Corte Costituzionale, sentenza 08 luglio 2021 n. 150
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa); va dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato).
Vanno dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 21 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale. Va del pari dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., dal Tribunale di Salerno, sezione seconda penale. Va infine dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 25 Cost., dal Tribunale di Salerno, sezione seconda penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Le questioni sono ammissibili.
3.1.– Rispetto alle questioni sollevate dal Tribunale di Salerno, occorre osservare quanto segue.
3.1.1.– Non è anzitutto fondata l’eccezione di insufficiente motivazione sulla loro rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Per quanto stringata, la descrizione dei fatti contestati agli imputati (nelle rispettive qualità di autore dell’articolo e di direttore responsabile del quotidiano) compiuta nell’ordinanza di rimessione è sufficiente a comprendere che essi consistono nella diffusione di una notizia lesiva dell’altrui reputazione, consistente in uno specifico addebito successivamente smentito dalle indagini penali compiute dalla competente Direzione distrettuale antimafia. I fatti così descritti certamente corrispondono alla figura legale del delitto di diffamazione, aggravato ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948 in quanto compiuto a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
La rilevanza delle questioni prospettate sussiste, tuttavia, anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che punisce, tra l’altro, la diffamazione compiuta a mezzo della stampa. Per quanto tale aggravante sia destinata, nell’attuale quadro normativo, ad essere assorbita in quella di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che si pone rispetto ad essa quale lex specialis, l’auspicato accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale formulate dal rimettente rispetto a quest’ultima disposizione renderebbe nuovamente applicabile, nel caso di specie, l’aggravante generale di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., in concorso con quella prevista dal secondo comma, che prevede un inasprimento di pena in ogni ipotesi in cui la diffamazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato; con conseguente applicazione, ai fini della commisurazione della pena, dell’art. 63, quarto comma, cod. pen. Donde la rilevanza – in via condizionata all’accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 13 della legge n. 47 del 1948 – anche delle questioni sollevate in relazione all’art. 595, terzo comma, cod. pen.
3.1.2.– Né merita accoglimento l’eccezione, parimenti formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’oscurità del petitum formulato dalla medesima ordinanza del Tribunale di Salerno.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga[no] con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 123 del 2021 e, in precedenza, sentenze n. 176 del 2019 e n. 175 del 2018).
Nel caso ora all’esame, il dispositivo dell’ordinanza di rimessione rinvia espressamente alle «ragioni di cui in motivazione»; e dalla motivazione si evince come il rimettente non solleciti in alcun luogo – come invece ipotizzato dall’Avvocatura generale dello Stato – una «pronuncia manipolativa sulle pene previste», né una «pronuncia additiva in ordine alla delimitazione delle condotte che esse sanzionano»; bensì denunci l’incompatibilità tout court con i parametri costituzionali e convenzionali evocati di entrambe le disposizioni censurate, che comminano una pena detentiva per il delitto di diffamazione anche al di fuori dei casi eccezionali in cui tale pena potrebbe essere giustificata.
Il petitum dell’ordinanza è, pertanto, interpretabile come diretto alla radicale ablazione di entrambe le disposizioni sottoposte all’esame di questa Corte.
3.1.3.– Priva di pregio è anche l’ulteriore eccezione, svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui l’eventuale accoglimento delle questioni formulate dal Tribunale di Salerno a proposito dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948 non eliminerebbe i profili di denunciata illegittimità costituzionale, dal momento che la pena detentiva resterebbe comunque prevista dall’art. 595 cod. pen.
Come appena sottolineato, infatti, il rimettente – del tutto coerentemente – estende le questioni anche all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che diverrebbe applicabile laddove fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, censurato in prima battuta.
3.1.4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha infine eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal medesimo Tribunale in ragione dell’omessa sperimentazione, da parte del rimettente, di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate.
Nemmeno tale eccezione è fondata.
In effetti, il giudice a quo espressamente esclude di potere interpretare le disposizioni censurate nel senso dell’applicazione della pena detentiva «esclusivamente alle condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalità», poiché tale interpretazione contrasterebbe, a suo avviso, con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, nonché di soggezione del giudice alla legge, i quali impedirebbero al giudice di «integrare la norma incriminatrice di questo ulteriore requisito».
Quanto poi, in particolare, all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che prevede la reclusione soltanto in via alternativa, il rimettente sottolinea come a suo giudizio già la stessa previsione astratta della pena detentiva – e dunque la sua comminazione legislativa – limiti eccessivamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, a prescindere dunque dalla decisione del giudice di applicarla o meno nel caso concreto.
Se e in che misura queste valutazioni siano condivisibili, attiene al merito, e non all’ammissibilità delle questioni: a quest’ultimo fine è infatti sufficiente – in base alla ormai costante giurisprudenza di questa Corte – che il giudice abbia esplorato, e consapevolmente scartato, la possibilità di una interpretazione conforme alla Costituzione (ex multis, sentenze n. 32 del 2021, n. 32 del 2020, n. 189 del 2019).
3.2.– Per quanto riguarda invece l’ordinanza del Tribunale di Bari, occorre rilevare quanto segue.
3.2.1.– Non è fondata, nemmeno in questo caso, l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato relativa al difetto di motivazione sulla rilevanza della questione.
Il giudice a quo chiarisce infatti che, impregiudicata ogni valutazione circa la sussistenza della responsabilità dell’imputato, il fatto di cui quest’ultimo è accusato consiste nell’avere consentito, nella propria qualità di direttore di un quotidiano, la pubblicazione di un articolo in cui si attribuiva alla persona offesa un fatto determinato (la cessione di droga a un atleta), nonostante l’intervenuta assoluzione della stessa persona offesa da ogni addebito con sentenza passata in giudicato. Tanto basta per considerare applicabile nel giudizio principale l’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che costituisce in questo caso l’unico oggetto delle censure del rimettente.
3.2.2.– Nemmeno può predicarsi, contrariamente all’avviso espresso dall’Avvocatura generale dello Stato, che il petitum formulato dal rimettente sia oscuro. In questo secondo giudizio, anzi, il petitum è espressamente formulato nel dispositivo, e mira univocamente alla modificazione dell’attuale quadro sanzionatorio dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, imperniato sulla previsione cumulativa di una pena detentiva e di una pena pecuniaria, in modo tale da rendere alternative le due pene.
3.2.3.– Ictu oculi infondata è anche l’eccezione secondo cui l’accoglimento del petitum non eliminerebbe il vizio di illegittimità costituzionale lamentato. Il rimettente, infatti, ritiene che il vizio risieda nell’indefettibilità dell’applicazione della sanzione detentiva, che verrebbe per l’appunto eliminata ove il quadro sanzionatorio fosse modificato nel senso dell’alternatività tra le due pene: ciò che consentirebbe al giudice di evitare di dover irrogare la reclusione, al di fuori dei casi eccezionali in cui tale sanzione sarebbe consentita anche secondo il diritto convenzionale.
3.2.4.– Infine, nemmeno in questo caso è possibile rimproverare al giudice a quo l’omessa sperimentazione di una interpretazione conforme. Il rimettente, infatti, esclude espressamente, con motivazione particolarmente estesa, di poter interpretare la disposizione censurata in modo tale da evitare l’applicazione della pena detentiva nelle ipotesi in cui tale pena risulterebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU. Ciò è sufficiente, come poc’anzi osservato, ai fini della rilevanza della questione proposta.
4.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Salerno sull’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in riferimento agli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, sono fondate.
4.1.– Come già rilevato, la disposizione censurata prevede una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione, integrata nel caso in cui la condotta sia commessa col mezzo della stampa e consista nell’attribuzione di un fatto determinato. Essa costituisce lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall’art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma, che prevedono cornici sanzionatorie autonome e più gravi rispetto a quelle stabilite dal primo comma, rispettivamente nel caso in cui l’offesa all’altrui reputazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato e in quello in cui l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.
La pena prevista dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948 è quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. Le due pene – detentiva e pecuniaria – sono dunque previste in via cumulativa, il giudice essendo tenuto ad applicarle indefettibilmente entrambe; e ciò a meno che non sussistano, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all’aggravante in esame.
4.2.– Proprio l’indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistano – o non possano essere considerate almeno equivalenti – circostanze attenuanti, rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall’art. 21 Cost., quanto dall’art. 10 CEDU.
Come già rilevato da questa Corte nella ordinanza n. 132 del 2020, una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) è divenuta ormai incompatibile con l’esigenza di «non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri»: esigenza sulla quale ha particolarmente insistito la Corte EDU nella propria copiosa giurisprudenza rammentata nella stessa ordinanza, ma che anche questa Corte condivide.
Per quanto, come si dirà meglio infra (punto 5.3.), la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, la sua necessaria inflizione, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste – che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non –, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita «pietra angolare dell’ordine democratico» da una risalente pronuncia di questa Corte (sentenza n. 84 del 1969).
E ciò anche in considerazione del diritto vivente, che – come parimenti rammentato nell’ordinanza n. 132 del 2020 – condiziona l’operatività della causa di giustificazione del diritto di cronaca nella sua forma putativa (art. 59, quarto comma, cod. pen.) al requisito dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti: ammettendo conseguentemente la responsabilità del giornalista per il delitto di diffamazione anche nell’ipotesi in cui egli abbia confidato, seppur per un errore evitabile, nella verità del fatto attribuito alla persona offesa.
4.3.– Dal momento che la funzione della disposizione censurata è unicamente quella di inasprire il trattamento sanzionatorio previsto in via generale dall’art. 595 cod. pen. in termini che non sono compatibili con l’art. 21 Cost., oltre che con l’art. 10 CEDU, essa deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella sua interezza, nei termini auspicati dal ricorrente. Tale dichiarazione non crea, del resto, alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, diritto che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si riespanderà in seguito alla presente pronuncia.
4.4.– Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura evocati dal rimettente a proposito della medesima disposizione.
5.– La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in accoglimento delle censure formulate dal Tribunale di Salerno, rende superfluo l’esame della questione formulata dal Tribunale di Bari sulla medesima disposizione, mirante a sostituire il regime di cumulatività di reclusione e multa previsto dalla disposizione medesima con un regime di alternatività tra le due sanzioni.
6.– Le questioni sollevate dallo stesso Tribunale di Salerno sull’art. 595, terzo comma, cod. pen. in riferimento agli artt. 3, 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, devono invece essere dichiarate non fondate nei termini di seguito precisati.
6.1.– L’art. 595, terzo comma, cod. pen. configura – come già rammentato – una circostanza aggravante del delitto di diffamazione, integrata allorché l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. La pena prevista è quella della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa non inferiore a 516 euro.
6.2.– La previsione in via, questa volta, soltanto alternativa della pena detentiva da parte della norma censurata non può ritenersi di per sé in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata dagli artt. 21 Cost. e 10 CEDU.
Come rammentato nell’ordinanza n. 132 del 2020, se è vero che la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona.
Aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via –, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime.
E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare.
Tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.
Si deve infatti ritenere che l’inflizione di una pena detentiva in caso di diffamazione compiuta a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità non sia di per sé incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità (così la stessa Corte EDU, grande camera, sentenza 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre contro Romania, paragrafo 115; nonché sentenze 5 novembre 2020, Balaskas contro Grecia, paragrafo 61; 11 febbraio 2020, Atamanchuk contro Russia, paragrafo 67; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia, paragrafo 59; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia, paragrafo 53; 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia, paragrafo 39).
La Corte di Strasburgo ritiene integrate simili ipotesi eccezionali in particolare con riferimento ai discorsi d’odio e all’istigazione alla violenza, che possono nel caso concreto connotare anche contenuti di carattere diffamatorio; ma casi egualmente eccezionali, tali da giustificare l’inflizione di sanzioni detentive, potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi.
Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali.
Se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica.
Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica.
6.3.– La disposizione ora all’esame – l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – deve essere interpretata in maniera conforme a tali premesse.
Il potere discrezionale che essa attribuisce al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve certo essere esercitato tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell’art. 133 cod. pen., ma anche – e ancor prima – delle indicazioni derivanti dalla Costituzione e dalla CEDU secondo le coordinate interpretative fornite da questa Corte e dalla Corte EDU; e ciò anche al fine di evitare la pronuncia di condanne penali, che potrebbero successivamente dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato italiano per violazioni della Convenzione (per la sottolineatura del dovere «di evitare violazioni della CEDU» in capo agli stessi giudici comuni, nel quadro dei loro compiti di applicazione delle norme, si veda la sentenza n. 68 del 2017, Considerato in diritto, punto 7.).
Ne consegue che il giudice penale dovrà optare per l’ipotesi della reclusione soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata, secondo i principi poc’anzi declinati; mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi.
Questa lettura, del resto, è stata già fatta propria dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nel quadro di un’interpretazione che dichiaratamente si ispira alla giurisprudenza pertinente della Corte EDU e all’ordinanza n. 132 del 2020 di questa Corte (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 9 luglio 2020, n. 26509), e che si estende anche agli autori di diffamazioni aggravate ai sensi dell’art. 595, terzo comma, cod. pen. i quali non esercitino attività giornalistica in senso stretto (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 17 febbraio 2021, n. 13993; sezione quinta penale, sentenza 15 gennaio 2021, n. 13060).
Così interpretata, la disposizione censurata risulta conforme tanto all’art. 21, quanto all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU.
6.4.– Tale interpretazione consente di escludere anche il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost., che il rimettente prospetta sulla base dei medesimi argomenti che sostengono l’allegata violazione degli artt. 21 e 117, primo comma, Cost.
7.– Manifestamente infondata è invece la questione, sollevata dallo stesso Tribunale di Salerno, avente ad oggetto l’art. 595, terzo comma, cod. pen., in riferimento all’art. 25 Cost.
Il rimettente opina che il carattere sproporzionato, irragionevole e non necessario della sanzione detentiva rispetto al bene giuridico tutelato violerebbe il principio di offensività, ricavabile appunto dall’art. 25 Cost.
In senso contrario, deve tuttavia rilevarsi che la diffamazione è, per quanto sopra argomentato, delitto tutt’altro che inoffensivo, essendo posto a tutela di un diritto fondamentale, quale la reputazione della persona, di primario rilievo nell’ordinamento costituzionale; mentre il carattere proporzionato o sproporzionato della sanzione comminata dal legislatore per un fatto comunque offensivo deve piuttosto essere vagliato sotto il profilo della sua compatibilità con altri parametri costituzionali, tra cui segnatamente la libertà di manifestazione del pensiero, secondo le cadenze poc’anzi illustrate.
8.– Non fondato appare infine anche il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di Salerno sulla compatibilità della medesima disposizione con l’art. 27, terzo comma, Cost.
Il giudice a quo non censura qui la sproporzione della pena detentiva rispetto alla gravità del reato, bensì l’«inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa». Il rimettente assume dunque in premessa la contrarietà alla CEDU della pena detentiva nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, e dunque la sua non irrogabilità in concreto; dal che deriverebbe la radicale inefficacia della sua comminatoria edittale rispetto agli scopi preventivi della pena, tra cui – parrebbe di intendere – la finalità rieducativa menzionata nell’art. 27, terzo comma, Cost.
Mai tuttavia, nella giurisprudenza di questa Corte, la necessaria finalità rieducativa della pena è stata utilizzata a sostegno di dichiarazioni di illegittimità costituzionale miranti a censurare l’ineffettività di comminatorie edittali rispetto agli stessi scopi preventivi della pena, in considerazione della inapplicabilità della pena in essa prevista.
L’art. 27, terzo comma, Cost. è piuttosto pertinente nel quadro di censure miranti a denunciare il carattere manifestamente sproporzionato della pena prevista dal legislatore rispetto alla gravità del fatto di reato; ma che la cornice edittale prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. sia manifestamente sproporzionata si è già avuto poc’anzi modo di escludere, nei limiti appena precisati.
9.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), il quale prevede che «[n]el caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47», dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla presente pronuncia.
Resterà anche in questo caso applicabile la disciplina prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. nei termini sopra indicati.
10.– La presente decisione, pur riaffermando l’esigenza che l’ordinamento si faccia carico della tutela effettiva della reputazione in quanto diritto fondamentale della persona, non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione (in senso analogo, in relazione al contiguo diritto fondamentale all’onore, sentenza n. 37 del 2019).
Resta però attuale la necessità, già sottolineata da questa Corte con l’ordinanza n. 132 del 2020, di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di «individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività».