedimento penale non fa venir meno detta competenza all’irrogazione della sanzione (Cass., Sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22362; Cass., Sez. I, 9 novembre 2006, n. 23925).
Il 21 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.57237 alla cui stregua, in ambito familiare, la condotta del genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento, integra esclusivamente il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. nel quale è assorbita la violazione meno grave prevista dall’art. 12 sexies, L. n. 898/1970, richiamato dall’art. 3, L. n. 54/2006. E’ tuttavia riscontrabile un opposto orientamento onde la diversità strutturale delle fattispecie criminose in disamina, caratterizzate ciascuna da un peculiare elemento specializzante – lo stato di bisogno dei beneficiari della dazione nella figura di cui all’art. 570, comma 2, c.p.; la sentenza di divorzio o di separazione, in quella di cui all’art.12 sexies, L. n. 898/1970 e di all’art. 3, L. n. 54/2006 – sarebbe tale da sospingere nel senso dell’autonomia di esse e del relativo concorso formale anche nell’ipotesi in cui si riferiscano ad una medesima situazione concreta (viene richiamata Sez. VI, 7 dicembre 2017, n. 55064; 2 aprile 2012, n. 12307; 26 settembre 2011, n. 34736; 25 agosto 2005, n. 32540). In tal senso si è sostenuto che, seppure il reato di cui all’art. 12 sexies, L. n. 898/1970 – richiamato dall’art. 3, L. n. 54/2006 – si perfeziona per effetto del solo omesso versamento dell’assegno periodico fissato dal giudice civile, ove tale condotta omissiva del genitore si traduca, altresì, nel far mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, è da assumersi realizzata anche la distinta fattispecie di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., dovendosi considerare peraltro che l’interesse giuridico tutelato dalla incriminazione di cui all’art. 3, L. n.54 del 2006 è l’esatto e puntuale adempimento dell’obbligo imposto dal giudice civile, mentre quello protetto dalla norma di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. si riferisce all’esigenza di non far mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore.
2018
Il 6 giugno esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.25651, che si occupa del rapporto tra appropriazione indebita e “distrazione” (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ovvero di una questione che ha trovato differenti soluzioni in giurisprudenza essendosi fatto riferimento – per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall’art. 649 cod. proc. pen. – alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell’uno e nell’altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all’art. 646 cod. pen. non è di ostacolo – una volta intervenuto il fallimento – alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (è stata tuttavia ritenuta praticabile, rammenta la Corte, anche la soluzione inversa). La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), rammenta la Corte essere imperniata sulla considerazione che all’unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell’ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un’unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l’imputato, agente di cambio, già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta – consistita, fra l’altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela – potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione – prosegue il Collegio – non esclude del tutto, però, l’operatività dell’art. 649 cod. proc. pen. e del principio del ne bis in idem, in esso trasfuso: ciò avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona). La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza più recente e più cospicua, afferma, invece, che l’appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell’art.84 cod. pen., sicché solo l’avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l’appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell’appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all’altra figura di reato (vengono richiamate, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010,; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003. Una applicazione di tale principio – rammenta la Corte si è avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un’ipotesi di modifica dell’imputazione ex art. 516 cod. proc. pen., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all’evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l’identità del fatto, preclusiva, per l’art. 649 cod. proc. pen. , del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all’idem factum. La questione deve oggi essere risolta, prosegue il Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016 laddove ha escluso che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 cod. pen., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto“. La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che – per i giudici di Strasburgo – la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v’è nessuna ragione logica, ha però precisato la Corte Costituzionale e rammenta il Collegio, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, “all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente“. Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale e rammenta la Corte, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i relativi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005). Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 cod. proc. pen. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati. Muovendo da tali criteri. deve allora per la Corte censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull’appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perché, è detto in sentenza, “alla apparente unicità della condotta non corrisponde l’unicità del fatto“. Invero, prosegue la sentenza, “anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti“. La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realtà, a quella richiamata giurisprudenza onde la declaratoria di fallimento, pur non integrando – per pacifica giurisprudenza – un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all’art. 216 L.F. nella relativa specificità offensiva, per il fatto che attualizza l’offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell’imprenditore costituisce per i creditori. Vero è poi, prosegue la Corte, che la Corte d’appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui è pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che è proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato è sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. Assume il Collegio a questo punto che né l’impostazione della Corte d’appello di Trieste, né quelle che l’hanno preceduta possano essere condivise. Anche se si dovesse ritenere che l’appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull’appropriazione è, ora – dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale – condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all’appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall’impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta per la Corte alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all’istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione. Nemmeno l’impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità può per la Corte essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l’elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che “attualizza” l’offesa insita nell’appropriazione. Occorre considerare però, prosegue la Corte, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall’azione o dall’omissione dell’agente; perciò, anche se nel “fatto” vanno ricompresi – secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite – le conseguenze della condotta (l’evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall’agire del soggetto, perché possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell’agente, perché consegue all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del “fatto“, nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D’altra parte – chiosa ancora la Corte – la propria recente giurisprudenza (Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, nonché, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da SS.UU., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pt-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità (contra, però, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata – secondo lo schema dell’art. 44 cod. pen. – alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l’agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all’art. 646 cod. pen., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante. Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all’appropriazione indebita, sta, in realtà, nell’offesa che essa reca all’interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del “fatto“, perché attiene – insieme all’oggetto giuridico, alla natura dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem. Evidentemente, chiosa ancora la Corte, proprio perché avvertita della fragilità della costruzione prima richiamata, la Corte d’appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell’appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della società. In pratica, il fallimento della società – intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto – costituirebbe, nella specie, l’evento del reato, perché collegato causalmente con la distrazione della somma da parte dell’amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell’impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l’identità del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell’accusa mossa all’imputato (al quale non è contestata la bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, legge fall., ma quella distrattiva ex art. 216), né che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi da cui desumere che il fallimento della società sia stato conseguenza della distrazione contestata all’imputato, sicché anche l’argomento speso, da ultimo, dal giudice d’appello si rivela inidoneo a superare le criticità insite nella conclusione cui è pervenuto. In conclusione, prosegue la Corte, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all’impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza più volte richiamata, né si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi è pronuncia passata in giudicato, sicché va escluso che l’imputato potesse nel caso di specie essere nuovamente sottoposto a procedimento penale. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna per la Corte giungere per altra via. E’ generalmente riconosciuta l’esistenza, nell’ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell’accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto – che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto – siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, è ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che – se la preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un’ipotesi di “concorso formale di reati” (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) – tanto non vale allorché il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009). Ciò che vale per il concorso reale di norme incriminatrici vale, stante l’identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz’altro intervenuto – prima dell’avvio dell’azione penale per il reato complesso – un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato. Ebbene, l’imputato nel caso di specie è stato assolto – con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato – dall’accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell’art. 649 cod. proc. pen., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall’appropriazione, deve riconoscersi che l’unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell’avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l’imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, per la Corte la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa. La dottrina di commento fa rilevare come le ultime decisioni delle Sezioni Unite in tema di concorso di norme e di reati, e quelle a Sezioni semplici che vi si adeguano, come questa, per le relative correlazioni – espresse o implicite – con la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cedu in tema di ne bis in idem processuale, offrono suggestivi spunti per la configurazione di un ne bis in idem sostanziale, inteso quale declinazione dei principi di legalità, di tipicità, ragionevolezza e proporzione, quale parametro che, in sede applicativa, potrebbe compendiare un criterio (secondo giurisprudenza consolidata) strutturale, e tuttavia previamente illuminato da interpretazioni teleologiche delle singole disposizioni incriminatrici, con attenzione a scongiurare una duplicazione di valutazioni tipiche di profili del fatto concreto in cui si esprima una quota di offensività.
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Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, alla cui stregua – in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “stradali” – vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del bis in idem, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all’imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.). Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale“, che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l’art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante. Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio già svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all’imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell’occasione dalla S.C.): a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l’art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni” e, inoltre, “nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto” […]. Precedentemente – prosegue la Corte – dall’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l’art.589 cod. pen. disponeva, tra l’altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, “Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni” e che “Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici” […] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della “guida“, individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga “alla guida di un veicolo a motore“; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è “chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale….)”. In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al “conducente di un veicolo a motore” e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell’art. 589-bis cod. pen. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada. Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al – condivisibile – ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone). Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).
Il 15 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.27530 in tema di rapporti tra la fuga per evitare l’alcool test e la resistenza a pubblico ufficiale. Per il Collegio la Corte territoriale – dopo aver adeguatamente riscostruito la vicenda storico fattuale – ha fatto corretta applicazione dei principi giuridici escludendo nel caso di specie l’applicazione delle regole sul concorso apparente di norme penali . Invero – chiosa la Corte – il reato di cui all’art. 186 comma 7 del D.Lvo 285/1992 è reato a condotta istantanea che si è consumato con il comportamento di fuga posta in essere dall’imputato, mentre i militari che lo avevano fermato in evidente stato di ebbrezza stavano provvedendo ad organizzare le prove alcolimetriche;e non può considerarsi certo assorbito bensì concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. ,che si è realizzato attraverso condotte distinte e materialmente susseguenti consistite ,come ampiamente descritto nel provvedimento impugnato, in spintonamenti e minacce per opporsi ai militari operanti che nel frattempo lo avevano raggiunto e cercavano di bloccarlo (viene richiamato il precedente della Sez. 6, n. 47585 del 10/12/2007, dep. 2007).
Il 28 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.42918 che torna a pronunciarsi sul rapporto tra maltrattamenti in famiglia e stalking. La Corte ribadisce convintamente il principio di diritto per cui, in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 cod. pen. e quello di atti persecutori ex art. 612-bis, cod. pen., salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla relativa esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della relativa attualità temporale, circostanza che può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, dep. 2012, Frasca). È stato – prosegue la Corte – efficacemente osservato che l’oggettività giuridica delle due fattispecie, artt. 572 e 612-bis cod. pen., presenta distinti soggetti attivi e passivi, pur dovendosi ritenere le condotte materiali dei reati conformarsi quanto a modalità esecutive e lesività. Il reato di maltrattamenti è un reato contro l’assistenza familiare e il relativo oggetto giuridico è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. Il reato di atti persecutori è un reato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Nello specifico – prosegue la Corte – si è affermato che il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie; è, invece, configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla relativa esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della relativa attualità temporale. Ne deriva per la Corte che è configurabile il solo delitto di maltrattamenti in famiglia allorché le condotte criminose siano poste in essere in costanza di separazione legale (Sez. 5, Sentenza n. 41665 del 04/05/2016) I principi sopra esaminati si riferiscono ad ipotesi in cui, o sussistono contestualmente entrambe le condotte, che possono astrattamente integrare anche la fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen, ma, per la clausola di sussidiarietà di cui al comma primo dell’art, cit., una di esse risulta ovviamente assorbita dal reato più grave (parimenti con quanto avviene con minacce, percosse e violenze), ovvero allorché, nell’ambito di un unico rapporto, senza soluzione di continuità, proseguano le condotte vessatorie comunque sorte nell’ambito di una comunità di tipo familiare. Nel caso oggetto di scrutinio, chiosa la Corte, con motivazione logica e priva di aporie, la Corte territoriale ha evidenziato come, rispetto ad una condotta di maltrattamenti posta in essere da parte del ricorrente nel periodo di comune convivenza con la parte offesa, a fronte della cessazione di ogni rapporto con il ricorrente, nel frattempo ricoverato in ospedale ed andato a convivere coi genitori, lo stesso si sia reso esclusivamente artefice di comportamenti tesi ad importunare con plurimi messaggi offensivi e visite sia la ex convivente che i figli e, valutata la diversità dei beni giuridici tutelati, ha ritenuto integrato il delitto di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016 – dep. 19/07/2016). Il significativo scarto temporale tra le condotte di maltrattamento ex art. 572 cod. pen. e quelle di atti persecutori ex art. 612-bis cod. pen., inoltre, rende evidente tale possibilità, rilevata la cesura tra distinte condotte tali da ritenere astrattamente sussistenti ulteriori fattispecie solitamente assorbite in quelle di cui all’art. 572 cod. pen.; diversamente opinando non sarebbe ipotizzabile la fattispecie di cui all’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. che prevede proprio l’aggravante in ipotesi di condotte poste in essere ai danni del coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. Sotto questo profilo – prosegue la Corte – non devono fuorviare le massime secondo cui sarebbe comunque configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione, che in realtà o esaminano questioni non rilevanti al caso scrutinato, avendo ad oggetto il ritenuto assorbimento di condotta di ingiurie e minacce (v. Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014), ovvero precisano che il reato previsto dall’art. 612-bis cod. pen. è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto, principio affermato per rimarcare la clausola di sussidiarietà di cui all’art. 612-bis, comma primo, cod. pen., quanto a condotte vessatorie poste in essere in ambito di rapporti di convivenza o coniugio (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017, dep. 2018). In tal senso ricostruita l’autonomia delle singole condotte che come detto presentano beni giuridici diversi (v. anche Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016 -dep. 19/07/2016), deve ritenersi conforme ai principi già espressi dalla Corte il rigetto del motivo teso a rilevare l’assorbimento delle due condotte.
L’8 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.44957 che si sofferma sul carattere sussidiario della contravvenzione prevista dall’art.650 c.p. in tema di inosservanza di provvedimenti della pubblica autorità. Per la Corte, va premesso che l’art. 650 cod. pen. è una norma penale in bianco a carattere appunto sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell’autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l’inosservanza del provvedimento dell’autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa (Sez. 1, n. 44126 del 19/04/2016, Azzarone; Sez. 1, n. 2653 del 29/11/1999, dep. 2000, Parlà; Sez. 1, n. 1711 del 07/12/1999, dep. 2000, Di Maggio). Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 cod. pen. è dunque necessario per la Corte che: a) l’inosservanza riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato, in occasione di eventi o circostanze tali da far ritenere necessario che proprio quel soggetto ponga in essere una certa condotta; e ciò per ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, o di igiene o di giustizia; b) l’inosservanza attenga ad un provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica ed autonoma sanzione; c) il provvedimento emesso per ragioni di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico, di igiene sia adottato nell’interesse della collettività e non di privati individui (Sez. 1, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata; Sez. 1, n. 33779 del 23/04/2014, Rasia, non massimata). Ciò posto, ed atteso il principio di sussidiarietà sancito dall’art. 650 cod. pen., il reato non è per la Corte configurabile, quando l’inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall’art.650 cod. pen. ridetto. Nel caso in esame la violazione di legge perpetrata non ha natura penale, in quanto, la condotta in questione risulta punita dall’art. 7 bis, commi 1 e 1-bis, D. Lgs n. 267 del 2000 (“1. Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro. 1-bis. La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal sindaco e dal presidente della provincia sulla base di disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari“) (Sez. 1, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata). Dalla lettura della sentenza, infatti, emerge che l’ordinanza ineseguita del 15/10/2012 richiamava espressamente, oltre al precedente permesso di costruire rilasciato e ad una nota dell’A.S.L. della distanza inferiore all’abitazione di un terzo (vicino di casa), il Regolamento Locale di Igiene sulle distanze degli allevamenti degli animali dalle abitazioni, il D.Igs. n. 267 del 2000 e il TULLSS n. 1265 del 1934, onde la vicenda risulta inquadrabile nell’ambito di un illecito amministrativo per violazione dei regolamenti comunali e provinciali.
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Il 10 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 45829 ove la Corte di Cassazione è intervenuta per la prima volta, dopo le rilevanti pronunce delle Corti sovranazionali, in tema di ne bis in idem nei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo.
Secondo la Cassazione rileva come i precedenti europei, con l’obiettivo di trovare un giusto contemperamento di interessi tra le esigenze repressive dello Stato nazionale verso fatti illeciti di notevole disvalore sociale e le garanzie individuali, e probabilmente allo scopo di mitigare gli effetti dell’applicazione del divieto di bis in idem processuale, come sancito dalla sentenza Grande Stevens, ritenuto troppo rigido e che aveva provocato difficoltà applicative negli Stati membri, sono pervenuti all’elaborazione del principio dello stretto nesso materiale e temporale illustrato anche attraverso il riferimento e l’analisi dei sub – criteri materiali e temporali.
Tra questi il sub – criterio prevalente per verificare la presenza della stretta connessione è pacificamente individuato da tutte le pronunzie in quello della “proporzionalità” tra il cumulo di sanzioni irrogate (di cui quella amministrativa pecuniaria è ormai considerata di natura penale) e la gravità dell’illecito.
In definitiva – nel ricorrere degli altri indici rivelatori dello stretto nesso materiale e temporale – è considerata legittima la parallela instaurazione, prosecuzione e decisione sanzionatoria tramite il doppio binario di procedure, purchè esse formino un insieme integrato di procedimenti e di relative sanzioni, caratterizzato dalla prevedibilità; ed al Giudice nazionale, in base ai suindicati sub criteri, è affidato il compito di accertarne la ricorrenza nel caso concreto.
Di certo, tutto ciò comporta, in mancanza di un chiaro riferimento normativo, l’esercizio di compiti interpretativi molto complessi ed articolati, che non posso prescindere da una attenta valutazione dei singoli casi concreti con i quali il giudice si deve confrontare.
L’elemento dell’ordine in cui si tengono e giungono a conclusione i procedimenti, in considerazione del principio di proporzionalità complementare tra le sanzioni e dell’impatto complessivamente non troppo oneroso che esse devono avere sul soggetto interessato, quindi, non può essere decisivo per pronunciarsi sulla questione.
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Il 23 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 48246 onde non esiste alcun rapporto di consunzione, assorbimento o specialità tra la fattispecie di reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, e quella di cui all’art. 10-ter, cit. decreto, tale per cui l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto indicata nella dichiarazione infedele costituirebbe un post-factum non punibile.
Secondo il consolidato orientamento della Cassazione, nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore.
Orbene, tra le due fattispecie non esiste alcun rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., nè la legge considera come elementi costitutivi del reato di dichiarazione infedele cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, fatti che costituirebbero il diverso delitto di omesso versamento dell’IVA di cui all’art. 10-ter, cit. decreto, e viceversa. Ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è necessario e sufficiente che il relativo ammontare risulti dalla dichiarazione, senza ulteriori aggettivazioni, a prescindere, quindi, dalla natura fraudolenta o infedele della dichiarazione stessa. La condotta omissiva consiste nell’omesso versamento dell’IVA così come dichiarata. Nei reati cd. dichiarativi, invece, la condotta attiva consiste nell’indicare elementi passivi fittizi o elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
I reati cd. dichiarativi sono connotati dalla natura fraudolenta della condotta, volta a rappresentare una base imponibile inferiore a quella reale; il reato di omesso versamento dell’IVA è privo di tale caratteristica. Il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, inoltre, è punito a titolo di dolo generico, a prescindere, quindi, dal fine di evasione che caratterizza tutti i reati cd. dichiarativi.
Le due fattispecie di reato, dunque, si pongono in rapporto di reciproca radicale estraneità e ben possono concorrere tra loro. La diversità delle relative condotte esclude, altresì, che possa ipotizzarsi la dedotta unicità del fatto sotto il profilo della corrispondenza storico-naturalistica tra condotta ed evento materiale. L’identità della dichiarazione non giustifica tale conclusione: il reato di dichiarazione infedele si consuma con la presentazione della dichiarazione stessa; il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto si consuma nel diverso termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.
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Il 9 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 51063 che, analizzando la clausola di riserva di cui all’art. 73, comma 5, T.U. stup., afferma come La fattispecie incriminatrice, così come ridefinita da ultimo dalla L. n. 79 del 2014, concorre con ognuna di quelle previste dai primi quattro commi dello stesso articolo – come configurate precedentemente all’intervento della L. n. 49 del 2006, in quanto fatte rivivere dal giudice delle leggi con la citata sentenza n. 32 del 2014 – nel punire i medesimi fatti descritti da questi ultimi e che la stessa espressamente richiama. Si tratta, all’evidenza, di un caso di concorso solo apparente di norme incriminatrici, posto che il suddetto comma 5, isolando attraverso i ricordati parametri una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell’ambito di incriminazione di queste ultime.
Può allora suscitare qualche perplessità l’introduzione della menzionata clausola di riserva espressa, che sembra sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale, rendendo apparentemente sempre inapplicabile l’art. 73, comma 5, in favore delle norme “generali” contenute nei precedenti commi (e soprattutto nel primo e nel quarto) ovvero la cui previsione potrebbe essere intesa, al limite, nel senso di una deroga alla regola dell’applicazione della sola norma speciale di cui all’art. 15 c.p., con la conseguenza ancora più paradossale di configurare un’ipotesi di concorso formale tra la fattispecie di lieve entità e i reati previsti dalle altre disposizioni.
Conclusioni la cui irragionevolezza appare evidente, così come la loro incompatibilità con quella che era la volontà del legislatore storico e con la stessa scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo, al fine di garantire una più effettiva ed espansiva applicazione del più temperato regime sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità.
Non è dubbio che specializzazione e sussidiarietà – quando la stessa si manifesta attraverso la previsione di clausole di riserva assolutamente indeterminate o, come nel caso di specie, relativamente indeterminate – operino in senso opposto, atteso che la prima impone la applicazione della norma speciale sulla norma generale, la seconda della norma indicata come prevalente sulla norma sussidiaria che contiene la clausola. A ben vedere, però, attraverso entrambi i criteri il legislatore persegue un obiettivo unico e cioè ricondurre una determinata fattispecie esclusivamente alla previsione che meglio ne esaurisce il disvalore.
Attraverso la specializzazione viene però selezionata la reazione punitiva più conforme, individuando la norma che risulta meglio aderente alla fattispecie concreta dal punto di vista genuinamente strutturale, sul presupposto implicito che quanto più la valutazione normativa tiene conto dei caratteri distintivi di un determinato fatto, tanto più si presta a rispecchiarne, per l’appunto, l’effettivo disvalore. Il che consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva del tipo indicato, intenda far operare i due criteri su piani distinti ovvero sottrarre la relazione di specialità all’ambito di operatività della clausola di riserva.
Una interpretazione della norma rispettosa del contesto normativo in cui si inserisce e delle sue ragioni storiche, porta dunque a concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta – enfatizzando al contempo la scelta operata di configurare un titolo autonomo di reato – per disciplinare l’eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell’art. 73 T.U. STUP., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie.
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Il 12 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 55737 che si allinea all’orientamento secondo cui, in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), deve evidenziarsi che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 1, – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata come nel caso di specie), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.
2019
Il 3 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 144 che segue l’orientamento secondo cui la condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica costituisce circostanza aggravante dei delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime, dovendosi conseguentemente escludere, in applicazione della disciplina del reato complesso, che gli stessi possano concorrere con la contravvenzione di cui all’art. 186 cod. strada
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Il 22 gennaio esce la sentenza della VI sezione civile della Cassazione n. 1683 onde il sorpasso che, in quanto necessario per evitare intralci alla circolazione e sveltire il traffico, costituisce una manovra connaturale alla circolazione dei veicoli e sempre consentita, salvo che non ricorrano le condizioni di pericolo specificamente menzionate nell’art. 148 C.d.S., non comporta necessariamente l’invasione dell’opposta corsia di marcia e da essa prescinde la disciplina per esso stabilita, limitandosi questa a stabilire la regola comune che il sorpasso deve avvenire sulla sinistra del veicolo o di altro utente della strada che procede nella stessa corsia e che se la carreggiata o semicarreggiata sono suddivise in più corsie, il sorpasso deve essere effettuato sulla corsia immediatamente alla sinistra del veicolo che si intende sorpassare.
Il divieto di sorpasso in prossimità o in corrispondenza delle curve o dei dossi e in ogni caso di scarsa visibilità, stabilito dall’art. 148 C.d.S., comma 10, ha conseguentemente l’esclusiva finalità di prevenire il non avvertibile pericolo derivante dalla possibilità che un veicolo procedente in senso inverso abbia invaso la parte della carreggiata percorsa dai veicoli procedenti in senso inverso e, in generale, che la riduzione dello spazio di manovra non consenta ai veicoli coinvolti in un sorpasso di evitare gli ostacoli alla normale circolazione non percepibili dai loro conducenti con la normale tempestività.
L’obbligo imposto ai veicoli dall’art. 143 C.d.S., di circolare sulla parte destra della carreggiata, oltre che in prossimità del margine destro della medesima, anche quando la strada è libera, e la previsione di una particolare sanzione per colui che circola contromano in corrispondenza della curve e dei raccordi convessi o in ogni altro caso di limitata visibilità, non mira, invece, a tutelare la possibilità di reagire efficacemente ad un altrui comportamento pericoloso, ma ad impedire che la violazione del precetto venga posta in essere mediante l’invasione dell’opposta corsia di marcia in situazioni che non garantiscano che la stessa, oltre ad essere necessitata, sia anche consentita dalle condizioni del flusso veicolare opposto e che, in ogni caso, sia rilevabile dai veicoli sopraggiungenti nell’altra corsia e consenta ai loro conducenti di adeguare a detta invasione la propria condotta.
Pertanto, l’effettuazione di una manovra di sorpasso in prossimità di una curva con l’invasione dell’opposta corsia di marcia, realizza, conseguentemente, tanto la fattispecie di un sorpasso vietato quanto quella della circolazione contro mano, non sussistendo tra le due violazioni un rapporto di specialità, bensì di concorso formale.
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Il 27 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13399 onde la provenienza illecita dei beni non esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacchè per beni del fallito L. Fall., ex art. 216, si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto, rientrandovi, pertanto, anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa, in quanto l’iter criminoso di quest’ultima si esaurisce con l’acquisizione dei beni al patrimonio dell’imprenditore decotto, mentre la sottrazione bancarottiera degli stessi beni a quest’ultimo è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere.
Siffatti principi sono stati, recentemente riaffermati dalla stessa Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.
Alla base di siffatta impostazione sono state ancora poste – come rilevato – le strutturali differenze delle condotte di distrazione rispetto alla presupposta fase acquisitiva dei proventi illeciti, che si pongono su di un piano cronologicamente distinto e progressivo nonchè logicamente (con)sequenziale, precludendo, in tal guisa, la unitaria riconduzione delle fattispecie all’idem factum.
La Corte dedica poi un’ulteriore riflessione sulla ricaduta, su siffatta impostazione, della preclusione derivante dall’applicazione del principio del ne bis in idem, come (re)interpretato nella sua portata convenzionale e costituzionale.
Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016, ha statuito l’illegittimità costituzionalmente, per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e iniziato il nuovo procedimento penale.
Nella delineata prospettiva, la Consulta ha escluso che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 c.p., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto“.
La giurisprudenza della Corte EDU porta solo ad affermare – ha precisato la Corte Costituzionale – che, per i giudici di Strasburgo, la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie. Non v’è nessuna ragione logica – ha però precisato la Corte Costituzionale – per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, “all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente“.
Parimenti – ha proseguito la Corte Costituzionale – nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta. Anzi, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che consente la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Al contrario – ha concluso la Corte Costituzionale – sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Tanto a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicchè anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In tal modo, è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 c.p.p., senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale, e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati.
Del resto, ad una valutazione sostanzialistica dell’idem factum questa Corte si è già conformata, affermando come ai fini della preclusione del “ne bis in idem“, l’identità del fatto debba essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato, al fine di presidiare, secondo effettività, le garanzie che la predetta norma è intesa a tutelare.
La valutazione sostanzialistica dell’idem factum deve procedere tenendo conto dei rapporti di interferenza strutturale tra i reati.
Nel delineato contesto, in tema di valutazione comparativa, in concreto, delle fattispecie coinvolte in una verifica in termini di idem factum, è stato innovativamente ritenuto come, alla luce dei principi sovranazionali recepiti dalla Consulta, il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisca, in ragione del divieto di “bis in idem“, di giudicare l’imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, non è quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso.
E’ stato, in tal senso, sottolineato come la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell’art. 84 c.p., e come gli elementi normativi descrittivi della bancarotta siano diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell’appropriazione, giacchè nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all’altra figura di reato; pur tuttavia, anche ammessa la ricorrenza di una ipotesi di concorso formale di reati, la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull’appropriazione è stata ritenuta – dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale sopra richiamata – condizionata alla possibilità di riconoscere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all’appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento.
Si è, quindi, ritenuto come “la problematica posta dall’impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta alla stregua dei criteri enunciati… secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perchè con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all’istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione“.
Alla luce di siffatta impostazione, è stata sottoposta a “prova di resistenza” anche la più recente giurisprudenza di legittimità, in quanto “essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perchè la bancarotta ha, in più, l’elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che “attualizza” l’offesa insita nell’appropriazione. Occorre considerare, però, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall’azione o dall’omissione dell’agente; perciò, anche se nel “fatto” vanno ricompresi – secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite – le conseguenze della condotta (l’evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall’agire del soggetto, perchè possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell’agente, perchè consegue all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazioni del Tribunale fallimentare, sicchè non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del “fatto”, nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva“.
E’ stata, perciò, richiamata la recente giurisprudenza di questa sezione, che, sviluppando consequenzialmente le premesse poste da S.U., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che nella bancarotta la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata alla dichiarazione di fallimento, concludendo che “se l’agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all’art. 646 c.p., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante“.
Di talchè si è concluso come “Depurata…di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicchè non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all’appropriazione indebita, sta, in realtà, nell’offesa che essa reca all’interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta di una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del “fatto”, perchè attiene – insieme all’oggetto giuridico, alla natura dell’evento, ecc. – ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l’ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem“.
Escluso il profilarsi situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresentasse, in concreto, un fatto diverso dal reato per cui vi era stata pronuncia passata in giudicato, nel caso in disamina la Corte ha escluso che l’imputato potesse essere nuovamente sottoposto a procedimento penale, esplorando anche il tema dei limiti del giudicato parziale in riferimento al reato complesso ed escludendo, anche sotto tale profilo, che ci si trovasse al cospetto di fatti diversi, in quanto “l’unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell’avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l’imputato, sicchè su di esso si era formato il giudicato“.
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Il 4 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14995 onde non è configurabile il rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacchè sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale; sicchè il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 c.p., soltanto quando le condotte di arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima non sono ulteriori ed autonome rispetto a quelle specificatamente maltrattanti.
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Il 14 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione onde, siccome nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non si verifica l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in assenza di una qualsivoglia affinità strutturale tra le fattispecie. In senso contrario non depone la clausola di riserva, o di sussidiarietà, espressa in esordio dall’art. 612 bis c.p. con la precisazione del “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, perchè essa, al di là della questione circa una sua reale ed effettiva utilità, non può aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell’area di possibile interferenza con il reato abituale di atti persecutori.
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Il 20 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 21987 che, pur dando atto della presenza di un orientamento secondo cui i reati di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., potrebbero concorrere (dal momento che il delitto di accesso abusivo è strutturato come reato di pericolo, la norma di cui all’art. 615-quater delinea una fattispecie di pericolo necessariamente indiretto: dalla condotta diretta a procurare a sè o ad altri il codice di accesso al sistema informatico altrui deriva, infatti, il pericolo sia di una successiva, immediata introduzione abusiva nel sistema stesso – che è situazione di per sè pericolosa per la riservatezza dei dati e/o dei programmi che vi sono contenuti -, sia di una ulteriore condotta di diffusione del codice – in favore di soggetti – che potranno, a loro volta, servirsene per realizzare un accesso abusivo oppure cederlo a terzi), ritiene che i due reati non possano concorrere.
I delitti di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., sono collocati entrambi tra quelli contro l’inviolabilità del privato domicilio (meramente residuale appare la disarmonia conseguente alla previsione dell’aggravante di cui all’art. 615 ter, comma 3, che tutela domicili non privati, ma considerati piuttosto per la loro dimensione pubblicistica), avendo il Legislatore ritenuto che i sistemi informatici costituiscano “un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantito dallo art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali agli artt. 614 e 615 c.p.” (cfr. Relazione sul disegno di legge che ha introdotto i predetti reati).
In particolare, l’incriminazione dell’accesso abusivo al sistema informatico altrui (art. 615 ter) è sostanzialmente finalizzata a contrastare il rilevante fenomeno degli hackers, e cioè di quei soggetti che, servendosi del proprio elaboratore, collegato con la rete telefonica, riescono a entrare in comunicazione con i diversi sistemi informatici che a quella stessa rete sono collegati, aggirando le misure di protezione predisposte dal titolare del sistema.
Con l’art. 615 quater, il Legislatore ha inteso, inoltre, rafforzare la tutela e la segretezza dei dati e dei programmi contenuti in un elaboratore, già assicurata dall’incriminazione dell’accesso e della permanenza in un sistema informatico o telematico prevista dal citato art. 615 ter.
I predetti reati sono, quindi, posti a tutela del medesimo bene giuridico, ovvero il c.d. “domicilio informatico”, che l’art. 615 quater, protegge in misura meno ampia (ovvero limitatamente alla riservatezza informatica del soggetto) e l’art. 615 ter, più incisivamente, operando un più ampio riferimento al domicilio informatico tout court, da intendere, in linea con quanto emergente dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 9 del 1989, quale “spazio ideale di esclusiva pertinenza di una persona fisica o giuridica”, delimitabile prendendo come parametro il domicilio delle persone fisiche, ed al quale risulta estensibile la tutela della riservatezza della sfera individuale, che costituisce bene costituzionalmente protetto.
Lo stesso orientamento innanzi menzionato riconosce che l’art. 615 quater, “reprime una serie di condotte prodromiche alla (possibile) realizzazione del delitto di accesso abusivo in un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza, e, quindi, pericolose per il bene giuridico tutelato attraverso l’art. 615 ter c.p.”.
Proprio da tali (pacificamente condivise) connotazioni emerge, a parere del collegio con evidenza, che il reato di cui all’art. 615 quater costituisce necessario antefatto del reato di cui all’art. 615 ter, poichè le due fattispecie criminose si pongono in stretta connessione, tutelando entrambe il medesimo bene giuridico, ovvero il domicilio informatico, passando da condotte meno invasive a condotte più invasive, poichè indiscriminate, che, sotto un profilo naturalistico, necessariamente presuppongono le prime.
In generale, l’antefatto non punibile ricorre nei casi in cui la commissione di un reato meno grave costituisce ordinariamente strumento per la commissione di un reato più grave Esso (come la progressione criminosa ed il postfatto non punibile) non costituisce fattispecie autonomamente disciplinata, poichè rientra tra i casi di concorso apparente di norme da risolvere ai sensi dell’art. 15 c.p., attraverso una operazione interpretativa che impone la considerazione “congiunta” di due fattispecie tipiche, resa oggettivamente evidente dal fatto che per una di esse, destinata ad essere assorbita nell’altra, sia prevista una sanzione più lieve.
La giurisprudenza ha, in proposito, già chiarito che, nei casi in cui, al contrario, detta operazione interpretativa sembrerebbe sortire esito inverso, ovvero comportare l’assorbimento della fattispecie più grave in quella meno grave, l’assorbimento andrebbe negato, dovendosi ravvisare un intento di consentire, attraverso un effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi criminose, il regime del concorso dei reati. Invero, l’avere sottoposto a più benevolo trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la punisce è applicabile in concorso con l’altra, senza incorrere in duplicità di addebito.
Ad esempio, la Cassazione è ferma nel ritenere che possa verificarsi l’assorbimento della contravvenzione del possesso ingiustificato di arnesi atti allo scasso (art. 707 c.p.) nel delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose (art. 625 c.p., comma 1, n. 2) quando ricorra un nesso di immediatezza e strumentalità tra il possesso degli arnesi atto allo scasso ed il loro uso; perchè si verifichi questa situazione, occorre che:
1) gli strumenti siano stati effettivamente usati per la commissione del furto;
2) il loro possesso sia stato limitato all’uso momentaneo necessario per l’effrazione;
3) non vi sia stato distacco temporale e spaziale tra la commissione del furto e l’accertamento del possesso degli arnesi;
4) tali arnesi non siano di natura e quantità tali da assumere una rilevanza giuridica autonoma rispetto all’ambito di consumazione del delitto circostanziato.
Inoltre, in tema di furto di documenti, è stato escluso il concorso tra il reato di furto (art. 624 c.p.) e quello di falso per soppressione (art. 490 c.p.) nei casi in cui vi sia contestualità cronologica tra sottrazione e distruzione, e l’azione sia stata compiuta all’unico scopo di eliminare la prova di un diritto, in quanto, in tal caso, la sottrazione deve essere considerata come un antefatto non punibile, destinato ad essere assorbito nella condotta unitaria finalisticamente individuata dallo scopo unico che anima ab initio la coscienza e volontà dell’agente, e che caratterizza la fattispecie di cui all’art. 490.
In virtù di tali considerazioni, la Corte conclude che il meno grave – quoad poenam – delitto di cui all’art. 615 quater, non possa concorrere con quello, più grave, di cui all’art. 615 ter, del quale costituisce naturalisticamente un antecedente necessario, sempre che quest’ultimo – come nel caso di specie – sia contestato, procedibile (la fattispecie di reato prevista dall’art. 615 ter, comma 1, non aggravata, è, diversamente dalle fattispecie aggravate di cui ai commi 2 e 3, procedibile a querela di parte; il reato di cui all’art. 615 quater è sempre procedibile d’ufficio) ed integrato nel medesimo contesto spazio-temporale in cui fu perpetrato l’antefatto, ed in danno della medesima persona fisica (titolare del bene protetto).
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Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 25538 secondo cui le fattispecie di lesioni e omicidio stradale sono disciplinate dal 589 bis e 590 bis che sono speciali rispetto agli artt. 589 e 590 c.p., in quanto si riferiscono a condotte tenute “con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale”. Di tale assetto normativo deve tenersi conto nell’interpretazione dell’art. 586, il quale dispone che, quando da un fatto preveduto come doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590, sono aumentate; ovvero dispone che il soggetto risponda, oltre che del delitto doloso commesso, anche, a titolo di colpa, dell’evento non voluto. Afferma dunque la Corte che l’art. 586 non prevede per ogni categoria di omicidio e lesioni colpose l’automatica applicazione dell’art. 589 e 590, ma solo che, qualora l’evento effettivamente cagionato sia sussumibile in tali disposizioni, le relative pene siano aumentate. Quando, invece, i fatti sono sussumibili nelle fattispecie speciali di cui agli artt. 589 bis e 590 bis, l’aumento di pena previsto dall’art. 586, non si applica, perchè esso trova applicazione solo se sono configurabili i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p..
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Lo stesso giorno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 25558 che, in tema di reato di cui all’art. 600-quater c.p., afferma come all’indomani delle modifiche legislative di cui alla L. n. 38 del 2006possono configurarsi due condotte: il procurarsi ed il detenere.
Prima della riforma, la norma puniva le condotte, tra loro alternative, del procurarsi, che implica qualsiasi modalità di procacciamento compresa la via telematica, e del disporre, che implica un concetto più ampio della detenzione, allo scopo di rendere la norma sicuramente applicabile anche al possesso di immagini pedopornografiche ottenute mediante l’accesso a siti internet opportunamente protetti. Tutte le attività, telematiche o non, idonee a fare ottenere il materiale pedopornografico al detentore integravano la nozione del procurarsi.
Ora la fattispecie prevede due modalità della condotta e segnatamente il procurarsi e il detenere. Detiene il materiale pedopornografico colui che in precedenza se l’è procurato. Non v’è dubbio che le due forme con cui può manifestarsi detenere ed il procurarsi, anche se sembrano tra loro alternative, hanno tuttavia un elemento comune che è costituito dalla detenzione sia pure momentanea del materiale pedopornografico in capo a colui che se lo procura.
Dai principi dianzi esposti, emerge che non si tratta di due reati diversi, ma di due diverse modalità di perpetrazione del medesimo reato e quindi le due condotte non possono concorrere tra di loro. Esse hanno un elemento comune, che è costituito dalla disponibilità ossia dalla detenzione del materiale pedopornografico. La condotta di procurarsi si consuma al momento dell’accesso sulla rete mentre quelle di detenzione ha carattere permanente e si consuma nel momento in cui perde la disponibilità – di norma – con il sequestro. Invero, il comportamento di colui il quale, dopo essersi procurato materiale pedopornografico, lo detiene, configura un reato commissivo permanente la cui consumazione inizia con il procacciamento del materiale e si perpetua per tutto il tempo in cui permane in capo all’agente la disponibilità del materiale e, quindi, l’illiceità della condotta.
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Il 17 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 26604 che dà continuità all’orientamento secondo cui il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica, diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate, in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello “ius excludendi alios“, anche in relazione alle modalità che regolano l’accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l’alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto.
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Il 1° luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 28364 onde il d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4 prevedono due reati caratterizzati dalla medesima condotta e dalla mancata autorizzazione di cui all’art. 17, che tuttavia si distinguono per l’oggetto materiale della condotta e per la pena comminata. Si tratta comunque di reati autonomi e pertanto nel caso in cui un medesimo comportamento abbia ad oggetto sia le sostanze stupefacenti di cui alla tabella I che quelle di cui alla tabella II, si avranno reati distinti con possibile continuazione, dal momento che le condotte non sono alternative e non sono quindi inquadrabili in un rapporto di assorbimento reciproco. Al contrario, nel caso in cui un soggetto ponga in essere condotte contestuali inerenti a sostanze della medesima specie avremo un unico reato.
Pertanto, in materia di reati concernenti sostanze stupefacenti, in presenza di più condotte riconducibili a quelle descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, quando unico è il fatto concreto che integra contestualmente più azioni tipiche alternative, le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell’ipotesi più grave; quando invece le differenti azioni tipiche sono distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono distinti reati concorrenti materialmente.
La norma in esame è infatti a più fattispecie e pertanto il reato è configurabile allorchè il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste e deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto ed aventi come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente.
Tuttavia, affinchè si realizzi detto assorbimento è necessario che il dato quantitativo ed il contesto temporale siano i medesimi. Ed infatti, in base a quanto affermato dalla Cassazione (Cass. Sez. 4, n. 9496 del 31/01/2008), le diverse condotte previste dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, in alternatività formale tra loro, perdono la loro individualità quando si riferiscano alla stessa sostanza stupefacente e siano indirizzate ad un unico fine, talchè, se consumate senza un’apprezzabile soluzione di continuità, devono considerarsi come condotte plurime di un unico reato e, al fine della determinazione della competenza per territorio, deve farsi riferimento al luogo di consumazione della prima di esse. Nello specifico la Corte di Cassazione ha ritenuto inesistente il concorso formale di reati sia qualora il soggetto detenga la droga per uso personale e contestualmente la porti con sè, sia qualora egli contestualmente detenga e venda la sostanza stupefacente, ritenendo in tal caso che le condotte illecite minori perdono la loro individualità per essere assorbite nell’ipotesi più grave.
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Il 4 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 29294 onde il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art.424 cod.pen.) e quello di incendio (art. 423 cod.pen.) è segnato dall’elemento psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art.423 cod.pen. esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta. Il reato di cui all’art. 424 cod.pen. è, invece, caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento.
Sussiste, pertanto, il delitto di incendio di cui all’art. 423 cod.pen. quando l’azione di appiccare il fuoco è finalizzata a cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e per la loro violenza, tendano a propagarsi in modo da creare effettivo pericolo per la pubblica incolumità. Viceversa, sussiste il delitto di danneggiamento seguito da incendio allorché il fatto viene realizzato con il solo intento, e cioè con il dolo specifico, di danneggiare la cosa altrui.
Tuttavia, nell’ipotesi in cui l’agente, pur proponendosi di danneggiare la cosa altrui, abbia realizzato, per i mezzi usati e per la vastità e le dimensioni del risultato raggiunto, un incendio di proporzioni tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità, deve rispondere del delitto di incendio doloso e non già del meno grave reato di danneggiamento seguito da incendio.
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Il 22 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 32733 che si pone in continuità con l’orientamento secondo cui il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore.
In particolare, nella ricettazione viene incriminato l’acquisto e più in generale la ricezione (ovvero l’intromissione in tali attività) di cose provenienti da reato, l’art. 474 c.p. sanziona invece la detenzione per la vendita o comunque la messa in circolazione di beni con marchi o segni contraffatti e non contempla il momento dell’acquisto; l’azione raffigurata nella prima norma è istantanea, mentre la detenzione a fini di vendita è permanente ed interviene successivamente; dal raffronto tra le due norme emerge dunque che le condotte delineate sono ontologicamente nonchè strutturalmente diverse e che esse non sono neppure contestuali, essendo ipotizzabile una soluzione di continuità anche rilevante; nè varrebbe assumere che l’una presuppone l’altra: infatti, se la detenzione implica per sua natura un’apprensione, questa non integra sempre la ricettazione, ben potendosi verificare un acquisto senza la consapevolezza del carattere contraffatto dei segni (elemento essenziale della ricettazione), con posticipata presa di conoscenza e deliberazione di porre in circolazione i relativi prodotti. In tal caso la ricettazione non sarà addebitabile, non certo perchè vi sia concorso apparente di norme, bensì perchè gli estremi della medesima non risultano realizzati; di converso potrebbe accadere che la ricezione del bene con marchio contraffatto integri detto reato, ma non si addivenga all’altro ed allora è ovvio che si risponderà solo di ricettazione.
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Il 18 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 38551 secondo cui ai fini dell’integrazione del delitto di usura non è richiesta una condotta induttiva da parte di chi pone in essere la condotta usuraria, rilevando unicamente l’usurarietà oggettiva delle condizioni pattuite (a nulla rilevando anche che esse siano state volontariamente accettate dalla p.o.), in quanto il nucleo essenziale dell’elemento oggettivo consiste ora nel «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità», non «nell’indurre taluno a farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità».
A riprova della correttezza di tale assunto, si ammette pacificamente in dottrina che, ai fini dell’integrazione del reato di usura, nonostante il fatto che la formulazione legislativa «si fa dare o promettere» sembri presupporre l’iniziativa dell’usuraio, non rileva neppure il fatto che l’iniziativa di dare il via alla negoziazione usuraria sia stata presa (non dall’usuraio, bensì) dal soggetto che ha necessità del prestito (come invero accade nella gran parte dei casi di usura): invero, la ratio dell’incriminazione risiede, all’evidenza, nell’esigenza di impedire le pattuizioni ad usura, e, come concordemente chiarito dalle più autorevoli dottrine, non vi è alcuna ragione sostanziale per ritenere che l’usura implichi una iniziativa del soggetto attivo e per escludere il delitto nei casi, fra l’altro statisticamente più frequenti, in cui sia la vittima a rivolgersi all’usuraio.
D’altro canto, mai la giurisprudenza ha riconosciuto rilevanza, ai fini dell’integrazione del reato, al fatto che l’iniziativa sia stata presa dall’una piuttosto che dall’altra parte della negoziazione usuraria.
Prosegue la Corte affermando che l’ assunto secondo cui per l’integrazione del reato di truffa sarebbe necessario che l’imputato abbia compiuto pressioni per indurre la parte offesa ad accettare il prestito a condizioni da usura confonde il delitto di usura con quello di estorsione.
Infatti, ai fini dell’integrazione del reato di usura, non assume rilievo il fatto che le condizioni da usura siano state volontariamente accettate dalla p.o..
È stato infatti chiarito che la condotta tipica del reato di usura non richiede che il suo autore assuma atteggiamenti intimidatori o minacciosi nei confronti del soggetto passivo, atteso che tali comportamenti caratterizzano la diversa fattispecie dell’estorsione; ed è stato inoltre chiarito che i delitti d’usura e di estorsione possono concorrere ove la violenza o la minaccia, assenti al momento della stipula del patto usurario, siano in un momento successivo impiegate per ottenere il pagamento dei pattuiti interessi o degli altri vantaggi usurari: diversamente, sussiste il solo reato di estorsione ove la violenza o la minaccia siano usate ab initio al fine di ottenere la dazione dei suddetti vantaggi.
Invero, il reato di usura, che rientra tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, si distingue dall’estorsione, che rientra tra i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, perché, ai fini dell’integrazione della sua materialità, non occorre che il soggetto attivo ponga in essere, in danno di quello passivo, una violenza o minaccia.
Ne consegue che:
– quando la violenza o la minaccia vengano poste in essere dal soggetto attivo per «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità» risulterà integrato il solo reato di estorsione, in virtù dell’elemento specializzante della violenza o minaccia per indurre il soggetto ad accettare la pattuizione usuraia, non l’usura, che sarebbe integrata dalla mera dazione o promessa, del tutto “spontanea” (quindi, non indotta dalla coercizione) di “interessi o altri vantaggi usurari”: in tal caso, infatti, l’agente, con violenza o minaccia, perché procura a sé un ingiusto profitto consistente nell’ottenere un vantaggio (interessi usurari) vietato dalla legge;
– l’usura e l’estorsione possono, tuttavia, concorrere, nel caso in cui la violenza o minaccia sia esercitata in un momento successivo rispetto all’iniziale pattuizione usuraia, ovvero al fine di ottenere l’ingiusto profitto consistente nella corresponsione dei pattuiti “interessi o altri vantaggi usurari” che il soggetto passivo non possa o non voglia più corrispondere.
Vengono, pertanto, affermati i seguenti principi di diritto:
«Ai fini dell’integrazione del reato di usura, non occorre che l’iniziativa di instaurare la negoziazione sia stata presa dall’usuraio, e non rileva che la conclusiva pattuizione connotata da usura sia stata accettata dalla vittima senza subire pressioni, poiché la ratio dell’incriminazione s’incentra sul carattere oggettivamente usurario della pattuizione»;
«è configurabile il reato di usura o di estorsione a seconda che l’iniziale pattuizione usuraria sia stata spontaneamente accettata dalla vittima, ovvero accettata per effetto della violenza o minaccia esercitata dal soggetto attivo; i due reati possono concorrere quando la violenza o la minaccia siano esercitate al fine di ottenere il pagamento degli interessi pattuiti o degli altri vantaggi usurari».
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Il 12 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 50395 che richiama il consolidato orientamento secondo cui integra il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, penetri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi. L’art. 640-ter cod. pen. sanziona invero al primo comma la condotta di colui il quale, “alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. In questa ipotesi dunque, attraverso una condotta a forma libera, si “penetra” abusivamente all’interno del sistema, e si opera su dati, informazioni o programmi, senza che il sistema stesso, od una sua parte, risulti in sè alterato.
L’elemento specializzante, rappresentato dall’utilizzazione ‘fraudolenta’ del sistema informatico, costituisce presupposto ‘assorbente’ rispetto alla ‘generica’ indebita utilizzazione dei codici d’accesso disciplinata dall’art. 55 n. 9 D.Lgs. n. 231/2007, approdo ermeneutico che si pone in linea con l’esigenza di procedere ad una applicazione del principio di specialità secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la “ratio” delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Aggiunge la Corte, richiamando altri precedenti, che sussiste il reato di cui all’art. 640 ter cod.pen. quando “la condotta contestata è sussumibile nell’ipotesi “dell’intervento senza diritto su (…) informazioni (…) contenute in un sistema informatico”. Infatti, anche l’abusivo utilizzo di codici informatici di terzi (“intervento senza diritto”) – comunque ottenuti e dei quali si è entrati in possesso all’insaputa o contro la volontà del legittimo possessore (“con qualsiasi modalità”) – sarebbe idoneo ad integrare la fattispecie di cui all’art. 640 ter c.p. ove quei codici siano utilizzati per intervenire senza diritto su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico, al fine di procurare a sé od altri un ingiusto profitto”.
Gli elementi che rilevano ai fini dell’inquadramento del delitto di cui all’art. 640 ter cod.pen. attengono quindi in modo specifico a un quid pluris che la condotta sanzionata da tale norma esige, allorché menziona l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico, ovvero l’intervento senza diritto con qualsiasi modalità sui dati o sui programmi contenuti in un sistema informatico o telematico, giustificando con ciò le formule adoperate in giurisprudenza di “utilizzazione ‘fraudolenta’ del sistema informatico”, “abusivo utilizzo di codici informatici di terzi”, frode nella captazione del codice di accesso con una carta di credito falsificata.
Integra infatti il reato di indebita utilizzazione di carte di credito di cui all’art. 55, comma nono, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 e non quello di frode informatica di cui all’art. 640-ter cod. pen., il reiterato prelievo di denaro contante presso lo sportello bancomat di un istituto bancario mediante utilizzazione di un supporto magnetico clonato, in quanto il ripetuto ritiro di somme per mezzo di una carta bancomat illecitamente duplicata configura l’utilizzo indebito di uno strumento di prelievo sanzionato dal predetto art. 55.
L’art. 640-ter cod. pen. sanziona invero al primo comma la condotta di colui il quale, “alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Di conseguenza, quando non vi sia un’alterazione di un sistema informatico o telematico, né un abusivo intervento sui dati di un siffatto sistema, bensì del reiterato prelievo di denaro contante presso lo sportello bancomat di una banca mediante l’abusivo utilizzo di supporti magnetici evidentemente donati, ciò sostanzia la fattispecie presa in considerazione e sanzionata dall’applicato art. 55, comma 9, D.Lgs n. 231/2007, che appunto punisce colui il quale utilizzi indebitamente – id est senza esserne titolare e senza l’autorizzazione dell’avente diritto -, a fine di profitto proprio o altrui, carte di credito o analoghi strumenti di prelievo o pagamento, non essendo revocabile in dubbio che il reiterato ritiro di somme di denaro a mezzo di una carta bancomat illecitamente duplicata sostanzi un utilizzo indebito a fine di profitto di uno strumento di prelievo.
In realtà la sanzione più elevata e la procedibilità d’ufficio riferite al delitto di cui all’art. 55, comma 9, D.Lgs n. 231/2007, oggi entrato nel codice penale come art. 493 ter, sono del tutto coerenti e ragionevoli, per le ragioni che seguono.
Quanto al bene giuridico tutelato, le due fattispecie incriminatrici appaiono ispirate a finalità protettive diverse: l’art. 55 del d.lgs. 231/2007, figura criminosa già delineata dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991, tutela accanto all’offesa al patrimonio individuale, l’aggressione agli interessi di matrice pubblicistica di assicurare il regolare svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi sostitutivi del contante, e quindi evoca in termini generali le categorie dell’ordine pubblico economico e della fede pubblica. Tale disposizione attua peraltro il piano legislativo finalizzato a dare seguito alla direttiva 2005/60/CE, sulla prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.
L’art. 640 ter c.p., invece, è stato collocato tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, con ciò rinviando anche letteralmente alla tutela del bene giuridico costituito dal patrimonio, pur se è innegabile, dalla descrizione della condotta incriminata, che la tutela investa anche il regolare funzionamento dei sistemi informatici, oltre alla riservatezza dei dati ivi contenuti.
Benché i beni oggetto di tutela siano in apparenza diversi, entrambe le norme sembrano proteggere al tempo stesso il patrimonio del soggetto titolare della carta di credito, utilizzata senza diritto da un terzo. Sotto il profilo storicotemporale, emerge come l’introduzione delle due norme ricada in un intervallo di tempo contenuto, apparentemente incompatibile al concorso apparente di norme e senza una previsione di clausole di riserva che, al di là del principio di specialità, autorizzino un rapporto di valore tra diverse disposizioni incriminatrici.
2020
L’11 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 17935, alla stregua della quale il reato di atti persecutori assorbe la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., sempre che i singoli comportamenti molesti costituiscano segmenti di un’unitaria condotta, sorretta dal medesimo coefficiente psichico, consistente nella volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.
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Il 16 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 18322, che ha rimarcato la differenza tra il reato di bancarotta fraudolenta documentale e quello di bancarotta impropria da reato societario, ricorrendo il primo in ipotesi di omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili (nella cui nozione non rientra il bilancio), ove tali condotte impediscano o rendano difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento della società fallita, mentre il secondo in presenza di eventuali omissioni nei bilanci, sussistendone i presupposti: di conseguenza, i reati in esame possono eventualmente concorrere.
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Il 6 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 27598 onde le condotte descritte dall’art. 600 bis c.p. – induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – possono concorrere tra loro, in quanto il comma 1 della disposizione citata, anche dopo le modifiche introdotte dalla l. n. 172/2012 – è norma a più fattispecie tra loro distinte e costituite da elementi materiali differenti in rapporto alla condotta ed all’evento.
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Il 23 ottobre esce la Sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 29541, che si è pronunciata in ordine alle seguenti questioni di diritto:
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento”;
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutela bi le”.
- L’ordinanza di rimessione ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p., peraltro circoscritto soltanto ai casi “in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria”, tra i quali rientrerebbe quello in esame, ritenendo pacificamente configurabili come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela; sarebbero, in proposito, emersi due macro-orientamenti:
(a) il primo distingue i predetti reati valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo della materialità;
(b) l’altro li distingue valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo dell’elemento psicologico.
Nell’ambito di quest’ultimo orientamento, alcune decisioni valorizzano come elemento distintivo soltanto la direzione della volontà dell’agente alla soddisfazione del credito, altre ritengono che le modalità della condotta, e dunque l’intensità della violenza e della minaccia, rilevino ai fini della prova del dolo dell’estorsione.
Entrambi gli orientamenti presuppongono l’esistenza di un concorso apparente di norme e, dunque, di un reato “con capacità assorbente”, senza prendere in esame la possibilità del concorso formale tra i reati, che potrebbe trovare plausibile legittimazione, secondo l’ordinanza di rimessione, “nella diversa collocazione sistematica delle norme che prevedono i reati di estorsione e di esercizio arbitrario e nella diversità dei beni giuridici tutelati”.
Inoltre, considerato che, nel caso di specie, la minaccia estorsiva sarebbe stata profferita dal creditore G., confermata dal F. (terzo estraneo) e ribadita dal P. (anch’egli terzo estraneo), la Seconda sezione ha rilevato l’esistenza di un ulteriore contrasto giurisprudenziale, riguardante la configurabilità del concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), che l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità colloca tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, con la conseguenza che, se la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, agente su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie; nei casi in cui la condotta tipica sia invece posta in essere da chi intenda “farsi ragione da sé medesimo” sarebbe, al contrario, configurabile il concorso (“per agevolazione”, od anche “morale”) dei terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Questo orientamento, che “indirizza chiaramente verso la qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che la condotta violenta sia posta in essere da un terzo, sebbene su mandato del titolare del diritto che si intende soddisfare”, non è condiviso dal collegio rimettente, essenzialmente perché l’art. 393 c.p. (come d’altro canto l’art. 392 stesso codice) indica il soggetto attivo del reato con il termine “chiunque”, e ciò indicherebbe “che ci si trov(i) al cospetto di un “reato comune”, come risulta confermato dal fatto che gli elementi costitutivi del reato (pretesa giuridicamente tutelabile in sede giudiziaria; violenza o minaccia) non riguardano, nè richiamano la qualifica o la qualità del soggetto agente”.
- Per ragioni di ordine logico, è opportuno esaminare per prima la questione controversa riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
- La dottrina ha osservato che il reato proprio “trova la propria genesi storica e ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità” e si caratterizza perché il soggetto che ha una particolare qualifica acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica, alternativamente:
– lo pone in rapporto col bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata;
– gli conferisce la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata;
– rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena;
– limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore (come accade in favore della sola madre in relazione al reato d’infanticidio).
Esso non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) se ed in quanto trovi ragionevole giustificazione nella tutela di interessi tali da legittimare, a seconda dei casi, il trattamento deteriore o di favore.
- L’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni risponde ad una esigenza istintivamente avvertita dalle coscienze dei popoli sin dai primordi del diritto penale: il diritto romano incriminava l’impossessamento delle cose del proprio debitore contro la volontà di quest’ultimo e la sottrazione violenta della propria res posseduta da terzi; il diritto intermedio puniva, in linea di principio, l’impossessamento violento della cosa propria posseduta, anche se illegittimamente, da terzi e l’uso delle armi per farsi giustizia, pur tollerando talora l’impiego delle armi per la rivendicazione dei propri diritti.
Si trattava, peraltro, di fattispecie non paragonabili al tipo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni inteso nel senso moderno.
5.1. Il precedente immediato degli artt. 392 e 393 c.p. è costituito dall’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, a sua volta promanante dall’art. 146 del codice toscano del 1853 e dall’art. 286 e segg. del codice penale sardo-italiano del 1859.
5.2. Con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle cose oppure alle persone), la dottrina è divisa.
La dottrina tradizionale qualificava i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati comuni, che potevano essere commessi da “chiunque” agisse come privato (e non come pubblico ufficiale et c.) e non avesse il possesso della res oggetto di contesa, e precisava che “insieme con colui che agisce per esercitare un preteso diritto possono concorrere persone che non abbiano alcun preteso diritto da far valere. Costoro, nondimeno, rispondono dello stesso titolo delittuoso, in base alle norme generali sulla compartecipazione criminosa”.
Parte minoritaria della dottrina più recente ha ribadito l’orientamento, essenzialmente valorizzando il termine “chiunque” con il quale gli artt. 392 e 393 c.p. indicano il soggetto attivo dei predetti reati; analoga argomentazione è posta dall’ordinanza di rimessione a fondamento del manifestato convincimento che i reati in oggetto siano “comuni” e non propri”.
L’orientamento senz’altro dominante in seno alla dottrina più recente ritiene, al contrario, che i reati in oggetto abbiano natura di reato proprio, potendo essere commessi unicamente dal titolare del preteso diritto, dal soggetto che eserciti legittimamente in sua vece il predetto diritto e dal negotiorum gestor; si è, talora, precisato che il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve avere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio.
5.3. La prime decisioni giurisprudenziali intervenute in argomento (Cass. 25 luglio 1934, Landinia, Giust. pen., 1935, II, 799; Cass. 17 giugno 1936, Rainieri, Giust. pen., 1936, II, 1068) avevano ritenuto che “il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui”.
Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto “qualificato”, ovvero il titolare del preteso diritto azionato, è stato in seguito costantemente ribadito.
È stata ammessa la configurabilità dei reati in oggetto anche nei casi in cui il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, a condizione che quest’ultimo non sia animato da finalità proprie: in particolare, Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533 riconobbe che soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare (nel caso esaminato, l’imputata aveva consumato il delitto esercitando, nella sua qualità di coniuge, una pretesa di natura reale vantata dal consorte e nell’interesse di questo ultimo); secondo Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469, “ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., riconosciuto che l’agente può operare anche a vantaggio di un terzo, non è necessario che l’interessato abbia conferito mandato o dato informale incarico al soggetto di operare per suo conto, nè che la ragione vantata sia effettivamente realizzabile in giudizio (è sufficiente, infatti, il convincimento della legittimità della pretesa), nè è richiesta l’impossibilità per l’interessato di far valere personalmente il proprio diritto”; nel medesimo senso, si è anche ritenuto che “il reato di “ragion fattasi” di cui all’art. 393 c.p. non è escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di negotiorum gestor e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato” (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; conformi, Sez. 6, n. 14335 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728: fattispecie relativa all’arbitrario esercizio di un diritto del quale era titolare il coniuge del soggetto agente; Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668; Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415: fattispecie in cui la violenza sulle cose era stata attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio dell’agente).
L’orientamento è stato più recentemente ribadito da Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623, per la quale “soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà” (principio affermato con riferimento ad un caso nel quale l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, aveva collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel potesse esercitare la servitù di elettrodotto).
- Queste Sezioni Unite ritengono che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni abbiano natura giuridica di reati propri.
6.1. La dottrina è pressoché concorde nel ritenere che attraverso l’incriminazione dei fatti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è stato perseguito “lo scopo di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari”, onde evitare “che il privato si faccia ragione con le proprie mani, compromettendo la pubblica pace”; coerentemente con tale ratio dell’incriminazione, “l’oggetto della tutela è stato ravvisato in un interesse pubblico, e precisamente nell’interesse dell’Autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri”, e le relative norme incriminatrici sono state collocate nel titolo del codice penale relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia.
6.2. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone.
Come pure evidenziato dalla dottrina, e come già emerso in seno alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, in motivazione), nel reato previsto dall’art. 392 c.p. ricorrono sempre o quasi gli estremi del fatto di danneggiamento (art. 635 c.p.), mentre in quello previsto dal successivo art. 393 sono configurabili in ogni caso gli estremi del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.): l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, tuttavia, punito meno gravemente dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti (salvo che nel caso del danneggiamento non aggravato, trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 4, comma 1), nonostante il fatto che, rispetto al danneggiamento previsto dal testo attualmente vigente dell’art. 635 c.p. ed alla violenza privata, in esso, alla lesione, rispettivamente, del patrimonio o della persona, si aggiunga l’offesa dell’interesse all’amministrazione della giustizia; inoltre, nonostante comporti anche la lesione di un interesse pubblico, esso è perseguibile non d’ufficio, ma a querela di parte, il che comporta che il danneggiamento e la violenza privata, ordinariamente procedibili d’ufficio, quando ledono una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, oltre ad essere puniti meno gravemente, diventano procedibili a querela di parte.
Può, pertanto, convenirsi con la dottrina che questa disciplina trova l’unica plausibile giustificazione nella considerazione che “il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena”; in proposito, un pur risalente precedente di questa Corte (Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113341) aveva osservato che, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente opera con il convincimento di esercitare un suo diritto, il che è avvertito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena ed importa che i delitti in oggetto vengano considerati dalla legge, nella loro essenza unitaria, come una forma attenuata di danneggiamento, nell’ipotesi di cui all’art. 392 c.p., o di violenza privata, in quella di cui all’art. 393.
La medesima ratio può ritenersi suscettibile anche di affievolire l’interesse statale all’esercizio della pretesa punitiva, destinato ad insorgere soltanto a seguito della tempestiva iniziativa del presunto debitore/querelante.
I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano, quindi, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe “ricorrere al giudice”, acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima.
6.3. Non costituisce apprezzabile ostacolo alla qualificazione dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri, l’indicazione, negli artt. 392 e 393 c.p., del soggetto attivo come “chiunque”, al contrario sic et simpliciter valorizzata da parte minoritaria della dottrina più recente e dalla stessa ordinanza di rimessione.
Per confutare l’assunto appare sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente “propri”, il soggetto attivo è normativamente indicato in “chiunque”: si pensi, per tutti, alla falsa testimonianza (art. 372 c.p.) ed addirittura all’incesto (art. 564 c.p.).
Il “chiunque” indicato dagli artt. 392 e 393 c.p. è, dunque, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto.
6.4. Secondo il tradizionale e consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, l’istituto della negotiorum gestio, previsto e disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., postula lo svolgimento di un’attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell’esclusivo interesse di un altro soggetto, caratterizzato dall’assoluta spontaneità dell’intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale egli sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Sez. 3, n. 23823 del 22/12/2004, Rv. 579141; Sez. 1, n. 16888 del 24/07/2006, Rv. 591617).
Sempre sotto il profilo civilistico, la legittimazione ad esercitare nel processo un diritto altrui è eccezionale (cfr. art. 81 c.p.c., a norma del quale, “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”).
6.4.1. Nella giurisprudenza penale di legittimità è talora emersa la preoccupazione che, legittimando incondizionatamente il terzo ad attivarsi in luogo del reale creditore, il debitore/vittima possa trovarsi esposto a danni ulteriori rispetto a quelli connaturali alle fattispecie di reato tipiche, perché “costretto a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio” (Sez. 5, n. 5193 del 27/02/1998, P.G., Lentini ed altri, Rv. 211492), potendo in tali casi ingenerarsi una situazione “che non avrebbe permesso alla vittima di ottenere garanzie dell’estinzione del proprio debito con il versamento sollecitato” (Sez. 6, n. 41329 del 19/10/2011, Di Salvatore, n. m., in motivazione).
6.4.2. Tutto ciò premesso, osserva il collegio che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere sponte da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d’intesa con il creditore, comporterebbe l’immotivata applicazione del previsto regime favorable, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela).
Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all’iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno (e salvo quello che si osserverà in seguito con riguardo ai rapporti tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione) gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata).
- Una volta affermata la natura di reato proprio dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, va affrontata la questione accessoria e consequenziale, ovvero se si tratti, o meno, di un reato proprio esclusivo, o di mano propria.
7.1. L’orientamento attualmente dominante nella giurisprudenza di questa Corte, premesso che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p. unicamente da “chiunque… si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”, ritiene che quest’ultima espressione induca a ritenere che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica deve essere posta in essere dal soggetto “qualificato”, ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore: di conseguenza, quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
L’assunto sarebbe corroborato dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può – in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) – essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; nel medesimo senso, pur implicitamente, Sez. 5, n. 5241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630; Sez. 2, n. 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285).
All’orientamento mostrano di aderire anche Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, n. m., e Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, P.M. in proc. Arnone, Rv. 271760, che ha configurato il reato di cui all’art. 393 c.p. con riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato (un avvocato nell’esercizio del proprio mandato professionale) aveva inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che avrebbero portato l’emissione di provvedimenti applicativi di misure cautelari nei confronti della controparte e del suo difensore, osservando che “il professionista che agisca nell’interesse di un cliente non può considerarsi “estraneo” alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo (…): l’avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa”.
7.2. Il riferimento al farsi ragione “da sé medesimo”, mai valorizzato dalla giurisprudenza tradizionale, è stato generalmente interpretato dalla dottrina come pleonastico.
Secondo la dottrina tradizionale, l’espressione “farsi ragione da sé medesimo” significa unicamente “realizzare con le proprie forze quella pretesa che l’agente ritiene giusta in sé: per rendersi, insomma, giustizia da sé stesso”; essa evocherebbe, quindi, “null’altro che la realizzazione dello scopo (di regola economico) al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta”.
Nell’ambito della dottrina più recente, si è ritenuto che l’espressione integri la materialità dei reati in oggetto, evocando o l’arbitraria realizzazione di una situazione di fatto corrispondente al preteso diritto, oppure l’impiego della forza privata per realizzare la pretesa; talora essa è stata interpretata in duplice accezione, “in un’ottica oggettivistica non è niente altro che il momento realizzativo dello scopo economico del diritto esercitato; in chiave soggettivistica l’autosoddisfazione è invece la affermazione unilaterale ed autoritaria di una situazione attualmente o potenzialmente favorevole al reo, tale da mostrarsi soltanto “congrua” rispetto al diritto al fine dell’esercizio del quale essa è realizzata”.
- L’orientamento che considera i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri esclusivi, o di mano propria, non può essere condiviso.
8.1. Il riferimento, per integrare la descrizione della fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, alla necessità che il soggetto che vanta il preteso diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, già esistente nell’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, è stato mutuato dall’art. 146 del codice toscano del 1853, in relazione al quale esso era stato pacificamente interpretato dalla dottrina come meramente descrittivo: “quando chi crede di avere una pretesa giuridica sostituisce la sua forza al potere del giudice, si fa ragione da sé medesimo. Perciò i giureconsulti toscani denominarono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ragion fattasi”.
I lavori preparatori del codice penale del 1889 non attribuiscono all’espressione un diverso significato: i verbali della Commissione istituita con R.D. 13 dicembre 1888 (cfr. intervento del relatore Auriti) confermano, anzi, che l’espressione “da sé medesimo” esprime unicamente “la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste”. I lavori preparatori del codice penale del 1930 sono, sul punto, assolutamente silenti.
Tali rilievi, che consentono di confermare il significato meramente pleonastico tradizionalmente attribuito all’espressione in oggetto, mai messo in discussione, unitamente alla genericità di essa, di per sé considerata, non consentono di avvalorare l’orientamento che la valorizza per argomentare la natura giuridica di reati propri esclusivi, o di mano propria, dei reati de quibus.
- Vanno ora esaminati i rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione.
9.1. Sin da epoca risalente, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che il criterio differenziale tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 c.p. consista nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo l’intenzione dell’agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un’utilità che ritiene spettargli, nonostante che il suo diritto sia contestato o contestabile, senza adire l’Autorità giudiziaria (Cass. 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679).
Ponendosi sulla scia di questo pur risalente insegnamento, in epoca successiva l’orientamento prevalente di questa Corte ha distinto i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto (Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285; Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966; Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344; Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192; Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228; Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204; Sez. 2, n. 6445 del 14/02/1989, Stanovich, Rv. 181179; Sez. 2, n. 5589 del 12/11/1982, dep. 1983, Rossetti, Rv. 159513).
Nell’ambito di questo orientamento, va anche collocata Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, Di Lauro, Rv. 271963, per la quale il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretesa giuridicamente azionabile: in tal caso, infatti, l’ingiusto profitto sussiste sia nel caso in cui il vantaggio ricercato dal reo coincida con il prezzo della liberazione, sia nel caso in cui detto vantaggio derivi dall’esecuzione di un pregresso rapporto illecito con la vittima del reato, trattandosi di una pretesa non tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria.
9.2. Altro orientamento ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza: di conseguenza, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia ed, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, di per sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità in cui essa risulti formulata denotino una prava volontà ricattatoria che le facciano assumere connotazioni estorsive (Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024; Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643; Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316; Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320; Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, P.G. in proc. Caruso, Rv. 262291; Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169; Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709; Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156).
9.2.1. Nell’ambito di questo orientamento è enucleabile un sotto-orientamento, ampiamente illustrato nell’ordinanza di rimessione, a parere del quale il delitto di estorsione sarebbe configurabile quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva; sarebbe, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che abbiano un epilogo “non costrittivo”, ma “più blandamente persuasivo” (così, più o meno pedissequamente, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837).
9.3. In dottrina, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente.
Le dottrine tradizionali avevano affermato che, nel caso in cui l’agente “non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di (..) esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione”, precisando che “spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto (…), non è che un pretesto per larvare l’estorsione”, ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare “molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente”; naturalmente, “pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussist(e) quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta”; si ammetteva che l’estorsione presentasse tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, “ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria”.
Altra dottrina ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni “richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica”; nel medesimo senso, la dottrina più recente afferma che “il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto”.
- Queste Sezioni Unite ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico.
10.1. La materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 c.p.: “usando violenza o minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, “che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno.
Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato”.
Cionondimeno, come già rilevato (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, in motivazione), la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità strutturale può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia mira ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.
D’altro canto, il riferimento all’effetto “costrittivo” della condotta appare, nella sistematica codicistica, piuttosto finalizzato a distinguere il reato di estorsione, previsto e punito dall’art. 629 c.p., da quello di rapina, previsto e punto dal precedente art. 628: come chiarito dalla stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul Libro I del Progetto del codice penale del 1930 (pag. 450), “premesso che in entrambe tali ipotesi delittuose la spogliazione in danno della vittima di consuma mercè violenza o minaccia, il Progetto coglie la nota differenziale dei due delitti negli effetti della coercizione usata, riscontrando la rapina, se l’agente s’impossessa egli stesso della cosa altrui, e l’estorsione, se la persona, a cui la violenza o la minaccia è diretta, è obbligata a consegnare la cosa”.
Il criterio è stato pacificamente accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, che distingue correntemente le due fattispecie proprio osservando che, nella rapina, il reo sottrae la res esercitando sulla vittima una violenza od una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo, che è soltanto “costretto” a determinarsi come gli viene imposto dal soggetto agente, ma potrebbe determinarsi diversamente (così Sez. 2, n. 44954 del 17/10/2013, Barillà, Rv. 257315).
10.2. Come già evidenziato, tra le altre, da Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss. e Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375, sia l’art. 393 c.p., comma 3, che l’art. 629 c.p., comma 2, (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata “se la violenza o minaccia è commessa con armi”, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco: è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero “costrittiva”, e comunque “sproporzionata”, rispetto al fine perseguito.
Detto riferimento appare decisivo, atteso che, secondo il contrario orientamento, siffatta condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è.
10.3. La stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, pur in estrema sintesi (pag. 158), osserva che la fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è “comprensiva d’ogni specie di violenza, fisica o morale”, senza attribuire, quindi, alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia profferita.
10.4. È stato, infine, già evidenziato da questa Corte (Sez. 6, n. 45064 del 12/06/2014, Sevdari, in motivazione) che “le norme sostanziali poste a confronto non contengono alcuna gradazione (nè “verso l’alto” nè “verso il basso”) delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa, e che le fattispecie si distinguono in base al solo finalismo della condotta medesima, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell’altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l’incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto”: risulta, pertanto, evidente la “carenza di tipicità che si connette all’enucleazione, in assenza di qualsiasi segnale linguistico, di una sottofattispecie delle nozioni di violenza e minaccia, così “gravemente intimidatorie” da connotare ex se di ingiustizia qualunque finalismo, e dunque sostanzialmente da annullare la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall’estorsore”.
10.5. Deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
10.5.1. Ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362).
Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967).
Detta verifica, come pure è stato già osservato, è preliminare: “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito – che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo” (Sez. 2, n. 52525 del 10/11/2016, D.V., rv. 268764). In applicazione del principio, è già stata, ad esempio, ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2, n. 9931 del 09/03/2015, Iovine, Rv. 262566; Sez. 2, n. 26235 del 12/05/2017, Nicosia, Rv. 269968).
10.5.2. Orientamenti risalenti della giurisprudenza di questa Corte (Cass. 23 gennaio 1952, Costa, Riv. it. dir. pen., 1952, 419; Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113338) e parte della dottrina tradizionale, premesso che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 393 c.p., la legge richiede soltanto l’uso della violenza o minaccia alla persona, avevano ritenuto non necessario che la persona rimasta vittima della violenza o della minaccia fosse quella in conflitto d’interessi con l’agente, poiché si dovrebbe avere riguardo non tanto e non solo alla persona verso la quale si indirizza la violenza o la minaccia, “ma al nesso di mezzo al fine che tra il fatto violento o la minaccia e il proposito di farsi ragione da sé deve ricorrere”, con l’ulteriore conseguenza che il reato, sempre che un tale nesso sia riscontrabile, sarebbe completo in tutti i suoi elementi anche se la violenza o minaccia siano dirette non contro l’antagonista del soggetto attivo, ma contro altra e diversa persona.
L’orientamento può ritenersi ormai superato, e comunque non condivisibile: proprio in considerazione del fatto che la sussistenza del requisito della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo è diretta va verificata preliminarmente (poiché commette il reato di cui all’art. 393 c.p. “chiunque” possa ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto), risulta evidente che l’agente non potrebbe azionare in giudizio la sua pretesa chiamando in causa, in garanzia, e senza titolo alcuno, i terzi oggetto di viiolenza o minaccia.
Come già correttamente ritenuto, in più occasioni, da questa Corte, è, pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Immordino, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio).
10.5.3. Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.
- L’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione vanno accertati secondo le ordinarie regole probatorie: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.
Questa Corte è, infatti, ferma nel ritenere, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che “il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante”, e, di conseguenza, “le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.”, ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320).
11.1. Un orientamento ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” (già D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 c.p.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628).
11.1.1. L’orientamento non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 c.p. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. “metodo mafioso”, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione.
- A ben vedere, il denunciato contrasto di orientamenti riguardante la distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risulta più apparente che reale.
12.1. Limitando la disamina che segue alle decisioni più recenti e significative, nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 35563 del 17/07/2019, Russo, Rv. 277316, il creditore, agendo con metodo mafioso, aveva dato alle fiamme una minipala nel giardino di una villa di proprietà della persona offesa, con il rischio che il fuoco si propagasse anche all’immobile, arrecando un danno ben superiore rispetto all’entità del credito vantato: in siffatta situazione, l’impiego del metodo mafioso, che aveva comportato l’attuazione della pretesa in forme che, richiamando alla mente del soggetto passivo il potere di intimidazione dell’associazione criminale e la promessa di passare ad ulteriori e più gravi danneggiamenti, ed il rischio di cagionare al debitore danni sproporzionati rispetto all’entità del debito, senz’altro esorbitanti rispetto al fine di ottenere il pagamento del credito ed idonei ad annichilire le capacità di reazione della persona offesa, integravano certamente il necessario dolo di estorsione.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425, la stessa decisione dà preliminarmente atto che l’imputato non vantava alcun credito ragionevolmente azionabile nei confronti del debitore, e tale rilievo risultava senz’altro assorbente.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore “una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perché a suo dire “bisognava pagare i ragazzi” (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa)”: a prescindere dal fatto che “le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia”, pure valorizzato, in realtà risultava preliminare il rilievo che l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito (anche) la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese – per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria – finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come “tangente” per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, “fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di Casal di Principe) e venne anche prospettata (..) la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa)”: i soggetti agenti avevano, quindi, perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal ragionevole intento di trovare soddisfazione di un preteso diritto.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255, i contratti preliminari rispetto ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.oo. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, “erano stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della (…) s.r.l. ma dagli originari soci della stessa (…); occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati (…)”: i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 19230 del 03/05/2013, Palazzotto, Rv. 256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.), “in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sé non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo”: l’estrema invasività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica.
12.2. Anche il riferimento, come criterio per distinguere i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dall’estorsione, all’effetto “costrittivo” della condotta di estorsione, pur essendo stato in più occasioni enunciato, non è stato mai concretamente e decisivamente valorizzato, poiché, in tutte le sentenze che lo hanno accolto, la pretesa azionata dal presunto creditore non sarebbe stata in realtà azionabile in giudizio:
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837, il credito del quale si pretendeva soddisfazione non era esigibile, “tenuto conto dei vincoli imposti da Equitalia sui beni della vittima”;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123, il terzo incaricato della riscossione aveva agito per la soddisfazione di un credito rispetto al quale era già stata esperita una infruttuosa azione esecutiva, e quindi – attraverso la condotta contestata – pretendeva inammissibilmente di aggredire le cc.dd. res sacra miseris;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469, attraverso la condotta contestata, il creditore aveva richiesto la corresponsione di interessi usurari, pretesa certamente non azionabile in giudizio.
- Alla luce della disamina che precede, possono essere esaminate le connotazioni del concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione.
13.1. La giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).
13.2. Questo orientamento va condiviso e ribadito.
Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati:
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo;
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.
Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.
Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
13.3. Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 c.p.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi (…) al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis c.p.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.
D’altro canto, questa Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117).
- Vanno conclusivamente enunciati i seguenti principi di diritto:
“i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo”;
“il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie”;
“il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità”.
- Così focalizzata la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ed il reato di estorsione, appare evidente che, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, non residui alcuno spazio per ipotesi di concorso formale, risultando le due fattispecie, proprio in relazione all’elemento psicologico, alternative: nei casi di concorso in estorsione, l’eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta, infatti, assorbito nel concorrente fine di profitto illecito dei terzi concorrenti.
- Può ora procedersi alla disamina dei motivi di ricorso dei ricorrenti, partendo da quelli comuni.
16.1. Con riguardo alla formulazione dei primi due motivi del ricorso F. , e di tutti i motivi dei ricorsi G. e P. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 e art. 546, comma 1, lett. e), per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lett. c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, la specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l’ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la “violazione di legge” di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), e ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali “stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza”, sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale.
D’altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l’assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti “dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (lett. e)), laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti.
Queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all’esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione.
Deve conclusivamente ritenersi che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
16.1.1. Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso F. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019, dep. 2020, Leone, Rv. 279059; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551).
Invero, l’inosservanza di disposizioni della Costituzione, non prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p., può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, nel caso di specie non proposta.
Analoga sorte incontra la censura riguardante la presunta violazione di disposizioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a sua volta proponibile in ricorso unicamente a sostegno di una questione di costituzionalità di una norma interna, poiché le norme della Convenzione EDU, così come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, rivestono il rango di fonti interposte, integratrici del precetto di cui all’art. 117 Cost., comma 1, (sempre che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti). Ma ancora una volta siffatta questione di legittimità costituzionale non risulta proposta in ricorso.
Deve, pertanto, ritenersi non consentito il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale.
16.1.2. Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso G. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, p.c. in proc. Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Monai, Rv. 264273; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, P.G. in proc. De Gennaro, Rv. 263326; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M: in proc. Altoè, Rv. 268404), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Tummarello, Rv. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano state comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la avessero sorretta; d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione.
Ne consegue che, in sede di legittimità, i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, non soltanto allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta, ma anche nel caso contrario, poiché, ove la soluzione di esse non sia giuridicamente corretta, sarà necessario dedurre come motivo di ricorso l’intervenuta violazione di legge.
Deve, pertanto, concludersi che i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, poiché quest’ultimo non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che essa sia corretta.
16.1.3. Con riguardo alla formulazione del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo del ricorso F. , è, infine, necessario ribadire che difetta della specificità richiesta dall’art. 581 c.p.p., comma 1 e art. 591 c.p.p. il motivo che deduca promiscuamente i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., commi, lett. e), (Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sardo, Rv. 254329; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, P.G. in proc. Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), se letto in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. d), evidenzia che non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ha quindi l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi, in parte qua, di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità.
Non è, pertanto, consentito il motivo di ricorso con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), ed in difetto di una espressa sanzione di inutilizzabilità, nullità, inammissibilità, decadenza.
- Ciò premesso in rito, è possibile passare all’esame delle doglianze comuni inerenti all’accertamento dei fatti contestati (primo e secondo motivo ricorso F.; primo motivo ricorso G.; primo motivo ricorso P. ).
17.1. La Corte di appello (come già il primo giudice) ha ritenuto accertato che:
– tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. e Gr.Ni. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate;
– Gr.Pi., sorella dell’imputato Gr.Ni. , aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. vantando vari diritti reali sul fondo permutato;
– la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. aveva chiamato in causa Gr.Ni. per esserne garantito, ed aveva nelle more non provveduto al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite, in attesa dell’esito della causa;
– il 12 aprile 2013 Gr.Ni. si era presentato senza preavviso presso il cantiere della Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., in compagnia di tali S. e N. (successivamente identificati per gli odierni coimputati P.S. e F.N. ): quest’ultimo riferiva ad A.A. e Gr.Gi. che il G. gli doveva settantamila Euro, e li invitava, pertanto, ad intestare sollecitamente al G. le villette promesse, onde consentirgli di venderle e saldare il debito; il G. confermava l’esistenza del debito, a sua volta insistendo per il trasferimento delle villette. L’A. ed il Gr. replicavano che il trasferimento non avrebbe avuto luogo fino a che la sorella del G. non avesse posto fine al contenzioso pendente, ma il soggetto di nome N. (F. ) insisteva nella pretesa, aggiungendo che, se non avessero adempiuto, “qualcuno si sarebbe fatto male”; nel dire ciò, aveva fatto capire di essere inserito in ambienti malavitosi (evocando una vicenda che lo aveva interessato: per vicende di ‘ndrangheta, aveva subito un sequestro di beni che gli erano poi stati restituiti), e si era offerto di fungere da intermediario con G.P. , conosceva da tempo, aggiungendo, con tono percepito dall’A. e dal Gr. come ironico ed intimidatorio, “che belle villette che state costruendo”.
Dal canto suo, l’altro ignoto visitatore (P.S. ) (non il F. , come erroneamente affermato dalla Corte di appello: cfr. f. 2 della sentenza di primo grado in riferimento alla denuncia delle pp.00.) aveva preso sotto braccio l’A. invitandolo a chiudere subito la faccenda.
Il Gr. aveva fotografato i due a loro insaputa mente discutevano con l’A. ; dopo qualche ora, verso le 14.20, l’A. era stato contattato sulla propria utenza cellulare dal predetto (F.N. ), il quale gli aveva comunicato di aver parlato con G.P. e con i suoi legali, e di avere risolto tutto; i tre odierni coimputati erano poi ritornati in cantiere, dove avevano trovato il solo Gr. , al quale N. (F. ) aveva riferito dell’ultimo colloquio avuto con l’A. ;
– il giorno successivo, l’A. ed il Gr. avevano denunciato l’accaduto alle forze dell’ordine.
17.2. Ciò premesso in fatto, osserva il collegio che l’incontro avvenuto il 12 aprile 2013 non era certamente stato casuale: il F. ed il P. avevano mostrato da subito di essere al corrente dei fatti, di necessità appresi dal G. , ed avevano immediatamente palesato il loro scopo: forzare l’adempimento della controprestazione delle pp.oo. onde trarre soddisfazione di un proprio interesse (l’adempimento di un credito vantato dal F. nei confronto del G. ; alle pp.oo. non era stata manifestata la circostanza menzionata dai ricorrenti – che anche il P. fosse creditore del G. ), formulando all’indirizzo delle pp.oo. espressioni incensurabilmente considerate dai giudici del merito minatorie.
Il G. aveva di necessità informato i complici dei fatti, li aveva accompagnati in cantiere, aveva confermato l’esistenza del proprio debito verso il F. ed era il beneficiario della condotta posta in essere; il P. con la sua presenza aveva necessariamente rafforzato la valenza delle minacce profferite dal F. in danno delle pp.00., attivandosi per parte sua in prima persona attraverso l’invito a risolvere la situazione in fretta.
Del tutto fisiologica è la mancata percezione di un profitto (della quale si duole in ricorso il P., essendo rimasta la condotta allo stadio del tentativo.
Infine, la Corte di appello ha specificamente esaminato i motivi di gravame degli imputati, incensurabilmente rilevandone la carenza di specificità (f. 4 della sentenza impugnata).
I motivi di ricorso sono, pertanto, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
- I motivi comuni inerenti alla qualificazione giuridica dei fatti accertati (terzo motivo ricorso F. ; secondo motivo ricorso G. ; secondo motivo ricorso P. ) sono infondati.
18.1. Si è premesso (cfr. § 10.5.1 di queste Considerazioni in diritto) che, ai fini della qualificazione di un fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone oppure come estorsione, è preliminare la verifica della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto alla cui soddisfazione l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo.
Nel caso di specie, all’esito di questa preliminare verifica emerge con evidenza che la pretesa azionata dal G. non sarebbe stata in alcun modo tutelabile in giudizio: di qui, la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti accertati come estorsione.
Secondo quanto accertato, ed in difetto di contestazioni degli imputati sul punto, tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., facente capo alle pp.oo., ed il G. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate; G.P. , sorella dell’imputato, aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. vantando vari diritti reali sul fondo permutato, e le odierne pp.00. avevano chiamato in causa il G. per esserne garantito, non provvedendo, in attesa dell’esito della causa, al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite.
In proposito, l’ordinanza di rimessione (f. 5) afferma che il G. aveva “una pretesa giudizialmente tutelabile dato che avrebbe potuto agire ex art. 2932 c.c. per ottenere l’adempimento del preliminare che obbligava la società ALDe.Gra. a cedergli “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà”, dimenticando di avere correttamente premesso a f. 2 che “la sorella del G. promuoveva un contenzioso civile che investiva la validità della permuta”.
La stessa Corte di appello (f. 4 della sentenza impugnata) aveva correttamente valorizzato il fatto che la sorella del G. avesse promosso contro la società facente capo alle pp.00. un contenzioso civile che investiva la validità della permuta, confermato dal tenore dei relativi atti allegati dagli stessi ricorrenti ai rispettivi ricorsi.
Ciò premesso, ritiene il collegio che, in presenza di un potenziale inadempimento del G. , che avrebbe dovuto cedere in permuta alle pp.oo. un fondo libero da vincoli, sul quale tuttavia la sorella P. vantava, al contrario, diritti reali di varia natura, era del tutto legittima la pretesa delle pp.oo. (documentalmente avvalorata dall’operata chiamata in causa) di non adempiere la propria controprestazione (inadimplenti non est adimplendum); al contrario, il G. non avrebbe avuto la possibilità di agire giudizialmente, con ragionevoli probabilità di successo, per ottenere dalle pp.oo. l’adempimento della pattuita controprestazione, fino a che il giudizio intentato dalla sorella P. in loro danno non si fosse concluso con la soccombenza dell’attrice.
Del tutto illegittima, perché neppure astrattamente tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria, era, quindi, la pretesa del G. di ottenere l’adempimento della controprestazione da parte delle pp.oo., intimidendole al fine di impedir loro di far valere l’inadempimento di controparte.
Si aggiunga, per completezza, che la condotta accertata avrebbe in ogni caso integrato gli estremi del concorso in estorsione, poiché i terzi F. e P. si erano arbitrariamente attivati, profferendo le accertate minacce, non nell’esclusivo interesse del creditore G. , bensì perseguendo anche un proprio ulteriore interesse (il soddisfacimento del credito vantato nei confronti del predetto coimputato G. ).
- Il quarto motivo del ricorso F. , il terzo motivo del ricorso G. ed il quarto motivo del ricorso P. , riguardanti la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.) sono, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
Richiamando quanto già evidenziato dal Tribunale (come è fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità), la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha argomentato la contestata statuizione valorizzando l’intervenuta formulazione di minacce allusive di chiaro stampo mafioso, formulate dal F. , ma alla presenza dei coimputati che mostravano all’evidenza di aderirvi (il G. anche quale beneficiario non dissenziente, il P. invitando le pp.oo. a far presto) da parte di persone sconosciute alle pp.oo., che avevano senza motivo evocato la propria provenienza geografica da luoghi nei quali operano notoriamente clan malavitosi, oltre che (attraverso il riferimento a pregresse vicende giudiziarie) la vicinanza ad essi.
La giustificazione fornita dal F. (e sostenuta dai coimputati) per aver evocato proprie pregresse vicende giudiziarie (a causa del sequestro di beni subito, la sua attività era bloccata ed aveva quindi tempo libero da dedicare alla vicenda Al.de.gra – G. ) è documentalmente smentita da quanto dalle pp.oo. immediatamente sin dal momento della denuncia, sporta il giorno dopo i fatti, e nella quale è precisato che lo stesso F. aveva detto loro che i beni gli erano già stati restituiti; ciò conferma, piuttosto, la valenza intimidatoria tipicamente “mafiosa” del riferimento, atto ad ingenerare nelle pp.00. il convincimento dell’impunità dello sconosciuto interlocutore proveniente da territori di ‘ndrangheta.
A fronte di tali rilievi, gli imputati si sono limitati a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti delle prove valorizzate.
- Privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati G. (secondo) e P. (terzo) concernenti la mancata configurazione della desistenza, essendo stata la condotta minatoria portata a compimento.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito che, nei reati di danno a forma libera, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento (Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, supino, Rv. 264226, specificamente in tema di estorsione; conformi, Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio, Rv. 272677; Sez. 5, n. 50079 del 15/05/2017, Mayer, Rv. 271435).
- Ugualmente privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il complessivo trattamento sanzionatorio (quinto motivo ricorso F. ; quarto motivo ricorso G. ; quinto motivo ricorso P. ), in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni, valorizzando la premessa estrema gravità del reato, nonché l’assenza di decisivi elementi sintomatici della necessaria meritevolezza, che:
– il ricorso F. trae da elementi al contrario irrilevanti (l’incensuratezza lo è, dal 2009, per legge; la mancata pervicacia nel perseguire il fine di profitto è dovuta alla tenacia delle pp.oo., che sporsero prontamente denuncia);
– il ricorso G. ed il ricorso P. non indicano convincentemente. Questa Corte ha, infine, già chiarito che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non può fondarsi sulla scelta da parte dell’imputato di definire il processo nelle forme del rito abbreviato, che implica ex lege l’applicazione di una predeterminata riduzione della pena, poiché in caso contrario la stessa circostanza comporterebbe due distinte determinazioni favorevoli all’imputato (Sez. 3, n. 46463 del 17/09/2019, Di Puccio, Rv. 277271; Sez. 2, n. 24312 del 25/03/2014, Diana, Rv. 260012).
Nel complesso, si è comunque pervenuti per tutti all’irrogazione di pene estremamente miti, perché ben lontane dai possibili limiti edittali massimi, ed anzi prossime a quelli minimi.
- Vanno ora esaminati gli ulteriori motivi dedotti dagli imputati.
22.1. Il primo motivo del ricorso F. , con il quale il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2, Prot. 7, Conv. EDU (poiché la Corte di appello, richiamando le argomentazioni della sentenza di primo grado, assseritamente senza tener conto dei motivi di gravame, gli avrebbe negato il diritto ad un doppio grado di giudizio convenzionalmente garantito) è manifestamente infondato.
In realtà, secondo l’univoco orientamento della Corte EDU, l’invocata garanzia è soddisfatta anche dall’esistenza nell’ordinamento interno di un mero rimedio di legittimità: si afferma, infatti, che “gli Stati contraenti hanno in linea di principio un potere discrezionale di decidere sulle modalità di esercizio del diritto previsto dall’art. 2 del Protocollo n. 7. Quindi, l’esame di una condanna da parte di un tribunale superiore può riguardare sia questioni di fatto che di diritto, oppure essere limitato alle sole questioni di diritto” (in tal senso, conformemente, Corte EDU, Sez. 3, 13/02/2001, caso Krombach c. Francia, § 96; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Panou c. Grecia, § 32; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Patsouris c. Grecia, § 35).
22.2. Deve aggiungersi che, come premesso, la Corte di appello ha in realtà esaminato e puntualmente disatteso le obiezioni difensive.
22.3. Il quarto motivo del ricorso G., con il quale il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., non è consentito.
È pur vero che la Corte di appello non disattende espressamente il corrispondente motivo di gravame; deve, peraltro, evidenziarsi che lo stesso era carente della necessaria specificità, perché formulato in modo del tutto assertivo (f. 10 dell’atto di appello: “in ragione della minima importanza della condotta del G. nel fatto addebitato in concorso, si invoca la concessione dell’attenuante di cui all’art. 144 c.p. (rectius, art. 114)”), senza alcuna argomentazione a sostegno, come sarebbe stato ancor più necessario ove si consideri che l’imputato era il creditore beneficiario della condotta concorsualmente posta in essere, e risultava quindi affetto da una insanabile causa d’inammissibilità, dichiarabile anche in questa sede a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 4.
- Il rigetto dei ricorsi comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento, ciascuno per sé, delle spese processuali, essendo stato abrogato, per effetto della L. n. 69 del 2009, art. 67, il vincolo di solidarietà fra coimputati nell’obbligo di pagamento delle spese processuali.
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Il 6 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 30931, onde tra gli art. 576, comma 1, n. 5.1, c.p. e 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p.: ciò implica che il delitto di atti persecutori non trovi applicazione autonoma qualora l’omicidio della vittima avvenga al culmine di molteplici condotte persecutorie poste in essere precedentemente ai danni della stessa persona offesa.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 35700, secondo cui, negandosi che la condotta di violenza sessuale debba essere assorbita dal diverso reato di maltrattamenti, il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia qualora, attesa la diversità dei beni giuridici offesi, le reiterate condotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledano anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale.
Può, di contro, configurarsi l’assorbimento esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale.
Questioni intriganti
In cosa si risolve il concorso apparente di norme?
- in un solo fatto storico (compendiantesi in un’azione o in un’omissione), penalmente rilevante (o talvolta in più fatti storici);
- in una pluralità di norme incriminatrici, tutte all’apparenza applicabili a quell’unico fatto storico (o a ciascuno dei plurimi fatti storici), qualificandolo (o qualificandoli) come fatto-inadempimento reato;
- nella mera apparenza di tale convergenza di più norme incriminatrici, essendone alfine applicabile una sola; laddove fossero invece applicabili più norme incriminatrici, un unico fatto storico, commissivo od omissivo, farebbe luogo a più fatti inadempimento reato, facendo luogo ad un concorso formale di reati (o, in presenza di più fatti storici penalmente rilevanti, ad un concorso materiale di reati);
- si ha mera apparenza di convergenza di più norme incriminatrici anche nella fattispecie del d. reato abituale improprio, nel cui contesto tutti gli episodi fattuali hanno una rilevanza penale, ma è una sola la norma che li disciplina tutti, onde quello che sarebbe un concorso materiale di reati è in realtà un concorso apparente di norme, essendo una sola la fattispecie incriminatrice astratta che si applica alla condotta plurima e frazionata del soggetto agente; analogamente una sola è la fattispecie incriminatrice astratta che si applica nel caso di c.d. reato progressivo nell’evento, come nell’ipotesi di lottizzazione abusiva;
Quali teorie si agitano in tema di concorso apparente di norme?
- la teoria monistica: esiste un solo criterio capace di dirimere un conflitto apparente di norme, ed è il criterio di specialità di cui all’art.15 del codice penale; altri criteri, come quello di assorbimento o “consunzione”, oltre a non essere previsti dal sistema, si risolvono in una vuota formula, sorte che è da ascrivere anche al d. principio di sussidiarietà, non previsto da nessuna norma in via generale e per giunta inutile perché riproducente – laddove ammissibile – il criterio di specialità, del quale sottolineerebbe solo maggiormente la funzione (rispetto alla classica struttura); previsto dal sistema è invece il meccanismo della c.d. clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca un diverso reato…” e simili), ipotesi nella quale tuttavia non si ha un concorso “apparente” di norme, in quanto è lo stesso legislatore penale qui a dire che non si configura alcun concorso, una sola essendo la norma applicabile al fatto compiuto;
- le teorie pluralistiche: accanto al principio di specialità, altri principi presidiano al concorso apparente di norme, che dunque ha una estensione molto più ampia di quella letteral-codicistica di parte generale, essendo operativi ratione materiae il canone di sussidiarietà, il principio di accessorietà e quello di consunzione o assorbimento; lo dimostra il fatto che nello stesso art.15, in coda, si dice “salvo che sia altrimenti stabilito”, prefigurando dunque il legislatore penale ipotesi di concorso apparente di norme diverse dalla specialità. Più in particolare, occorre dare seguito ad esigenze di tipo equitativo che impongono, dinanzi ad un solo fatto storico, di erogare un trattamento sanzionatorio che sia proporzionato rispetto all’offesa al bene (interesse) giuridico in concreto realizzata e che non risulti di gravità irragionevole per il reo, valorizzando all’uopo proprio il concetto di solo apparente convergenza di più norme punitive rispetto al ridetto, unico fatto storico in concreto commesso.
In cosa consiste il principio di specialità scolpito all’art.15 c.p. e quali problemi pone?
- la norma generale contiene un certo numero di elementi; la norma speciale contiene il medesimo numero di elementi della norma generale, più degli altri di tipo specializzante;
- occorre capire in primo luogo cosa si intende per “più leggi penali”: da un punto di vista ampio, il diritto penale commerciale o il diritto penale militare sono speciali rispetto al diritto penale comune;
- occorre verificare i rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo sanzionatorio (“para-penale”): il principio di specialità è qui “reciproco”, in quanto si applica la norma penale se speciale rispetto a quella amministrativa sanzionatoria, mentre all’opposto qualora sia questa ad essere speciale rispetto alla norma penale (generale), prevale la norma amministrativa sanzionatoria;
- laddove si tratti di due norme penali in ordine alle quali non è possibile ictu oculi stabilire quale sia speciale rispetto all’altra (come accade, esemplificativamente, nel caso di norma penale comune e di norma penale militare), ciò che consente di parlare di rapporto di specialità è indefettibilmente il fatto che entrambe le norme disciplinino la “stessa materia”, come si evince dall’art.15 c.p.; da questo punto di vista si distingue: d.1) chi ritiene (dottrina risalente) che “stessa materia” significa, in presenza di un solo fatto storico, più norme apparentemente concorrenti nella disciplina del fatto stesso, tutte aventi il medesimo oggetto materiale, e dunque tutelando il medesimo bene (interesse) penalmente rilevante, onde laddove le due (o più) norme convergenti sul medesimo fatto presidino in realtà beni diversi (come nel caso dell’oltraggio a pubblico ufficiale e dell’ingiuria), non può parlarsi di specialità ai sensi dell’art.15 c.p.; si tratta di una presa di posizione che, oltre a condurre a palesi irragionevolezze, antepone ad un criterio meramente logico (che sembra quello abbracciato dal legislatore del codice con la formulazione dell’art.15) un canone di valore legato, per giunta, ad una figura quale è il c.d. “oggetto materiale” del reato sovente oggetto di aspre controversie interpretative in relazione ai singoli casi; d.2) chi ritiene (dottrina più recente ed accreditata) che per applicare il principio di specialità sia sufficiente un solo fatto storico sul quale convergono più norme penali, senza che abbia la minima rilevanza il bene giuridico tutelato da ciascuna di tali norme penali, dovendosi peraltro tenere conto della circostanza onde il codice penale, all’art.15, parla di “stessa materia” – e non già di “stesso fatto” – per far sì che, dato un determinato fatto storico, più norme convergenti possono far luogo a concorso apparente anche laddove taluna di tali norme abbia natura incriminatrice, e talaltra abbia diversa natura, anche pro reo (circostanze, cause di giustificazione, cause estintive e così via): laddove il codice penale avesse parlato di “stesso fatto” (piuttosto che di “stessa materia”) sarebbe stato possibile, da questo crinale ermeneutico, predicare il concorso apparente di norme solo in presenza di due o più norme incriminatrici pure.
Che cosa si intende, più specificamente, per specialità?
- specialità unilaterale o a cerchi concentrici: una norma si presenta, dal punto di vista astratto e strutturale, speciale rispetto ad un’altra, che è generale, in quanto ne annovera tutti gli elementi con in più qualcosa di diverso; in questa fattispecie si ha sempre una norma generale e l’altra speciale rispetto ad essa, trovando luogo un concorso apparente di norme dal momento che la norma speciale appartiene ad un sottoinsieme, o cerchio concentrico, rispetto a quella generale che è un insieme o cerchio maggiore contenente, onde se si applica la norma speciale sono certamente presenti tutti gli elementi di quella generale, mentre quest’ultima è operativa anche se difetta uno o più elementi propri della norma speciale. Si distingue, nell’ambito di queste ipotesi: a.1) dal punto di vista quantitativo, la specialità “per aggiunta”: il sequestro di persona è disciplinato all’art.605 c.p., ma se chi lo commette ha uno scopo di estorsione, tale scopo è “in aggiunta” (elemento in più) rispetto al sequestro di persona, onde si ha concorso apparente di norme e si applica solo l’art.630 c.p., come norma speciale rispetto all’art.605 che è norma generale; a.2) dal punto di vista qualitativo, la specialità “per specificazione”: la violenza privata, quale norma generale, è disciplinata dall’art.610 c.p., ma se dal punto di vista qualitativo si atteggia a violenza sessuale, si tratta di violenza (privata) sessuale (stessi elementi, di cui uno peculiarmente qualificato), particolarmente specificata, e si applica quale norma speciale l’art.609.bis c.p., senza che si applichi anche la norma generale sulla violenza privata; si tratta in entrambi i casi di una specialità astratta e strutturale, come tale pienamente riconducibile all’art.15 c.p., sicché non può realizzarsi la fattispecie speciale se non realizzando anche, in tutti i relativi elementi, la fattispecie generale; quando in relazione ad un unico fatto storico convergono due fattispecie che non sono in relazione strutturale di specialità astratta tra loro, si parla di d. specialità “in concreto”, che tuttavia appare dagli incerti confini (seppure giustificata in qualche modo dal principio del favor rei) e certamente non riconducibile all’alveo precettivo dell’art.15 c.p.;
- specialità bilaterale o reciproca, o a cerchi intersecantisi: esiste un nucleo comune identico in due fattispecie normative astratte A e B, al di fuori del quale – con riguardo dunque a taluni elementi – A è speciale rispetto a B e, ad un tempo, B è speciale rispetto ad A. L’aggiotaggio comune ex art.501 c.p. può essere commesso da chiunque, e dunque è generico rispetto all’aggiotaggio societario ex art.2628 c.c., che può essere commesso solo da peculiari figure soggettive di ambito societario (soci, promotori, fondatori e amministratori di s.p.a.); ma, ad un tempo, mentre l’aggiotaggio societario ex art.2628 c.c. è a dolo generico, l’aggiotaggio di cui all’art.501 c.p. è a dolo specifico e dunque – da quest’altro punto di vista – è l’aggiotaggio societario ad essere generico e quello ordinario “specifico”. Si tratta di fattispecie in cui non è operante in via immediata e diretta l’art.15, onde: b.1) si può far riferimento alla norma “più speciale”, secondo un criterio tuttavia empirico ed approssimativo; b.2) si può fare riferimento alla norma che prevede la sanzione più grave, ed anche in questo caso, a parte le incertezze questa volta di tipo valoriale, resta da domandarsi perché non si possa e non si debba, piuttosto, fare applicazione di entrambe le disposizioni convergenti sull’unico fatto storico; b.3) si possono, per l’appunto, assumere applicabili entrambe le disposizioni, affidando al giudice la discrezionalità di calibrare bene il trattamento sanzionatorio complessivo, soluzione che dunque esclude il concorso apparente di norme ed ammette il concorso formale di reati, onde un solo fatto fa luogo a due inadempimenti-reato con doppia sanzione (seppure adeguatamente calibrata in considerazione del nucleo comune presente in entrambe le fattispecie astratte in concreto operative); b.4) si può, infine, fare appello al principio processuale del divieto di “bis in idem”, scolpito agli articoli 649 e 669 c.p.p., per ritrarne un canone speculare di “bis in idem” sostanziale, tale da imporre l’applicazione in questi casi di una sola delle due o più norme apparentemente operative e convergenti sul fatto commesso: il principio del favor rei, unito alla identità di ratio tra le norme la cui operatività appare convergente, consente di applicare una sola disposizione (delle due o più coinvolte) onde rispettare un principio del bis in idem sostanziale ritraibile dalla disciplina delle clausole di riserva esplicite (massime se indeterminate o relativamente determinate, che dunque non richiamano un altro reato specifico, ma genericamente un “diverso reato”), dalla stessa disciplina delle circostanze e del reato complesso ex art.84 c.p., laddove un disvalore apparentemente duplice o plurimo diviene disvalore unico, con trattamento sanzionatorio unificato; la sola norma (e sanzione) applicabile da chi abbraccia questa opzione ermeneutica è quella più grave o, secondo altra tesi, quella che meglio si adatta al caso concreto, con soluzione che tuttavia, pur partendo dal dato strutturale della specialità reciproca, finisce con l’invadere il campo più propriamente del “valore” in termini di imputazione di una (non duplice, ma) semplice responsabilità penale unitaria pur al cospetto del convergere (assunto solo apparente) di più norme incriminatrici.
Nell’ambito delle c.d. teorie pluralistiche, cosa si intende per principio di sussidiarietà?
- si tratta di un principio che si affianca a quello di specialità, al fine di identificare un concorso apparente di norme in luogo del concorso formale di reati;
- compendia un principio che si fonda su un giudizio di valore, piuttosto che su una mera analisi delle fattispecie astratte in concorso;
- si parte dal fatto che esiste un solo bene (interesse) giuridico offeso, che subisce diversi gradi o stadi di aggressione, come dimostrano le fattispecie di pericolo rispetto a quelle di danno, ovvero quelle di danno rispetto a quelle di maggior danno; ovvero dal fatto che, pur esistendo più beni (interessi) penalmente tutelati dalle diverse norme incriminatrici in apparente convergenza, esiste una gerarchia di valori tra i ridetti beni, onde è sufficiente applicare al fatto commesso la sanzione comminata per il pregiudizio inferto all’interesse più importante e di maggior valore, perché ricomprende in sé anche l’altro o gli altri interessi tutelati dalle altre norme incriminatrici apparentemente convergenti (laddove sia difficile operare una gerarchia precisa tra i vari interessi tutelati, va fatta applicazione della norma che prevede la più grave sanzione);
- in queste ipotesi, laddove una sola delle norme apparentemente in concorso assorba l’intero disvalore del fatto (unico) commesso, sarà quest’ultima a dover essere esclusivamente applicata come norma principale, mentre l’altra o le altre norme in concorso si atteggiano a complementari e meramente sussidiarie, non trovando dunque applicazione;
- in taluni casi il giudizio di valore viene operato dallo stesso legislatore attraverso apposite clausole di riserva (“salvo che il fatto non costituisca il reato di cui…”), parlandosi in tali casi di sussidiarietà espressa; in altri il ridetto giudizio di valore viene lasciato alla discrezionalità del giudice (pro reo), e si parla allora di sussidiarietà indiretta e implicita;
Nell’ambito delle c.d. teorie pluralistiche, cosa si intende per principio di consunzione o assorbimento?
- si tratta di un principio che si affianca a quello di specialità, al fine di identificare un concorso apparente di norme in luogo del concorso formale di reati;
- compendia un principio che si fonda su un giudizio di valore, piuttosto che su una mera analisi delle fattispecie astratte in concorso;
- si fa riferimento da un lato a quello che normalmente accade nella commissione di certi reati (id quod plerumque accidit) in un dato contesto sociale e, dall’altro, al concetto di disvalore del fatto commesso dal soggetto agente; in queste ipotesi una norma incriminatrice riveste uno scopo normativamente più importante della seconda, “consumandone” l’applicabilità;
- si configura allora, in rapporto all’unico fatto commesso, una norma “consumante” e una norma “consumata”: l’intero disvalore penalmente rilevante del fatto commesso è riconducibile alla norma “consumante” che reca seco – secondo quello che normalmente accade in episodi di tal fatta – anche la solo apparente operatività della norma “consumata”, che come tale non trova applicazione;
- normalmente, anche se non sempre, per commettere certi reati occorre commetterne altri: ad esempio, se si commette furto in abitazione (reato-fine) normalmente – anche se non necessariamente – si commette anche danneggiamento (reato-mezzo), ed il legislatore ha previsto la punizione del furto in abitazione tenendo conto di questa evenienza correlativa, non occorrendo dunque punire anche per danneggiamento laddove questo in concreto si verifichi (come invece imporrebbe la rigida applicazione del principio di specialità);
- da questo punto di vista, il fatto che non operi il principio di specialità autorizza il giudice – pro reo – a scandagliare (in ciò autorizzato dallo stesso art.15 c.p., laddove fa salvi i casi in cui sia “altrimenti stabilito”: anche se questa espressione sembra riferita più ad altri casi previsti dalla stessa legge penale, piuttosto che affidati al giudice) se l’intero “significato delittuoso” (espressione dottrinale) del fatto unico commesso possa assumersi assorbito dalla esclusiva applicazione di solo una delle norme apparentemente convergenti, in termini applicativi, sulla fattispecie;
- al principio dell’assorbimento o consunzione viene ricondotta anche la fattispecie dell’antefatto e del post-fatto non punibile e della progressione criminosa, che ne costituiscono precipua applicazione;
- questo evidenzia un aspetto molto importante di questo principio: esso non opera solo in presenza di un unico fatto commesso nella medesima unità di tempo ma anche in fattispecie di pluralità di fatti commessi anche in momenti diversi (e che farebbero luogo non già a concorso formale, ma materiale di reati), laddove – guardando ai beni (interessi) tutelati dalle pertinenti norme incriminatrici – il fatto concretamente commesso (inteso in senso storico, anche come evoluzione di più episodi naturalistici singoli tra loro connessi, e dunque di più “condotte”) presenti un disvalore complessivo tale da meritare una sola punizione;
- in questi casi, secondo la dottrina che abbraccia questo canone al fine di identificare un concorso apparente di norme, l’assorbimento tra norme è in realtà – più a monte – un assorbimento tra interessi, quello più rilevante (offeso) “consumando” quello meno importante (del pari offeso), in un’ottica di punizione ragionevole in cui singoli illeciti vengono riguardati come “momenti” di un unico e complessivo illecito punito una sola volta facendo applicazione della norma “consumante”.
In che modo il reato complesso intercetta la disciplina del concorso apparente di norme?
- nel reato complesso si verifica un (apparente) concorso di reati tutt’affatto peculiare, in cui non si applica la disciplina sanzionatoria dei diversi reati che si fondono, quanto piuttosto – e soltanto – la disciplina sanzionatoria del reato che è “complesso” appunto perché prodotto dalla fusione in parola, e dunque speciale rispetto alle fattispecie che si fondono ai sensi dell’art.15 c.p.; in luogo di un concorso di reati si ha allora un concorso apparente di norme in cui rileva, dal punto di vista strutturale, la specialità astratta di una fattispecie di reato rispetto ad una o più fattispecie “generali” (si pensi alla classica ipotesi della rapina, che è speciale tanto nei confronti del furto, quanto rispetto alla violenza privata);
- muovendo poi dalla figura di d. reato complesso “eventuale”, si assume in dottrina quest’ultima appartenere ad una categoria più ampia nel cui novero si inserisce anche la progressione criminosa: in entrambi i casi un elemento costitutivo può compendiare o meno, autonomamente, reato, ma resta comunque assorbito da altra fattispecie di reato; mentre tuttavia nel reato “eventualmente” complesso un reato “eventuale” confluisce puramente e semplicemente nell’altro (senza alcuna progressione lesiva rispetto ad un medesimo bene-interesse protetto), nel reato progressivo il fatto inadempimento “eventuale” che confluisce è sempre quello che offende di meno il bene (interesse) giuridico penalmente protetto, mentre il reato “a valle” è sempre quello che consuma l’offesa maggiore al medesimo bene (interesse); in entrambi i casi tuttavia, e dunque nell’ottica della categoria generale che li ricomprende, a campeggiare è un giudizio di valore che impone – anche quando il fatto che confluisce è titolo autonomo di reato – di non punire due volte un comportamento che appare meritevole di una sola (quand’anche appropriata) sanzione penale (c.d. ne bis in idem sostanziale), onde fattispecie di “specialità reciproca” che di per sé non rientrerebbero sotto l’egida precettiva dell’art.15 c.p. (specialità strutturale ed astratta), possono far luogo ad una sola punizione (piuttosto che a due) giusta ricorso proprio all’art.84 c.p.