<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il titolare “</em>statico<em>” di un diritto, non esercitandolo (attivandolo in senso “</em>dinamico<em>”) per un significativo torno temporale, finisce con l’ingenerare una situazione di fatto che si presume, in virtù dell’apparenza, conforme a diritto; proprio la certezza giuridica impone a questo punto di far corrispondere il “</em>fatto<em>” al “</em>diritto<em>”, onde chi era formalmente un “</em>debitore<em>”, a cagione della “</em>forza delle cose<em>” e complice (imprescindibile) l’inerzia del proprio “</em>creditore<em>”, finisce via via sostanzialmente col non apparire più tale e financo, alfine, per non esserlo più neppure formalmente, tanto che questo accada secondo una declinazione in termini di prescrizione, quanto che invece succeda a valle di una decadenza; resta ferma “</em>in ogni caso<em>” la necessità di distinguere i due istituti ridetti ed i pertinenti regimi (il secondo, più del primo, palesandosi avvinto alla presenza di un interesse collettivo ed alla connessa esigenza di “</em>certezza celere<em>” che ne deriva); resta ferma altresì, ma qui solo “</em>in qualche caso<em>”, la difficoltà di individuare l’attimo in cui, concretamente, l’inerzia del “</em>creditore”<em> – più o meno “</em>diligente<em>” - inizia ad essere giuridicamente rilevante in ottica estintiva della pertinente pretesa (o, secondo una tesi più antica, dell’azione che la presidia), massime se risarcitoria in relazione a pregiudizi c.d. “</em>lungolatenti<em>”.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia (c.d. codice Pisanelli), di stampo liberale, che disciplina in generale la prescrizione agli articoli 2105 e seguenti, giusta disposizioni generali (2015-2114), disciplina delle cause che impediscono o sospendono la prescrizione (2115-2122), disciplina delle cause per cui si interrompe la prescrizione (2123-2132) ed infine disciplina del tempo necessario a prescrivere (2133-2147: disposizioni generali; prescrizioni di 30 e 10 anni; prescrizioni più brevi).</p> <p style="text-align: justify;">Importante la norma di <em>incipit</em> del pertinente regime, ovvero l’art.2105, alla cui stregua la prescrizione è un mezzo con cui, col decorso del tempo e sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto ovvero è liberato da una obbligazione. Il Legislatore del 1865 disciplina dunque nella medesima <em>sedes materiae</em> tanto la prescrizione estintiva quanto quella c.d. acquisitiva, o usucapione, come conferma l’art.710, comma 3, alla cui stregua la proprietà e gli altri diritti reali “<em>possono anche acquistarsi col mezzo della prescrizione</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista dell’oggetto della prescrizione estintiva, esso sembra doversi individuare nell’azione (e non già nel diritto), stante il disposto dell’art.2135 onde tutte le “azioni” tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di 30 anni, senza che possa in contrario opporsi il difetto di titolo o di buona fede; terminologia ricalcata dai successivi articoli 2138, 2139, 2140 e 2146.</p> <p style="text-align: justify;">Nondimeno, l’art.2136 definisce la prescrizione anche come mezzo che consente di essere “liberato da un’obbligazione”, con ciò facendo riferimento all’estinzione del diritto del creditore; del pari agli articoli 515 e 529 (in tema di usufrutto, uso e abitazione), l’art.666 (in tema di servitù) e l’art.2030 (in tema di ipoteca) riferiscono in modo palmare la prescrizione ai rispettivi diritti, e non già alle pertinenti azioni.</p> <p style="text-align: justify;">Nella dottrina successiva al codice si propende maggiormente per la tesi onde la prescrizione estingue il diritto soggettivo, dacché un diritto senza azione (ormai prescritta) viene giudicato un non senso, mentre al cospetto di un diritto prescritto non è più spiccabile la pertinente azione.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto riguarda la decorrenza della prescrizione, il codice tace dando la stura al dibattito della dottrina e della giurisprudenza che fanno appello, nella sostanza, al motto di ascendenza romanistica onde <em>“actio nondum nata non prascribitur”</em> e dunque non può prescriversi un’azione che non sia ancora neppure nata, salva in taluni casi la difficoltà quando un’azione possa dirsi effettivamente “<em>nata</em>”, facendo iniziare per l’appunto il corso della prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto riguarda in particolare le azioni risarcitorie, il codice si pone in linea con la tradizione francese onde tali azioni (risarcitorie), sia contrattuali che extracontrattuali, vengono sottoposte ad un unico termine prescrizionale, individuato, sul modello francese, in 30 anni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1882</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 ottobre viene varato il R.D. n.1062, codice di commercio del Regno d’Italia, anch’esso di stampo liberale, che disciplina la prescrizione agli articoli da 915 a 926, avvincendola in modo esplicito all’azione (piuttosto che al diritto soggettivo), come palesa in modo inequivocabile l’art.915 onde “<em>le azioni derivanti dagli atti che sono commerciali anche per una sola delle parti si prescrivono per tutti i contraenti in conformità alla legge commerciale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Nel medesimo codice fa altresì la sua comparsa anche la decadenza, con riguardo all’azione cambiaria (articoli 320 e 321) e all’azione di regresso (art.325).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1924</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 giugno viene varato il R.D. n.1054, recante approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, secondo il cui art.36, comma 1, primo periodo, fuori dei casi nei quali i termini siano fissati dalle leggi speciali, relative alla materia del ricorso, il termine per ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è di giorni 60 dalla data in cui la decisione amministrativa (da impugnarsi) sia stata notificata nelle forme e nei modi stabiliti dal regolamento, o dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuta piena cognizione.</p> <p style="text-align: justify;">In un periodo in cui l’interesse legittimo non è stato ancora distinto dall’interesse a ricorrere, identificandosi piuttosto con esso, si è al cospetto di una decadenza dal diritto di azione innanzi al Consiglio di Stato che è tuttavia anche decadenza, in qualche modo, dalla situazione sostanziale (“<em>interesse</em>”) che si intende difendere attraverso l’aggressione all’atto amministrativo percepito la cui lesione viene percepita dal ricorrente che ad essa reagisce.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1933</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre viene varato il R.D. n.1669, recante modificazioni alle norme sulla cambiale e sul vaglia cambiario, alla stregua del cui art.61, comma 1, se un ostacolo insormontabile (disposizione di legge uno Stato o altro caso di forza maggiore) impedisce di presentare la cambiale o di levare il protesto nei termini stabiliti, questi sono prolungati.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un eccezionale caso di sospensione di un termine di decadenza, come tale non estensibile analogicamente.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1940</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 ottobre viene varato il R.D. n.1443, nuovo codice di procedura civile, secondo il cui art.99 chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3724.html">domanda</a> al <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3567.html">giudice</a> competente, disposizione che – secondo la dottrina processualistica più illuminata – configura l’azione quale diritto soggettivo strumentale al diritto “<em>sostanziale</em>” che essa presidia.</p> <p style="text-align: justify;">Più in generale, il codice prevede diversi termini – di natura perentoria – al cui spirare matura in capo al soggetto onerato del pertinente rispetto una decadenza, come nell’ipotesi classica dei termini per impugnare i provvedimenti giurisdizionali.</p> <p style="text-align: justify;">Particolarmente significativo l’art.152, secondo il cui testuale disposto i <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3775.html">termini</a> per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3776.html">decadenza</a>, soltanto se la legge lo permette espressamente (c.d. decadenza giudiziale); i termini stabiliti dalla legge sono normalmente <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3778.html">ordinatori</a> (e, dunque, non recano seco decadenza), tranne che la legge stessa li dichiari espressamente <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3777.html">perentori</a>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che disciplina espressamente tanto la prescrizione estintiva quanto la decadenza nella relativa parte finale, agli da 2934 a 2969, inserendo invece la prescrizione acquisitiva, o usucapione, nell’ambito della disciplina del possesso (articoli da 1158 a 1167).</p> <p style="text-align: justify;">Il titolo dedicato alla prescrizione e alla decadenza viene ripartito in modo tale da disciplinare dapprima la prescrizione in termini generali (articoli da 2934 a 2940), quindi i fenomeni della sospensione (articoli 2941 e 2942) e dell’interruzione (articoli da 2943 a 2945) della prescrizione medesima; segue la regolamentazione dei termini di prescrizione, ordinaria (art.2946) e breve (da 2947 a 2953), il regime delle c.d. prescrizioni presuntive (articoli da 2954 a 2961) e quello concernente il computo dei termini (art.2962 e 2963), per terminare con la decadenza, finalmente normata in modo espresso (articoli da 2964 a 2969).</p> <p style="text-align: justify;">Molteplici disposizioni dedicate talvolta alla prescrizione, talaltra alla decadenza, talaltra ancora ad entrambe, si rinvengono <em>random</em> nell’ordito codicistico: è sufficiente a titolo meramente esemplificativo rammentare gli art.1495 in tema di vizi della cosa venduta (8 giorni di decadenza dalla scoperta per la denuncia; un anno dalla consegna per la prescrizione); 1667 in tema di vizi e difformità dell’opera appaltata (60 giorni di decadenza dalla scoperta per la denuncia; due anni dalla consegna per la prescrizione); il significativo art.1137 in tema di impugnazione delle delibere dell’assemblea di condominio (alla stregua del cui comma 3, in particolare, il ricorso ridetto deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro 30 giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti).</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista sistematico, il codice sembra <em>prima facie</em> prendere posizione in modo inequivocabile per la prescrizione dei “<em>diritti</em>”, e non già delle azioni che li accompagnano, stante il disposto dell’art.2934 (significativamente rubricato “estinzione dei diritti”) alla cui stregua ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge (comma 1), non essendo nondimeno soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">La Relazione di accompagnamento sembra tuttavia rimarcare il persistente dubbio, nella dottrina e nella giurisprudenza, in ordine al reale oggetto della prescrizione, affidando proprio alla giurisprudenza (“<em>pratica e scientifica</em>”) la conferma, ovvero il ripudio, della concezione prevalente intesa ad annoverare per l’appunto il diritto, e non l’azione, quale oggetto ridetto.</p> <p style="text-align: justify;">Tale ambiguità di fondo trova un riscontro anche in taluni articoli dello stesso codice che riferiscono la prescrizione all’azione, e non già al diritto, come nel caso dell’art.387 in tema di tutela (significativamente rubricato “prescrizione delle azioni relative alla tutela”), dell’art.502, ultimo comma, in tema di accettazione di eredità con beneficio di inventario (prescrizione delle azioni di creditori e legatari contro l’erede), dell’art.533, comma 2, in tema di petizione di eredità (che dichiara la pertinente azione imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione rispetto ai singoli beni), dell’art.948 in tema di azione di revindica (assunta ancora una volta imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione rispetto ai singoli beni), dell’art.1442, comma 1, in tema di azione di annullamento (che, come “azione” appunto, si prescrive in 5 anni).</p> <p style="text-align: justify;">Una delle manifestazioni più palmari di questa ambiguità di fondo si rinviene all’art.2947 (rubricato prescrizione del “<em>diritto</em>” al risarcimento del danno), alla stregua del cui comma 1 il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si e' verificato (comma 1), mentre per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il “<em>diritto</em>” si prescrive in 2 anni (comma 2); stando, nondimeno, al comma 3, in ogni caso, se il fatto e' considerato dalla legge come reato e per il reato e' stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'”<em>azione</em>” civile; tuttavia, prosegue la norma, se il reato e' estinto per causa diversa dalla prescrizione o e' intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il “<em>diritto</em>” al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza e' divenuta irrevocabile.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art.248, l'azione di contestazione dello stato di figlio spetta a chi dall'atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse (comma 1), ed è azione espressamente assunta <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/765.html">imprescrittibile</a> (comma 2); ai sensi dell’art.263, il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/769.html">riconoscimento</a> può essere impugnato per <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/771.html">difetto di veridicità</a> dall'autore del riconoscimento medesimo, da colui che è stato riconosciuto o da chiunque vi abbia interesse (comma 1) e la pertinente azione è imprescrittibile riguardo al figlio (comma 2); ancora, l'azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità naturale è del pari imprescrittibile riguardo al figlio (art.270, comma 1).</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art.124 il coniuge può in qualunque tempo impugnare il secondo matrimonio dell'altro coniuge (che dunque si renda bigamo) e. - se si oppone la nullità del primo matrimonio - tale questione deve essere preventivamente giudicata: l’espressione “<em>in qualunque tempo</em>” farà dire alla dottrina di commento che il diritto di impugnare il secondo matrimonio del proprio coniuge che si renda bigamo, facendone valere l’invalidità (nullità o annullabilità che sia) delle seconde nozze, si atteggia a diritto indisponibile e, come tale, imprescrittibile, stante il contrasto della bigamia con il canone fondamentale della monogamia e coinvolgendo esso direttamente lo <em>status</em> di coniuge ex post, siccome acquisito, non contestato e piuttosto aggredito dal coniuge bigamo; ciò all’opposto di quanto accade – sempre secondo quello che affermerà la dottrina di commento - in caso di azione di annullamento del matrimonio per vizio del consenso, in tal caso aggredendosi <em>ex ante</em>, contestandolo, l’atto attributivo dello <em>status</em> di coniuge perché assunto viziato, con azione che tuttavia si prescrive nell’ordinario termine decennale.</p> <p style="text-align: justify;">Significativo, sul crinale dei diritti di natura patrimoniale, l’art.948 comma 3, alla cui stregua l'azione di rivendicazione non si <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1095.html">prescrive</a>, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1504.html">usucapion</a>e; norma che secondo la tesi tradizionale fonda la c.d. imprescrittibilità del diritto di proprietà.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, ai sensi dell’art.1310 c.c. gli atti con i quali il creditore <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3448.html">interrompe la prescrizione</a> contro uno dei (vari) <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1667.html">debitori in solido</a>, oppure uno dei <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1667.html">creditori in solido</a> interrompe la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1095.html">prescrizione</a> contro il comune debitore, hanno effetto riguardo agli altri debitori o agli altri <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1530.html">creditori</a> (comma 1); la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3447.html">sospensione della prescrizione</a> nei rapporti di uno dei debitori o di uno dei creditori in solido non ha effetto riguardo agli altri; tuttavia il debitore che sia stato costretto a pagare ha <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1672.html">regresso</a> contro i condebitori liberati in conseguenza della prescrizione <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quarto/titolo-i/capo-vii/sezione-iii/art1310.html#nota_3146">(comma 2)</a>; infine, la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3445.html">rinunzia alla prescrizione</a> fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri; fatta in confronto di uno dei creditori in solido, giova agli altri; il condebitore che ha rinunziato alla prescrizione non ha regresso verso gli altri debitori liberati in conseguenza della prescrizione medesima (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto concerne il decorso della prescrizione, il codice (a differenza di quello del 1865) prende una posizione espressa rappresentando all’art.2935 che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il pertinente diritto può essere fatto valere.</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista delle azioni risarcitorie, il nuovo codice fissa termini diversi per l’azione risarcitoria aquiliana (5 anni) e quella risarcitoria “<em>contrattuale</em>” (10 anni).</p> <p style="text-align: justify;">In tema di interruzione e di sospensione, significativo l’art.2964 c.c. onde quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3776.html">decadenza</a>, non si applicano le norme relative all'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3448.html">interruzione</a> della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1095.html">prescrizione</a> (comma 1); del pari non si applicano le norme che si riferiscono alla <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3447.html">sospensione</a> della prescrizione, in questo secondo caso salvo tuttavia che sia disposto altrimenti (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">Se dunque la decadenza non può mai essere interrotta (come la prescrizione), essa può tuttavia essere eccezionalmente sospesa (con disposizione che non può dunque essere applicata in via analogica), per ragioni di equità che impongano di derogare alla “<em>rigidità</em>” tipica dell’istituto decadenziale paralizzando interinalmente il decorso del pertinente termine; nell’economia del codice civile, si tratta in particolare delle fattispecie di decadenza dall’azione di disconoscimento della paternità per chi si trovi in stato di interdizione per infermità di mente ovvero comunque versi in condizioni di abituale grave infermità di mente (art.245 c.c.); di decadenza dal diritto di accettare l’eredità con beneficio di inventario per minori, interdetti ed inabilitati (art.489 c.c.); di decadenza dal diritto a revocare una donazione in caso di omicidio del donante da parte del donatario ovvero di doloso impedimento a revocare la donazione cagionato al donante al donatario ridetto (art.802 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">La Costituzione repubblicana, sul crinale dei rapporti economici, annovera il fondamentale art.41, comma 1 e 2, alla cui stregua se da un lato l'iniziativa economica privata è libera, dall’altro essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, così configurandosene dei limiti; ancora, stando all’art.42, comma 2, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e – ancora una volta - i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (oltre che di renderla accessibile a tutti).</p> <p style="text-align: justify;">Ne discende la possibilità per il legislatore di apporre dei “<em>limiti</em>” all’esercizio di determinati diritti, legati se del caso al decorso di un determinato torno temporale al cui spirare non è più possibile per il relativo portatore soddisfare l’interesse sotteso al pertinente diritto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1957</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 aprile esce la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che, conformemente all’orientamento prevalente avallato dal codice civile del 1942, opta per il diritto soggettivo quale precipuo oggetto della prescrizione, scartando l’ipotesi che si tratti della pertinente azione.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte non può affermarsi che si prescriva l’azione di annullamento o di rescissione di un contratto, dacché in questi casi quello che si prescrive è in realtà il diritto potestativo riconosciuto ad un determinato soggetto di ottenere la modifica o la estinzione di una certa situazione giuridica.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1959</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 marzo esce la sentenza della Sezione … della Cassazione n.915 alla cui stregua – dando la stura ad un orientamento pretorio in tal senso - l’eccezione di prescrizione sollevata da uno dei debitori solidali non giova agli altri soggetti obbligati in solido.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta per la Corte di un canone ritraibile da quanto afferma l’art. 1310 c.c., ultimo comma, onde la rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto (liberatorio) riguardo agli altri.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1962</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 dicembre esce la legge n.1860, in tema di impiego pacifico dell’energia nucleare, secondo il cui art.23 le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di 3 anni dal giorno in cui la persona lesa abbia notizia del danno (comma 1); nessuna azione e' tuttavia proponibile decorsi 10 anni dall'incidente nucleare o da furti, perdite o abbandono delle sostanze nucleari.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1966</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.63, che dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro, dichiarando ad un tempo non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2948, n. 5, del Codice civile proposta, in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, vero é che nel nostro ordinamento non sono soggetti a prescrizione i diritti indisponibili (art. 2934 del Codice civile); ma l'indisponibilità del diritto alle prestazioni salariali non é sancita nell'art. 36 né si ricava da altre norme della Costituzione: ad esso il lavoratore non può rinunciare, come si desume <em>a fortiori</em> dall'ultimo comma dello stesso art. 36, che stabilisce l'irrinunciabilità del diritto alle ferie e al riposo settimanale; ma l'irrinunciabilità, essendo concetto meno ampio dell'indisponibilità richiamata dal Codice civile, non basta a rendere perpetuo un diritto soggettivo.</p> <p style="text-align: justify;">Peraltro, prosegue la Corte, la denuncia contenuta nell'ordinanza di rinvio di cui al caso di specie non trova conforto neanche nell'art. 4 della Costituzione, che garantisce il diritto al lavoro ma, alla pari dell'art. 3, non contiene precetti od insegnamenti sulla sorte delle singole prestazioni salariali; né lo trova nell'art. 2 poiché l'inviolabilità dei diritti dell'uomo non esclude che il tempo consumi le pretese di carattere patrimoniale ad essi collegati.</p> <p style="text-align: justify;">E tuttavia, prosegue la Corte, se il diritto alle prestazioni salariali può prescriversi, non tutto il regime della prescrizione é compatibile colla speciale garanzia che deriva dall'art. 36 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando é fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità é sancita dall'art. 36 della Costituzione: lo stesso art. 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l'annullamento della rinuncia proprio se questa é intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza si é voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto.</p> <p style="text-align: justify;">Le norme impugnate, in verità, non si riferiscono al negozio di rinuncia; però consentono che la prescrizione prenda inizio dal momento in cui matura il diritto a ogni singola prestazione salariale: se si eccettua il n. 5 dell'art. 2948, il termine prescrizionale decorre fatalmente anche durante il rapporto di lavoro poiché non vi sono ostacoli giuridici che impediscano di farvi valere il diritto al salario.</p> <p style="text-align: justify;">Vi sono tuttavia ostacoli materiali, cioè la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte é portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Entro questi limiti la questione per la Corte é fondata: il precetto costituzionale, pur ammettendo la prescrizione del diritto al salario, non ne consente il decorso finché permane quel rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinuncia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 settembre esce il D.p.R. n.602, recante disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, alla stregua del cui art.38, comma 1, in tema di rimborso di versamenti diretti, il soggetto che ha effettuato il versamento diretto (contribuente) può presentare all'intendente di finanza nella cui circoscrizione ha sede l'esattoria presso la quale e' stato eseguito il versamento istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di 18 mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 maggio esce il D.p.R. n.519, recante norme per l'applicazione degli atti internazionali in materia di responsabilità civile nel campo dell'energia nucleare ratificati e resi esecutivi con la legge 12 febbraio 1974, n. 109 e per il coordinamento dei predetti atti internazionali con le disposizioni di legge in vigore.</p> <p style="text-align: justify;">Viene in particolare modificato l’art.23 della legge n.1860 del 1962, onde le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di 3 anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e – viene aggiunto - della identità dell'esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza (comma 1); nessuna azione e' proponibile decorsi 10 anni dall'incidente nucleare (comma 2); in caso di danno causato da un incidente nucleare derivante da materie nucleari rubate, perdute o abbandonate e che non siano state recuperate, il termine anzidetto e' computato dalla data dell'incidente nucleare ma non può in nessun caso essere superiore a 20 anni dalla data del furto, della perdita o dell'abbandono (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 24 ottobre esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n.3527 alla cui stregua l’eccezione di prescrizione sollevata da uno dei debitori solidali non giova agli altri soggetti obbligati in solido.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta per la Corte di un canone ritraibile da quanto afferma l’art. 1310 c.c., ultimo comma, onde la rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto (liberatorio) riguardo agli altri.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1977</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 21 maggio esce la sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione n.2132 alla cui stregua l’eccezione di prescrizione sollevata da uno dei debitori solidali non giova agli altri soggetti obbligati in solido.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta per la Corte di un canone ritraibile da quanto afferma l’art. 1310 c.c., ultimo comma, onde la rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto (liberatorio) riguardo agli altri.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1979</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 marzo esce l’importante sentenza della Sezione III della Cassazione n.1716 che dà il via ad un sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti in tema di prescrizione delle azioni risarcitorie dal legislatore del '42, dando la stura ad una vistosa differenza tra le regole giurisprudenziali ed il formante legislativo (principalmente, l'art. 2947 c.c.,comma 1), rimasto invariato nella forma e facente riferimento, sul crinale del dies a quo, al giorno in cui “<em>il fatto si è verificato</em>”..</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, si viene a spostare il ridetto <em>dies a quo</em> dal “<em>verificarsi del fatto</em>” all'esteriorizzazione del danno che ne è disceso, finendo così per soppiantare in larga misura lo schema codicistico o, perlomeno, l'interpretazione tradizionale di detto schema: se infatti, in virtù della regola della decorrenza dal momento della "<em>manifestazione del danno</em>", l'orizzonte della prescrizione può dilatarsi, lo schema delineato ab origine dal legislatore viene di fatto rovesciato, poiché il limite da fisso diventa "<em>mobile</em>" e collegato appunto all’esteriorizzazione del pregiudizio, piuttosto che al fatto illecito che lo produce: circostanza particolarmente rilevante per quanto concerne i c.d. danni “<em>lungolatenti</em>”, che come tali si palesano a distanza anche di molto tempo rispetto al fatto illecito che li ha prodotti.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4779 alla cui stregua l’assicuratore della responsabilità civile deve essere considerato un debitore solidale rispetto alla pretesa risarcitoria vantata da terzi nei confronti dell’assicurato, con la conseguenza onde l'eccezione di prescrizione proposta dalla stesso non estingue il credito vantato dal danneggiato verso il debitore assicurato medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte l'assicuratore, rispetto alla pretesa risarcitoria formulata nei confronti del danneggiante assicurato, è da considerare terzo ai sensi dell'art. 2939 c.c. onde l'eccezione di prescrizione non estingue il credito vantato dal danneggiato verso il danneggiante medesimo ma, all’opposto, produce solo effetti nei rapporti tra assicuratore ed assicurato.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 2939 c.c. – rammenta il Collegio - dispone che l'eccezione di prescrizione sollevata dal terzo (nel caso di specie, l’assicuratore) che vi abbia interesse non cagiona l'estinzione del diritto dell'attore (nel caso di specie, nei confronti del danneggiante), tale effetto estintivo producendosi unicamente all'interno dei rapporti tra il terzo interessato ed il debitore stesso.</p> <p style="text-align: justify;">L'eccezione di prescrizione sollevata dal terzo non estingue dunque il diritto dell'attore (creditore) nei confronti del (debitore) convenuto garantito.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1988</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce il D.p.R. n.224, recante attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi della L. 16 aprile 1987, n. 183, art. 15.</p> <p style="text-align: justify;">Stando al relativo art.13, comma 1 e 2, il diritto al risarcimento del danno (da prodotto difettoso) si prescrive in 3 anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell'identità del responsabile; nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l'esercizio di un'azione giudiziaria.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 maggio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.4630 onde il principio di cui all’art. 2945 c.c. - in base al quale l’interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio - trova una deroga solo nel caso di estinzione del processo, e pertanto resta applicabile anche nell'ipotesi in cui detta sentenza non decida la causa nel merito ma definisca eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, sempre che essa sia pronunciata nell’ambito di un rapporto processuale della cui esistenza le parti siano a conoscenza, onde non si possa presumere l’abbandono del diritto fatto valere nel pertinente giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, deve riconoscersi alla domanda giudiziale l’effetto interruttivo protratto di cui all’art. 2945 c.c. anche nell'ipotesi che il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa della nullità della notificazione della citazione, posto che in tale ipotesi - diversamente da quanto accade nel caso di notificazione inesistente - si instaura pur sempre un rapporto processuale potenzialmente idoneo a concludérsi anche con una pronunzia di merito nell’ipotesi di rinnovazione della notifica ai sensi dell’art. 291 c.p.c.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 novembre viene varata la importantissima legge costituzionale n.2 che modifica, integrandolo, l’art.111 Cost. disciplinando il c.d. giusto processo. Più in particolare, secondo i nuovi comma da 1 a 3, la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (comma 1); ogni processo si svolge nel <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/416.html">contraddittorio</a> tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/417.html">giudice</a> terzo e imparziale e la legge ne deve assicurare la ragionevole durata (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">La riforma lambisce – proprio in ottica di necessaria, ragionevole durata del processo - la declinazione “<em>processuale</em>” della prescrizione dei diritti, nell’ottica della delimitazione del tempo entro il quale il processo civile va celebrato e dunque, in ultima analisi, del tempo occorrente per accertare se un determinato interesse giuridicamente rilevante possa o meno essere tutelato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 giugno esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.8680 alla cui stregua, nei casi in cui non soccorra il criterio letterale (sono i casi in cui la legge usa espressioni del tipo “<em>sotto pena di decadenza</em>”, ovvero “<em>si prescrive</em>” etc.), interviene ad identificare un termine dubbio come di prescrizione, ovvero di decadenza, il criterio teleologico, appuntantesi sulle finalità perseguite dalla norma che prevede il termine ridetto dubbio, anche con riguardo alla tipologia di interesse tutelato e tenendosi conto che la decadenza può anche essere implicita nella norma che prevede un dato termine come chiaramente ed inequivocabilmente funzionale alla perdita di un dato diritto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 aprile esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n.5262 alla cui stregua l’eccezione di prescrizione sollevata da uno dei debitori solidali non giova agli altri soggetti obbligati in solido.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta per la Corte di un canone ritraibile da quanto afferma l’art. 1310 c.c., ultimo comma, onde la rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto (liberatorio) riguardo agli altri.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, più in specie, la rinunzia alla prescrizione è un istituto di diritto sostanziale ed ha valore negoziale, mentre la (mancata) eccezione di prescrizione attiene all'ordine processuale; e tuttavia la norma, cosi come strutturata, denota che il legislatore non ha inteso estendere agli altri debitori solidali, il comportamento di un debitore solidale che ha inteso (processualmente, e giusta eccezione all’uopo) giovarsi della prescrizione ormai maturata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce la sentenza della III Sezione della Cassazione n. 2645 che – inaugurando un nuovo orientamento - pone un altro importante tassello in tema di danni c.d. lungolatenti e dies a quo della prescrizione del diritto al pertinente risarcimento.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo del terzo medesimo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il "<em>fatto</em>" che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Viene dunque applicato, unitamente al principio della "<em>conoscibilità del danno</em>", anche (e congiuntamente) quello della "<em>rapportabilità causale</em>" del danno stesso, avvincendolo alla responsabilità di chi lo ha cagionato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 agosto esce la sentenza della Sezione V della Cassazione n. 15832 onde devono assumersi applicabili alla decadenza tanto l’art. 2937 c.c. in tema di rinunzia alla prescrizione con riguardo ai diritti disponibili - seppure limitatamente ai commi 1 e 3 (e, dunque, potendosi rinunciare alla decadenza anche quando essa non si è ancora compiuta) – quanto l'art. 2939 c.c., sull’opponibilità della prescrizione da parte di terzi, quanto ancora gli artt. 2962 e 2963 c.c., relativi al computo dei termini.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 marzo esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 6570 onde non ogni domanda giudiziale può assumersi avere effetto interruttivo della prescrizione, che va riconosciuto solo a quella peculiare domanda con cui l'attore chiede il riconoscimento e la tutela giuridica proprio del diritto del quale si eccepisca, per l’appunto, la pertinente prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Seguendo questa impostazione ermeneutica, non potrebbe dunque assumersi interruttivo della prescrizione di un credito risarcitorio l’atto introduttivo del giudizio in revocatoria promosso dal creditore danneggiato nei confronti del (quand’anche ancora presunto) debitore danneggiante che abbia compiuto atti dispositivi fraudolenti del proprio patrimonio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 novembre esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 21500 che inserendosi in una consolidata giurisprudenza distingue l’illecito permanente da quello istantaneo con effetti permanenti, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità aquiliana decorre dal momento in cui l'illecito è venuto in essere in tutte le relative componenti essenziali, consistenti nell'avverarsi della condotta commissiva (o omissiva) contraria al diritto e nel verificarsi del danno che da essa deriva (il nesso causale, pure attinente al fatto, nella specie non rileva), e, nel caso in cui il danno abbia a verificarsi in un momento successivo a quello della condotta cui esso causalmente si ricollega, il termine di prescrizione deve per la Corte farsi decorrere da questo secondo momento.</p> <p style="text-align: justify;">L'inizio del decorso della prescrizione è escluso anche nel caso dell'illecito permanente, che si ravvisa quando il comportamento <em>contra ius</em> del soggetto, produttivo dell'evento dannoso e qualificato dal dolo o dalla colpa, non si esaurisca “<em>uno actu</em>”, ma si traduca piuttosto in un'attività perdurante nel tempo, costantemente sorretta dall'elemento psilogico, e tale da comportare una violazione ininterrotta del diritto altrui, con la coesistenza temporale sia della condotta illecita che dell'evento dannoso.</p> <p style="text-align: justify;">In tal caso, chiosa ancora la Corte, la prescrizione decorre dalla cessazione della condotta che ha prodotto il danno. Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione l'illecito permanente va, tuttavia, tenuto distinto dall'ipotesi dell'illecito “<em>istantaneo con effetti permanenti</em>", che si ravvisa laddove la condotta illecita si esaurisca in un fatto unico, o compiuto în un contesto temporale unico, ancorché con effetti destinati successivamente a perdurare o ad ampliarsi autonomamente nel tempo, nel qual caso l'elemento genetico del fatto dannoso si esaurisce e coincide con il relativo verificarsi, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal momento stesso del compimento della condotta illecita dell'agente, la quale inizia e si esaurisce in un momento (relativamente) determinato, producendo i! danno, la cui permanenza o azione nel tempo non assume rilevanza ai fini dell'inizio della prescrizione, dovendosi l'istantaneità o la permanenza dell'illecito extracontrattuale accertare con riferimento non già al (permanere del) danno, bensì al rapporto eziologico fra questo e îl comportamento <em>contra ius</em> dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso particolare caso – nondimeno - in cui le ulteriori conseguenze dannose dell’illecito istantaneo non costituiscano un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto a suo tempo, ma piuttosto la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella esteriorizzatasi con l'esaurimento dell’azione del responsabile, per la Corte la prescrizione dell’azione risarcitoria, per il danno ad esse inerente, decorre dal verificarsi di tali conseguenze “<em>ulteriori</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 gennaio esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n.255 alla cui stregua la domanda proposta per la prima volta in appello ha efficacia interruttiva del pertinente diritto ai sensi dell’art.2943 c.c., tale effetto interruttivo protraendosi fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio ai sensi dell’art.2945 c.c. senza che assuma alcun rilievo, al fine di escludere l’evento interruttivo ridetto, il fatto che tale domanda sia dichiarata inammissibile perché, per l’appunto, nuova ai sensi dell’art.345 c.p.c.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.1090 alla cui stregua il fondamento della prescrizione va ravvisato nella presunzione di abbandono del proprio diritto da parte del relativo titolare, rimasto inerte per il tempo stabilito dalla legge.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 marzo esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 6934 alla cui stregua laddove l'assicuratore della responsabilità civile eccepisca la prescrizione nel corso del giudizio intentato dal danneggiato, la relativa eccezione deve assumersi giovare anche al debitore-assicurato estinguendone il debito nei confronti del danneggiato medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò sulla base dell’assunto onde un'eventuale persistenza del rapporto obbligatorio tra danneggiato e danneggiante implicherebbe comunque conseguenze pregiudizievoli all’assicuratore che ha tempestivamente eccepito la prescrizione, palesandosi lo stesso comunque obbligato a risarcire il sinistro, quale coobbligato solidale del danneggiante (eventualmente non costituitosi in giudizio).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un orientamento che rende una interpretazione dell’art. 1310 c.c. di tipo “<em>peculiare</em>” ogniqualvolta dalla sopravvivenza del rapporto obbligatorio in capo ad altro condebitore solidale (nel caso di specie, al responsabile civile assicurato) possano derivare conseguenze pregiudizievoli per il debitore solidale che ha eccepito tempestivamente la prescrizione (nel caso di specie, l’assicuratore).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 aprile esce la sentenza della Sezione lavoro della Cassazione n.9053 alla cui stregua, mentre l’eccezione di prescrizione (sollevata dal debitore) è eccezione in senso stretto e non può essere rilevata d’ufficio, l’eccezione di interruzione della prescrizione (sollevata dal creditore, che di tale interruzione si giova) è eccezione in senso lato, come tale rilevabile d’ufficio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 14 giugno esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.13966 alla cui stregua, mentre l’eccezione di prescrizione (sollevata dal debitore) è eccezione in senso stretto e non può essere rilevata d’ufficio, l’eccezione di interruzione della prescrizione (sollevata dal creditore, che di tale interruzione si giova) è eccezione in senso lato, come tale rilevabile d’ufficio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 24 agosto esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 17985 che inserendosi in una consolidata giurisprudenza distingue l’illecito permanente da quello istantaneo con effetti permanenti, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità aquiliana decorre dal momento in cui l'illecito è venuto in essere in tutte le relative componenti essenziali, consistenti nell'avverarsi della condotta commissiva (o omissiva) contraria al diritto e nel verificarsi del danno che da essa deriva (il nesso causale, pure attinente al fatto, nella specie non rileva), e, nel caso in cui il danno abbia a verificarsi in un momento successivo a quello della condotta cui esso causalmente si ricollega, il termine di prescrizione deve per la Corte farsi decorrere da questo secondo momento.</p> <p style="text-align: justify;">L'inizio del decorso della prescrizione è escluso anche nel caso dell'illecito permanente, che si ravvisa quando il comportamento <em>contra ius</em> del soggetto, produttivo dell'evento dannoso e qualificato dal dolo o dalla colpa, non si esaurisca “<em>uno actu</em>”, ma si traduca piuttosto in un'attività perdurante nel tempo, costantemente sorretta dall'elemento psilogico, e tale da comportare una violazione ininterrotta del diritto altrui, con la coesistenza temporale sia della condotta illecita che dell'evento dannoso.</p> <p style="text-align: justify;">In tal caso, chiosa ancora la Corte, la prescrizione decorre dalla cessazione della condotta che ha prodotto il danno. Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione l'illecito permanente va, tuttavia, tenuto distinto dall'ipotesi dell'illecito “<em>istantaneo con effetti permanenti</em>", che si ravvisa laddove la condotta illecita si esaurisca in un fatto unico, o compiuto în un contesto temporale unico, ancorché con effetti destinati successivamente a perdurare o ad ampliarsi autonomamente nel tempo, nel qual caso l'elemento genetico del fatto dannoso si esaurisce e coincide con il relativo verificarsi, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal momento stesso del compimento della condotta illecita dell'agente, la quale inizia e si esaurisce in un momento (relativamente) determinato, producendo i! danno, la cui permanenza o azione nel tempo non assume rilevanza ai fini dell'inizio della prescrizione, dovendosi l'istantaneità o la permanenza dell'illecito extracontrattuale accertare con riferimento non già al (permanere del) danno, bensì al rapporto eziologico fra questo e îl comportamento <em>contra ius</em> dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 21 novembre esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n. 24258 che inserendosi in una consolidata giurisprudenza, ribadisce la distinzione tra illecito permanente e illecito istantaneo con effetti permanenti, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità aquiliana decorre dal momento in cui l'illecito è venuto in essere in tutte le relative componenti essenziali, consistenti nell'avverarsi della condotta commissiva (o omissiva) contraria al diritto e nel verificarsi del danno che da essa deriva (il nesso causale, pure attinente al fatto, nella specie non rileva), e, nel caso in cui il danno abbia a verificarsi in un momento successivo a quello della condotta cui esso causalmente si ricollega, il termine di prescrizione deve per la Corte farsi decorrere da questo secondo momento.</p> <p style="text-align: justify;">L'inizio del decorso della prescrizione è escluso anche nel caso dell'illecito permanente, che si ravvisa quando il comportamento <em>contra ius</em> del soggetto, produttivo dell'evento dannoso e qualificato dal dolo o dalla colpa, non si esaurisca “<em>uno actu</em>”, ma si traduca piuttosto in un'attività perdurante nel tempo, costantemente sorretta dall'elemento psilogico, e tale da comportare una violazione ininterrotta del diritto altrui, con la coesistenza temporale sia della condotta illecita che dell'evento dannoso.</p> <p style="text-align: justify;">In tal caso, chiosa ancora la Corte, la prescrizione decorre dalla cessazione della condotta che ha prodotto il danno. Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione l'illecito permanente va, tuttavia, tenuto distinto dall'ipotesi dell'illecito “<em>istantaneo con effetti permanenti</em>", che si ravvisa laddove la condotta illecita si esaurisca in un fatto unico, o compiuto în un contesto temporale unico, ancorché con effetti destinati successivamente a perdurare o ad ampliarsi autonomamente nel tempo, nel qual caso l'elemento genetico del fatto dannoso si esaurisce e coincide con il relativo verificarsi, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal momento stesso del compimento della condotta illecita dell'agente, la quale inizia e si esaurisce in un momento (relativamente) determinato, producendo i! danno, la cui permanenza o azione nel tempo non assume rilevanza ai fini dell'inizio della prescrizione, dovendosi l'istantaneità o la permanenza dell'illecito exctracontrattuale accertare con riferimento non già al (permanere del) danno, bensì al rapporto eziologico fra questo e îl comportamento <em>contra ius</em> dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 gennaio escono le sentenze delle SSUU della Cassazione n.576, 580, 581 e 583, che si occupano della decorrenza della prescrizione con riguardo al diritto al risarcimento dei danni c.d. lungolatenti, contraddistinti come tali da uno iato temporale tra quando essi si producono e la data successiva in cui chi ne sia pregiudicato ne percepisce concretamente la portata lesiva.</p> <p style="text-align: justify;">Insorto un contrasto giurisprudenziale, il Collegio lo risolve nel senso onde il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia a cagione di un fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell’art. 2947 c.c., comma 1, c.c., non già dal momento in cui il terzo ha determinato la modificazione che ha prodotto il danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo del terzo medesimo, giusta ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle pertinenti conoscenze scientifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Per le SSUU, nel diverso caso in cui non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione del relativo diritto al risarcimento del danno non può iniziare a correre, e ciò in quanto in simile ipotesi la malattia - sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo - non è idonea in sé a concretizzare il “<em>fatto</em>” (illecito) che l’art. 2947 c.c., comma 1, c.c. individua come incipit di decorrenza del termine prescrizionale. Rilevano dunque per la Corte da un lato il canone della “<em>conoscibilità del danno</em>” e dall’altro quello della c.d. “<em>rapportabilità causale</em>” (al fatto illecito di un terzo), dettando principi che vanno applicati anche ad altre fattispecie di danni c.d. lungolatenti (lesioni fisiche o malattie professionali riconducibili ad infortuni sul lavoro).</p> <p style="text-align: justify;">Volendo valutare la natura della possibile responsabilità del Ministero, va anzitutto per il Collegio esaminata la normativa che regolava l'attività dello stesso in tema di emotrasfusione all'epoca dei fatti.</p> <p style="text-align: justify;">La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei relativi derivati (esercitando la pertinente vigilanza), nonché (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue umano e dei relativi derivati per uso terapeutico. Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112). La L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.</p> <p style="text-align: justify;">La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6 lett. b, c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. "<em>farmacosorveglianza</em>" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio. Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria.</p> <p style="text-align: justify;">L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone – chiosa ancora il Collegio - a responsabilità extracontrattuale quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.</p> <p style="text-align: justify;">Sennonché, indipendentemente dal punto se l'attività di produzione, commercializzazione ed effettiva trasfusione sui singoli pazienti del sangue costituisca attività pericolosa ex art. 2050 c.c., (come pure sostenuto da gran parte della dottrina e da questa Cass. n. 1138/1995, Cass. n. 814/1997, Cass. n. 8069/1993), non altrettanto può dirsi dell'attività esercitata rispetto ad esse dal Ministero, che attiene alla sfera non direttamente gestionale, ma piuttosto di supervisione e controllo.</p> <p style="text-align: justify;">La pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati (riconosciuta nel D.M. sanità 15 gennaio 1991, art. 19, come non esente da rischi e già indicata nella remota sentenza delle S.U. 19.6.1936, in giur. it. 1936, 866, con riferimento al sangue quale possibile veicolo di infezioni) non rende ovviamente pericolosa l'attività ministeriale, la cui funzione apicale, è solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica.</p> <p style="text-align: justify;">Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l'importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma di un'attività in senso lato imprenditoriale (ritenuto da parte della dottrina, elemento necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c.), in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all'organizzazione generale di un settore vitale per la collettività. La responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l'omessa vigilanza esercitata dall'Amministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfusionali e sugli emoderivati appare inquadrabile, per la Corte, nella violazione della clausola generale di cui all'art. 2043 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Va esclusa – prosegue la Corte - anche una responsabilità del Ministero ex art. 2049 c.c., non potendo il Ministero medesimo rispondere degli eventuali fatti dannosi delle strutture sanitarie, in quanto manca un rapporto di preposizione tra il Ministero e le persone giuridiche pubbliche (Asl, Aziende ospedaliere), tutte dotate di piena autonomia, capacità e responsabilità.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio per la piena autonomia giuridica, rispetto allo Stato, dell'Ente erogatore dei servizi sanitari va esclusa una responsabilità contrattuale del Ministero. Tale rapporto contrattuale si instaura solo tra il paziente e la struttura sanitaria e dalla giurisprudenza più recente viene considerato in termini autonomi dallo stesso rapporto tra paziente e medico ( fondato su altro "<em>fatto idoneo</em>" di cui all'art. 1173 c.c., e cioè il contatto sociale) e qualificato come contratto atipico di "<em>spedalità</em>" o di "<em>assistenza sanitaria</em>". La prestazione articolata di assistenza sanitaria, dovuta dalla struttura sanitaria ingloba al relativo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cosiddetti di protezione ed accessori (cfr. Cass. SS.UU. 1.2.2002, n. 9556). Sennonché a tale contratto è completamente estraneo il Ministero della Sanità (ora della Salute).</p> <p style="text-align: justify;">Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata per il Collegio la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità. Osserva preliminarmente la Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al "<em>fatto illecito</em>", divenuto "<em>fatto dannoso</em>". In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto - reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.</p> <p style="text-align: justify;">E tuttavia un "<em>fatto</em>" è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere. Il "<em>danno</em>" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.</p> <p style="text-align: justify;">Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno - conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c.(richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "<em>che siano conseguenza immediata e diretta</em>" del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del <em>quantum</em> del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità "<em>strutturale</em>" (<em>Haftungsbegrundende Kausalitat</em>) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già' accertata) responsabilità' risarcitoria (<em>Haftungsausfkllende Kausalitat</em>). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nell'art. 1227 c.c., commi 1 e 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.</p> <p style="text-align: justify;">Nel macrosistema civilistico – prosegue la Corte - l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputazione del "<em>fatto doloso o colposo</em>" è addebitata a chi "<em>cagiona ad altri un danno ingiusto</em>", o, come afferma l'art. 1382, <em>Code Napoleon</em> "<em>qui cause au autrui un dommage</em>". Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità cd. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "<em>risarcimento del danno</em>", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.</p> <p style="text-align: justify;">Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione, quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.</p> <p style="text-align: justify;">Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana – precisa a questo punto la Corte - la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della <em>condicio sine qua non</em>). Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).</p> <p style="text-align: justify;">Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (<em>ex multis</em>: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).</p> <p style="text-align: justify;">Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di <em>common law</em>, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della propria condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione <em>ex ante</em>, al momento della condotta, o <em>ex post</em>, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi <em>ex ante</em>, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "<em>prognosi postuma</em>", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza.</p> <p style="text-align: justify;">La teoria della regolarità causale, prosegue la Corte, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione <em>ex ante,</em> verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale). In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento.</p> <p style="text-align: justify;">Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre – chiosa ancora la Corte - se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato <em>ex post</em>, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il relativo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale).</p> <p style="text-align: justify;">Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2.</p> <p style="text-align: justify;">Poiché l'omissione di un certo comportamento rileva quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a relativo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.</p> <p style="text-align: justify;">L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale. La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché <em>ex nihilo nihil fit</em>. Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perché l'evento potesse realizzarsi.</p> <p style="text-align: justify;">La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perché quell'omissione non è causa del danno lamentato. Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "<em>controfattuale</em>" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.</p> <p style="text-align: justify;">Si deve quindi ritenere per il Collegio che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "<em>regolarità causale</em>", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza. Tanto vale certamente allorché all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..</p> <p style="text-align: justify;">Né può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio. La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito. Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "<em>causale</em>" tra responsabile e danno è tutto normativo.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono a questo punto le S.U. che le suddette considerazioni non siano decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla "<em>regolarità causale</em>", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile. Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo – precisa il Collegio - si vedrà più ampiamente in seguito.</p> <p style="text-align: justify;">E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio. L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione. E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico - logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.</p> <p style="text-align: justify;">Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa:"<em>ohne schuld keine haftung</em>”), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della <em>cost - benefit analysis</em>, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.</p> <p style="text-align: justify;">Sennonché, il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno.</p> <p style="text-align: justify;">Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva – precisa ancora la Corte - sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.</p> <p style="text-align: justify;">Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "<em>da fare responsabile</em>". Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.</p> <p style="text-align: justify;">Sennonché detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., e art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale. Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "<em>concatenazione causale</em>" tra la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).</p> <p style="text-align: justify;">In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p..</p> <p style="text-align: justify;">Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito civile.</p> <p style="text-align: justify;">Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico - giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente – prosegue la Corte - tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "<em>oltre il ragionevole dubbio</em>" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "<em>del più probabile che non</em>", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali <em>standards</em> delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedasi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632).</p> <p style="text-align: justify;">Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se "<em>appaia sufficientemente probabile</em>" che l'intesa tra compagnie assicurative possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "<em>occorre postulare le varie concatenazioni causa - effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili</em>"). Detto standard di "<em>certezza probabilistica</em>" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).</p> <p style="text-align: justify;">Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. <em>evidence and inference</em> nei sistemi anglosassoni).</p> <p style="text-align: justify;">Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano la Corte ad enunciare il principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, onde: premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli <em>standards</em> di esclusione di rischi, il Giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento.</p> <p style="text-align: justify;">Dai principi sopra esposti in tema di nesso causale da comportamento omissivo emerge poi per la Corte anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Già la sentenza 31/05/2005, n. 11609 ha rappresentato che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte di legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC (epatite B), dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poiché solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono invece le S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità. Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del Giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.</p> <p style="text-align: justify;">Non può, invece, ritenersi la responsabilità del Ministero a norma dell'art. 1225 c.c., per cui il responsabile risponde anche dei danni imprevedibili. Infatti tale norma attiene, secondo la condivisibile dottrina prevalente, non al nesso di causalità materiale, ma a quella giuridica, relativa alla valutazione e determinazione dei danni.</p> <p style="text-align: justify;">Con il secondo articolato motivo di ricorso il ricorrente lamenta poi - chiosa la Corte - la violazione e falsa applicazione di legge in tema di prescrizione. Anzitutto il ricorrente lamenta che non sia stata riconosciuta la responsabilità contrattuale del Ministero, con conseguente durata decennale della prescrizione. Assume poi il ricorrente che nella fattispecie è configurabile una fattispecie di rilevanza penale, e segnatamente un'ipotesi di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime, con la conseguenza che opererebbe il più lungo termine di prescrizione penale di tali reati, che è decennale (con riferimento all'epoca dei fatti). In ogni caso il ricorrente lamenta che ha errato la corte territoriale nel far decorrere il termine prescrizionale dalla data delle trasfusioni di sangue, dovendo il <em>dies a quo</em> coincidere con quello in cui la malattia si era esteriorizzata ed in cui egli aveva avuto conoscenza non solo della patologia, ma anche della causa della stessa. Infine, il ricorrente lamenta che non sia stato riconosciuto effetto interruttivo alla sua richiesta di equo indennizzo, ai sensi della legge 2120/1992, avanzata il 31.3.1992.</p> <p style="text-align: justify;">Il motivo viene assunto dalla Corte parzialmente fondato. Anzitutto il ricorrente assume che, essendo di natura contrattuale la responsabilità del Ministero, la prescrizione nella fattispecie era decennale e non quinquennale, come ritenuto dalla corte di merito, sulla base della ritenuta natura extracontrattuale di tale responsabilità. Tale censura per il Collegio è infondata, in quanto, come sopra rilevato, l'astratta possibile responsabilità del Ministero è configurabile solo quale responsabilità extracontrattuale, a norma dell'art. 2043 c.c..</p> <p style="text-align: justify;">Va poi escluso – chiosa ancora la Corte - che nella fattispecie il fatto possa costituire un reato di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime. Premesso che il regime della prescrizione penale è cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947,comma 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre il principio di cui all'art. 2 c.p., (legge più favorevole) attiene solo agli aspetti penali. Per poter usufruire di un termine più congruo di prescrizione sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni. Nella fattispecie è anzitutto da escludere il reato di omicidio colposo, non essendo intervenuto alcun decesso. E' da escludere anche il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei relativi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio.</p> <p style="text-align: justify;">A ciò si aggiunga – prosegue la Corte - che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la diffusività incontrollabile all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia).</p> <p style="text-align: justify;">Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.</p> <p style="text-align: justify;">Rimane quindi, prosegue la Corte, solo la configurabilità del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso. Sennonché anche la prescrizione del reato di lesioni colpose è pari a cinque anni e quindi non comporta alcun effetto degno di rilievo.</p> <p style="text-align: justify;">Il punto di maggior rilievo – rappresenta a questo punto il Collegio - è l'individuazione del <em>dies a quo</em> per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.</p> <p style="text-align: justify;">Si può ora cominciare con l'osservare come il legislatore italiano del '42 ebbe ad affidare la soluzione del problema dell'individuazione del <em>dies a quo</em> (<em>exordium praescriptionis</em>) ad indicazioni piuttosto scarne e molto generiche. Come noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il "<em>fatto si è verificato</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Quest'ultima norma, pur riferendosi al solo campo della responsabilità aquiliana, ha finito per costituire il terreno elettivo dell'indagine e dell'elaborazione giurisprudenziale sul <em>dies a quo</em> in tutte le azioni risarcitone: a ben vedere, l'individuazione del momento iniziale della prescrizione è infatti sempre stata affrontata partendo dalla specificazione contenuta all'art. 2947 c.c., e dunque con riferimento al fatto originatore del danno, con un ruolo piuttosto defilato da quanto riportato nella prima norma menzionata.</p> <p style="text-align: justify;">Il codice del 1942 optò per una netta cesura con la tradizione francese e l'impostazione del codice civile del 1865, in cui le azioni risarcitorie, sia contrattuali che extracontrattuali, erano sottoposte ad un unico termine prescrizionale, individuato, sul modello francese, in trenta anni.</p> <p style="text-align: justify;">Nel nuovo codice civile il sistema della prescrizione si poneva dunque nettamente sbilanciato a favore dei convenuti, con ovvie ricadute negative per gli attori, soprattutto nei casi aventi per oggetto la violazione di un bene tanto importante quanto quello costituito dalla salute: nel segno della certezza dei rapporti giuridici, si prescindeva infatti da qualsiasi considerazione che riguardasse le ragioni oggettive e soggettive del ritardo della vittima nell'instaurazione della sua pretesa risarcitoria; risultava inoltre esclusa qualsiasi operazione di bilanciamento tra gli interessi della vittima e quelli facenti capo al soggetto evocato in giudizio, la quale operazione permettesse di verificare in concreto la sussistenza in capo al responsabile di un effettivo pregiudizio sul piano della disponibilità della prova in conseguenza del decorso del tempo.</p> <p style="text-align: justify;">Peraltro, il <em>dies a quo</em> fu inizialmente concepito come coincidente con il momento della verificazione dell'evento dannoso. Il quadro codicistico della prescrizione fu così successivamente avversato dagli interpreti sin dagli anni sessanta proprio per la relativa rigidità e sostanziale indifferenza alla posizione degli attori. Ciò ebbe a verificarsi soprattutto nel campo del danno alla persona e non fu certo un caso che tale processo di revisione delle norme del codice andò incontro ad una vera e propria svolta negli anni settanta in concomitanza con l'ingresso dirompente del danno biologico nella giurisprudenza italiana: il nuovo modo di concepire la tutela risarcitoria della salute finì per riflettersi non solo sul versante dei danni risarcibili con lo sgretolamento progressivo del 2059 c.c., ma anche sul piano delle regole relative all'<em>an debeatur</em> e della prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Negli ultimi tre decenni – prosegue la Corte - si è quindi assistito al sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del '42: ciò a tal punto che oggi l'istituto della prescrizione presenta ormai una vistosa differenza tra le regole operazionali ed il formante legislativo (principalmente, l'art. 2947 c.c.,comma 1), rimasto invariato nella forma. In particolare, a partire dagli anni settanta, la dottrina e le corti, <em>in primis</em> la Cassazione (24.3.1979, n. 1716), vennero a spostare il <em>dies a quo</em> dal verificarsi del fatto all'esteriorizzazione del danno, finendo così per soppiantare in larga misura lo schema codicistico o, perlomeno, l'interpretazione tradizionale di detto schema: se infatti, in virtù della regola della decorrenza dal momento della "<em>manifestazione del danno</em>", l'orizzonte della prescrizione può dilatarsi, è di tutta evidenza come lo schema delineato dal legislatore venga di fatto rovesciato, poiché il limite diventa "<em>mobile</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Il principio della conoscibilità del danno venne infatti ampiamente ripreso, sviluppato ed affinato dalla giurisprudenza successiva proprio all'insegna di una rilettura dell'art. 2947 c.c. alla luce del principio generale sul <em>dies a quo</em> (Cass. n. 8845/1995; 5913/2000). Nell'evoluzione giurisprudenziale la Corte (Cass. 10.6.1999, n. 5701;Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha nuovamente affrontato il significato da attribuirsi all'espressione "<em>verificarsi del danno</em>", specificando che il danno si manifesta all'esterno quando diviene "<em>oggettivamente percepibile e riconoscibile</em>" anche in relazione alla sua rilevanza giuridica.</p> <p style="text-align: justify;">Nei casi sopra citati emerge peraltro come la Suprema Corte sia tendenzialmente incline a ritenere che il parametro della "<em>conoscibilità del danno</em>" debba necessariamente interpretarsi nel senso che, ai fini del decorso della prescrizione, non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di "<em>stare male</em>", bensì occorre che quest'ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la "<em>gravità</em>" delle conseguenze lesive della propria salute anche con riferimento alla loro "<em>rilevanza giuridica</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia il solo modello ancorato al parametro della "<em>conoscibilità del danno</em>" può, in taluni casi, rilevarsi del tutto insoddisfacente e fuorviante: infatti, prosegue la Corte, sviluppare una malattia irreversibile (ad esempio, un'epatite cronica) o comunque duratura, oppure trovarsi permanentemente menomati a livello di integrità psicofisica sono tutte situazioni che, se da un lato sostanziano la "<em>conoscibilità del danno</em>", dall'altro lato non necessariamente danno luogo alla "<em>conoscibilità del fatto giuridicamente rilevante ai fini di un'azione risarcitoria</em>", ovvero alla "<em>conoscibilità del fatto illecito</em>"; in tutta una serie di casi, infatti, la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi anche ai fini dell'istruzione di una causa sul piano probatorio e certo tali da escludere che l'inattività della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell'interruzione della prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Queste esigenze sono state recepite in un nuovo orientamento della Corte che ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il "<em>fatto</em>" che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n. 2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493). Viene applicato, unitamente al principio della "<em>conoscibilità del danno</em>", quello della "<em>rapportabilità causale</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Egualmente è a dirsi per le malattie professionali e per talune ipotesi di lesioni fisiche cagionate da infortuni sul lavoro. Anzi, proprio in relazione a quest'ultimo specifico ambito la Sezione lavoro della Suprema Corte, rapportando l'esigenza di certezza in capo alla vittima, ha ritagliato, attraverso una serie innumerevole di decisioni, una nozione piuttosto precisa di che cosa si debba intendere per "<em>manifestazione del danno</em>" comprensiva, anche della conoscenza della causa professionale della lesione (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 19575 del 2004; Cass. n. 23110 del 2004).</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono a questo punto le Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento, onde l'individuazione del <em>dies a quo</em> ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'"<em>esteriorizzazione del danno</em>" può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti. E' quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del <em>dies a quo</em> venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno "<em>occulto</em>" a quello che si manifesta nelle relative componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di <em>medical malpractice</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Va osservato per il Collegio che l'interpretazione dell'art. 2947 c.c., comma 1, nel senso di dar rilievo alla percepibilità e riconoscibilità del danno, nonché alla relativa “<em>rapportabilità causale</em>”, trova conferma nell'espressa disciplina normativa in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall'impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi. La L. 31 dicembre 1962, n. 1860, art. 23, comma 1, ("<em>impiego pacifico dell'energia nucleare</em>"), nel testo novellato dal D.P.R. 10 maggio 1975, n. 519, dispone che "<em>le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell'identità dell'esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre il D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224, art. 13, commi 1 e 2, (recante "<em>attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi della L. 16 aprile 1987, n. 183, art. 15</em>") prescrive che "<em>Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell'identità del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l'esercizio di un'azione giudiziaria</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Va specificato – chiosa ancora il Collegio - che il suddetto principio in tema di <em>exordium praescriptionis</em>, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa. Ciò comporta una rigorosa analisi da parte del Giudice di merito sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in relativo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi.</p> <p style="text-align: justify;">Ugualmente dovrà essere accuratamente ricostruito ai fini di una motivazione completa e corretta sul punto della prescrizione, lo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, onde inferirne se la riconducibilità della possibilità di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunità scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore.</p> <p style="text-align: justify;">Il principio, quindi, che va affermato, è per la Corte, allorché si versi, come nella fattispecie in tema di responsabilità aquiliana, quello onde il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell'art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione. In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito. Tale tesi non pare alla Corte convincente, per diversi ordini di motivi: perché offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a proprio piacere il corso della prescrizione; perché potrebbe portare ad affermare che il <em>dies a quo</em> inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell'azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico - legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo).</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso. Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre che il giudice proceda ad un'accurata disamina, puntualmente motivata per sottrarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha contrassegnato l'atteggiamento della vittima a fronte della relativa sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell'accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi alle sue cause, e, infine, al responsabile del danno.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che nella fattispecie sono infondate le censure relative alla decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per pretesa responsabilità contrattuale del Ministero, ovvero perché il fatto costituisca un'ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, mentre è fondata la censura relativamente al <em>dies a quo</em> della decorrenza della prescrizione quinquennale, avendo il Giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data della trasfusione in luogo di quella in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto.</p> <p style="text-align: justify;">Quanto alla censura sollevata con il ricorso secondo cui la richiesta di indennizzo ha effetto interruttivo della prescrizione, essa per la Corte è infondata. Tale richiesta non può avere alcun effetto interruttivo della diversa domanda di risarcimento danni, attesa l'ontologica diversità tra l'indennizzo - indifferente a qualsiasi rilievo sotto il profilo della colpa, e il danno.</p> <p style="text-align: justify;">Come è giurisprudenza pacifica della Corte, ai sensi dell'art. 2943 c.c., comma 1, non ogni domanda ha effetto interruttivo della prescrizione, ma soltanto quella con cui l'attore chieda il riconoscimento e la tutela del diritto di cui si eccepisca la prescrizione (Cass. 16/01/2006, n. 726; Cass. 08/02/2006, 2811). Ciò vale a maggior ragione per la domanda avanzata in sede amministrativa di indennizzo, nei confronti della prescrizione della domanda di risarcimento del danno.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 24418 che torna occuparsi del tema dell’anatocismo. Dato per assodato che le clausole anatocistiche sono nulle, un primo problema è quello di individuare il regime prescrizionale dell’azione di ripetizione delle somme alla banca. Le SSUU abbracciano almeno parzialmente – al fine di determinare il termine di decorrenza della prescrizione - la concezione “<em>atomistica</em>” del contratto bancario, fino ad allora minoritaria: il rapporto è unitario sullo sfondo, ma non per questo il diritto alla ripetizione dell’indebito (interessi anatocistici) si prescrive sempre dalla chiusura del conto.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte muove da altri rapporti di durata che prevedono prestazioni di somme di denaro ripetute e scaglionate nel tempo, come nel caso dei canoni di locazione o d’affitto, o nel caso del prezzo della somministrazione periodica di cose: il rapporto è unitario, ma ciascun singolo pagamento non dovuto è come tale indebito, e dal momento di tale pagamento (da quando ha avuto concretamente luogo) decorre il pertinente termine di prescrizione dell’azione di ripetizione. E’ infatti da quel momento che è sorto il credito del <em>solvens</em> alla ripetizione, e che dunque decorre la prescrizione della relativa azione. Bisogna tuttavia tenere conto, soggiunge la Corte, che nel caso particolare del conto corrente bancario il rapporto unitario che ne sorge è connotato dal predicato della “<em>contabilità</em>”: è un rapporto unitario meramente contabile, e le singole operazioni hanno natura puramente contabile, senza che ad esse corrisponda un reale spostamento patrimoniale tra le parti. Il problema è allora quello di capire quando può dirsi avvenuto un reale pagamento (non dovuto) tra le parti, con conseguente spostamento patrimoniale di somme (non dovute), anche in considerazione del fatto che l’art.2033 prevede un rimedio quasi-contrattuale che trova nell’effettivo “<em>pagamento</em>” (disposizione patrimoniale) senza causa (<em>ab origine</em> o per fatti sopravvenuti) il proprio fondamento.</p> <p style="text-align: justify;">Se è al pagamento effettivo che occorre guardare, pur nel contesto unitario del rapporto contrattuale bancario, occorre distinguere: a) il rapporto di conto corrente, che ha natura meramente contabile, con la conseguenza che le annotazioni attive e passive non possono qualificarsi come pagamenti veri e propri; in presenza di una clausola anatocistica nulla che accede ad un conto corrente bancario, una annotazione passiva indebita non equivale ad un pagamento in senso tecnico, e non fa decorrere il termine prescrizionale, pur potendo il cliente ottenere subito dalla banca una rettifica dell’annotazione, ma confidando ad un tempo sul fatto che potrà agire per la ripetizione dal momento della chiusura del conto corrente; b) il particolare rapporto di apertura di credito in conto corrente, che ha natura e funzionamento suoi propri: qui occorre per la Corte ulteriormente distinguere – come già accaduto in tema di revocatoria fallimentare - tra b.1) il caso in cui il cliente della banca si limiti a ripristinare la provvista di cui gode con l’apertura di credito, atto che non è pagamento in senso tecnico e per il quale vale il medesimo regime prescrizionale (in termini di indebito) già visto per le annotazioni in conto corrente, con decorrenza dalla chiusura del rapporto; b.2) il diverso caso in cui vi sia un effettivo spostamento patrimoniale, in quanto il cliente della banca non si limita a ripristinare la provvista dell’apertura di credito ma piuttosto - trovandosi “<em>allo scoperto</em>” - copre un passivo che eccede i limiti dell’accreditamento ricevuto: qui il versamento reintegratorio costituisce pagamento in senso tecnico, e la prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito (eventuali interessi anatocistici non dovuti) inizia a decorrere dal momento del pagamento stesso (e non dalla chiusura del rapporto).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1084 che si occupa di un caso particolare di interruzione della prescrizione, ovvero quello in cui il credito abbia ad oggetto il risarcimento di un danno, il debitore danneggiante compia atti dispositivi del proprio patrimonio a carattere fraudolento ed il creditore danneggiato agisca in revocatoria così esercitando la propria pretesa creditoria in via “<em>mediata</em>” ed indiretta, quand’anche il proprio credito risarcitorio non sia stato ancora definitivamente accertato in giudizio quanto al pertinente an, e dunque con riguardo alla effettiva responsabilità del danneggiante.</p> <p style="text-align: justify;">In questo caso, il creditore attiva un giudizio (quello in revocatoria) inscindibilmente connesso a quello orientato a far valere la propria pretesa creditoria, con conseguente possibilità per la Corte di affermare appunto l’interruzione della prescrizione di tale pretesa “<em>di base</em>”, sulla scorta di una manifestazione tacita di volontà nel senso dell’esercizio della pretesa medesima, seppure senza equivoci. Ne discende l’effetto interruttivo della prescrizione, che resta sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide sull’azione revocatoria, ai sensi e per gli effetti degli articoli 2943 e 2945 c.c., essendo stato attivato “un giudizio” siccome previsto dalle ridette norme in combinato disposto tra loro.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;"> Il 26 febbraio viene varata la legge n.10, il cui art.2, comma 61, si occupa della decorrenza del termine prescrizionale per l’azione di ripetizione degli interessi anatocistici (nulli) versati alle banche: si tratta di una norma che interpreta autenticamente l’art.2935 c.c. e afferma che la prescrizione decorre non già dalla chiusura del conto, quanto piuttosto dalla singola annotazione in conto corrente di interessi non dovuti, dichiarando peraltro comunque non dovuta la restituzione degli importi eventualmente già versati dal cliente alla data del 27 febbraio 2011 (azione inammissibile), giorno di entrata in vigore della disposizione. Una norma che se da un lato è interpretativa e, dunque, retroattiva (applicabile a rapporti di conto corrente non ancora esauriti), dall’altro non è solo tale (interpretativa) in quanto finisce sostanzialmente con l’equiparare l’annotazione in conto corrente al vero e proprio pagamento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.19702 che si occupa della particolare fattispecie in cui il venditore si sia assunto l'impegno di eliminare i vizi della cosa venduta, affrontando il tema se tale contegno del venditore comporti soltanto un'interruzione della prescrizione destinata a decorrere <em>ex novo</em> secondo lo speciale regime annuale delle azioni c.d. edilizie, ovvero determini piuttosto l'applicazione dell'ordinario regime decennale di prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio precisa sul punto come l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa venduta, siccome accettato dal compratore, fa sorgere in capo a quest’ultimo un diritto soggetto alla prescrizione decennale, mentre i diritti alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto restano soggetti alla prescrizione annuale, stante come il contenuto dell’obbligazione “<em>di garantire il compratore da vizi di cosa</em>”, che nell’art. 1476 n. 3 c.c. è inserita tra quelle “<em>principali del venditore</em>”, è poi precisato dagli articoli 1492, 1493 e 1494, i quali attribuiscono al compratore medesimo - fatte salve le esclusioni stabilite dagli articoli 1490 e 1491 c.c. – tanto la facoltà di “<em>domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione</em>”, quanto le restituzioni e i rimborsi conseguenti alla risoluzione, quanto ancora il “<em>risarcimento del danno</em>”, se il venditore “<em>non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa</em>”, e comunque per i “<em>danni derivati dai vizi</em>” stessi.</p> <p style="text-align: justify;">In queste disposizioni – prosegue il Collegio - si esaurisce la disciplina dell’istituto, che pone quindi il venditore in una situazione non tanto di “<em>obbligazione</em>”, quanto piuttosto di “<em>soggezione</em>”, esponendolo all'iniziativa del compratore intesa alla modificazione del contratto di vendita, ovvero alla relativa caducazione, mediante l’esperimento, rispettivamente, dell’<em>actio quanti minoris</em> (manutentiva) o dell’<em>actio </em>redibitoria (risolutva). Il venditore deve giocoforza subire tali effetti, che si verificano nella relativa sfera giuridica <em>ope iudicis</em>, senza essere tenuto ad eseguire alcuna prestazione, a parte il <em>dare</em> e il <em>solvere</em> derivanti dai doveri di restituzione e di risarcimento.</p> <p style="text-align: justify;">La diversa obbligazione di <em>facere</em>, che il venditore medesimo eventualmente assuma impegnandosi a eliminare i vizi della cosa venduta non dà luogo all’estinzione per novazione della garanzia apprestata dagli artt. 1490 ss. c.c., sicché non vi è spazio per ritenere che possa influire sulla relativa disciplina, in particolare trasformando da annuale in decennale il termine di prescrizione previsto dall’art. 1495 c.c., che è insuscettibile di modificazioni per volontà delle parti, stante il divieto sancito dall’arr. 2936 c.c.. Dunque, l'ulteriore diritto, che il compratore (eventualmente) acquisisce è per il Collegio soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, in quanto è estraneo alla previsione degli artt. 1490 s. c.c., ma proprio per questa stessa ragione – precisa ancora la Corte - resta applicabile alle azioni edilizie, che al compratore stesso già spettavano, la prescrizione breve di 1 anno che è per esse specificamente stabilita, e non già quella decennale prevista per tale nuova, autonoma ed eventuale pretesa ad un <em>facere</em> ripristinatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, chiosa ancora la Corte, il pericolo che in tal modo le azioni di riduzione del prezzo e di risoluzione del contratto si prescrivano durante il periodo (normalmente superiore all’anno) in cui il compratore si astiene dall’esercitarle per essere in corso gli interventi del venditore finalizzati all'eliminazione dei vizi è agevolmente evitabile ponendo in essere, ad iniziativa del compratore stesso, atti interruttivi all’uopo.</p> <p style="text-align: justify;">Non può neppure condividersi l’assunto secondo cui il momento attuativo/correttivo, originato dall'accordo raggiunto tra le parti per la riparazione del bene, possa avere effetto su quello risarcitorio/caducatorio, rappresentato dalle azioni edilizie, tanto da far assimilare il termine di prescrizione previsto per il secondo (annuale) a quello operante per il primo, trattandosi di assunto che non ha riscontro nella disciplina della garanzia per vizi, la quale non prevede l’obbligo di eliminarli.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, per la Corte non è abbracciabile neppure l’opzione ermeneutica (in passato affacciata dalla II sezione) onde il riconoscimento dei vizi della cosa venduta ed il contestuale impegno del venditore ad eliminarli in sede di esecuzione del contratto non sarebbero che uno dei modi con cui il venditore - che ha l'obbligo di consegnare una cosa immune da vizi di cui all'art. 1490 c.c. – assicura ed attua l'esatto adempimento della relativa prestazione; essi, di per sé, non darebbero luogo pertanto ad un accordo novativo, a meno che non sia in concreto provata la volontà delle parti di sostituire al rapporto originario un nuovo rapporto con diverso oggetto o titolo, così come richiesto per la novazione dell'art. 1230 c.c. e dell'art. 1231 c.c, che estesamente chiarisce come non si abbia novazione nel caso di mera modifica degli elementi accessori della obbligazione; conseguentemente, in mancanza della predetta prova (della novazione), il riconoscimento da parte del venditore dei vizi della cosa venduta e l'impegno a ripararla determinerebbe secondo tale impostazione solo l'interruzione del termine di prescrizione annuale di cui all'art. 1495 c.c, e non la sostituzione di tale termine con il nuovo e diverso termine di prescrizione ordinaria.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una tesi per le SSUU non condivisibile dalle Sezioni Unite, il presupposto di essa compendiandosi nel fatto che il compratore disporrebbe di una azione “<em>di esatto adempimento</em>” per ottenere dal venditore l’eliminazione dei vizi della cosa: azione compresa tra quelle edilizie e quindi soggetta anch'essa al termine di prescrizione annuale stabilito dall'art. 1495 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Tale rimedio non è invece apprestato dalla disciplina della garanzia per i vizi della cosa venduta, che attribuisce al compratore la scelta soltanto tra la riduzione del prezzo e la risoluzione del contratto, onde il diritto di ottenere, in alternativa, la riparazione del bene è riconosciuto soltanto in particolari ipotesi: limitatamente ai beni mobili, quando “<em>il venditore ha garantito per un tempo determinato il buon funzionamento della cosa venduta</em>”, oppure “<em>gli usi ... stabiliscono che la garanzia di buon funzionamento è dovuta anche in mancanza di patto espresso</em>” (art. 1512 c.c., che fissa in 6 mesi dalla scoperta il termine di prescrizione); sempre limitatamente ai mobili, “<em>per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene</em>”, se il venditore è un “<em>professionista</em>” e il compratore un “<em>consumatore</em>” (artt. 128 ss. del codice del consumo, adottato con il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che fissano in 26 mesi dalla consegna il termine di prescrizione).</p> <p style="text-align: justify;">Che il compratore possa chiedere, indipendentemente da un impegno in tal senso del venditore, la condanna di costui all’eliminazione dei vizi, è stato talora ipotizzato in dottrina anche sotto il profilo del risarcimento del danno in forma specifica: si tratterebbe quindi di un’azione insita nel diritto di garanzia e in quanto tale soggetta anch'essa alla prescrizione annuale. L’assunto appare tuttavia alle SSUU incompatibile con il disposto dell’art. 1494 c.c., che configura come risarcimento “<em>per equivalente</em>” quello che compete al compratore, poiché lo collega alla riduzione del prezzo o alla risoluzione del contratto, che presuppongono la mancata riparazione del bene.</p> <p style="text-align: justify;">Per tali ragioni occorre per il Collegio concludere nel senso che l’impegno del venditore all'eliminazione dei vizi, accettato dal compratore, fa sorgere in capo al medesimo un corrispondente diritto “<em>nuovo</em>”, che è autonomo e soggetto alla ordinaria prescrizione decennale, mentre i diritti alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto restano soggetti alla prescrizione annuale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.23017 alla cui stregua – inserendosi in un orientamento sul punto consolidato - il fatto che la domanda giudiziale sia inammissibile non ne esclude l’effetto interruttivo della prescrizione del pertinente diritto, che perdura fino al giudicato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.11985 alla cui stregua – più rigorosamente rispetto a diversa giurisprudenza - in tema di interruzione della prescrizione e di applicazione degli art.2943, comma 1, c.c. e 2945, comma 2, c.c., la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio impedisce l’interruzione della prescrizione e la conseguente sospensione del relativo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo,i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza alcuna efficacia retroattiva.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 maggio esce la sentenza delle Sezione III della Cassazione n.9858, che ribadisce come l’assicuratore della responsabilità civile debba essere considerato un debitore solidale rispetto alla pretesa risarcitoria vantata da terzi nei confronti dell’assicurato, con la conseguenza onde l'eccezione di prescrizione proposta dallo stesso non estingue il credito vantato dal danneggiato verso il debitore assicurato medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, l'eccezione di prescrizione giova solo all'assicurazione e questo non già in forza dell'art. 2939 c.c. (e, dunque, non già per il considerare l’assicuratore “terzo” alla stregua di tale norma), quanto piuttosto in virtù dei principi generali in materia di solidarietà passiva, ed in particolare del disposto dell’art. 1310 c.c., laddove prevede che l'eccezione di prescrizione sollevata da uno dei condebitori solidali non giova agli altri coobbligati in solido (nel caso di specie, all’assicurato danneggiante).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 9 giugno esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 12911 alla cui stregua laddove l'assicuratore della responsabilità civile eccepisca la prescrizione nel corso del giudizio intentato dal danneggiato, la relativa eccezione deve assumersi giovare anche al debitore-assicurato estinguendone il debito nei confronti del danneggiato medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò sulla base dell’assunto onde un'eventuale persistenza del rapporto obbligatorio tra danneggiato e danneggiante implicherebbe comunque conseguenze pregiudizievoli all’assicuratore che ha tempestivamente eccepito la prescrizione, palesandosi lo stesso comunque obbligato a risarcire il sinistro, quale coobbligato solidale del danneggiante (eventualmente non costituitosi in giudizio).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un orientamento che rende una interpretazione dell’art. 1310 c.c. di tipo “<em>peculiare</em>” ogniqualvolta dalla sopravvivenza del rapporto obbligatorio in capo ad altro condebitore solidale (nel caso di specie, al responsabile civile assicurato) possano derivare conseguenze pregiudizievoli per il debitore solidale che ha eccepito tempestivamente la prescrizione (nel caso di specie, l’assicuratore).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.13676, che si occupa di termine decadenziale di esercizio del diritto al rimborso di imposte dichiarare incompatibili con il diritto europeo da parte della Corte gi Giustizia UE.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, anche quando la sentenza della Corte di Giustizia UE che dichiari incompatibile un’imposta con il diritto europeo intervenga dopo che tale imposta sia stata già versata dal contribuente, va considerato quale dies a quo del termine per chiedere il rimborso sempre il versamento dell’imposta stessa, nonostante esso abbia avuto luogo quando il contribuente ancora non sapeva della incompatibilità euro unitaria dell’imposta in parola, con conseguente perdita secca di una quota-parte del termine di decadenza che presidia il rimborso di che trattasi; potrebbe addirittura accadere che il – quando interviene la sentenza sovranazionale - il termine stesso sia già spirato, per essere intervenuto il versamento dell’imposta medesima molto tempo prima di detta sentenza (che ne autorizzerebbe il rimborso).</p> <p style="text-align: justify;">Le SSUU fanno dunque prevalere il canone della certezza del diritto su quello dell’affidamento incolpevole del contribuente (che ha confidato senza colpa nella compatibilità dell’imposta versata con l’ordinamento europeo). Per la Corte, più in specie, gli effetti “dichiarativi” della sentenza resa dalla Corte di Giustizia UE in sede di rinvio pregiudiziale vanno assunti assimilabili a quelli che normalmente scaturiscono da una declaratoria di incostituzionalità di una norma da parte della Corte costituzionale, e ciò anche in termini di pertinente retroattività, scontando tuttavia il noto limite dei c.d. “<em>rapporti esauriti</em>”, ai quali gli effetti della sentenza normalmente non si estendono, potendo tuttavia il legislatore disciplinare gli effetti della declaratoria (eurounitaria o costituzionale) sui ridetti rapporti esauriti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 24822 del 2015, che affronta la questione concernente i limiti di estensione del principio della diversa decorrenza degli effetti della notificazione nelle sfere giuridiche, rispettivamente, del notificante e del destinatario.</p> <p style="text-align: justify;">E' chiesto – più in specie - un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sui limiti di operatività del principio: se debba, cioè, essere riferito ai soli atti processuali, o possa essere ampliato alla notificazione di atti sostanziali od, eventualmente, di atti processuali che producano effetti anche sostanziali. Il quesito è relativo alla notificazione dell'atto di citazione in revocatoria ed, in particolare, quel che si tratta di individuare è il momento di interruzione della prescrizione ex art. 2903 c.c..</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall'atto di esercizio del diritto in parola, ovvero dalla consegna dell'atto (processuale, quale unico mezzo con effetti anche sostanziali) all'ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l'atto perviene all'indirizzo del destinatario.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre esce l’ordinanza della III Sezione della Cassazione n.25967 alla cui stregua l’eccezione di prescrizione sollevata da uno dei debitori solidali non giova agli altri soggetti obbligati in solido.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta per la Corte di un canone ritraibile da quanto afferma l’art. 1310 c.c., ultimo comma, onde la rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto (liberatorio) riguardo agli altri.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte, nondimeno, rimette alle SSUU la pertinente questione, che concerne gli effetti, nei confronti dei condebitori solidali e, segnatamente, del danneggiante responsabile, della eccezione di prescrizione sollevata dall’assicuratore della responsabilità civile, quale litisconsorte necessario (condebitore solidale) nel giudizio proposto dal danneggiato nei confronti del danneggiante. Si tratta di capire se di tale eccezione possa giovarsi (in via estensiva) anche il responsabile danneggiante che tale eccezione non abbia sollevato, ovvero se gli effetti della prescrizione possano assumersi limitati al solo assicuratore che ha sollevato la pertinente eccezione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.1516 che, risolvendo un contrasto giurisprudenziale insorto sul punto, afferma – sul crinale processuale - essere idonea ad interrompere la prescrizione la domanda nuova in appello, sebbene introdotta con atto la cui notifica sia nulla.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la legge n.76 recante regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, secondo il cui art.1, comma 18, la prescrizione resta sospesa tra le parti dell'unione civile, finché questa ovviamente perdura.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.6959 che assume irrilevante, nel caso di specie, la questione se l’eccezione di prescrizione sollevata dall’assicuratore della responsabilità civile possa estendere i propri effetti (in bonam partem) anche all’assicurato danneggiante che tale eccezione non abbia tempestivamente sollevato.</p> <p style="text-align: justify;">La assunta irrilevanza rispetto alla fattispecie scandagliata fa sfumare l’opportunità per la Corte di esprimersi a SSUU sul contrasto che campeggia in materia.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.22059 alla cui stregua, posto che in tema di azione risarcitoria per responsabilità professionale, ai fini dell’individuazione del momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale, si deve avere riguardo all’esistenza di un danno risarcibile ed al relativo manifestarsi all’esterno come percepibile dal danneggiato alla stregua della diligenza da quest’ultimo esigibile ai sensi dell’art. 1176 c.c., secondo <em>standards</em> obiettivi ed in relazione alla specifica attività del professionista, ne consegue per il Collegio che, qualora venga prospettata la responsabilità professionale di un notaio per avere iscritto ipoteca, a garanzia di un’agevolazione finanziaria, su di un bene risultato poi non essere di proprietà del debitore, la prescrizione non decorre dall’atto di iscrizione, ma dal momento in cui il creditore, dovendo fare valere la garanzia, ha scoperto che essa era in realtà inesistente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza della Corte d’Appello di Napoli alla cui stregua laddove la banca eccepisca la prescrizione dell'azione di ripetizione dell'indebito, assumendo la natura solutoria di tutte le rimesse su saldo passivo, spetta al correntista l'onere di ribaltare il pertinente quadro probatorio producendo un eventuale contratto di apertura di credito da cui emerga l'esatto importo dell'affidamento, al fine di consentire al giudice la valutazione della natura ripristinatoria – e non già solutoria - delle medesime rimesse.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 2026 che afferma applicarsi l’ordinario termine decennale di prescrizione all’azione di ripetizione dell’indebito proposta dal correntista che lamenti la nullità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 27680 che rimette alle SSUU una importante questione ancora una volta in tema di rapporti tra conto corrente bancario, prescrizione e ripetizione di indebito. In particolare, si tratta di stabilire le modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione estintiva, sollevata dalla banca per paralizzare la domanda del correntista di restituzione di somme indebitamente versate nel corso del rapporto di conto corrente, questione sorta all'esito della sentenza delle Sezioni Unite del 2 dicembre 2010, n. 24418.</p> <p style="text-align: justify;">Quest'ultima – precisa il Collegio - ha enunciato il principio secondo cui l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. La pronuncia muove dal rilievo per cui non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l'attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione.</p> <p style="text-align: justify;">Di conseguenza, se il correntista, nel corso del rapporto, abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti) e da fare decorrere il termine prescrizionale, in quanto siano consistiti nell'esecuzione di una prestazione da parte del <em>solvens</em> ed abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore dell'<em>accipiens</em>. E ciò accadrà quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'affidamento, o ove si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo ("<em>scoperto</em>") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista; non così in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere (sent. cit., in motivazione).</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite sostengono la necessità, in base ai principi richiamati, di distinguere i versamenti solutori da quelli ripristinatori della provvista: giacché solo i primi possono considerarsi pagamenti nel quadro della fattispecie di cui all'art. 2033 c.c.; con la conseguenza che la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito decorre, per tali versamenti, dal momento in cui le singole rimesse abbiano avuto luogo. I versamenti ripristinatori, invece, non soddisfano il creditore ma ampliano o ripristinano la facoltà d'indebitamento del correntista: sicché, con riferimento ad essi, di pagamento non potrà parlarsi prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato, nel qual caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l'eventuale azione di ripetizione d'indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">E' subito sorto nella pratica applicativa – chiosa a questo punto il Collegio - il problema di come la banca, alla quale il correntista chieda la restituzione di somme versate indebitamente, debba formulare l'eccezione di prescrizione; in particolare, se questa, per essere validamente proposta e quindi ammissibile, debba contenere l'allegazione, non solo, dell'inerzia del titolare, ma anche delle singole rimesse operate nel corso del rapporto aventi natura solutoria e, pertanto, dell'avvenuto superamento del limite dell'affidamento da parte del cliente. In effetti, la distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca è stata elaborata dalla giurisprudenza - come riconosciuto dalle Sezioni Unite - "<em>ad altri fini</em>" ed averla valorizzata, enfatizzandola, per stabilire il momento da cui possa scaturire la pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della prescrizione, è un'operazione suscettibile di generare incertezze applicative.</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo, precisa ancora la Corte, si sono delineati nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti, secondo il primo dei quali l'eccezione di prescrizione genericamente formulata dalla banca con riferimento a tutte le rimesse affluite sul conto, senza indicazione di quelle aventi natura solutoria, sarebbe inammissibile. Si ritiene, in presenza di un contratto di apertura di credito, che "<em>la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che hanno invece avuto natura solutoria (cfr. Cass., sez. I, n. 26 febbraio 2014, n. 4518); con la conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell'eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all'omesso assolvimento di tali oneri, individuando d'ufficio i versamenti solutori</em>" (Cass., sez. VI-I, 7 settembre 2017, n. 20933). Nella stessa direzione si colloca, in sostanza, un'altra ordinanza, secondo la quale "<em>grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l'onere di allegare, ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione - e poi di provare, ai fini della fondatezza dell'eccezione, - non solo il mero decorso del tempo, ma anche l'ulteriore circostanza dell'avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell'affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto 'attenuata' nella relativa deduzione (e, cioè, senza la necessità di un'allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie), deve, però, comunque recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata). Tale dato costituisce infatti il fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio dall'attore, dal momento che solo nelle operazioni extra-fido può ravvisarsi un'attività solutoria, con decorso della prescrizione dalla data del versamento, anziché dalla data di chiusura del conto. Nella specie, la banca, nel sollevare l'eccezione di prescrizione in primo grado, non aveva allegato, sussistendo un'apertura di credito e quindi un affidamento, che vi erano state, nel corso del rapporto bancario, rimesse effettuate ultra-fido, non più ripetibili essendo decorsi 10 anni (art. 2033 c.c</em>.)" (Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12977, ha accolto il ricorso dei correntisti che denunciavano la genericità e inammissibilità dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla banca).</p> <p style="text-align: justify;">Al predetto orientamento (più favorevole al correntista) se ne contrappone un altro, secondo il quale "<em>non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione. Un tale incombente è estraneo alla disciplina positiva dell'eccezione in esame. Una volta che la parte convenuta abbia formulato la propria eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, o attuate su di un conto in attivo, siano irrilevanti ai fini della prescrizione, non potendosi considerare quali pagamenti</em>"; "<em>non si vede per quale ragione la banca che eccepisca la prescrizione debba essere gravata dell'onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la detta prescrizione possa, poi, in concreto operare</em>)" (Cass., sez V-I, 22 febbraio 2018, n. 4372). Ed infatti, "<em>a fronte della comprovata esistenza di un contratto di conto corrente assistito da apertura di credito, la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti emerge dagli estratti conto che il correntista, attore nell'azione di ripetizione, ha l'onere di produrre in giudizio. La prova degli elementi utili ai fini dell'applicazione dell'eccepita prescrizione è, dunque, nella disponibilità del giudice che deve decidere la questione: perlomeno lo è ove il correntista assolva al proprio onere probatorio; se ciò non accada il problema non dovrebbe nemmeno porsi, visto che mancherebbe la prova del fatto costitutivo del diritto azionato, onde la domanda attrice andrebbe respinta senza necessità di prendere in esame l'eccezione di prescrizione</em>" (Cass. cit.). In altri termini, "<em>il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide, dunque, sul contenuto dell'eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura, solutoria o ripristinatoria, dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, se del caso con l'ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell'indebito e della prescrizione</em>" (Cass. cit.).</p> <p style="text-align: justify;">La menzionata ordinanza n. 4372 del 2018 dichiara di porsi in linea di continuità con il costante indirizzo (tra le tante, Cass., sez. III, 29 luglio 2016, n. 15790; sez. I, 27 luglio 2016, n. 15631; sez. I, 16 maggio 2016, n. 9993; sez. V-III, 20 gennaio 2014, n. 1064; sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28292; sez. lav. 22 ottobre 2010, n. 21752; sez. III, 22 giugno 2007, n. 14576; sez. I, 22 maggio 2007, n. 11843; sez. I, 3 novembre 2005, n. 21321; sez. lav., 23 agosto 2004, n. 16573), risalente alla sentenza delle Sezioni Unite del 25 luglio 2002, n. 10955, secondo cui "<em>elemento costitutivo della eccezione di prescrizione estintiva è l'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una </em>quaestio iuris<em> concernente l'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al potere-dovere del giudice</em>". Pertanto, secondo quest'ultimo orientamento, non incorre nelle preclusioni di legge la parte che, proposta originariamente un'eccezione di prescrizione quinquennale, invochi nel successivo corso del giudizio la prescrizione ordinaria decennale, o viceversa. Inoltre, il riferimento della parte ad uno di tali termini non priva il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma che prevede un termine diverso, atteso che la questione relativa all'applicabilità di uno specifico termine di prescrizione attiene all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge, la cui rilevazione non è riservata al monopolio della parte ma può avvenire anche d'ufficio.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio ritiene dunque alfine di rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della composizione del rilevato contrasto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 2660 secondo la quale, in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente della banca, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un'apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento; ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l'esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della III Sezione della Cassazione n.15869 alla cui stregua, in tema di assicurazione della responsabilità civile e di eccezione di prescrizione sollevata da solo assicuratore, risultano essersi contrapposti due diversi orientamenti nella giurisprudenza della Corte, così come espressamente rilevato nel provvedimento con il quale questa stessa Sezione ha investito la cognizione delle Sezioni Unite (Sez. 3, Ordinanza n. 25967 del 23/12/2015): vicenda di seguito sfumata per la ritenuta irrilevanza della questione prospettata (cfr. Sez. U, Sentenza n. 6959 del 17/3/2017).</p> <p style="text-align: justify;">Secondo le indicazioni offerte dal primo degli orientamenti richiamati, risalente nel tempo, l’eccezione di prescrizione opposta da alcuni dei condebitori solidali non opera automaticamente a favore degli altri, avendo costoro, al fine di potersene giovare, l’onere di farla esplicitamente propria e, quindi, di sollevarla tempestivamente (cfr. le argomentazioni spese in Sez. L, Sentenza n. 2132 del 21/05/1977, Rv. 385866 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5262 del 09/04/2001, Rv. 545771 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4200 del 25/03/2002, Rv. 553227 – 01; Sez. L, Sentenza n. 3211 del 04/03/2003, Rv. 560850 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 7800 del 31/03/2010, Rv. 612278 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9858 del 07/05/2014, Rv. 631628 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25724 del 05/12/2014, Rv. 633533 – 01).</p> <p style="text-align: justify;">Viceversa, secondo l’alternativa prospettazione ricordata, all’esplicito scopo di “<em>rimeditare</em>” e “<em>rimodellare</em>” il contrario principio di diritto andatosi consolidando, si e’ affermato che l’eccezione di prescrizione sollevata da un coobbligato solidale ha effetto anche a favore dell’altro (o degli altri) coobbligati, tutte la volte in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei confronti degli altri possa generare effetti pregiudizievoli per il soggetto eccipiente, come nel caso dell’assicuratore per la r.c.a., coobbligato solidale con il responsabile del sinistro, nell’ipotesi in cui quest’ultimo non si sia costituito in giudizio. Di converso, nell’ipotesi in cui, costituiti in giudizio entrambi, assicuratore e danneggiante, quest’ultimo espressamente rinunci ad eccepire la prescrizione in presenza di una contestuale eccezione sollevata dall’assicuratore, ovvero nulla eccepisca in corso di procedimento, tale comportamento avrà, in entrambi i casi, univoca significazione di manifestazione tacita di volontà di rinunciare altresì all’azione contrattuale nei confronti dell’assicuratore medesimo, e di altrettanto tacita volontà di proseguire personalmente il giudizio (onde sentir in ipotesi accertare la propria non colpevolezza in ordine all’illecito cosi’ come rappresentato e contestato dall’attore) (v. Sez. 3, Sentenza n. 6934 del 22/03/2007, Rv. 596752 – 01; conf. Sez. 3, Sentenza n. 18648 del 12/09/2011, Rv. 619257 – 01; Sentenza n. 12911 del 09/06/2014, Rv. 631582; Sez. 3, Sentenza n. 21937 del 21/9/2017; Sez. 3, Sentenza, 20 aprile 2018, n. 9808).</p> <p style="text-align: justify;">Ritiene a questo punto il Collegio che il carattere inconsapevole del contrasto (di fatto destato dalle decisioni del primo orientamento successive a Sez. 3, Sentenza n. 6934 del 22/03/2007, Rv. 596752 – 01), consenta di superarne i termini, attraverso la riaffermazione dei principi motivatamente sostenuti nella pronuncia da ultimo ricordata (confermata da Sez. 3, Sentenza n. 18648 del 12/09/2011, Rv. 619257 – 01; Sentenza n. 12911 del 09/06/2014, Rv. 631582; Sez. 3, Sentenza n. 21937 del 21/9/2017; Sez. 3, Sentenza, 20 aprile 2018, n. 9808), atteso che le decisioni (adesive al “<em>primo</em>” orientamento) rese successivamente a Sez. 3, Sentenza n. 6934 del 22/03/2007, Rv. 596752 01, non risultano aver in alcun modo affrontato <em>funditus</em> le questioni da quella esaminate, ne’ essersi affatto confrontate con le relative argomentazioni, essendosi viceversa limitate all’acritico richiamo di un consolidato e tralatizio orientamento, senza farsi carico di confutare le persuasive e articolate argomentazioni illustrate nella motivazione della ricordata sentenza n. 6934 del 2007, che, viceversa, il Collegio condivide integralmente e fa proprie, al fine di assicurarne continuita’.</p> <p style="text-align: justify;">Cio’ posto, deve pertanto ribadirsi in questa sede – precisa la Corte - come la norma di cui all’articolo 2939 c.c. (secondo cui “<em>la prescrizione può essere opposta dai creditori e da chiunque vi ha interesse, qualora la parte non la faccia valere. Puo’ essere opposta anche se la parte vi ha rinunziato</em>”) non possa essere intesa in modo appagante là dove interpretata nel senso che essa segni un’invalicabile linea di confine, da un lato, tra il creditore del soggetto avente diritto all’eccezione e, dall’altro, tutti gli “<em>altri soggetti interessati</em>”, onde inferirne la conseguenza per la quale soltanto nel primo caso l’obbligazione e’ destinata <em>tout court</em> all’estinzione, mentre in tutte le altre ipotesi contemplate dall’articolo 2939 c.c., l’effetto estintivo dell’obbligo andrebbe rigorosamente circoscritto alla sola sfera giuridica del terzo eccipiente, così creandosi una sorta di causa di inesigibilita’ soggettiva nei relativi confronti, ma senza che il rapporto obbligatorio possa dirsi legittimamente estinto, e senza che il soggetto passivo del rapporto stesso (<em>id est</em> il “<em>primo titolare</em>” dell’eccezione, ovvero qualsiasi altro coobbligato diverso dal terzo eccipiente) possa ritenersi a propria volta liberato.</p> <p style="text-align: justify;">In linea preliminare, va osservato per il Collegio come legittimata a far valere la prescrizione sia, in primo luogo, proprio la “<em>parte interessata</em>”, intendendosi come tale il soggetto passivo del rapporto del quale si invochi l’estinzione per decorso del tempo (nei diritti di credito, il debitore; nei diritti reali in re aliena, il proprietario del fondo gravato dai medesimi).</p> <p style="text-align: justify;">La norma in parola, peraltro, equiparando ad ogni effetto l’ipotesi in cui il “<em>prescrivente</em>” (con tale termine volendo intendersi il titolare del diritto a sollevare l’eccezione di prescrizione), chiamato in giudizio, rimanga inerte, omettendo di eccepire la prescrizione, con quella in cui, invece, abbia addirittura rinunciato a farla valere, offre un efficace strumento di tutela al terzo interessato al rapporto su cui incide con effetto estintivo la prescrizione, riconoscendogli una speciale legittimazione a farla valere.</p> <p style="text-align: justify;">Non rileva in questa sede approfondire la questione, vivacemente dibattuta, in ordine al fondamento e alla natura di tale legittimazione. Sul punto, lo sforzo della dottrina che si e’ dedicata a tale problema si e’ concentrato essenzialmente nel valutare differenze e affinità dell’istituto con l’azione surrogatoria e con l’azione revocatoria, posto che la legittimazione attribuita ai terzi dall’articolo 2939 c.c., potrebbe dirsi tanto surrogatoria, con riguardo all’ipotesi in cui il prescrivente sia rimasto inerte, quanto revocatoria, ove si ponga l’accento sul fatto che l’intervento del terzo rimuove, sia pure entro certi limiti, gli effetti della rinuncia, mentre, dal suo canto, la giurisprudenza della Corte ha più volte opinato trattarsi, nella specie, di una legittimazione surrogatoria, cosi riconoscendo all’esercizio dell’eccezione, limitatamente a tale ipotesi, efficacia assoluta, ossia anche nei rapporti fra debitore e terzo.</p> <p style="text-align: justify;">Va invece esaminata la circostanza per cui, accanto al creditore del soggetto “<em>prescrivente</em>” (il solo esplicitamente menzionato dall’articolo 2939 c.c.), l’ampia e non determinata categoria dei “<em>terzi interessati</em>” diversi dai creditori (considerati, peraltro, non disgiuntivamente da questi ultimi nel lessico della norma in esame), si presenta assai vasta. In via solo esemplificativa, e con riferimento a fattispecie in cui il terzo non assume, diversamente che nel caso odierno, la qualità di consorte necessario in lite, possono ricordarsi il garante – fideiussore o terzo datore di ipoteca – interessato ad opporre la prescrizione del credito garantito; l’alienante tenuto alla garanzia per evizione, interessato ad opporre la prescrizione dei diritti vantati dai terzi contro l’acquirente sulla cosa venduta; l’acquirente che ripeta il suo diritto da un titolo annullabile o rescindibile, interessato ad opporre al terzo la prescrizione dell’azione di annullamento o di rescissione; il possessore di beni ereditari, interessato a opporre la prescrizione del diritto di accettare l’eredita’; e infine, caso che più direttamente rileva in questa sede, il debitore solidale, interessato a opporre la prescrizione maturata in favore dell’altro condebitore che non l’abbia eccepita, o vi abbia rinunziato, ovvero – come nella specie – non si sia costituito in giudizio, senza che tale scelta processuale possa per altro modo integrare la fattispecie di un comportamento concludente di rinuncia tacita alla prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">In una tal vasta congerie di “<em>terzi interessati</em>”, si rende allora necessaria per la Corte una operazione ermeneutica, e una conseguente <em>actio finium regundorum</em>, che consenta la rigorosa individuazione dell’interesse posto a fondamento di tale, peculiare legittimazione del terzo ad eccepire la prescrizione. Se, per il creditore del “<em>prescrivente diretto</em>”, tale interesse può nitidamente cogliersi nella esigenza di conservare la generica garanzia offerta dal patrimonio del debitore nella relativa consistenza attuale, ex articolo 2740 (consistenza destinata inevitabilmente a diluirsi qualora, convenuto in giudizio, quegli sia colto da inerzia nell’eccepire la prescrizione o vi rinunci, ovvero qualora, in quel giudizio, egli decida di non costituirsi affatto), ciò non comporta certo che le conseguenze dell’intervento di altri terzi si riversino, sempre, tutte e per intero, anche nella sfera giuridica del convenuto che non abbia eccepito la prescrizione, o vi abbia rinunciato, o non si sia costituito: ma ciò, di converso, non comporta nemmeno che tali effetti riflessi non debbano mai aversi a produrre.</p> <p style="text-align: justify;">Così, se ad opporre la prescrizione siano stati terzi interessati “<em>altri</em>”, diversi dal creditore, il loro intervento si caratterizzerà a seconda della circostanza che una loro situazione di vantaggio possa o meno risultare pregiudicata di riflesso, se la prescrizione non venga da altri eccepita, in seno ad un rapporto di cui essi, purtuttavia, non sono necessariamente parti (il garante può, ad esempio, subire effetti pregiudizievoli quando il garantito non opponga la prescrizione o rinunci ad essa, nei confronti di chi pretende di avere diritti rientranti nell’ambito della garanzia). Può allora (convenendo in ciò con la più attenta dottrina) predicarsi il generale principio secondo cui l’interesse tutelato dalla norma si identifica con l’interesse ad evitare che si produca, nella sfera giuridica del soggetto legittimato in via straordinaria ex articolo 2939 c.c., un effetto riflesso (in quanto destinato ad espandersi nella relativa sfera giuridica) di segno per lui pregiudizievole.</p> <p style="text-align: justify;">Considerato ancora che la legittimazione ex articolo 2939 c.c., non e’ riconosciuta a qualsiasi terzo interessato ad opporre la prescrizione, in luogo della parte che non la faccia valere o che vi abbia rinunziato, bensì a quei terzi che abbiano un interesse meritevole di tutela e giuridicamente qualificato (vale a dire un interesse giuridico inerente a specifici rapporti tra la parte e il terzo, restandone per contro escluso il mero interesse materiale di fatto, consistente nella utilità, che da una situazione eventualmente maturata in favore di altri, un terzo si proponga di trarre, indipendentemente da qualsiasi rapporto giuridico con il soggetto titolare) la questione pare allora dipanarsi e pervenire a soddisfacente soluzione, non tanto lungo la speculare, <em>tranchant</em> alternativa tra natura personale e natura reale dell’eccezione del terzo, quanto piuttosto seguendo il sentiero che conduce al contenuto dell’interesse del terzo, inevitabile misura (e limite) degli effetti del relativo intervento.</p> <p style="text-align: justify;">Tutte le volte in cui l’interesse del terzo si proietti oltre l’effetto estintivo parziale relativo alla relativa personale posizione, risultando in qualche misura immanente (come nel caso di specie) alla complessiva posizione passiva del rapporto obbligatorio, sembra legittimo affermare che l’eccezione di prescrizione da lui sollevata estingue l’intero rapporto (beninteso, entro i limiti dell’ammontare del proprio credito o del proprio debito). Così come il creditore del soggetto inerte o rinunziante ha interesse a che il debito di quest’ultimo si estingua per effetto della relativa eccezione “<em>surrogatoria</em>”, così il debitore solidale, che abbia interesse ad una pronuncia di estinzione <em>tout court</em> dell’obbligazione qualora dalla sopravvivenza del rapporto obbligatorio in capo ad altro condebitore potrebbero derivargliene conseguenze pregiudizievoli, efficacemente propone un’eccezione “<em>ultrattiva</em>”, legittimamente estingue l’intero rapporto obbligatorio, con effetto anche nei confronti del condebitore <em>lato sensu</em> inerte.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che, nell’ipotesi in cui siano convenuti in giudizio il responsabile del sinistro e l’assicuratore, andrà distinta l’ipotesi in cui il primo si renda contumace per tutto il corso del procedimento (senza che ciò possa in alcun modo rappresentare “<em>rinuncia tacita alla prescrizione</em>”, dovendo piuttosto ricondursi tale, legittima scelta processuale nella più ragionevole dimensione dell’agnostico “<em>disinteresse</em>” derivante dal sentirsi egli efficacemente tutelato dalla costituzione in giudizio e dalla gestione della lite da parte del proprio assicuratore) da quella in cui, invece, il danneggiante sia regolarmente costituito.</p> <p style="text-align: justify;">La soluzione così rappresentata, predicativa, in punto di diritto, della necessaria estinzione <em>tout court</em> dell’obbligo risarcitorio appare del tutto consonante con il disposto dell’articolo 1306 c.c., comma 2, (che, come e’ noto, ammette l’opponibilità al creditore della sentenza favorevole emessa nei confronti di uno dei condebitori solidali), norma che postula, per la relativa concreta applicazione, proprio lo svolgimento del giudizio in assenza di uno (o più) condebitori solidali.</p> <p style="text-align: justify;">Va ulteriormente precisato che l’unico limite al principio di “<em>ultrattivita</em>'” dell’eccezione vittoriosamente sollevata dall’assicuratore deve ritenersi quello della rinuncia espressa alla prescrizione da parte del danneggiante (evocato e) ritualmente costituito in giudizio. Una siffatta dichiarazione negoziale di volontà, espressamente dismissiva del proprio diritto alla liberazione dall’obbligo risarcitorio in conseguenza del decorso del tempo, contiene in sè, nel contempo, una (ulteriore) manifestazione (tacita) di volontà di rinuncia ad avvalersi del diritto alla garanzia assicurativa nei confronti dell’assicuratore “<em>eccipiente</em>”, poiché, con tale atto rinunciativo, quegli manifesta in realtà l’intento di subire (se del caso) in proprio e in via esclusiva le conseguenze di una eventuale affermazione di sua responsabilità in sede giudiziaria.</p> <p style="text-align: justify;">In consonanza, dunque, con il generale principio dettato in tema di obbligazioni soggettivamente complesse, e cioè quello per il quale normalmente i fatti favorevoli ai co-obbligati si comunicano, e i fatti sfavorevoli restano circoscritti alla sfera personale di ciascuno di essi (ed e’ noto che proprio il disposto di cui all’articolo 1310 c.c., in tema di interruzione della prescrizione viene comunemente ritenuto una eccezione <em>ex lege</em> a tale regola), deve dunque in questa sede riaffermarsi per la Corte il principio di diritto onde l’’eccezione di prescrizione sollevata da un co-obbligato solidale ha effetto estintivo anche nei confronti dell’altro (o degli altri) co-obbligati tutte le volte in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei confronti degli altri possa generare effetti pregiudizievoli per il soggetto eccipiente, come nel caso dell’assicuratore, co-obbligato solidale con il responsabile del sinistro, nell’ipotesi in cui quest’ultimo non si sia costituito in giudizio. Di converso, nell’ipotesi in cui, costituiti in giudizio entrambi, assicuratore e danneggiante, quest’ultimo espressamente rinunci ad eccepire la prescrizione in presenza di una contestuale eccezione sollevata dall’assicuratore, ovvero nulla eccepisca in corso di procedimento, tale comportamento avrà, in entrambi i casi, univoca significazione di manifestazione tacita di volontà di rinunciare altresì all’azione contrattuale nei confronti dell’assicuratore medesimo, e di altrettanto tacita volontà di proseguire personalmente il giudizio (onde sentir in ipotesi accertare la propria non colpevolezza in ordine all’illecito così come rappresentato e contestato dall’attore).</p> <p style="text-align: justify;">Su altro crinale, per la Corte va poi riaffermato il consolidato principio - già ripetutamente statuito e che il Collegio condivide e fa proprio al fine di assicurarne continuità - a sensi del quale, in tema di prescrizione del risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli, dal disposto dell’articolo 2947 c.c., comma 3, emerge, per l’ipotesi in cui il fatto costituisca anche reato, che il risarcimento del danno si prescrive in due anni quando sia intervenuta una sentenza irrevocabile nel procedimento penale, rientrando tra queste anche la sentenza emessa ai sensi degli articoli 444 e 445 c.p.p. (c.d. patteggiamento), perchè essa non ha, nel giudizio civile, l’efficacia di una sentenza di condanna, alla quale e’ invece applicabile, ex articolo 2953 c.c., il termine di prescrizione di dieci anni (v. Sez. 3, Sentenza n. 25042 del 07/11/2013, Rv. 628709 – 01; cfr., da ultimo, Sez. 3, Sentenza, 20 aprile 2018, n. 9808).</p> <p style="text-align: justify;">Sul punto, vale per il Collegio considerare che se la ratio della norma e’ comunemente individuata nell’esigenza di evitare che un soggetto, condannato in sede penale a causa di un fatto produttivo anche di conseguenze risarcitorie civili, possa sottrarsi all’obbligo di risarcire il danneggiato lucrando il piu’ breve termine imposto dalla norma del codice civile, il secondo periodo dello stesso articolo 2947 c.c., comma 3, riconduce ad armonia la disciplina escludendo l’effetto, più favorevole per il danneggiato, dell’applicazione del termine prescrizionale maggiore previsto per il reato nei casi in cui il procedimento penale non ha avuto un esito fausto per il danneggiato medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che quest’ultimo potrà fruire, ai fini dell’avvio o della prosecuzione dell’azione civile risarcitoria, del termine prescrizionale più ampio in caso, ovviamente, di condanna di controparte, nonché di estinzione del reato, ma solo per prescrizione, in nessun’altra ipotesi producendosi a favore del danneggiato effetti favorevoli in dipendenza della pendenza prima e della conclusione, poi, del procedimento penale per gli stessi fatti causativi di responsabilità civile. In sostanza, ratio giustificatrice del maggior termine, pari a quello per il reato, e’ la conclusione del procedimento penale con un esito almeno in parte favorevole o fausto per il danneggiato, il quale possa quindi invocare un accertamento – anche solo sommario e non idoneo a fondare la condanna, normalmente sotteso anche alla declaratoria di estinzione per prescrizione, la quale appunto non potrebbe adottarsi dinanzi alla manifesta insussistenza di quegli elementi quale quello sulla sussistenza degli elementi soggettivo ed oggettivo del fatto-reato: e, poiché, sia pure con una linea di tendenza in continua evoluzione verso la limitazione della lettera della norma codicistica, la sentenza di c.d. patteggiamento non può ancora in alcun caso equipararsi ad una sentenza di accertamento della penale responsabilità dell’imputato, non può il danneggiato fruire degli effetti favorevoli normalmente riconducibili all’articolo 2947 c.c., comma 3, primo periodo, (v., in termini, Sez. 3, Sentenza n. 21937 del 21/9/2017, nonche’, per quanto con obiter dictum, Cass. Sez. U., Sentenza n. 6959 del 17/03/2017, che, al punto 5 della motivazione in diritto, riconosce in modo inequivocabile la correttezza della riconduzione della sentenza di patteggiamento ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., alla nozione di “<em>sentenza irrevocabile</em>” rilevante ai fini dell’operatività della prescrizione biennale).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Sempre il 13 giugno esce l’importante sentenza delle SSUU della Cassazione n. 15895 onde, in tema di prescrizione estintiva, l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l'indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte.</p> <p style="text-align: justify;">Precisa altresì la Corte come in tema di ripetizione dell'indebito oggettivo, ai fini del decorso degli interessi sulla somma oggetto di restituzione, l'espressione dal giorno della «<em>domanda</em>», contenuta nell'art. 2033 c.c., non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ai sensi dell'art. 1219 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">La prima questione posta all'esame delle Sezioni Unite si incentra sulla delimitazione dell'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate (nella specie, per interessi passivi e commissioni di massimo scoperto non dovuti, rispettivamente, perché pattuiti mediante clausole nulle, e perché non concordate), nel corso del rapporto di conto corrente che sia assistito da un apertura di credito. L'ordinanza interlocutoria evidenzia, in particolare, che la distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento, elaborata "<em>ad altri fini</em>" e valorizzata, dalla sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite "<em>per stabilire il momento da cui possa scaturire la pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della prescrizione</em>", ha generato incertezze applicative che si sono, poi, tradotte nei diversi orientamenti giurisprudenziali che essa riassume.</p> <p style="text-align: justify;">Muovendo dalla menzionata sentenza n. 24418 del 2.12.2010, questi, in sintesi, i relativi passaggi argomentativi, svolti in premessa generale ed in riferimento al rapporto tra correntista e Banca: - perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile. Per esistere, il pagamento deve essersi tradotto nell'esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto (il <em>solvens</em>) con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l'<em>accipiens</em>). Esso può dirsi indebito quando difetti di una idonea causa giustificativa; -non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico definibile come pagamento, nel senso anzidetto, che l'attore affermi indebito. Tale situazione non muta quando la natura indebita sia la conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale il pagamento è stato effettuato, diverse essendo la domanda volta alla declaratoria di nullità di un atto, che non si prescrive affatto, e quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di ciò che si è pagato, soggetta a prescrizione in dieci anni; -in base al disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l'apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l'intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità, eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli; - i versamenti effettuati dal correntista durante lo svolgimento del rapporto potranno esser considerati pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove indebiti), quando abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e cioè quando siano stati eseguiti su un conto in passivo (o "<em>scoperto</em>") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento; -per converso, quando il passivo non ha superato il limite dell'affidamento concesso, i versamenti in conto fungono unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere, rispetto ai quali la prescrizione decennale decorre non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.</p> <p style="text-align: justify;">La sentenza in esame – proseguono le SSUU - è pervenuta a tali conclusioni, ritenendo che la distinzione tra rimessa con funzione solutoria (in entrambi i casi di conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del correntista, e di quello scoperto a seguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordatogli) ovvero semplicemente ripristinatoria della provvista, elaborata in giurisprudenza in tema di revocabilità delle rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito, ex art.67 L. Fall. (nel testo antecedente la modifica apportata dal d.l. n. 35 del 2005), costituisca un parametro idoneo a stabilire, anche, la configurabilità di un pagamento, asseritamente indebito, idoneo ad ingenerare una pretesa restitutoria in favore del correntista.</p> <p style="text-align: justify;">Peraltro, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di detta sentenza, è stato emanato il d.l. n. 225 del 2010, art. 2, comma 61, convertito in I. n. 10 del 2011, secondo cui l'art. 2935 c.c. andava interpretato nel senso che "<em>la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione sul conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione</em>", norma che è stata, tuttavia, dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 2012.</p> <p style="text-align: justify;">Il menzionato arresto, costantemente applicato dalla giurisprudenza successiva, va per il Collegio riconfermato. Prima ancora che per la coerenza di sistema in riferimento alle note applicazioni giurisprudenziali in tema di revocatoria di rimesse bancarie ad opera di correntista poi fallito, l'approdo, nel comporre l'antinomia tra i contrapposti argomenti relativi al <em>dies a quo</em> del decorso prescrizionale dell'azione di ripetizione in ipotesi di domanda volta all'accertamento della nullità del titolo in forza del quale è il pagamento, in tesi indebito, è stato eseguito (dalla chiusura del conto o dall'annotazione di ciascun addebito in applicazione di clausola nulla), si connota per il relativo rigore logico nell'individuazione dell'atto giuridico qualificabile come pagamento - e dunque ripetibile ove indebito - nell'ambito dello specifico rapporto di conto corrente bancario, in cui il saldo passivo non è immediatamente esigibile, salvo che non ecceda l'importo dell'affidamento concesso al correntista, o in ipotesi di conto corrente "<em>scoperto',</em> non assistito da aperture di credito.</p> <p style="text-align: justify;">La distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie della provvista non ha dato luogo a specifici problemi interpretativi in relazione all'onere di allegazione dovuto dal correntista nella proposizione dell'azione di ripetizione: la questione relativa alla necessità che l'attore, oltre all'indicazione del conto corrente, dell'eventuale apertura di credito, della durata del relativo rapporto, dovesse indicare partitamente i versamenti effettuati, e specificarne la natura, o se, invece, fosse sufficiente l'allegazione di versamenti indebiti, con la richiesta di restituzione di una determinata somma, è stata risolta nel secondo senso in modo esplicito da Cass.n. 28819 del 2017, secondo cui non compete al correntista l'allegazione della mancata effettuazione di versamenti c.d. solutori, trattandosi di un fatto negativo estraneo alla fattispecie costitutiva del diritto azionato; conclusione che è data per assunta nelle sentenze n. 18581 del 2017; n. 4273 del 2018, n. 18144 del 2018, che richiamano, anche per tale aspetto, la giurisprudenza, formatasi in materia di revocatoria fallimentare <em>ante</em> L. n. 80 del 2005, ferma nel ritenere che non sia affetta da nullità per indeterminatezza dell'oggetto o della <em>causa petendi</em> la citazione contenente la domanda di revocatoria fallimentare di pagamenti costituiti da rimesse di conto corrente bancario, seppure in mancanza d'indicazione dei singoli versamenti solutori (cfr. in proposito, Cass. S.U. n. 8077 del 2012, che ha, tra l'altro, affermato che l'atto di citazione per la revoca di rimesse in conto corrente bancario non è affetto da nullità per vizio del <em>petitum</em> se l'attore ha identificato una somma minima o un importo complessivo ed ha chiesto la revoca di tutte le rimesse affluite, non essendo necessaria, per l'individuazione della domanda, l'indicazione di ciascuna singola rimessa revocabile).</p> <p style="text-align: justify;">Problemi interpretativi si sono invero registrati, proprio come segnala l'ordinanza interlocutoria, sulla modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione da parte della banca, convenuta in ripetizione. Posto che, secondo la menzionata sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite, la prescrizione del diritto alla restituzione ha decorrenza diversa a seconda del tipo di versamento effettuato - solutorio o ripristinatorio - si è, infatti, posta la questione se, nel formulare l'eccezione di prescrizione, la banca debba necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione, e cioè l'esistenza di singoli versamenti solutori, a partire dai quali l'inerzia del titolare del diritto può venire in rilievo, o se possa limitarsi ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e durata, in base alla norma in concreto applicabile. Al quesito sono state date soluzioni differenti, che di seguito vengono riassunte, senza pretesa di completezza.</p> <p style="text-align: justify;">Hanno aderito alla prima soluzione: Cass. n. 4518 del 2014, secondo cui i versamenti eseguiti in conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal <em>solvens</em> all'<em>accipiens</em>, rispondendo allo schema causale tipico del contratto, sicchè una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione da una data diversa e anteriore rispetto a quella della chiusura del conto (in quel caso, la banca non aveva mai dedotto né allegato tale diversa destinazione dei versamenti in deroga all'ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale); - Cass n. 20933 del 2017, secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che hanno, invece, avuto natura solutoria, con la conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell'eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all'omesso assolvimento di tale onere, individuando d'ufficio i versamenti solutori; - Cass. n. 28819 del 2017 cit., secondo cui incombe sulla banca, quando eccepisce la prescrizione del credito, l'onere di far valere l'avvenuta effettuazione di rimesse solutorie in pendenza di rapporto, non essendo configurabile, in mancanza di tali versamenti, l'inerzia del creditore, che rappresenta il fatto costitutivo dell'eccezione; - Cass. n. 17998 del 2018, secondo cui il fatto costitutivo dell'eccezione di prescrizione (ossia la finalizzazione del versamento da parte del correntista a una funzione diversa da quella ripristinatoria della provvista) deve essere allegato e provato dalla Banca, e pertanto l'eccezione di prescrizione non può considerarsi validamente proposta, quando non sono stati allegati i fatti che ne costituiscono il fondamento, sicchè "<em>la prescrizione va fatta decorrere dalla chiusura del conto</em>" (in quel caso neppure verificatasi); - Cass. n. 18479 del 2018, che ha riaffermato il principio secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse deve presumersi, spettando, dunque, alla banca di indicare specificamente i versamenti solutori rispetto ai quali è intervenuta la prescrizione. In particolare, la sentenza ha aggiunto che il principio, secondo cui l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte, deve esser coniugato con quello secondo cui quando, come nella specie, si è in presenza di pluralità di rimesse affluite sul conto corrente, ognuna delle quali costituisce un distinto credito, è necessario che l'elemento costitutivo dell'eccezione sia specificato, dovendo il convenuto precisare, appunto, il momento iniziale dell'inerzia in relazione a ciascuno dei diritti azionati; - Cass. n. 33320 del 2018, che ha ribadito esser onere della banca, che ha eccepito la prescrizione, fornire la prova della decorrenza e quindi della natura solutoria delle rimesse.</p> <p style="text-align: justify;">Hanno aderito alla seconda soluzione: - Cass. n. 2308 del 2017, che ha ritenuto fondata, e così implicitamente ammissibile, l'eccezione di prescrizione formulata dall'istituto di credito, con riferimento alla richiesta di restituzione di tutte le rimesse, evidenziando che la Corte territoriale correttamente si è limitata ad accoglierla solo in parte, distinguendo, tramite l'ausilio del tecnico nominato, tra rimesse aventi funzione solutoria e rimesse aventi funzione ripristinatoria; - Cass. n. 18581 del 2017 cit., secondo cui, in un quadro processuale definito dalla presenza degli estratti conto, non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, essendo tale incombente estraneo alla disciplina positiva dell'eccezione, che è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene. La decisione ha ritenuto, in particolare, che un'allegazione nel senso indicato non cessa di esser tale ove la parte interessata correli quell'inerzia anche ad atti (<em>id est</em>, versamenti ripristinatori) che non spieghino incidenza sul diritto fatto valere dell'attore, evidenziando che, così come, ai fini della valida proposizione della domanda di ripetizione, non si richiede che il correntista specifichi una ad una le rimesse, da lui eseguite, che, in quanto solutorie, si siano tradotte in pagamenti indebiti a norma dell'art. 2033 c.c, non si vede, in conseguenza, perché debba essere la banca, che eccepisca la prescrizione, ad essere gravata dell'onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la prescrizione possa, poi, in concreto operare); - Cass. n. 4372 del 2018 cit., del medesimo tenore. Nel ribadire che l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene, specifica come la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti emerga dagli estratti conto che il correntista, attore nell'azione di ripetizione, ha l'onere di produrre in giudizio. Riafferma che non sussistono ragioni per distinguere l'onere di allegazione del correntista da quello della banca, richiamando, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull'azione revocatoria in tema di rimesse bancarie riferita alla disciplina anteriore alla riforma della legge fallimentare. La decisione conclude affermando che il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide sul contenuto dell'eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, anche con l'ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell'indebito e della prescrizione; - Cass. n. 5571 del 2018, che, nel cassare la decisione d'appello che aveva ritenuto inammissibile l'eccezione di prescrizione, afferma, che per principio consolidato, l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte; - Cass. n. 18144 del 2018, che ripercorre gli argomenti svolti dalle sentenze n. 18581 del 2017 e n. 4372 del 2018, rilevando che in un quadro processuale definito dagli estratti conto, non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, e che, una volta che la parte convenuta abbia formulato l'eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, siano irrilevanti ai fini della decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto, non potendosi considerare quali pagamenti; - Cass. n. 30885 del 2018, che, nel rigettare il motivo di ricorso del correntista, secondo cui la Corte del merito avrebbe eluso gli oneri delle parti attribuendo la ricerca ufficiosa del <em>thema decidendum</em> al CTU anzichè alla parte, che aveva genericamente eccepito la prescrizione decennale dei presunti pagamenti indebiti, ha ricondotto la questione nell'ambito della qualificazione dei fatti rilevati e riepilogati in chiave ricostruttiva dal CTU, affermando che l'accertamento della natura dei versamenti era dipeso dalla condivisione da parte del giudice dell'affermazione svolta dal CTU, circa la mancanza di un'apposita convenzione di affidamento di credito bancario e l'esclusione della natura ripristinatoria dei versamenti con applicazione della prescrizione solo con riferimento ai "<em>pagamenti</em>" effettuati nel decennio anteriore alla domanda giudiziale; - Cass. n. 2660 del 2019, che, nel ricostruire il modo in cui si atteggia l'onere della prova nei giudizi in esame, ha affermato che, nel formulare l'eccezione di prescrizione, l'istituto di credito ha l'onere di dedurre l'inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata, aggiungendo che l'eccezione è comunque validamente proposta, quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene.</p> <p style="text-align: justify;">Si colloca in una posizione intermedia Cass. n. 12977 del 2018, che l'ordinanza di rimessione menziona tra quelle adesive alla prima soluzione. Tale sentenza condivide, in effetti, il presupposto da cui muovono quelle decisioni (che peraltro vengono richiamate), secondo cui, in costanza di rapporto, i versamenti eseguiti sul conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal <em>solvens</em> all'<em>accipiens</em> sicché una diversa finalizzazione dei versamenti deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione, quale fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio <em>ex adverso</em>. La decisione conclude affermando che grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l'onere di allegare, ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione -e poi di provare, ai fini della fondatezza dell'eccezione- non solo il mero decorso del tempo, ma anche l'ulteriore circostanza dell'avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell'affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto "<em>attenuata</em>" nella relativa deduzione e, cioè, senza la necessità di un'allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie, deve, però, recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata), non potendo il giudice supplire all'omesso assolvimento di tali oneri, individuando d'ufficio i versamenti solutori. Diversamente, in caso di conto non "<em>affidato</em>", tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie, con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente.</p> <p style="text-align: justify;">Per la composizione del contrasto, il Collegio ritiene opportuno ricordare che, in generale, la nozione di allegazione "<em>in senso proprio</em>", che è quella che qui rileva, si identifica con l'affermazione dei fatti processualmente rilevanti, posti a base dell'azione o dell'eccezione: essa individua i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi dei diritti fatti valere in giudizio, sinteticamente definiti come fatti principali (per distinguerli dai c.d. fatti secondari, dedotti in funzione di prova di quelli principali). E', poi, necessario precisare che non rientra nell'ambito dell'onere di allegazione la qualificazione dei fatti allegati, che costituisce, invece, attività riservata al giudice, che, nel provvedere al riguardo, non è vincolato da quella eventualmente offerta dalle parti.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 163 n. 4 c.p.c. impone all'attore l'allegazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, e ne sanziona con la nullità, ex art. 164, co 4, c.p.c., l'omessa esposizione. Secondo la giurisprudenza della Corte, la relativa indagine va compiuta caso per caso, tenuto conto che l'adempimento dell'onere di allegazione può mutare in relazione alle caratteristiche degli elementi costitutivi della domanda (cfr. SU n. 26242 del 2014 in tema di diritti autodeterminati ed eterodeterminati), e che l'incertezza dei fatti costitutivi della domanda deve essere vagliata in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che risiede, principalmente, nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese, oltre che di offrire al giudice l'immediata contezza del <em>thema decidendum</em> (Cass. n. 11751 del 2013; n. 29241 del 2008).</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza, sopra menzionata, in tema di allegazioni dovute dal correntista, che agisca in ripetizione di versamenti asseritamente indebiti, costituisce specifica applicazione di tale principio. L'onere di allegazione del convenuto va distinto a seconda che si sia in presenza di eccezioni in senso stretto, o eccezioni in senso lato: nel primo caso, i fatti estintivi, modificativi o impeditivi, possono esser introdotti nel processo solo dalla parte, mentre nel secondo sussiste il potere-dovere di rilievo da parte dell'Ufficio. Tale distinzione è stata posta in evidenza dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 1099 del 1998 (successivamente seguita dalla giurisprudenza di legittimità), che, nell'ambito della contestazione del convenuto, ha, appunto, differenziato il potere di allegazione da quello di rilevazione, nel senso che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi, in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile.</p> <p style="text-align: justify;">E', quindi, necessario rimarcare che, pur nella loro indiscutibile connessione, l'onere di allegazione è concettualmente distinto dall'onere della prova, attenendo il primo alla delimitazione del <em>thema decidendum</em> mentre il secondo, attenendo alla verifica della fondatezza della domanda o dell'eccezione, costituisce per il giudice regola di definizione del processo. Non è ozioso, infatti, rilevare che l'aver assolto all'onere di allegazione non significa avere proposto una domanda o un'eccezione fondata, in quanto l'allegazione deve, poi, esser provata dalla parte cui, per legge, incombe il relativo onere, e le risultanze probatorie devono, infine, esser valutate, in fatto e in diritto, dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Nello specifico tema della prescrizione estintiva, oggetto della presente disamina, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10955 del 2002 -anch'essa menzionata nell'ordinanza interlocutoria- hanno chiarito che il relativo elemento costitutivo è rappresentato dall'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di detta inerzia, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una <em>quaestio iuris</em> concernente l'identificazione del diritto e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione -che, com'è noto, costituisce una tipica eccezione in senso stretto- implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, e non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al giudice, che -previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione- potrà applicare una norma di previsione di un termine diverso.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, analizzando la struttura nella fattispecie estintiva delineata dall'art. 2934 c.c. secondo cui "<em>ogni diritto si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge</em>", la sentenza n. 10955 in esame, chiamata a dirimere il contrasto esistente circa la necessità che la parte che formuli tale eccezione debba o meno specificare il lasso di tempo a ciò necessario, è pervenuta alla esposta conclusione, evidenziando che l'identificazione della fattispecie estintiva cui corrisponde l'eccezione di prescrizione, va correttamente compiuta alla stregua del "<em>fatto principale</em>" e che tale fatto va individuato nell'inerzia del titolare; laddove il tempo è configurato soltanto come la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso inerente, che non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di prescrizione. Si è, pertanto, precisato che non esistono tanti tipi di prescrizione in relazione al tempo del relativo maturarsi, e correlativamente, con l'indicazione di un termine o di un altro non si formula una nuova eccezione "<em>fermo restando, in ogni caso, che l'eccezione stessa è correttamente formulata anche quando la parte siasi limitata ad invocare l'effetto estintivo dell'inerzia del titolare, senza alcuna indicazione espressa della durata a tal fine sufficiente</em>".</p> <p style="text-align: justify;">In linea con gli esposti principi in tema di onere di allegazione, in generale, e di onere di allegazione riferito alla specifica eccezione di prescrizione, la soluzione del contrasto nel caso di specie va risolta nel senso della non necessarietà dell'indicazione, da parte della banca, del <em>dies a quo</em> del decorso della prescrizione, secondo la pertinente giurisprudenza indicata <em>supra</em>. Deve, infatti, ribadirsi che l'elemento qualificante dell'eccezione di prescrizione è l'allegazione dell'inerzia del titolare del diritto, che costituisce, appunto, il fatto principale, nei sensi di cui si è detto, al quale la legge riconnette l'invocato effetto estintivo. Se ciò è vero, pare al Collegio che richiedere al convenuto, ai fini della valutazione di ammissibilità dell'eccezione, che tale inerzia sia "<em>particolarmente connotata</em>" in riferimento al termine iniziale della stessa (in tesi, individuando e specificando diverse rimesse solutorie) comporti l'introduzione, sia pur indiretta, di una nuova tipizzazione delle diverse forme di prescrizione, che le Sezioni Unite, nella condivisa pronuncia n. 10955 del 2002, hanno voluto espressamente escludere. Del resto, la giurisprudenza, che ha ritenuto necessaria l'indicazione delle rimesse solutorie, fa leva su di un argomento -e cioè la presunta natura ripristinatoria dei versamenti, secondo un andamento fisiologico del rapporto- che, riferendosi allo schema delle presunzioni, attiene al profilo probatorio (art. 2727 e segg. c.c.), che, come si è detto, va distinto dal profilo allegatorio, che è, appunto, quello rilevante ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione.</p> <p style="text-align: justify;">Merita, ancora, condivisione la considerazione che esalta la simmetria che, in base a tale ricostruzione, viene richiesta alle parti ai fini della validità della domanda di ripetizione e dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione: il correntista potrà limitarsi ad indicare l'esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione in riferimento ad un dato conto e ad un tempo determinato, e la Banca, dal canto suo, potrà limitarsi ad allegare l'inerzia dell'attore in ripetizione, e dichiarare di volerne profittare. Resta da aggiungere che il problema della specifica indicazione delle rimesse solutorie non viene eliminato, ma semplicemente si sposta dal piano delle allegazioni a quello della prova, sicchè il giudice valuterà la fondatezza delle contrapposte tesi al lume del riparto dell'onere probatorio, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica a carattere percipiente.</p> <p style="text-align: justify;">Ne scaturisce per il Collegio il principio di diritto onde l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l'indicazione di specifiche rimesse solutorie.</p> <p style="text-align: justify;">Il tema dell'apprezzamento di un atto interruttivo della prescrizione – chiosa poi il Collegio - è stato affrontato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 15661 del 2005, che, richiamata la precedente pronuncia n. 1099 del 1998, hanno affermato il principio secondo cui l'eccezione di interruzione della prescrizione integra un'eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti. Con la successiva ordinanza n. 10531 del 2013 è stato, inoltre, chiarito che il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati <em>ex actis</em>, in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la giurisprudenza tradizionale e maggioritaria (tra le tante, Cass. 3912 del 2018; n. 10161 del 2016; n. 9934 del 2016; n. 4436 del 2014; n. 17558 del 2006; n. 4745 del 2005; n. 1581 del 2004; n. 11969 del 1992), nella ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., il debito dell'<em>accipiens</em>, che non sia in mala fede, produce poi interessi solo a seguito della proposizione dell'apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora, e ciò in quanto all'indebito si ritiene applicabile la tutela prevista per il possessore in buona fede in senso soggettivo dell'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda. Si è anche posto in evidenza che, pur avendo ad oggetto una somma di danaro liquida ed esigibile, l'art. 2033 c.c. è, perciò, norma parzialmente derogatoria rispetto sia all'art. 1282 c.c. che all'art. 1224 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite hanno affrontato il tema della decorrenza degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito, con la sentenza n. 7269 del 1994, in tema di domanda restitutoria di somme indebitamente versate per contributi assicurativi dal datore di lavoro all'I.N.P.S. Dopo aver ricordato lo stato della giurisprudenza di legittimità, nei sensi appena esposti, la decisione ha evidenziato che in materia previdenziale, in forza della specialità della normativa, la domanda giudiziale deve esser preceduta dalla domanda amministrativa (che costituisce una condizione di proponibilità della prima), ed ha concluso affermando che gli interessi decorrono non già dalla domanda giudiziale ma dalla precedente domanda amministrativa, che non può esser considerata come una mera richiesta di restituzione -avendo caratteristiche del tutto analoghe alla domanda giudiziale sia per la certezza del <em>dies a quo</em> sia per l'idoneità a rendere consapevole l'<em>accipiens</em> dell'indebito nel quale versa- e tenuto conto che, un'interpretazione restrittiva del termine "<em>domanda</em>" nel senso tecnico-giuridico di domanda giudiziale determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per i diritti del <em>solvens</em> e quindi dubbi di legittimità costituzionale della citata norma in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Con le successive sentenze n. 5624 del 2009 e n. 14886 del 2009, rese in ipotesi di condanna alla restituzione di somme di denaro versate in esecuzione di un accordo sull'indennità di espropriazione, divenuto inefficace in seguito all'interruzione del procedimento ablativo, le Sezioni Unite hanno ritenuto, con la prima, costituire <em>jus receptum</em> l'affermazione secondo cui il termine "<em>domanda</em>" contenuto nell'art. 2033 c.c. si riferisce alla domanda giudiziale, sicché gli interessi (compensativi) decorrono "<em>dal momento della domanda giudiziale (e mai comunque da quello della messa in mora), salva la dimostrazione della mala fede dell'</em>accipiens"; e, con la seconda, si sono limitate a dare seguito all'orientamento sopra esposto, richiamandolo espressamente.</p> <p style="text-align: justify;">Il fondamento dell'obbligo dell'<em>accipiens</em> in buona fede di corrispondere gli interessi, ricostruito in riferimento ai principi in tema di possesso, è stato sconfessato con la sentenza n. 7526 del 2011. Tale decisione ha posto in evidenza che la formula letterale dell'art. 2033 c.c. riconosce all'attore in ripetizione il diritto agli interessi dalla "<em>domanda</em>" senza alcuna connotazione e che la relativa qualificazione in termini di "<em>domanda giudiziale</em>" si basa su di un fondamento storico non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile: il codice del 1865 includeva la restituzione dell'indebito (riprendendo l'art. 1377 del codice francese) nella sezione dei quasi contratti e disciplinava, all'art. 1147 c.c., il solo caso della ricezione in mala fede facendo decorrere gli interessi "<em>dal giorno del pagamento</em>", mentre, per l'ipotesi, in quel codice non prevista, della ricezione in buona fede, l'<em>accipiens</em> veniva considerato non già come debitore per la restituzione ma come possessore della somma altrui, con conseguente suo obbligo di restituzione dei frutti pervenutigli "<em>dopo la domanda giudiziale</em>" (art. 703 c.c. del 1865, corrispondente all'attuale art. 1148 c.c.). E ciò non perchè la domanda giudiziale faceva venir meno lo stato di buona fede (la mala fede sopravvenuta non nuoceva al possessore), ma in virtù del principio secondo cui la durata del processo non può danneggiare la parte vittoriosa.</p> <p style="text-align: justify;">L'attuale disciplina codicistica, prosegue la decisione in esame, ha inserito l'istituto della ripetizione dell'indebito nel libro delle obbligazioni, sicchè l'incongruenza circa il fondamento legale della decorrenza degli interessi (la cui natura si afferma non chiaramente definita) va superata portando la materia per intero nel diritto delle obbligazioni, e cioè intendendo la "<em>domanda</em>" di cui all'art. 2033 come atto di costituzione in mora, anche stragiudiziale (art. 1219, co 1 c.c.). A tale principio, pure di sfuggita affermato con la sentenza n. 16657 del 2014, si è dichiaratamente riferita la sentenza n. 22852 del 2015, in tema di applicabilità dei principi dell'indebito in ipotesi di pagamento dell'indennità di espropriazione concordata, e della successiva revoca della dichiarazione di pubblica utilità per ragioni di pubblico interesse. Tale decisione, richiamate le menzionate sentenze Cass. S.U. n. 5624 e n. 14886 del 2009 (trattandosi della medesima questione), ha, infatti, ritenuto che, in tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione "<em>domanda</em>" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c., dovendosi considerare l'<em>accipiens</em> (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli relativi alla tutela del possesso ex art. 1148 c.c. Agli argomenti svolti nella precedente decisione n. 7526 del 2011, la sentenza ne ha aggiunto uno letterale, a dimostrazione della diversità della disciplina del possesso rispetto a quella delle obbligazioni, ed un altro desunto dalla comparazione giuridica con l'ordinamento tedesco.</p> <p style="text-align: justify;">Le SSUU assumono di dover aderire alla seconda esegesi dell'art.2033 c.c. Oltre al superamento delle ragioni storiche sopra esposte (per la specifica previsione della spettanza degli interessi in ipotesi d'indebito oggettivo ricevuto in buona fede), idonee a dar conto della genesi della considerazione dell'<em>accipiens</em> come “<em>possessore</em>” piuttosto che come “<em>debitore</em>”, onde escludere la correttezza della tesi che sovrappone dette situazioni giuridiche milita, anzitutto, il dato normativo. L'art. 2033 c.c. stabilisce, infatti, che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto agli interessi "<em>dal giorno della domanda</em>", laddove l'art. 1148 c.c. dispone che il possessore in buona fede fa suoi i frutti naturali separati e i frutti civili "<em>fino al giorno della domanda giudiziale</em>". La circostanza che la domanda -indicata quale <em>dies a quo</em> della decorrenza degli interessi dovuti dall'<em>accipiens</em> in buona fede- non sia ulteriormente connotata in termini di "<em>giudiziale</em>" non è fatto in sé neutro e consente, già in prima battuta, di affermare che, riferendosi alla "<em>domanda</em>", il legislatore non abbia voluto unicamente riferirsi alla notificazione dell'atto con cui si inizia un giudizio, come invece ha fatto, a proposito dell'interruzione della prescrizione, nel primo comma dell'art. 2943 (che al secondo menziona la "<em>domanda proposta nel corso di un giudizio</em>").</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, con la sentenza n. 8491 del 2011, le Sezioni Unite, nell'affermare che il termine "<em>ricorso</em>" contenuto nell'art. 1137 c.c. (nel testo antecedente la modifica di cui all'art. 15 della L. n. 220 del 2012) non vale ad identificare la forma che deve assumere l'atto introduttivo dei giudizi d'impugnativa delle delibere condominiali, hanno già evidenziato che il riferimento a nozioni processuali che, come nella specie, sia inserito in un contesto normativo - il codice civile - destinato alla configurazione dei diritti e all'apprestamento delle relative azioni sotto il profilo sostanziale, può avere carattere generico. Da un punto di vista sistematico, va, poi, rilevato che il possessore, in virtù dell'apparenza di verità che è data al relativo titolo dalla buona fede (che si presume), non cessa di esser tale né diventa mero detentore per il solo fatto che un terzo rivendichi il bene, seppure con una richiesta formale, in tesi analoga a quella idonea alla costituzione in mora: gli effetti della sentenza retroagiscono, infatti, alla "<em>domanda giudiziale</em>", di cui parla l'art. 1148 c.c., non perché la relativa proposizione produca l'effetto della costituzione in mora, ma perché lo status di possessore in buona fede e la connessa tutela possono cessare solo con la sentenza che accolga la rivendica, mentre, com'è noto, i tempi del processo non possono gravare sulla parte rimasta vittoriosa.</p> <p style="text-align: justify;">In caso d'indebito oggettivo, invece, il legislatore, come affermato da accorta dottrina, non si preoccupa di qualificare la situazione che lo determina, e non prende neppure posizione sul problema se il pagamento non dovuto trasferisca la proprietà della cosa pagata oppure ne trasferisca il solo possesso: si limita più semplicemente a prendere atto che manca un presupposto legale affinché la prestazione corrisposta possa esser mantenuta, e concede alla parte che ha effettuato il pagamento il diritto di riprendersi quanto pagato. Il principio ha avuto l'avallo delle Sezioni Unite (n. 14828 del 2012), che hanno affermato che qualora venga acclarata la mancanza di una <em>causa adquirendi</em>, ed in qualsiasi caso in cui venga meno il vincolo originariamente esistente, l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del titolo invalido è quella di ripetizione di indebito oggettivo.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio ritiene, pertanto, di dover superare la propria giurisprudenza, che, nelle decisioni del 2009, ha fatto proprio l'indirizzo tradizionale qualificandolo come <em>jus receptum</em>, ma senza alcuna specifica argomentazione, mentre con la decisione del 1994 ha mostrato un'apertura, sia pur settoriale e riferita al valore della domanda amministrativa nelle cause previdenziali, e di dover affermare che i principi che governano l'indebito devono individuarsi solo in quelli che regolano le obbligazioni, nel cui ambito l'istituto trova, appunto, la sua <em>sedes materiae</em>. Il che comporta che, in base ai principi generali, l'obbligo della corresponsione degli interessi da parte dell'<em>accipiens</em> in buona fede, quale debitore dell'indebito percepito, può decorrere da data antecedente a quella dell'instaurazione del giudizio, ove sia stata preceduta da uno specifico atto di costituzione in mora, dovendo il termine "<em>domanda</em>" di cui all'art. 2033 c.c. esser inteso come riferito non esclusivamente alla domanda giudiziale ma, anche, agli atti stragiudiziali di cui all'art. 1219 c.c. Il regime della disposizione in esame, che si riferisce, comunque, ad una domanda per il sorgere del debito per interessi consente, sotto altro profilo, di confermare che l'art. 2033 c.c. è norma parzialmente derogatoria rispetto all'art. 1282 c.c., costituendo eccezione -che la disposizione in esame, appunto, ammette- al principio secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di una somma di danaro producono interessi (corrispettivi) di pieno diritto, e ciò in ragione del fatto che la legge considera legittima l'utilizzazione del denaro da parte dell'<em>accipiens</em> in buona fede prima della "<em>domanda</em>" nel senso qui specificato.</p> <p style="text-align: justify;">Ne scaturisce allora per il Collegio il principio di diritto onde ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito oggettivo, il termine "<em>domanda</em>", di cui all'art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce la sentenza delle SSUU n.18672 onde <em>in primis</em>, secondo pacifica giurisprudenza della Corte, che va ribadita, in tema di compravendita, il termine di decadenza dalla garanzia per vizi occulti decorre solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva dell'esistenza e della consistenza del vizio lamentato, non essendo sufficiente il semplice sospetto (cfr., ad es., Cass. n. 8183/2002, relativa ad una fattispecie simile in tema di acquisto di piantine di vite rivelatesi inidonee all'uso dopo alcuni mesi dall'acquisto; v., anche, Cass. n. 5732/2011).</p> <p style="text-align: justify;">E’ importante puntualizzare per il Collegio come sia anche stato condivisibilmente affermato il principio secondo cui il termine di decadenza per la denunzia dei vizi della cosa venduta ai sensi dell'art. 1495 c.c., pur dovendo essere riferito alla semplice manifestazione del vizio e non già alla relativa individuazione causale, decorre tuttavia solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la piena cognizione sul piano oggettivo dell'esistenza del vizio, con la conseguenza che ove la scoperta avvenga in via graduale ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sull'entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al momento in cui sia effettivamente e compiutamente emersa la relativa scoperta (v. Cass.n. 1458/1994 e Cass. n. 12011/1997).</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, per il Collegio nel contratto di compravendita, costituiscono - ai sensi dell'art. 2943, comma 4, c.c. - idonei atti interruttivi della prescrizione annuale dell'azione di garanzia per vizi, prevista dall'art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all'art. 1219, comma 1, c.c., con la produzione dell'effetto generale contemplato dall'art. 2945, comma 1, c.c.</p> <p style="text-align: justify;">La Seconda sezione - nell'affrontare, con la ordinanza interlocutoria di rimessione, la questione implicata dal secondo motivo di ricorso, con il quale si contestava che le comunicazioni con cui l'acquirente aveva manifestato alla venditrice l'esistenza di vizi dei beni venduti, prospettando, mediante tali atti, il ricorso alla tutela giudiziaria poi effettivamente esperito, costituissero atti idonei ad interrompere la prescrizione della garanzia del venditore di cui all'art. 1490 c.c. e delle azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo che da essa derivano ex art. 1492 c.c. - ha osservato come su tale questione si siano essenzialmente formati due orientamenti contrastanti nella giurisprudenza della Corte. Secondo un primo indirizzo, la prescrizione della garanzia, stabilita dall'art. 1495, comma 3, c.c. in un anno, è interrotta dalla manifestazione stragiudiziale al venditore della volontà - del compratore - di volerla esercitare, anche se il medesimo riservi ad un momento successivo la scelta tra la tutela alternativa di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto.</p> <p style="text-align: justify;">Ai fini interruttivi, peraltro, non sarebbe necessaria la precisazione del tipo di tutela giudiziaria che il compratore intende richiedere né risulterebbe rilevante che egli riservi ad un momento successivo tale scelta. In tal senso si è espressa Cass., sez. 2, 10 settembre 1999, n. 9630 e, ancor prima, si era pronunciata nello stesso senso Cass., sez. 2, 6 giugno 1977, n. 2322. Tale orientamento è stato poi ripreso da Cass., Sez. 2, 8 luglio 2010, n. 18035 e da Cass., Sez. 2, 10 novembre 2015, n. 22903. L'interpretazione accolta da tali pronunce - osserva la Seconda Sezione - postula la distinzione tra la garanzia, intesa quale situazione giuridica autonoma suscettibile di distinti atti interruttivi della prescrizione, e le azioni edilizie di cui all'art. 1492 c.c. che da essa derivano. Tale distinzione sarebbe alla base della sentenza delle Sezioni unite n. 13294 del 2005, la quale ha affermato che l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa venduta non costituisce una nuova obbligazione estintivo- satisfattiva dell'originaria obbligazione di garanzia, ma consente al compratore di essere svincolato dai termini di decadenza e dalle condizioni di cui all'art.1495 c.c. ai fini dell'esercizio delle azioni di cui al citato art. 1492 c.c., costituendo riconoscimento del debito interruttivo della prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo un diverso orientamento, invece, la facoltà riconosciuta al compratore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo ha natura di diritto potestativo a fronte del quale la posizione del venditore è di mera soggezione. Conseguentemente, si è ritenuto che il termine di prescrizione per l'esercizio di tali azioni possa essere interrotto unicamente attraverso la domanda giudiziale e non anche mediante atti di costituzione in mora ex art. 1219, comma 1, c.c. i quali si attagliano ai diritti di credito ma non ai diritti potestativi. Quale espressione di questo orientamento sono richiamate le pronunce della Seconda sezione n. 18477 del 2003, n. 20332 del 2007 e n. 20705 del 2017. Tale ricostruzione - osserva l'ordinanza interlocutoria - non distingue tra prescrizione della garanzia e prescrizione delle azioni edilizie e condurrebbe a ritenere inidoneo ai fini interruttivi l'impegno del venditore di eliminare i vizi, «<em>e ciò senza indagare se detto atto, in quanto idoneo a interrompere la prescrizione della garanzia impedisca pure la prescrizione delle azioni edilizie "</em>a valle<em>"».</em></p> <p style="text-align: justify;">Si pone pertanto, ad avviso della Seconda Sezione, la questione di stabilire quali atti siano idonei ad interrompere il breve termine prescrizionale previsto dall'art. 1495 c.c. e cioè se, a tal fine, valga solo l'azione giudiziale ovvero siano idonei anche altri atti e quale debba essere il loro contenuto, nonché il rapporto tra la garanzia, intesa quale autonoma posizione sostanziale e processuale, e i diritti e le azioni che da essa hanno origine. Tale questione postula a monte la risoluzione di altra controversa problematica relativa alla natura giuridica della garanzia per vizi e del rapporto tra le categorie generali della "<em>garanzia</em>" da una parte e delle situazioni giuridiche passive dall'altra.</p> <p style="text-align: justify;">Da quanto riportato si evince, dunque, che la questione centrale - qualificata come di massima di particolare importanza - prospettata dalla Seconda Sezione, previa qualificazione dell'istituto della garanzia per vizi nella compravendita (con esclusione, stante la loro peculiare disciplina, delle fattispecie di compravendita disciplinate dal c.d. codice del consumo), concerne l'individuazione degli atti idonei a interrompere la prescrizione di cui all'art. 1495, comma 3, c.c., ai sensi degli artt. 2943 e segg. c.c., ed in particolare se possa riconoscersi tale effetto anche ad atti diversi dalla proposizione dell'azione giudiziale, e se, ed in quale misura, detti atti interruttivi inibiscano il decorso della prescrizione in relazione alle azioni edilizie di cui all'art. 1492, comma 1, c.c. .</p> <p style="text-align: justify;">Si rileva in primo luogo, per le SSUU, l'opportunità di esporre una sintesi di massima sugli aspetti generali maggiormente precipui della regolamentazione che presiede alla tutela della garanzia per i vizi dell'oggetto della compravendita. Una parte rilevante delle disposizioni codicistiche in tema di vendita concerne le garanzie cui il venditore è tenuto nei confronti del compratore e, in particolare, la garanzia per evizione, la garanzia per vizi (artt. 1490-1496 c.c.), la mancanza di qualità (art. 1497 c.c.) e la garanzia di buon funzionamento (art. 1512 c.c.). La riconducibilità di tutte tali ipotesi ad un medesimo fondamento è tuttora discussa in dottrina e giurisprudenza, così come non è del tutto pacifica la natura giuridica delle stesse, anche in ragione della disciplina articolata e non univoca predisposta dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Le questioni prospettate attengono alla garanzia per il c.d. vizio redibitorio, cioè il vizio che rende la cosa venduta inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuisce in modo apprezzabile il valore (art. 1490 c.c.). Tale garanzia è espressamente contemplata dall'art. 1476, n. 3, c.c. che la include tra le obbligazioni principali del venditore. Gli effetti della garanzia sono delineati dal comma 1 dell'art. 1492 c.c. il quale prevede che, nei casi di cui all'art. 1490 c.c., il compratore può domandare a propria scelta la risoluzione del contratto (azione redibitoria), ovvero la riduzione del prezzo (azione estimatoria, o <em>quanti minoris</em>), salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. La scelta tra le due forme di tutela può avvenire fino al momento della proposizione della domanda giudiziale e da tale momento è irrevocabile. Alla risoluzione del contratto conseguono effetti restitutori in quanto il venditore è tenuto a restituire il prezzo e a rimborsare al compratore le spese e i pagamenti sostenuti per la vendita, mentre il compratore deve restituire la cosa, a meno che questa non sia perita a causa dei vizi (art. 1493 c.c.). L'art. 1494 c.c. riconosce, inoltre, al compratore il diritto al risarcimento del danno, a meno che il venditore non dimostri di aver ignorato senza propria colpa l'esistenza dei vizi. Il venditore è, altresì, tenuto a risarcire i danni derivanti dai vizi (art. 1494, comma 2 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;">Si ritiene che, mentre la responsabilità risarcitoria del venditore presuppone che egli versi in una situazione di colpa, i rimedi di cui all'art. 1492 c.c., invece, prescindono da questa e sono azionabili per il fatto oggettivo della esistenza dei vizi. La garanzia resta esclusa se, al momento della conclusione del contratto, il compratore era a conoscenza dei vizi o questi erano facilmente riconoscibili secondo l'ordinaria diligenza, a meno che il venditore abbia dichiarato che la cosa ne era esente (art. 1491 c.c.). La garanzia può anche essere esclusa o limitata pattiziamente ma tale patto non vale se il venditore abbia in malafede taciuto al compratore i vizi da cui era affetta la cosa (art. 1490, comma 2 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;">L'esercizio delle azioni previste dall'art. 1492 c.c. (cc.dd. azioni edilizie) – prosegue il Collegio - è circoscritto temporalmente attraverso la previsione di un duplice termine, di decadenza e di prescrizione. Infatti, ai sensi dell'art. 1495, comma 1, c.c., il compratore decade dal diritto di garanzia se non denuncia i vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta, ma le parti possono stabilire convenzionalmente un termine diverso. Nel caso in cui il venditore abbia riconosciuto l'esistenza del vizio o lo abbia occultato, la denuncia non è necessaria. L'art. 1495, comma 3, c.c. — che rappresenta la norma intorno alla quale ruota la questione rimessa alle Sezioni unite - prevede, inoltre, un breve termine di prescrizione disponendo che l'azione si prescrive in ogni caso in 1 anno dalla consegna. Tuttavia, convenuto in giudizio per l'esecuzione del contratto, il compratore può sempre far valere la garanzia, purché il vizio sia stato denunciato entro il termine di decadenza e prima che sia decorso 1 anno dalla consegna. Agli stessi termini si ritiene soggetta anche l'azione di risarcimento del danno.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 1497 c.c. contempla, altresì, in favore del compratore un rimedio per la mancanza di qualità promesse o essenziali per l'uso cui la <em>res</em> è destinata, soggetto anch'esso ai termini di decadenza e prescrizione di cui all'art. 1495. Proprio al fine di svincolare l'acquirente dai limiti imposti dall'art. 1495 c.c. ed assicurargli una tutela più ampia, la giurisprudenza ha elaborato la figura dell'<em>aliud pro alio datum</em>, la quale ricorre quando vi è diversità qualitativa tra la cosa consegnata e quella pattuita, ovvero anche in ipotesi di vizi di particolare gravità. In tal caso la tutela del compratore è assicurata attraverso i rimedi ordinari dell'azione di risoluzione e di esatto adempimento secondo il termine di prescrizione ordinario, oltre che con il risarcimento del danno.</p> <p style="text-align: justify;">Parte della dottrina (seguita pure da un circoscritto filone giurisprudenziale), sempre al fine di garantire una tutela più ampia al compratore e ispirandosi alla normativa comunitaria relativa ai beni di consumo, si era anche orientata a riconoscere al compratore l'azione di esatto adempimento, cioè la possibilità di agire in giudizio per ottenere la riparazione o sostituzione del bene. Tale possibilità è stata, tuttavia, espressamente esclusa dalle Sezioni unite con la sentenza n. 19702 del 2012, secondo cui il compratore, per l'appunto, non dispone - neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica - di un'azione "<em>di esatto adempimento</em>" per ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene.</p> <p style="text-align: justify;">Così sinteticamente delineata la disciplina positiva codicistica, si rileva dal Collegio come la configurazione dogmatica della garanzia per vizi non sia del tutto pacifica. Essa ha costituito oggetto di ampie e diversificate tesi, che hanno spaziato tra quella che individua nella garanzia una vera e propria assicurazione contrattuale a quella che la colloca nell'ambito della teoria dell'errore, quale vizio del consenso, ovvero da quella che ha posto riferimento all'istituto della presupposizione a quella che ha ravvisato un caso particolare di applicazione delle regole sulla responsabilità precontrattuale. All'interno della dottrina - considerata prevalente - che riconduce le garanzie edilizie ad una ipotesi di responsabilità per inadempimento (intesa nel senso di inesecuzione od inesatta esecuzione del contratto), risultano, poi, diversificate le opinioni in ordine all'identificazione dell'obbligazione da ritenere inadempiuta nel caso di vizi della cosa oggetto di compravendita.</p> <p style="text-align: justify;">E' indubbio che il fondamento della responsabilità per vizi e difetti rinviene la propria causa nel fatto che il bene consegnato non corrisponde all'oggetto dovuto alla luce di quanto previsto nell'atto di autonomia privata. Orbene, il collegio, con riferimento a questa problematica (presupposta nella individuazione della questione di massima di particolare importanza sollevata dalla Seconda sezione) che concerne specificamente l'individuazione della natura giuridica di tale forma di responsabilità, si richiama al risolutivo inquadramento operato dalle stesse Sezioni unite con la recente sentenza n. 11748 del 3 maggio 2019. Con essa - pur dovendosi risolvere la diversa questione sul riparto dell'onere probatorio tra venditore e compratore con riferimento all'esercizio di siffatta tutela della garanzia per vizi – si è isolato un tipo di responsabilità (contrattuale ma non corrispondente del tutto a quella ordinaria, atteggiandosi come peculiare in virtù della specifica disciplina della vendita) per inadempimento che deriva dall'inesatta esecuzione del contratto sul piano dell'efficacia traslativa per effetto delle anomalie che inficiano il bene oggetto dell'alienazione, ovvero che lo rendano inidoneo all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, e sempre che i vizi - ovviamente - siano preesistenti alla conclusione del contratto, tenuto anche conto che - ai sensi dell'art. 1477, comma 1, c.c. - il bene deve essere consegnato dal venditore nello stato in cui si trovava al momento della vendita.</p> <p style="text-align: justify;">E', in altri termini, solo l'inesistenza di tali tipi di vizi che consente di realizzare oltre che il sinallagma genetico anche quello funzionale, puntualizzandosi, però, che la responsabilità relativa alla loro garanzia prescinde da ogni giudizio di colpevolezza basandosi sul dato oggettivo dell'esistenza dei vizi stessi e traducendosi nella conseguente assunzione del rischio - di origine contrattuale - da parte del venditore di esporsi all'esercizio dei due rimedi edilizi di cui può avvalersi, a propria scelta, il compratore, al quale è riconosciuto anche il diritto al risarcimento dei danni, salvo che il venditore provi di aver senza colpa ignorato i vizi.</p> <p style="text-align: justify;">Esposte le varie posizioni sul fondamento e sulla natura giuridica della garanzia per vizi, bisogna, tuttavia, osservare che la dottrina si è pure occupata - anche se in modo non del tutto approfondito - della collegata problematica relativa agli strumenti rimediali in favore dell'acquirente discendenti dalle richiamate ricostruzioni. La <em>ratio</em> della previsione di un ristretto termine di prescrizione viene prevalentemente rinvenuta nella esigenza di evitare che il decorso del tempo renda eccessivamente gravoso l'accertamento delle cause dei difetti e di salvaguardare la certezza delle sorti del contratto. Tuttavia, proprio la brevità di un tale termine ha posto la questione della individuazione degli atti idonei ad interrompere la prescrizione. In dottrina il dibattito è stato particolarmente intenso allorquando si è messa in evidenza la circostanza - a cui attiene propriamente la questione di massima di particolare importanza da risolvere da parte delle SSUU - che l'art. 1495, comma 3, c.c. riferisce i termini di prescrizione all'azione, a differenza dell'art. 2934 c.c. il quale rivolge la prescrizione ai diritti.</p> <p style="text-align: justify;">Da ciò si è ritenuto, per un verso, che ad evitare la perdita della garanzia varrebbe soltanto l'esercizio dei mezzi processuali e, per altro verso ed in senso contrario, altri orientamenti hanno obiettato che il dato letterale del riferimento della prescrizione all'azione anziché al diritto sarebbe irrilevante posto che la terminologia legislativa non può ritenersi decisiva in quanto anche altre volte esprime la pretesa sostanzialmente in termine di azione (nell'art. 2947, comma 3, c.c. si parla con formule equivalenti di prescrizione dell'azione e di prescrizione del danno). Ma, soprattutto, si rileva come i rimedi edilizi siano rimedi sostanziali in quanto attraverso di essi il compratore fa valere un diritto contrattuale. Conseguentemente, benché i rimedi previsti a vantaggio dell'acquirente siano indicati come azioni (di risoluzione ed estimatoria), in realtà essi non coinvolgerebbero tematiche processuali ma avrebbero contenuto sostanziale di tutela del diritto. Per tale ragione sarebbero idonei a interrompere la prescrizione non solo il riconoscimento, da parte del venditore, (non del vizio ma) del diritto del compratore alla garanzia, ma anche, in virtù dell'art. 2943 c.c., gli atti di costituzione in mora del venditore e pure l'impegno assunto da quest'ultimo di eliminare i vizi.</p> <p style="text-align: justify;">Merita menzione anche un ulteriore peculiare indirizzo il quale ritiene, invece, che il compratore possa valersi soltanto dell'interruzione della prescrizione derivante o dalla proposizione della domanda giudiziale, cui si equipara l'esperimento del procedimento preventivo ex art. 1513 c.c., o dal riconoscimento da parte del venditore del relativo diritto alla garanzia.</p> <p style="text-align: justify;">Come rilevato nell'ordinanza di rimessione della Seconda sezione, si rinvengono nella giurisprudenza della Corte sostanzialmente due distinti orientamenti circa la qualificazione giuridica della garanzia per vizi e, conseguentemente, sulla individuazione degli atti interruttivi della prescrizione. Un primo orientamento configura la garanzia per vizi come un autonomo diritto in forza del quale il compratore può, a propria scelta, domandare la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo. Ne consegue che quando il compratore comunica al venditore che intende far valere il diritto alla garanzia, egli interrompe la prescrizione inerente a tale diritto. A tal fine si ritiene che non sia necessaria la precisazione del tipo di tutela che andrà a chiedere in via giudiziaria ed è altresì irrilevante, ai fini della idoneità della interruzione, la riserva di scelta del tipo di tutela, in quanto - si afferma - non rappresenterebbe comunque riserva di far valere un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione (così Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9630 del 1999).</p> <p style="text-align: justify;">Più di recente – chiosa ancora la Corte - Cass., Sez. 2, n. 22903 del 2015, richiamando il precedente del 1999, ha affermato che costituisce atto interruttivo della prescrizione della garanzia per vizi della cosa la manifestazione al venditore della volontà - del compratore - di volerla esercitare, benché lo stesso differisca ad un momento successivo l'opzione per il tipo di strumento rimediale da esercitare. A tal fine, la Corte ha valutato come idonea l'espressione "<em>con più ampia riserva di azione</em>", contenuta nel telegramma inviato al venditore, con cui il compratore contestava i vizi dell'immobile acquistato, ritenendo sufficiente la comunicazione della volontà di avvalersi della garanzia suddetta e dovendosi escludere che la riserva di scelta del tipo di tutela sia diretta a far valere un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione (nella pronuncia qui richiamata del 2015, si è anche aggiunto che, ai fini di una valida costituzione in mora e del verificarsi dell'effetto interruttivo della prescrizione, non è necessario che il compratore, insieme con la contestazione dei vizi, eserciti la scelta dell'azione, la quale è procrastinabile fino alla proposizione della domanda giudiziale).</p> <p style="text-align: justify;">Un secondo orientamento (cfr. Cass., Sez. 2, nn. 18477/2003, 20332/2007, 8417/2016 e n. 20705/2017) ha affermato che, siccome l'esercizio delle azioni edilizie in favore del compratore di una cosa affetta da vizi implica la configurazione di una posizione del venditore di mera soggezione, dovrebbe conseguire che la prescrizione dell'azione, fissata in un anno dall'art. 1495, comma 3, c.c., può essere utilmente interrotta soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale e non anche mediante atti di costituzione in mora. Ciò sul presupposto che gli atti ai quali l'art. 2943, comma 4, c.c. connette l'effetto di interrompere la prescrizione sono infatti quelli che valgono a costituire in mora "<em>il debitore</em>" e devono consistere, per il disposto dell'art. 1219 c.c., comma 1, c.c. in una "<em>intimazione o richiesta</em>" di adempimento di un'obbligazione (previsioni che si attagliano ai diritti di credito e non a quelli potestativi).</p> <p style="text-align: justify;">E', peraltro, opportuno mettere in risalto per il Collegio che un tentativo di ricostruzione unitaria dei due orientamenti manifestatisi nella giurisprudenza di legittimità è stato operato da una sentenza della Seconda sezione, la n. 8418 del 2016 (non mass.), la quale ha sostenuto che essi avrebbero riguardo a situazioni distinte. Si è in essa, infatti, sostenuto che la richiamata sentenza n. 9630 del 1999, nel considerare atto interruttivo della prescrizione dell'azione di garanzia la manifestazione della volontà del compratore di volerla esercitare, riguarderebbe l'ipotesi in cui il compratore abbia espresso la volontà di esercitare la garanzia e si sia riservato di effettuare successivamente la scelta tra i rimedi consentiti dall'art. 1492 c.c. . Diversa sarebbe, invece, l'ipotesi in cui il compratore dichiari di avvalersi direttamente dell'azione di risoluzione del contratto. In tal caso differente sarebbe la modalità di interruzione della prescrizione dal momento che la facoltà riconosciuta al compratore di chiedere la risoluzione gli conferirebbe un diritto potestativo a fronte del quale la posizione del venditore sarebbe di mera soggezione, non essendo egli tenuto a compiere alcunché ma solo a subire gli effetti della sentenza costitutiva. In tale ipotesi, per l'interruzione della prescrizione occorrerebbe dar luogo solo all'esperimento dell'azione giudiziale, non assumendo efficacia a tale scopo l'intimazione riconducibile a meri atti di costituzione in mora.</p> <p style="text-align: justify;">Ritiene a questo punto il Collegio che la questione individuata nell'ordinanza interlocutoria della Seconda sezione n. 23857/2018 debba essere risolta accedendo all'impostazione e al relativo percorso ermeneutico adottati, in prima battuta, con la sentenza n. 9630/1999 e poi ripresi dalla sentenza n. 22903/2015, con cui si è statuito il principio alla stregua del quale la prescrizione della garanzia per vizi è interrotta dalla comunicazione al venditore della volontà del compratore di esercitarla benché questi riservi ad un momento successivo la scelta del tipo di tutela, dovendosi escludere che la riserva concerna un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">Come prevede l'art. 1495, comma 3, c.c. l'azione di garanzia per i vizi e la mancanza di qualità dovute si prescrive in un anno dalla consegna. Questo termine breve (di natura eccezionale - è, perciò, non estensibile al di fuori dei casi previsti - così fissato dal legislatore per garantire la stabilizzazione, in tempi circoscritti, dei rapporti economici riconducibili alle contrattazioni in tema di compravendita), che si collega all'onere della preventiva denuncia il cui assolvimento è prescritto dal comma 1 dell'art. 1495 c.c., concerne la tutela contrattuale del compratore per far valere l'inesatto adempimento per difettosità del bene oggetto della vendita, a prescindere dal rimedio. Il presupposto di fondo, quindi, consiste nella configurazione di tale responsabilità dell'acquirente come obbligazione derivante "<em>ex contractu</em>" nei termini precedentemente precisati. E' il momento della consegna che individua il "<em>dies a quo</em>" della decorrenza di tale termine di prescrizione. E', altresì, pacifico che, ove la consegna non sia accettata, il termine prescrizionale abbreviato in questione non decorre, poiché il rifiuto dell'acquirente non consente di considerare eseguita la prestazione. Ai sensi dello stesso art. 1495, comma 3, c.c., il compratore può avvalersi della garanzia in esame anche oltre il suddetto termine prescrizionale allorquando sia il venditore ad agire per l'esecuzione del contratto.</p> <p style="text-align: justify;">Al di là della descritta peculiarità della disciplina della prescrizione in questione, le Sezioni unite ritengono che - per quanto non espressamente previsto - trovi applicazione la disciplina generale in tema di prescrizione, con la conseguente operatività, tra l'altro, delle ordinarie cause di interruzione e di sospensione (con particolare riferimento - per quel che rileva in questa sede - all'art. 2943 c.c. e, specificamente, al relativo comma 4). Il diverso indirizzo che ritiene necessario ai fini dell'interruzione del termine prescrizionale annuale l'esercizio dell'azione (a cui pone formale riferimento l'<em>incipit</em> del comma 3 dell'art. 1495 c.c., che non discorre del diritto di far valere l'azione entro detto termine ma sancisce testualmente che "<em>l'azione di prescrive</em>...") in via giudiziale non può essere condiviso.</p> <p style="text-align: justify;">Deve, infatti, osservarsi che, in primo luogo, l'attuale formulazione diverge da quella adottata nel codice civile del 1865 che, invece, lasciava propendere per la necessità dell'esperimento dell'azione giudiziale (l'art. 1505, comma 1, di detto codice prevedeva testualmente che "<em>l'azione redibitoria deve proporsi entro un anno dalla consegna</em>"). La formula ora prevista nel comma 3 dell'art. 1495 del vigente codice civile si richiama esplicitamente alla prescrizione e, pur discorrendosi di prescrizione dell'azione, va rilevato che il ricorso a tale terminologia non può ritenersi decisivo nel senso che debba ritenersi riferibile esclusivamente all'esercizio dell'azione giudiziale. Su un piano sistematico va, infatti, osservato che, anche in altre disposizioni normative, il legislatore ha posto riferimento - ma in senso atecnico dal punto di vista giuridico - alla pretesa sostanziale in termine di azione (dove si avverte il senso concreto della tutela della posizione soggettiva nell'ordinamento: cfr., ad es., l'art. 2947, comma 3, c.c. in cui si parla, indistintamente e con formule equivalenti, di prescrizione dell'azione e di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, e l'art. 132, comma 4, del c.d. codice del consumo - d.lgs. n. 206/2005 - laddove, per un verso, si parla di azione e, per altro verso, si parla di "far valere i diritti" correlati ai vizi della cosa venduta).</p> <p style="text-align: justify;">Diversamente, sempre con riferimento alla vendita, l'art. 1497 c.c. - riferito alla risolubilità del contratto per "<em>mancanza di qualità</em>" - sancisce, al comma 2, che il diritto di ottenere la risoluzione (e non, quindi, l'esercizio della relativa azione) è soggetto alla decadenza e alla prescrizione stabilite proprio dal precedente art. 1495. Appare, quindi, incontestabile che, con riguardo al potere di agire, viene in rilievo la pretesa sostanziale del compratore, ovvero la pretesa contrattuale all'esatta esecuzione del contratto, con la conseguenza che, alla tutela di questa pretesa ad essere garantito se insoddisfatta, soccorrono i rimedi sostanziali che non si sostituiscono al diritto primario ma ne perseguono una tutela diretta o indiretta.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, nella prospettiva generale della questione in esame, deve sottolinearsi che, in effetti, non si verte propriamente nell'ipotesi di esercitare un singolo specifico potere ma di far valere il "<em>diritto alla garanzia</em>" derivante dal contratto, rispetto al quale, perciò, non si frappongono ostacoli decisivi che impediscono l'applicabilità della disciplina generale della prescrizione (e che, invece, in un'ottica sistematica, appare con esso compatibile), ivi compresa quella in materia di interruzione e sospensione. Quando si avvale della "<em>garanzia</em>" il compratore fa valere l'inadempimento di una precisa obbligazione del venditore (contemplata dall'art. 1476 n. 3) c.c.) e, conseguentemente, sul piano generale, deve ammettersi che lo possa fare attraverso una manifestazione di volontà extraprocessuale e ciò si inferisce anche da quanto stabilisce l'art. 1492, comma 2, c.c., il quale, prevedendo che "<em>la scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale</em>", significativamente la prefigura, riconnettendo, invero, alla domanda in sede processuale la sola impossibilità di rimeditare l'opzione tra risoluzione e riduzione del prezzo.</p> <p style="text-align: justify;">Anche questo argomento di tipo logico-sistematico conforta, quindi, l'ammissibilità dell'interruzione della prescrizione con un atto stragiudiziale, fermo rimanendo che l'interruzione si limita a far perdere ogni efficacia al tempo già trascorso prima del compimento dell'atto, senza interferire con il modo di essere del diritto. La soluzione per la quale si propende si lascia preferire anche per una ragione di ordine generale che impatta sul piano socio-economico posto che, per effetto dell'operatività dell'interruzione della prescrizione secondo la disciplina generale (e, quindi, anche mediante atti stragiudiziali), esiste una plausibile possibilità che il venditore intervenga eventualmente - a seguito della costituzione in mora - eliminando i vizi (possibile, se le parti convengano, prima e al di fuori del processo, configurandosi solo in questo senso la limitazione dei rimedi stabilita dagli artt. 1490 e segg.), così evitando che il compratore debba rivolgersi necessariamente al giudice esercitando la relativa azione in sede, per l'appunto, giudiziale.</p> <p style="text-align: justify;">Questa possibilità è idonea ad perseguire - in termini certamente più ristretti rispetto a quelli fisiologici di un giudizio - un'efficace tutela delle ragioni dell'acquirente, senza tuttavia penalizzare eccessivamente il venditore, poiché dal momento dell'interruzione della prescrizione ricomincia a decorrere il termine originario: in tal modo è, altresì, assicurato alle parti un congruo <em>spatium deliberandi</em> e si evita la conseguenza di una inutile proliferazione di giudizi, così rimanendo realizzato un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi coinvolti.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, il Collegio ritiene che non sussistano ragioni impeditive determinanti per negare al compratore di avvalersi della disciplina generale in tema di prescrizione - con correlata applicabilità anche dell'art. 2943, comma 4, c.c. - e, quindi, per imporgli di agire necessariamente in via giudiziale al fine di far valere la garanzia per vizi in tema di compravendita. Da ciò consegue che non solo le domande giudiziali ma anche gli atti di costituzione in mora (ai sensi dell'appena citato art. 2943, comma 4, c.c., che si concretano - in relazione al disposto di cui all'art. 1219, comma 1, c.c. - in qualsiasi dichiarazione formale che, in generale, esprima univocamente la pretesa del creditore all'adempimento) da parte del compratore costituiscono cause idonee di interruzione della prescrizione: l'effetto che ne deriva è che, una volta che si faccia ricorso a tali atti entro l'anno dalla consegna, inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione di un anno (ai sensi della norma generale di cui al primo comma dell'art. 2945 c.c.) e l'idoneità interruttiva di tali atti persegue, come già evidenziato, anche lo scopo - in presenza, peraltro, di un termine così breve - di favorire una risoluzione (stragiudiziale) preventiva della possibile controversia rispetto all'opzione, a tutela delle ragioni del compratore, per la scelta di vedersi riconosciuto il diritto alla garanzia (e di ottenere uno degli effetti giuridici favorevoli previsti dalla legge) solo mediante l'esercizio dell'azione in via giudiziale.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, quale principio di diritto risolutivo della prospettata questione di massima di particolare importanza, deve affermarsi per le SSUU che nel contratto di compravendita, costituiscono - ai sensi dell'art. 2943, comma 4, c.c. - idonei atti interruttivi della prescrizione dell'azione di garanzia per vizi, prevista dall'art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all'art. 12191 comma 1, c.c., con la produzione dell'effetto generale contemplato dall'art. 2945, comma 1, c.c. .</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1149 che si occupa della questione afferente i limiti e l’estensione dei poteri di pronuncia del giudice di merito investito dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla parte. Si discute, cioè, se il giudice di merito, nel pronunciare sull'eccezione di prescrizione, debba necessariamente attenersi alle prospettazioni delle parti o se, invece, egli possa dichiarare l'estinzione del diritto sulla base dì ragioni diverse.</p> <p style="text-align: justify;">Sul punto, chiosa il Collegio, gli orientamenti giurisprudenziali non sono univoci. Un orientamento più risalente propende per la soluzione restrittiva ed esclude il potere del giudice di dichiarare una prescrizione diversa, o comunque fondata su ragioni diverse, rispetto a quella eccepita dalla parte. Ciò implicherebbe infatti il rilievo da parte del giudice di una prescrizione non opposta, in violazione sia del carattere dispositivo dell'eccezione di prescrizione sia del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (Sez. U, Sentenza n. 1607 del 03/04/1989, Rv. 462389 - 01; Sez. L, Sentenza n. 6261 del 15/05/2000, Rv. 536529 - 01). Ed inoltre, il giudice d'appello che abbia applicato una prescrizione "<em>diversa</em>" da quella dedotta, violerebbe il principio del contraddittorio, nonché il divieto di eccezioni nuove in appello posto dall'art. 345 cod. proc. civ. (Sez. L, Sentenza n. 4456 del 08/04/2000, Rv. 535458 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, dal carattere dispositivo della prescrizione deriverebbe, per la parte che propone la relativa eccezione, l'onere di tipizzarla in base ad una delle varie ipotesi previste dalla legge, anche se indipendentemente dall'adozione di formule rituali e dall'indicazione di specifiche norme (Sez. L, Sentenza n. 10904 del 07/12/1996, Rv. 501094 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">L'opposta opinione sostiene, invece, che il giudice, in virtù del principio <em>iura novit curia</em>, possa dichiarare anche una prescrizione diversa da quella eccepita dalla parte. Infatti, compete soltanto al giudice l'individuazione della norma corretta da applicare al caso di specie. Sicché, una volta che la parte abbia assolto al proprio onere di formulare l'eccezione di prescrizione e, in ossequio al carattere dispositivo dell'art. 2938 cod. civ., di allegare i fatti costituitivi e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, spetta al giudice analizzare l'eccezione di parte e individuare le norme applicabili alla fattispecie dedotta (Sez. U, Sentenza n. 10955 del 25/07/2002, Rv. 556223 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, sarebbe irrilevante l'evenienza che colui che invochi la prescrizione abbia erroneamente individuato il termine applicabile, ovvero il momento iniziale o finale di esso (Sez. 1, Sentenza n. 11843 del 22/05/2007, Rv. 597118 - 01; Sez. L, Sentenza n. 9825 del 26/07/2000, Rv. 538836 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 15631 del 27/07/2016, Rv. 640674 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">Occorre rilevare – precisa a questo punto il Collegio - che la ragione principale addotta da chi sostiene la tesi più restrittiva dei poteri officiosi del giudice risiede nell'esigenza di garantire l'esercizio della difesa da parte di colui contro il quale è stata eccepita la prescrizione, il quale, confidando sulla prospettazione di controparte, ben potrebbe aver limitato la relativa difesa all'ambito temporale corrispondente al regime prescrizionale eccepito, trascurando ogni deduzione e allegazione (ad esempio relativa a fatti interruttivi) con riguardo ad un più ampio periodo.</p> <p style="text-align: justify;">Tale esigenza si pone alla base di una opinione, per così dire, intermedia, secondo cui, nell'ipotesi in cui la parte abbia eccepito la prescrizione decennale, il giudice può ritenere invece che si sia verificata una prescrizione più breve, senza che ciò comporti una violazione del principio dispositivo, sia perché è suo compito la qualificazione giuridica dei fatti, sia perché l'allegazione del decorso del decennio implica l'allegazione di un termine eventualmente più breve, salvo che si tratti di casi in cui la legge, stabilendo la prescrizione breve, abbia anche dettato particolari disposizioni per la sospensione o l'interruzione. Viceversa, nel caso in cui la parte abbia eccepito una prescrizione quinquennale, così limitando a tale periodo la correlata difesa della controparte, deve reputarsi inammissibile la successiva qualificazione della prescrizione come decennale (Sez. L, Sentenza n. 13898 del 11/12/1999, Rv. 532050 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">Questo arresto giurisprudenziale ha il merito di porre a fuoco la circostanza che il nodo irrisolto dalla giurisprudenza concerne, in pratica, solamente i casi in cui, avendo l'obbligato eccepito una prescrizione quinquennale (o comunque breve, purché non presuntiva), il giudice abbia invece ritenuto che si dovesse applicare il termine decennale, rispetto al quale ha ritenuto il diritto estinto. Nell'ipotesi inversa, in cui è stato eccepito l'intero decorso del termine ordinario decennale, ma <em>ex officio</em> è stata rilevata l'applicabilità di un termine più breve, le incertezze giurisprudenziali sono pressoché assenti, essendo stato comunque assicurato il contraddittorio circa l'esistenza di fatti interruttivi o sospensivi su un arco temporale maggiore di quello concretamente preso in esame dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Orbene, nel caso in esame non si profila per la Corte la predetta alternativa. Ciò di cui la società ricorrente si duole è che il giudice sia pervenuto al medesimo risultato invocato dagli opponenti, cioè la declaratoria di prescrizione del credito, applicando la medesima norma invocata dagli stessi, ma sulla base di una ragione giuridica diversa da quella eccepita. Nel caso oggetto di censura, pertanto, non si versa nell'ipotesi in cui sia stato applicato un termine di prescrizione diverso da quello invocato dalla parte.</p> <p style="text-align: justify;">Il principio di diritto che deve essere applicato è dunque per il Collegio quello onde non viola il principio dispositivo di cui all'art. 2938 cod. civ., né quello di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all'art.112 cod. proc. civ., la decisione del giudice di merito che accolga l'eccezione di prescrizione ordinaria del diritto azionato sulla base di una ragione giuridica diversa da quella prospettata dalla parte che ha formulato l'eccezione (ad esempio, ritenendo che un determinato atto sia privo di efficacia interruttiva). Infatti, in base al principio iura novit curia, spetta al giudice individuare gli effetti giuridici dei singoli atti indicati dalle parti, attribuendo o negando a ciascuno di essi efficacia interruttiva o sospensiva della prescrizione, mentre la tutela del contraddittorio è assicurata ponendo la parte contro la quale è formulata l'eccezione nelle condizioni di difendersi deducendo l'esistenza di eventuali atti rilevanti ex artt. 2941, 2942, 2943 e 2944 cod. civ. per tutto l'arco temporale preso in considerazione dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Questo principio – precisa ancora la Corte - non risulta violato nel caso in esame. Infatti, la Corte d'appello ha dichiarato l'intervenuta prescrizione del credito sulla base del medesimo regime (decennale ordinario) invocato dagli opponenti, limitandosi ad aggiungere una considerazione in punto di diritto implicitamente sottesa nell'eccezione. Nel caso oggetto di censura, pertanto, non è stato applicato un termine di prescrizione diverso da quello invocato dai debitori (circostanza che, invece, avrebbe potuto ledere le facoltà difensive della creditrice) e non si ravvisano le violazioni di legge prospettate dalla società ricorrente. Il motivo, pertanto, deve essere rigettato.</p> <p style="text-align: justify;">Su altro crinale, per il Collegio - stante il carattere accessorio dell'ipoteca rispetto al credito garantito - condizione necessaria per poter esercitare il diritto di garanzia sul bene ipotecato è che non si siano prescritti né il credito, né l'ipoteca. Quando il bene ipotecato è di proprietà di un terzo - o perché così è stata costituita la garanzia o per essersi reso il terzo acquirente dell'immobile già gravato da ipoteca - si pone il problema se gli atti interruttivi della prescrizione del credito, che ovviamente devono compiersi nei confronti del debitore, valgano anche nei riguardi del proprietario dell'immobile.</p> <p style="text-align: justify;">Il caso che più frequentemente si pone è quello in cui il creditore si insinua al passivo del fallimento del debitore garantito. Com'è noto, infatti, l'insinuazione al passivo fallimentare produce i medesimi effetti della proposizione di una domanda giudiziale e, pertanto, determina non solo l'interruzione della prescrizione del credito, ma anche la sospensione del relativo decorso con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, ai sensi dell'art. 2945, secondo comma, cod. civ. (<em>ex plurimis</em>, Sez. 3, Ordinanza n. 9638 del 19/04/2018, Rv. 648427 - 01). La questione di diritto rappresentata con il motivo scandagliato nel caso di specie consiste dunque, per la Corte, nell'individuazione degli effetti, nei confronti del terzo datore di ipoteca o acquirente del bene ipotecato, dell'insinuazione al passivo del fallimento del debitore garantito. Se, cioè, tale atto determini anche l'interruzione della prescrizione dell'ipoteca e, nell'eventualità, se tale interruzione abbia effetti istantanei o permanenti.</p> <p style="text-align: justify;">Anche su questo punto – precisa la Corte - sembra sussistere un contrasto fra diverse posizioni della giurisprudenza di legittimità. Una prima posizione è dell'avviso che ove un bene immobile gravato da ipoteca sia acquistato da un terzo, l'insinuazione al passivo del fallimento del debitore garantito ha natura di atto interruttivo della prescrizione anche nei confronti del terzo acquirente del bene ipotecato (Sez. 3, Sentenza n. 20656 del 25/09/2009, Rv. 609350 - 01). Un diverso arresto giurisprudenziale afferma, invece, che, stante la distinzione - presupposta dall'art. 2880 cod. civ. - tra diritto del creditore di espropriare il bene nei confronti del terzo acquirente e diritto di credito vantato nei confronti del debitore, il creditore, per evitare la prescrizione dell'ipoteca verso il terzo acquirente, deve promuovere contro il medesimo, nei termini, il processo esecutivo individuale, senza che costituisca valido atto interruttivo della prescrizione del diritto di garanzia l'ammissione al passivo del fallimento del debitore iscritto, che di quel bene abbia perduto la disponibilità (Sez. 3, Sentenza n. 13940 del 07/07/2016, Rv. 640532 - 01).</p> <p style="text-align: justify;">In realtà, per la Corte ogni considerazione sul tema deve muovere dalla premessa che i due diritti sono sottoposti ad un diverso regime prescrizionale, decennale per il credito e ventennale per l'ipoteca (art. 2880 cod. civ.). La Corte d'appello – nel caso di specie - ha invece per il Collegio confuso i due piani, concludendo nel senso che l'insinuazione del creditore al passivo del fallimento del debitore originario non ha prodotto effetti nei confronti dell'acquirente del bene ipotecato. Ora, nel caso che occupa, è dirimente per la Corte la circostanza che dalla data dell'atto di acquisto dell'immobile ipotecato (11 maggio 1984) a quella di notificazione dell'atto di precetto (17 marzo 2004) sono intercorsi meno di venti anni.</p> <p style="text-align: justify;">Al contempo, neppure il credito nei confronti della società debitrice si è estinto per prescrizione, in quanto ha operato l'effetto interruttivo dell'insinuazione al passivo (avvenuta entro 10 anni dalla chiusura del rapporto) con effetti sospensivi fino alla chiusura del fallimento (avvenuta il 31 maggio 2007).</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, per il Collegio il credito (diritto principale) non si è estinto, per essersi verificato un atto interruttivo nei confronti del debitore, mentre l'ipoteca non si è estinta in quanto non è decorso il ventennio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1609, alla cui stregua – inserendosi in un <em>trend</em> pretorio consolidato - in tema di prescrizione dell’azione disciplinare di cui all’art. 51 r.d. n. 1578/1933, va distinto il caso in cui i fatti siano punibili solo a livello disciplinare - in quanto contrari ai doveri di probità, correttezza e dirittura professionale - da quello in cui il procedimento disciplinare abbia ad oggetto fatti costituenti reato e per i quali sia stata intentata azione penale…</p> <p style="text-align: justify;">Più in specie, per la Corte, agli effetti della prescrizione dell'azione disciplinare regolata dall'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, occorre distinguere il caso, previsto dall'art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall'art. 44, che ricorre nella fattispecie, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale.</p> <p style="text-align: justify;">Nel primo caso, in cui l'azione disciplinare è collegata a ipotesi generiche e a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo invece, precisa la Corte, l'azione disciplinare è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass., sez. un., 9 maggio 2011, n. 10071; 31 maggio 2016, n. 11367).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Sempre il 24 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.1667 alla cui stregua la sentenza impugnata nel caso di specie ha correttamente attribuito natura decadenziale al termine previsto dall’art. 270 c.c., comma 2, in conformità del dettato di tale disposizione, che, nel disciplinare la dichiarazione di paternità, distingue l’azione proposta dal figlio, dichiarata imprescrittibile dal comma 1, da quella proposta dai discendenti dello stesso, assoggettata al predetto termine (decadenziale), decorrente dalla morte del figlio (cfr. Cass., Sez. I, 21/09/2001, n. 11934).</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte non può condividersi la tesi che pretende di distinguere tra l’indisponibilità del diritto all’accertamento della paternità e la rinunciabilità del termine di decadenza previsto per la relativa azione, trovando applicazione l’art. 2698 c.c., ai sensi del quale, ove la decadenza sia stabilita dalla legge in materia sottratta alla disponibilità delle parti, come quella riguardante lo stato delle persone, le stesse non possono rinunziarvi; anche poi a voler attribuire al termine in questione natura prescrizionale, l’indisponibilità dello <em>status</em> di figlio escluderebbe la possibilità di ravvisare una valida rinuncia nelle dichiarazioni rese dal convenuto in epoca anteriore all’instaurazione del giudizio, trovando applicazione l’art. 2937 c.c., comma 1, che non consente di rinunziare alla prescrizione a chi non può disporre validamente del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio è peraltro manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui, assoggettando l’azione dei discendenti ad un brevissimo termine di decadenza, comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto al figlio, la cui azione risulta invece sottratta a qualsiasi termine di prescrizione o decadenza; come già affermato dalla Corte medesima, la diversità della disciplina dettata dall’art. 270, primi due commi, trova giustificazione nell’evidente disomogeneità delle situazioni dagli stessi considerate, giacché l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale previsto per l’azione promossa dai discendenti del presunto figlio è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso al riconoscimento della filiazione del loro ascendente (cfr. Cass., Sez. I, 21/ 09/2001, n. 11934).</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno <em>status</em> filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 della CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità (cfr. Cass., Sez. I, 29/11/2016, n. 24292).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 gennaio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n.1998 onde, conformemente alla giurisprudenza della Corte, dalla quale essa assume di non doversi discostare, la tariffa del servizio idrico integrato, di cui alla legge 5 gennaio 1994 n. 36, art. 13 e ss., ha natura di corrispettivo di una prestazione complessa che trova fonte, per una quota determinata dalla legge, nel contratto di utenza: ne deriva che, a seguito della pronuncia n. 335 del 2008 della Corte Costituzionale (la quale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 14, comma 1, della I. n. 36 del 1994, sia nel testo originario che in quello risultante dalle modificazioni apportate dall'art. 28 della I. n. 179 del 2002), la quota afferente il servizio di depurazione non è dovuta nell'ipotesi di mancato funzionamento dello stesso per fatto non imputabile all'utente, stante l'assenza della controprestazione (Cass., Sez. 5, n. 9500 del 18/04/2018; Cass., Sez. 3, n. 14042 del 04/06/2013); ne deriva ancora che, qualora l'utente abbia pagato indebitamente la quota afferente il servizio di depurazione delle acque, per non essere stato svolto il detto servizio, egli ha diritto alla ripetizione dell'indebito ai sensi dell'art. 2033 cod. civ.</p> <p style="text-align: justify;">Il diritto alla ripetizione dell'indebito – prosegue la Corte - è soggetto all'ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. Cass., Sez. 1, n. 24051 del 26/09/2019; Sez. 1, n. 27704 del 30/10/2018; Sez. 3, n. 7749 del 19/04/2016) palesandosi infondata la prospettazione del ricorrente Comune secondo cui il diritto alla ripetizione dell'indebito sarebbe soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 2948, n. 4, cod. civ., per «<em>tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Invero, chiosa il Collegio, la prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4, cod. civ. riguarda le obbligazioni periodiche e di durata, caratterizzate dal fatto che le relative prestazioni sono suscettibili di adempimento solo con il decorso del tempo; si tratta di prestazioni che maturano con il decorso del tempo e divengono esigibili solo alle scadenze convenute, in quanto costituiscono il corrispettivo della controprestazione resa per i periodi ai quali i singoli pagamenti si riferiscono (Cass., Sez. 3, n. 2086 del 30/01/2008; Sez. 1, n. 23746 del 16/11/2007). Nella specie, l'obbligazione del Comune di restituire all'utente del servizio le somme indebitamente percepite non ha i caratteri dell'obbligazione periodica.</p> <p style="text-align: justify;">È vero - come sostiene il Comune ricorrente - che i canoni dovuti al Comune medesimo dall'utente per il servizio di deputazione hanno carattere periodico, dovendosi pagare periodicamente anno per anno, e sono, pertanto, soggetti al termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4, cod. civ.; ma tale constatazione non rileva nella presente causa, oggetto della quale non è il debito dell'utente verso il Comune, ma è il debito del Comune verso l'utente per il rimborso di quanto indebitamente percepito nel corso degli anni.</p> <p style="text-align: justify;">Tale obbligazione non ha carattere periodico, perché il Comune è tenuto a restituire le somme indebitamente percepite in un'unica soluzione, e non a rate. Pertanto, il diritto dell'utente alla ripetizione dell'indebito è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale ai sensi dell'art. 2946 cod. civ. (in questo senso: Cass. Sez. L, n. 6877 del 03/04/2015, in tema di ripetizione del contributo pagato dall'avvocato per l'iscrizione all'Albo di appartenenza, posta a carico dell'INPS del quale il professionista sia dipendente; Sez. L, n. 21962 del 10/09/2018, in tema di azione di ripetizione di indebito proposta dall'INAIL per la restituzione delle somme corrisposte mensilmente a titolo di rendita per un infortunio sul lavoro; Sez. 1, n. 9428 del 12/07/2001, in tema di diritto del Comune alla restituzione dei tributi per suo conto riscossi dal concessionario).</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio enuncia dunque il principio onde il diritto al rimborso di canoni periodici indebitamente versati, quali i canoni pagati per il servizio idrico integrato, non ha carattere periodico; esso, pertanto, non è soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4, cod. civ., ma all'ordinario termine decennale di prescrizione, che decorre dalle date dei singoli pagamenti.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.3346 che richiama – ribadendolo - l'orientamento più volte espresso dal Collegio (Cass. n. 13046 del 2006; n. 21483 del 2011), onde il disposto del secondo comma dell'art. 410 c.p.c., nel testo applicabile <em>ratione temporis</em>, distingue, in base al relativo inequivoco tenore letterale, tra gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione preventivo previsto per le controversie di lavoro esplica ai fini dell'interruzione della prescrizione dalle conseguenze da esso scaturenti con riferimento alla sospensione dei termini decadenziali, con la conseguenza - anche in virtù del carattere tassativo riconducibile alle ipotesi di sospensione della prescrizione risultanti dagli artt. 2941 e 2942 cod. civ. - che la comunicazione della richiesta di espletamento di tale tentativo non comporta anche la sospensione del termine di prescrizione del diritto azionato sino al termine di 20 giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa</p> <p style="text-align: justify;">Correttamente – prosegue il Collegio - la Corte d'appello ha preso in considerazione nel caso di specie, ai fini del calcolo del tempo trascorso dopo l'interruzione della prescrizione per effetto della comunicazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione (23.10.2000), la data di notifica del ricorso (27.12.2005); difatti, perché si produca l'effetto interruttivo della prescrizione è necessario che il debitore abbia conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) dell'atto giudiziale o stragiudiziale del creditore, sicché tale effetto, in ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si realizza con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, ma con la notificazione dell'atto al convenuto, non operando, in questo caso, il principio che estende anche sul piano sostanziale la scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, atteso che l'effetto di interruzione della prescrizione può avvenire anche in virtù di un atto stragiudiziale, (Cass. 24031 del 2017; ord. sez. 6, n. 4034 del 2017).</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo, chiosa ancora il Collegio, le Sezioni Unite, con sentenza n. 24822 del 2015, hanno precisato che la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall'atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l'atto perviene all'indirizzo del destinatario.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 febbraio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.3021, in tema di indennità sostitutiva delle ferie non godute. Per quanto in passato oggetto di orientamenti giurisprudenziali non univoci, la questione giuridica scandagliata dal Collegio - chiosa la Corte - è stata risolta dalla più recente giurisprudenza della sezione lavoro in base al criterio della natura mista dell'indennità in questione, sia risarcitoria che retributiva, a fronte della quale devesi ritenere prevalente, ai fini della verifica della prescrizione, il carattere risarcitorio, volto a compensare il danno derivante dalla perdita del diritto al riposo.</p> <p style="text-align: justify;">A tale diritto invero deve essere assicurata la più ampia tutela applicando il termine ordinario decennale, mentre - si è precisato - la natura retributiva, quale corrispettivo dell'attività lavorativa resa in un periodo che avrebbe dovuto essere retribuito ma non lavorato, assume rilievo allorché ne debba essere valutata l'incidenza sul trattamento di fine rapporto, ai fini del calcolo degli accessori o dell'assoggettamento a contribuzione (v. Cass. n. 11462-12, Cass. n. 20836-13, Cass. n. 1757-16, Cass. n. 14559-17).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare di prescrizione e decadenza in generale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di due fenomeni a rilevanza giuridica a connotazione temporale;</li> <li>essi si inseriscono nell’ambito – in generale – delle coordinate che caratterizzano un atto o comunque una situazione giuridicamente rilevante, di natura “<em>spaziale</em>” o, per l’appunto, “<em>temporale</em>”;</li> <li>il tempo, in termini di c.d. “<em>spazio di durata</em>”, può rilevare – tra le altre cose – come fase diacronica al cui interno è possibile esercitare o tutelare un diritto e, spirata la quale, esso non può più, all’opposto, “<em>esercitarsi</em>” o tutelarsi;</li> <li>ciò dal punto di vista pratico ed impregiudicata, sul crinale teorico, la questione se di volta in volta, allo spirare del ridetto termine venga meno il diritto (staticamente inteso) del quale si tratta ovvero, pur permanendo esso, ne venga meno la sola (dinamica) facoltà di esercizio; ovvero ancora, nel prisma di una tradizione che risale al diritto romano, l’azione che lo presidia;</li> <li>talvolta, allo spirare di un termine è connessa – oltre alla perdita del diritto da parte del relativo titolare – l’acquisizione (a titolo originario) di un diritto da parte di un terzo, come accade laddove si verifichi la c.d. usucapione;</li> <li>se il decorso di un dato termine, e dunque di un certo “tempo”, viene riguardato sul versante di chi “<em>perde</em>” un diritto (ovvero il relativo potere di esercizio), si è dinanzi alla prescrizione ovvero alla decadenza.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della prescrizione in generale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>esiste un “<em>tempo determinato</em>” dalla legge entro il quale un diritto va esercitato;</li> <li>quando ciò non accade e tale “<em>tempo determinato</em>” spira, il titolare non può più esercitare il diritto in parola (o, secondo altri, il diritto “<em>strumentale</em>” di far valere tale diritto in sede giurisdizionale: c.d. azione) si “<em>prescrive</em>”;</li> <li>il fondamento della prescrizione viene di volta in volta individuato: c.1) sul crinale funzionale e “<em>collettivo</em>”, nella necessità di presidiare l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici, stante anche la difficoltà di accertare la verità giuridica a distanza di tempo da quando il diritto di che trattasi è entrato nel patrimonio del relativo titolare; c.2) sul crinale strutturale ed “<em>individuo</em>”, nella necessità di punire l’inerzia del titolare (c.d. <em>poena negligentiae</em>), o di prendere atto della tacita rinuncia del ridetto titolare ad esercitare il proprio diritto, stante anche il carattere ontologicamente temporaneo dei rapporti giuridici, avvinto sotto altro profilo alla necessità di presidiare la buona fede dei soggetti terzi coi quali il titolare del diritto si relaziona;</li> <li>dal punto di vista empirico, attraverso la prescrizione la situazione di fatto (siccome palesantesi in termini di mancato esercizio di una situazione giuridica soggettiva attiva) viene “<em>giuridicamente</em>” adeguata alla pertinente situazione di diritto, così contribuendo ad eliminare l’incertezza giuridica che caratterizza situazioni in cui il titolare di un diritto non provvede a tempestivamente esercitarlo, atteggiandosi dunque come non ne fosse realmente titolare;</li> <li>affiora dunque una dimensione sostanziale della prescrizione, che avrebbe ad oggetto il pertinente diritto soggettivo sostanzialmente inteso (e l’obbligo che ad esso fa da contraltare), quantunque con innegabili riflessi di natura processuale (aventi ad oggetto l’azione che quel diritto presidia);</li> <li>non è mancato nondimeno in dottrina chi ha continuato a vedere nella prescrizione un istituto dal fondamento processuale, ponendo l’accento sul meccanismo attraverso il quale essa in concreto opera e sulla contraddizione sottesa al pertinente riferimento ad un diritto “<em>sostanziale</em>” per la cui tutela, nondimeno, è semplicemente ormai impossibile un “<em>processo</em>” ed un “<em>giudizio</em>”;</li> <li>quello che appare non revocabile in dubbio è il modello di operatività della prescrizione, che finisce con l’estinguere delle situazioni giuridicamente rilevanti che non siano tempestivamente esercitate dal relativo titolare, circostanza confermata dal tenore testuale dell’art.2934 c.c. alla cui stregua essa estingue il “<em>diritto</em>” e, con esso, il giustapposto obbligo; proprio il fatto che si estingua sia il diritto (di credito: la pretesa) che l’obbligo che ad esso fa da contraltare finisce per far operare a parte della dottrina – sul crinale “<em>funzionale</em>” - una peculiare collocazione sistematica della prescrizione, quale modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento come lo è la compensazione, la confusione, la novazione e così via; prevale tuttavia la tesi di chi assume la prescrizione non già quale fatto (effettualmente) estintivo di una pregressa situazione giuridica già operante (il credito “<em>attivo</em>”), quanto piuttosto quale fatto (effettualmente) preclusivo della futura operatività di una situazione giuridica rimasta inoperante;</li> <li>dal punto di vista della concreta operatività della prescrizione di un diritto, occorre; h.1) che tale diritto sia esercitabile dal relativo titolare; h.2) che tale diritto non sia imprescrittibile, e dunque non sia immune dalla prescrizione; h.3) che tale diritto, esercitabile e non imprescrittibile, non venga esercitato dal relativo titolare che, dunque, resta inerte; h.4) che decorra un periodo di tempo fissato dalla legge senza che il titolare del diritto (non imprescrittibile), rimasto inerte, lo abbia esercitato;</li> <li>è dubbio se occorra anche, per la concreta operatività della prescrizione, la lesione dell’interesse sotteso al diritto che si prescrive: i.1) tesi favorevole: è la lesione dell’interesse che sottende il diritto che stimola la reazione del relativo titolare, in difetto della quale (tempestivo esercizio) il diritto stesso si prescrive; i.2) tesi contraria: è il diritto a prescriversi (come peraltro esplicitamente afferma l’art.2934 c.c.), non l’interesse che lo sottende e che, al più resta insoddisfatto a seguito della prescrizione, come dimostra il fatto stesso che si può esercitare un diritto – e non già un interesse – al fine di soddisfare l’interesse che a quel diritto è sotteso;</li> <li>tendenzialmente i diritti si prescrivono, l’imprescrittibilità palesandosi come l’eccezione alla regola generale della prescrittibilità, stante il chiaro <em>incipit</em> dell’art.2934 c.c. alla cui stregua “<em>ogni diritto</em>”, per l’appunto “<em>si estingue per prescrizione</em>”;</li> <li>l’eccezione è compendiata dai diritti imprescrittibili, ovvero: k.1) i diritti indisponibili: si tratta di diritti che il legislatore non indica espressamente, e che tuttavia sono assunti dall’ordinamento essenziali per la funzione che assolvono ovvero per il contenuto etico-sociale che li connota, onde – in misura che la dottrina non esita a qualificare “<em>abnorme</em>” - il titolare di simili diritti non può per l’appunto liberamente disporne; una categoria tradizionale di diritti indisponibili, e come tali imprescrittibili, sono i c.d. diritti della personalità, come nel caso del diritto all’immagine e del diritto al nome, quali diritti innati ed intrasmissibili a causa di morte perché intimamente connessi alla persona (massime, fisica) del pertinente portatore; altra categoria nota di diritti indisponibili sono quelli a connotazione familiare non patrimoniale, come i c.d. <em>status</em> e le potestà, le quali ultime presentano peraltro elementi di discrezionale doverosità nell’interesse di terzi (ad esempio, dei minori); k.2) i diritti indicati dalla legge come non prescrittibili, tra i quali – pur ritraendolo indirettamente dall’art.948, comma 3, c.c. (laddove dichiara imprescrittibile l’azione di rivendicazione, salvo l’acquisto del bene per usucapione da parte di terzi) – si annovera tradizionalmente il diritto (patrimoniale) di proprietà, che a differenza di tutti gli altri diritti reali non si prescrive per non uso (ma, al limite, si perde per effetto dell’usucapione da parte di terzi), onde non è semplicemente la facoltà di godere e disporre del bene a non prescriversi – secondo il noto motto onde <em>in facultativis non datur praescriptio</em> – quanto piuttosto, ed appunto, il diritto di proprietà globalmente ed integralmente considerato; sulla ratio in virtù della quale la proprietà non si prescrive si fronteggiano 2 tesi distinte: k.2.1) tesi tradizionale e più remota: tra le facoltà delle quali gode il proprietario, intrinsecamente ed ontologicamente avvinte alla di lui signoria, vi è anche il potere di non usare della cosa propria, onde tale non uso non può comportare prescrizione del diritto dominicale (fatto sempre salvo il caso in cui altri ne usi per un dato tempo, così realizzando l’usucapione quale fattispecie progressiva di acquisto a titolo originario della pertinente <em>res</em>); k.2.2.) tesi innovativa e più recente: muovendo dall’art.42, comma 2, Cost., la proprietà (della quale va assicurata la funzione sociale) ha assunto una connotazione decisamente “<em>attivistica</em>”, onde il proprietario deve assumersi obbligato dalla Carta a manutenere e ad utilizzare concretamente il proprio bene, sicché essa non si prescrive non già perché il <em>dominus</em> può liberamente “<em>non usare</em>” il proprio bene, quanto piuttosto perché il diritto dominicale non si inscrive(rebbe, come quello di credito) in un rapporto tale da far affiorare contestualmente l’estinzione di una situazione attiva (quella del creditore) e la liberazione di chi si trovi in una posizione passiva (il debitore); circostanza che spiegherebbe anche perché in questo caso non vi sarebbe alcuna necessità di adeguare il “<em>diritto</em>” al “<em>fatto</em>”, proprio perché qui il “<em>fatto</em>” di non usare del bene divisato non implica alcuna “<em>liberazione</em>” di terzi da presidiarsi da parte del “<em>diritto</em>” (che al limite garantisce ad un terzo, in presenza di tutti i relativi presupposti, l’acquisto di un nuovo diritto di proprietà per usucapione).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si articola, più in specie, la disciplina della prescrizione?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dalla premessa onde la prescrizione compendia un istituto di ordine pubblico;</li> <li>essa è infatti imprescindibilmente avvinta all’esigenza di rendere certi i rapporti giuridici in un dato arco diacronico;</li> <li>da ciò discende, ex art.2936 c.c., che è nullo qualunque patto tra le parti orientato a modificarne la disciplina, che è quella – e solo quella - cristallizzata dal legislatore;</li> <li>il debitore nondimeno – una volta che si sia compiuta la prescrizione a proprio vantaggio e a svantaggio del creditore – può rinunziarvi a beneficio del creditore medesimo (art.2937, comma 2, c.c.), non potendo tuttavia farlo prima che essa si compia, e dunque prima dello spirare del termine prescrizionale fissato dalla legge; tale rinuncia può essere espressa o anche tacita, risolvendosi in tale ultimo caso in “<em>facta concludentia</em>” e, dunque, in un comportamento incompatibile con la volontà del debitore di avvalersi della prescrizione maturata a propria favore (art.2937, comma 3, c.c.: classico esempio, la ricognizione del proprio debito);</li> <li>sul crinale processuale, che è l’ambito in cui la prescrizione di un diritto vantato giudizialmente dal creditore normalmente affiora, il debitore deve ex art.2938 c.c. eccepire – in veste di parte interessata – la prescrizione medesima, che non può come tale essere rilevata d’ufficio dal giudice; la giurisprudenza assume eccepibile solo dalla parte interessata (normalmente, dal creditore) l’interruzione del corso della prescrizione, anche se non mancano voci in dottrina orientate ad assumerne la rilevabilità d’ufficio <em>ope iudicis</em>;</li> <li>dal punto di vista dei creditori del debitore, o comunque di quei terzi che vi abbiano interesse e che potrebbero essere pregiudicati dalla rinuncia alla prescrizione da parte del debitore o, processualmente, dalla mancata pertinente eccezione in giudizio (per inerzia), essa può dai ridetti soggetti essere direttamente opposta al creditore che agisca per far valere un credito ormai prescritto (art.2939 c.c.); interessante notare come il terzo “<em>interessato</em>” (in particolare, il creditore del debitore di una altrui pretesa prescritta) possa opporre al creditore autonomamente la prescrizione, con legittimazione fondata sulla sola inerzia del debitore (che rinuncia, o che potendo eccepire non si attivi in tal senso), senza che occorra accertare la presenza di tutti i requisiti necessari per agire in surrogatoria o in revocatoria.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i vari termini di prescrizione e da quando decorrono?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la prescrizione ordinaria si compie con lo spirare del termine di 10 anni (art.2946 c.c.)in caso di rapporti di credito-debito <em>tout court</em>, mentre per quanto concerne la posizione di chi sia titolare di un diritto reale su cosa altrui (e dei relativi rapporti, in massima parte di natura obbligatoria, con il proprietario della res oggetto di tale <em>ius in re aliena</em>), essa si prescrive con il decorso di 20 anni (termine corrispondente a quello occorrente per usucapire nei confronti del proprietario); anche quando per il diritto di credito sia prevista una prescrizione più breve del decennio, l’intervento di una sentenza passata in giudicato che accerti definitivamente la pertinente pretesa fa decorrere un nuovo termine di prescrizione ordinario decennale entro il quale la pretesa medesima, ormai definitivamente accertata, va portata in esecuzione;</li> <li>la prescrizione breve di più ampio respiro in termini di fattispecie potenzialmente realizzabili è quella pari a 5 anni, onde si prescrivono nel quinquennio: b.1) l’azione di annullamento del contratto (art.1442 c.c.); b.2) l’azione revocatoria (art.2903 cc.); b.3) il diritto al risarcimento del danno da illecito aquiliano, che tuttavia soffre una prescrizione di 2 anni, e dunque più breve, nel caso in cui il danno del cui risarcimento si tratta derivi dalla circolazione di veicoli, ovvero una prescrizione più lunga laddove il fatto illecito generatore di danno costituisca fatto inadempimento reato e per quest’ultimo la legge penale preveda una prescrizione più lunga del quinquennio (art.2947 c.c.); b.4) le pretese collegate ad una variegata congerie di prestazioni periodiche quali l’annualità delle rendite perpetue e vitalizie; le annualità delle pensioni alimentari; il capitale dei titoli del debito pubblico emessi al portatore; le pigioni delle case, i fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1917.html">locazioni</a>; gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi; le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (art.2948 c.c.); b.5) i diritti che derivino da rapporti sociali, se la società è iscritta nel registro delle imprese, nonché l’azione che spetta ai creditori sociali nei confronti degli amministratori (art.2949 c.c.);</li> <li>vi è poi una prescrizione breve pari ad 1 anno per le seguenti fattispecie: c.1) l’azione contrattuale di rescissione (art.1449 c.c.); c.2) il diritto del mediatore al pagamento della provvigione (art.2950 c.c.); c.3) i diritti derivanti dai contratti di trasporto e di spedizione (art.2951 c.c.); c.4) i diritti derivanti dal contratto di assicurazione (art.2952 c.c.);</li> <li>sul crinale della decorrenza, la prescrizione inizia a decorrere – unitariamente - da quando il pertinente diritto può essere fatto valere (art.2935 c.c.) e, dunque, da quando esso può essere dinamicamente esercitato ed il relativo titolare, per inerzia, non lo pone in esercizio; si contendono il campo tradizionalmente sul punto due giustapposte teorie: d.1) teoria della lesione: il momento rilevante a partire dal quale il diritto inizia a prescriversi è quello in cui esso subisce una lesione (tesi assunta come ripudiata dal codice del 1942); d.2) teoria della realizzazione: il momento rilevante a partire dal quale il diritto inizia a prescriversi è quello in cui il relativo titolare, pur potendo, non si sia attivato per la pertinente realizzazione, rinunciando in tal modo alla soddisfazione dell’interesse, giuridicamente protetto, a quel diritto sotteso;</li> <li>problemi sorgono dalla frizione che si crea tra la formula unitaria e “<em>aspecifica</em>” di cui all’art.2935 c.c. (“<em>dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere</em>”) e la diversa struttura e consistenza dei singoli diritti interessati dalla prescrizione; ferma la costante configurabilità di un rapporto giuridico tra le parti rispettive, il titolare di un diritto reale <em>in re aliena</em> lo esercita senza la collaborazione del proprietario del bene stesso e parimenti, il creditore di una obbligazione negativa (<em>non facere</em>) esercita la propria pretesa in via automatica ed anche rimanendo inerte (a meno che il debitore non prenda a fare quello che non deve): una collaborazione è invece necessaria (da parte del debitore) per la soddisfazione dell’interesse del creditore di un obbligo di <em>dare</em> o di <em>facere</em>, la cui inerzia lo espone pertanto al corso della pertinente prescrizione laddove non provveda a sollecitare il debitore ad adempiere; in sostanza, secondo la dottrina più accreditata, un diritto può essere fatto valere quando l’interesse che lo sottende è attuale, e tuttavia il pertinente titolare non ne richieda alla “<em>controparte</em>”, laddove ciò imprescindibilmente occorra, il pertinente soddisfacimento;</li> <li>l’impossibilità di far valere un diritto che, come tale, è capace di impedire il decorso della prescrizione, viene assunta da dottrina e giurisprudenza unanimi – anche sulla scorta di quanto afferma la Relazione al codice civile <em>ratione materiae</em> – come impossibilità “<em>di diritto</em>” (diritti sottoposti a condizione sospensiva non verificatasi; diritti sottoposti a termine iniziale non ancora sopraggiunto), e non già come mera impossibilità “<em>di fatto</em>” in cui venga per avventura a trovarsi il titolare del diritto stesso, salvo che la legge disponga altrimenti;</li> <li>vi sono fattispecie peculiari in cui è difficile fissare il c.d. <em>dies a quo</em> della prescrizione, e dunque il giorno dal quale essa decorre; un caso di scuola è quello dei c.d. danni “<em>lungolatenti</em>” (letteralmente, “<em>rimasti a lungo nascosti</em>”), caratterizzati dalla circostanza diacronica onde, anche se il danno si produce nel tempo X, il danneggiato lo percepisce come tale in un tempo successivo Y, con conseguente difficoltà di individuare con precisione quando inizia a decorrere per il danneggiato medesimo la prescrizione del relativo diritto al risarcimento (tipico il caso di chi, in seguito a trasfusione infetta, contragga una malattia contagiosa che gli si manifesta, nondimeno, in un tempo indeterminato successivo); le pertinenti coordinate sono state dettate dalle SSUU n.2008;</li> <li>nel particolare caso dell’illecito permanente, la prescrizione inizia a decorrere solo con il cessare della condotta illecita da parte del soggetto agente, a differenza di quanto accade nella diversa fattispecie dell’illecito istantaneo ad effetti permanenti, laddove essa prende a correre subito al momento della (istantanea) condotta illecita, senza che la permanenza degli effetti (dannosi) impedisca, per l’appunto, il corso del termine prescrizionale afferente al diritto al risarcimento del danno vantato dal soggetto danneggiato (a meno che non si sia al cospetto del manifestarsi di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella originaria);</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il decorso della prescrizione può essere sospeso o interrotto?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>se l’inerzia del titolare del diritto (il creditore) trova una qualche giustificazione giuridicamente rilevante, il termine di prescrizione viene sospeso (a favore del creditore medesimo) e riprende a correre quando la giustificazione cessa; laddove il decorso della prescrizione non sia ancora iniziato, la sospensione sposta in avanti il c.d. <em>dies a quo</em> della pertinente decorrenza; se invece il termine di prescrizione è già iniziato a correre, la sospensione “<em>blocca</em>” il correre della prescrizione e, quando viene meno la pertinente causa giustificativa, la prescrizione medesima riprende a correre per il tempo restante, dovendosi sommare – nell’ottica del relativo spirare – la quota parte di termine già decorso anteriormente alla sospensione con la quota parte di termine che resta da decorrere quando la sospensione è cessata; le cause di sospensione sono considerate tassative, operando dunque nei soli casi previsti dalla legge (o dalla Corte costituzionale), ed in particolare dagli articoli 2941 e 2942 c.c.: a.1) cause di sospensione avvinte a specifici rapporti tra le parti (creditore e debitore), come nel caso del rapporto tra tutore ed interdetto o in quello tra coniugi o tra parti di una unione civile (ma non anche tra conviventi <em>more uxorio</em>); a.2) cause di sospensione avvinte alle particolari condizioni soggettive del “<em>creditore</em>” titolare del diritto (militare in tempo di guerra; minore emancipato; lavoratore in pendenza di rapporto di lavoro, con riferimento al relativo credito retributivo);</li> <li>se invece l’inerzia del titolare del diritto (il creditore) viene meno, e dunque se il ridetto titolare si attiva in qualche modo (quand’anche tacitamente, ma comunque in modo inequivocabile) , il termine di prescrizione viene interrotto, ed inizia a decorrere un nuovo termine prescrizionale; l’interruzione della prescrizione è dunque l’effetto dell’esercizio del diritto da parte del “<em>creditore</em>” titolare del diritto medesimo, giusta notifica dell’atto con il quale egli inizia un giudizio di cognizione, conservativo o di esecuzione (art.2943, comma 1, c.c.) o, nel caso più frequente dei diritti di credito, dell’atto con il quale egli mette in mora il proprio debitore (art.2943, comma 4, c.c.); una fattispecie particolare è quella dell’interruzione della prescrizione attraverso un atto che instaura un giudizio, e dunque attraverso un atto processuale, dacché in tal caso la prescrizione non decorre per tutto il tempo in cui si svolge il processo e fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo chiude (art.2945 c.c.), onde la prescrizione viene interrotta e – ad un tempo – ne rimane sospeso il <em>dies a quo</em> quanto al nuovo termine, avente ad oggetto l’attuazione in diritto siccome ormai accertato nella sentenza divenuta definitiva; è dubbio se possa considerarsi (mediato ed indiretto) atto interruttivo della prescrizione la domanda giudiziale in revocatoria spiccata dal creditore ed orientata a preservare le garanzie del proprio credito.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa sono le c.d. “<em>prescrizioni presuntive</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la prescrizione <em>tout court</em> costituisce una causa di estinzione di un diritto soggettivo, ed in particolare di un diritto di credito;</li> <li>la c.d. prescrizione presuntiva configura, più correttamente, una “<em>presunzione di estinzione</em>” di un dato diritto soggettivo, sempre con peculiare riferimento ad una pretesa creditoria;</li> <li>essa opera pertanto solo sul crinale della prova, facendo presumere che un dato diritto soggettivo si sia ormai estinto, non già (solo) per prescrizione, ma anche per qualunque altra causa, ivi compreso l’adempimento della prestazione dovuta da parte del debitore;</li> <li>ci si basa, più nel dettaglio, sul c.d. <em>id quod plerumque accidit</em>, e dunque sulle evenienze della vita quotidiana, onde certi crediti vengono esatti (e, correlativamente, certi debiti estinti) nello stesso momento in cui il creditore esegue nei confronti del debitore la propria controprestazione;</li> <li>un esempio tipico è quello degli albergatori o degli osti per l’alloggio o per il vitto che somministrano ai propri ospiti (art.2954 c.c.), i quali ultimi non richiedono in genere all’albergatore o all’oste una quietanza che dimostri che hanno “<em>pagato</em>” (adempiuto), onde a distanza di un dato tempo possono giovarsi della presunzione di aver estinto il proprio debito;</li> <li>in sostanza, si presume che il debito si sia estinto per una qualunque causa (adempimento, remissione etc), anche nel caso in cui le prestazioni o le somministrazioni siano state continuative (art.2958 c.c.), potendo tuttavia sempre il creditore provare – <em>a contrario</em> – che il proprio credito non si è estinto (“<em>prescritto</em>”), e tuttavia mediante prove “<em>tipiche</em>” ovvero la confessione del debitore ovvero l’a lui deferito giuramento decisorio (art.2960 c.c.); il creditore può tuttavia valersi dell’eventuale ammissione in giudizio, da parte del debitore, che il proprio debito non si è estinto (ammissione che può essere anche implicita: se si dice che l’obbligazione deriva da fonte invalida o inesistente, implicitamente si ammette di non aver ancora adempiuto), giacché in simili fattispecie è precluso a quest’ultimo di far valere la presunzione di estinzione (c.d. “<em>prescrizione presuntiva</em>”);</li> <li>dal punto di vista del <em>quantum</em> dovuto dal debitore, quando questi fa valere la presunzione di estinzione del proprio debito (pari, ad esempio, a 100) riconosce ad un tempo, in via implicita, l’esistenza <em>ab origine</em> di una pretesa del creditore per un ammontare pari a quello da lui vantato (e che si vuol far presumere estinto <em>ex latere debitoris</em>: nell’esempio fatto, 100); ciò comporta per la giurisprudenza che se il creditore chiede 100, il debitore non può valersi di una presunzione di estinzione per un importo minore (ad esempio 50), dacché in tal modo il debitore medesimo finisce col negare l’originale esistenza, <em>pro quota</em>, del proprio debito, così ammettendo di non avere in realtà adempiuto: deve dunque sempre esservi piena corrispondenza tra l’importo richiesto dal creditore e l’ammontare del debito che si vuol far presumere estinto da parte del debitore;</li> <li>poiché eccepire la prescrizione <em>tout court</em> non equivale a far valere una “<em>prescrizione presuntiva</em>” (quale generica presunzione di estinzione del proprio debito), il debitore deve di volta in volta specificare – secondo la tesi più accreditata – se sta eccependo la prescrizione della pretesa fatta valere dal creditore o se sta, per l’appunto, facendo valere la presunzione di estinzione del proprio debito per “<em>prescrizione presuntiva</em>”.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della decadenza in generale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>a differenza di quanto accade con la prescrizione, laddove ai sensi dell’art.2934 c.c. di regola ogni diritto si prescrive per mancato esercizio nel tempo fissato dalla legge, salvo il caso in cui esso sia imprescrittibile, nella decadenza si verifica il fenomeno opposto onde da un diritto di regola non si “<em>decade</em>”, salvi i casi in cui ciò invece accade, come palesa l’<em>incipit</em> dell’art.2964 c.c. onde “<em>quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza…</em>”;</li> <li>la decadenza opera in modo costante ed irrinunciabile allorché un dato diritto debba – nell’ottica della pertinente, concreta soddisfazione – giocoforza confrontarsi con interessi collettivi, circostanza che impone un rapida certezza dei rapporti giuridici sottostanti, con conseguente necessità per l’appunto che il titolare di tale diritto lo eserciti entro un breve termine, ovvero rinunci per sempre ad esercitarlo; tipico il caso del diritto di azione, che va esercitato – attraverso l’attivazione (in ambito amministrativo o tributario) o la prosecuzione (in ambito civile: si pensi alle impugnazioni) di un processo – entro termini stringenti, stante la presenza dell’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici siccome accertati dal competente organo giurisdizionale; si configurano anche casi di interesse collettivo non pubblico, come nell’ipotesi del condominio negli edifici, laddove lo stesso processo civile va attivato in un termine di decadenza, e non già di prescrizione (art.1137 c.c.: 30 giorni per l’impugnazione della delibera assembleare) proprio al fine di consentire repentina certezza giuridica in un ambito che coinvolge un interesse “<em>superindividiuale</em>”, quello appunto della collettività dei condomini;</li> <li>nella decadenza, come nella prescrizione, opera il combinato disposto del trascorrere di un dato <em>tempus</em>, da un lato, e l’inerzia del titolare di una situazione giuridica soggettiva in termini di relativo esercizio, dall’altro; a differenza della prescrizione, la decadenza si atteggia tuttavia a “<em>tipica</em>” quanto a relative fattispecie che vengono, per l’appunto, tipizzate dal legislatore civile, processuale, amministrativo, tributario e così via, ovvero dall’autonomia privata (c.d. decadenza convezionale) tanto da far assumere “<em>complementari</em>” le norme generali di cui agli articoli 2964 – 2969 c.c., che sono poi quelle che “<em>chiudono</em>” il codice civile stesso;</li> <li>la natura “<em>tipica</em>” delle fattispecie di decadenza le rende eccezionali e, come tali, non suscettibili di estensione analogica;</li> <li>mentre per scongiurare la prescrizione può essere sufficiente un generico esercizio “<em>comportamentale</em>” del pertinente diritto, per scongiurare la decadenza occorre che il titolare della situazione giuridica soggettiva compia un atto specifico, siccome previsto espressamente come tale dal sistema giuridico di riferimento, facendosi dunque luogo ad un esercizio necessario, tipico ed “<em>attizio</em>” entro un termine perentorio; nella prescrizione si assiste ad una inerzia comportamentale protratta nel tempo che, se interrotta, può nuovamente trovare rilevanza giuridica laddove essa si protragga dopo l’interruzione ridetta, mentre nella decadenza l’inerzia si consuma, direbbesi, “<em>uno actu</em>” in termini negativi, onde l’atto previsto dalla legge non viene compiuto dal titolare del diritto entro un termine perentorio precisamente individuato producendo appunto la decadenza una volta per tutte in capo al relativo titolare che se, al contrario, esercita la propria situazione giuridica soggettiva, in tal modo esaurisce del pari una tantum la pertinente vicenda giuridica;</li> <li>il termine di decadenza si connota come rigido ed improrogabile, imponendo che l’atto che scongiura la decadenza medesima venga compiuto entro il ridetto termine, che svolge dunque funzione acceleratoria per il compimento del divisato atto; se la decadenza deriva da un patto delle parti (decadenza convenzionale) è tuttavia nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l'esercizio del pertinente diritto (art.2965 c.c.);</li> <li>dal punto di vista funzionale, la prescrizione ha lo scopo di consolidare sul crinale del diritto una data situazione inattiva di fatto, ponendo fine allo stato di incertezza che quell’inerzia ha provocato nel relativo perdurare in un dato <em>tempus</em>, così fornendo risposta ad esigenze tanto sociali quanto di ordine pubblico; la decadenza, del pari, ha finalità vieppiù orientate alla certezza delle situazioni giuridiche, imponendo al titolare di un diritto di esercitarlo con un atto predefinito ed in un tempo – normalmente breve – legalmente o convenzionalmente fissato, che non può essere prorogato, con prevalenza del valore della certezza giuridica financo su quello dell’affidamento incolpevole riconoscibile in capo al titolare della situazione giuridica soggettiva decaduta (così hanno affermato, in materia di rimborsi tributari, le SSUU nel 2014);</li> <li>il titolare della situazione giuridica soggettiva sottoposta a decadenza non ha l’obbligo di compiere un dato atto, né tampoco di compierlo entro un certo termine, dacché non si tratta di atto da compiersi nell’interesse di terzi, quanto piuttosto nell’interesse proprio (al fine appunto di scongiurare la decadenza), configurandosi dunque un onere; ciò è dimostrato dal fatto che il mancato compimento dell’atto che scongiura la decadenza non compendia un illecito, né è prevista una sanzione a pertinente presidio;</li> <li>sul crinale delle fonti, la prescrizione può solo essere prevista dalla legge, essendo ad essa sotteso sempre e comunque un interesse generale; la decadenza invece: i.1) è spesso prevista dalla legge (decadenza “<em>legale</em>”); i.2) può tuttavia anche sottendere interessi privati ed essere dunque prevista da un atto di autonomia negoziale, con particolare riguardo ad un contratto (c.d. decadenza “<em>convenzionale</em>”); i.3) può essere prevista indirettamente (ma espressamente) dalla legge (processuale) e, direttamente, da un giudice (c.d. decadenza “<em>giudiziale</em>”: art.152 c.p.c.);</li> <li>con particolare riguardo alla decadenza legale, ex art.2968 c.c.: j.1) se avvinta a diritti indisponibili, essa è rilevabile d’ufficio dal giudice, le parti non possono rinunziarvi né modificarne la disciplina <em>ex lege</em> prevista; j.2) se avvinta a diritti disponibili, per ragionamento <em>a contrario</em> è possibile per le parti modificarne la disciplina legale e financo rinunciarvi; ex art.2966 c.c., ed essa può essere impedita non già solo dal compimento dell’atto previsto dalla legge (o dal contratto: con i diritti disponibili è infatti compatibile anche la decadenza convenzionale), ma anche dal riconoscimento del diritto, laddove proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto soggetto per l’appunto a decadenza;</li> <li>proprio perché il regime della decadenza è diverso da quello della prescrizione, nei casi dubbi si pone il problema di stabilire se un termine previsto dalla legge per un atto esercizio di un dato diritto sia di decadenza o di prescrizione (se il termine è previsto convenzionalmente dalle parti, esso non può che essere di decadenza “<em>convenzionale</em>”); ciò esclusi i termini previsti dagli articoli 2947.2952 c.c., che sono ovviamente di <em>expressis verbis</em> di prescrizione ed esclusi altresì, stando alla dottrina, i termini che la legge espressamente prevede per i c.d. atti singolari quali gli avvisi, le denunce, i protesti e così via; nei casi in cui non soccorra il criterio letterale (sono i casi in cui la legge usa espressioni del tipo “<em>sotto pena di decadenza</em>”, ovvero “<em>si prescrive</em>” etc.), interviene il criterio teleologico, che si appunta sulle finalità perseguite dalla norma che prevede il termine dubbio, anche con riguardo alla tipologia di interesse tutelato e tenendosi conto che la decadenza – anche secondo la giurisprudenza - può anche essere implicita nella norma che prevede un dato termine come inequivocabilmente funzionale alla perdita di un dato diritto;</li> <li>laddove nella legge o nel contratto non sia indicato il <em>dies a quo</em> di un dato termine di decadenza, si ritiene applicabile l’art.2935 c.c. (che si riferisce al giorno in cui il pertinente diritto può esser fatto valere); parimenti si assumono applicabili alla decadenza le norme dettate in tema di rinuncia alla prescrizione (art.2937 c.c., escluso il comma 2, onde si può rinunciare ad una decadenza – a differenza di quanto accade in tema di prescrizione – anche quando essa non si è ancora compiuta), di opponibilità della prescrizione da parte di terzi (art.2939 c.c.), di computo dei termini (art.2962 e 2963 c.c.); non sono invece certamente applicabili alla decadenza le norme sulla interruzione della prescrizione (o la decadenza si impedisce con l’atto divisato, eliminando il pertinente stato di incertezza, o non la si impedisce ed essa matura indefettibilmente ed una volta per tutte), né quelle sulla sospensione della prescrizione, ma in quest’ultimo caso (sospensione) la legge può prevedere – con norma eccezionale, come tale non estensibile analogicamente - la ridetta applicabilità anche alla decadenza (art.2964 c.c.) per ragioni di equità che impongono di derogare alla “<em>rigidità</em>” tipica dell’istituto decadenziale paralizzando interinalmente il decorso del pertinente termine; sono in particolare le fattispecie: l.1) della decadenza dall’azione di disconoscimento della paternità per chi si trovi in stato di interdizione per infermità di mente ovvero comunque versi in condizioni di abituale grave infermità di mente (art.245 c.c.); l.2) della decadenza dal diritto di accettare l’eredità con beneficio di inventario per minori, interdetti ed inabilitati (art.489 c.c.); l.3) della decadenza dal diritto annuale a revocare una donazione in caso di omicidio del donante da parte del donatario ovvero di doloso impedimento di revocare la donazione cagionato al donante (art.802 c.c.); l.4) della decadenza dal termine di presentazione della cambiale o da quello di levata del protesto, in caso di ostacolo insormontabile come una legge dello Stato o altro caso di forza maggiore (art.61 della c.d. legge cambiaria, R.D. 1669 del 1933);</li> <li>nel caso di cui all’art.2940 c.c., se si adempie ad un debito prescritto non è ammessa la ripetizione di quanto il debitore abbia spontaneamente pagato in adempimento, per l’appunto, di un proprio debito ormai prescritto; si tratta di una fattispecie di rinuncia tacita alla prescrizione che pone dei dubbi laddove “trasferita” alla (diversa) fattispecie della decadenza: laddove si tratti di decadenza connessa a diritti disponibili (tanto di fonte legale, quanto di fonte convenzionale), in caso di rinuncia giusta spontaneo pagamento si applicherebbe per l’appunto 2940 c.c., con conseguente irripetibilità della prestazione ormai eseguita, mentre nel caso opposto in cui si verta in tema di diritti indisponibili, non è possibile rinunciare alla connessa decadenza, con conseguente possibilità per il debitore (dinanzi ad un credito “<em>decaduto</em>”) di agire per la ripetizione dell’indebito in un ordinario termine di prescrizione decennale.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>