<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 28 maggio 2021 n. 112</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, ultimo capoverso, e comma 4, lettera a), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), nella parte in cui non consentono di inquadrare nell’area della protezione, ai fini della determinazione del canone di locazione sopportabile, i nuclei familiari con redditi da lavoro autonomo con ISEE-ERP di valore corrispondente a tale area.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Preliminarmente, è opportuno precisare che la forma della <strong>sentenza non definitiva</strong>, in luogo dell’ordinanza, quale atto di promovimento del giudizio di legittimità costituzionale, non inficia in quanto tale l’ammissibilità della questione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Alla sentenza non definitiva può essere, infatti, riconosciuto, sul piano <strong>sostanziale</strong>, il carattere dell’ordinanza di rimessione, sempre che il giudice a quo – come è avvenuto nel caso in esame – abbia disposto, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte, dopo aver valutato la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione (sentenze n. 116 del 2018, n. 275 del 2013, n. 256 del 2010, n. 151 del 2009 e n. 452 del 1997).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– Nel merito la questione è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– Le disposizioni, che il rimettente censura, si inseriscono nel quadro di una disciplina dettata dalla Regione Lombardia per determinare il canone di locazione cosiddetto sopportabile, relativo ad immobili afferenti all’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tale tipologia di beni – come ha ribadito, anche di recente, questa Corte – è volta a soddisfare un bisogno primario, in quanto «serve a “garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi” (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla “provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti” (sentenza n. 168 del 2014)» (sentenza n. 44 del 2020).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La funzione che ispira le norme oggetto del presente giudizio è, in sostanza, quella di promuovere l’effettività della tutela del diritto all’abitazione, «incluso nel catalogo dei diritti inviolabili», sin dalla sentenza n. 404 del 1988 (si vedano di seguito, fra le altre, sentenze n. 44 del 2020, n. 168 del 2014, n. 161 del 2013, n. 61 del 2011, n. 176 del 2000 e l’ordinanza n. 76 del 2010), e che la giurisprudenza più recente ascrive ai «requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 44 del 2020).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– Se, dunque, la disciplina censurata è finalizzata a consentire, attraverso canoni di locazione particolarmente vantaggiosi, il godimento effettivo di un diritto inviolabile a beneficio di nuclei familiari che versano in condizioni di notevole fragilità economica, è sullo sfondo di un simile obiettivo che deve indagarsi la denunciata disparità di trattamento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Occorre, pertanto, in tale prospettiva, valutare se sia una misura dotata di ragionevole giustificazione l’aver riservato l’accesso alla categoria della protezione ai soli nuclei familiari con redditi da pensione, da lavoro dipendente o assimilato, escludendo gli assegnatari che, a parità di reddito, abbiano entrate derivanti da un’attività di lavoro autonomo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come questa Corte ha avuto modo di affermare, infatti, «l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio […] (sentenza n. 172 del 2013)» (sentenza n. 107 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.– Ebbene, in considerazione dell’obiettivo sotteso alla normativa censurata, non è dato ravvisare alcuna ragionevole giustificazione a fondamento della diversa determinazione del canone di locazione, a seconda che gli assegnatari degli alloggi siano titolari di redditi da pensione, da lavoro dipendente o assimilato o percepiscano entrate da un’attività di lavoro autonomo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, la ragionevolezza della disparità di trattamento non può rinvenirsi né sotto il profilo della differente disciplina tributaria che caratterizza le varie tipologie di reddito, né avendo riguardo al contributo finanziario offerto dai soli lavoratori dipendenti, in un risalente passato, alla realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.1.– Nella prima prospettiva – ipotizzata in chiave critica dallo stesso rimettente – non può legittimamente afferire alla ratio della disciplina censurata il meccanismo impositivo, che caratterizza i redditi da lavoro autonomo e li differenzia da quelli da pensione, da lavoro dipendente o assimilato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Supporre che una simile divergenza possa giustificare la normativa censurata equivarrebbe a presumere iuris et de iure la non veridicità delle dichiarazioni fiscali effettuate dai lavoratori autonomi, sì da ritenere tale categoria di assegnatari a priori meno meritevole di beneficiare di politiche di giustizia sociale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Dovendosi, dunque, escludere una tale ragione, la diversità di trattamento perde qualsivoglia giustificazione correlabile alla fonte del reddito.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il trattamento eterogeneo, sotto il profilo della determinazione dei canoni di locazione, andrebbe a differenziare il godimento di un diritto inviolabile, in ragione della diversa fonte di reddito del nucleo familiare e, più precisamente – in relazione alla questione posta dal rimettente –, in ragione della sua provenienza da distinte tipologie di lavoro, quando invece il lavoro è tutelato «in tutte le sue forme» (art. 35, primo comma, Cost.).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.2.– Quanto al differente argomento esposto dalla difesa regionale, anch’esso non può validamente porsi a sostegno della disparità di trattamento denunciata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Si tratta della motivazione che affonda le sue radici nel contributo istituito con l’art. 10 della legge 14 febbraio 1963, n. 60 (Liquidazione del patrimonio edilizio della Gestione I.N.A.-Casa e istituzione di un programma decennale di costruzione di alloggi per i lavoratori), a carico dei soli lavoratori dipendenti, onde finanziare, tramite il cosiddetto fondo GESCAL, l’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Occorre, infatti, a tal riguardo rilevare, in primo luogo, che i richiamati contributi erano integrati da una quota versata dallo Stato (con risorse, dunque, non direttamente ed esclusivamente erogate dai lavoratori dipendenti), sicché i fondi GESCAL erano soltanto uno dei tanti canali di finanziamento del patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In secondo luogo, e soprattutto, deve considerarsi che il fondo alimentato con i contributi dei lavoratori dipendenti è cessato il 31 dicembre 1995, data ultima in cui tale categoria è rimasta assoggettata al relativo obbligo di versamento, in virtù dell’art. 1 della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica). Ne discende che il sottoinsieme degli attuali lavoratori dipendenti, che possono aver dato un parziale contributo economico alla realizzazione delle opere di edilizia residenziale pubblica, deve oramai ritenersi non rappresentativo di tutti i nuclei familiari con redditi da lavoro dipendente o assimilato, sì da giustificare il loro esclusivo beneficio. Quanto, poi, alla categoria dei pensionati, che pure si trovano a godere della più favorevole disciplina, essa – a ben vedere – ricomprende tanto chi, in precedenza, era stato lavoratore dipendente, quanto chi aveva svolto un’attività di lavoro autonomo, il che ulteriormente sconfessa che la ragionevolezza della norma possa essere associata alla diversa contribuzione data all’edilizia residenziale pubblica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine, non si può tacere l’irragionevolezza di una disparità di trattamento che, per dare rilevanza a un risalente e neppure esclusivo contributo erogato dai lavoratori dipendenti per la realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica, pregiudica nuclei familiari economicamente fra i più deboli, per il solo fatto che essi sono sostenuti dal reddito di un’altra categoria di lavoratori.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.2.1.– Da ultimo, deve ritenersi inconferente il rilievo addotto dalla difesa della Regione Lombardia, secondo la quale anche altre leggi regionali e provvedimenti statali differenzierebbero la disciplina delle locazioni nell’edilizia residenziale pubblica, in considerazione della tipologia di reddito percepito dal conduttore.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Anche a prescindere, infatti, dalla circostanza che le norme evocate presentano un differente tenore rispetto a quelle censurate, in quanto si limitano a dettare un criterio preferenziale, in ogni caso, si tratta di disposizioni del tutto inidonee a plasmare il parametro della legittimità costituzionale. Sono, infatti, richiamate: una norma statale implicitamente abrogata (l’art. 21 della legge n. 457 del 1978); previsioni recate da una delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (del 13 marzo 1995); e, infine, discipline regionali (l’art. 31, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 10 del 2014 e l’art. 8 della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2010), peraltro mai sottoposte al sindacato di legittimità costituzionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.– In conclusione, in mancanza di qualsivoglia causa giustificativa idonea a rendere ragionevole la censurata disparità di trattamento, deve ritenersi che il comma 3, ultimo capoverso, e il comma 4, lettera a), dell’art. 31 della legge reg. Lombardia n. 27 del 2009, violino l’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, a parità di ISEE-ERP, comportano un’irragionevole disparità di trattamento, nella determinazione dei canoni di locazione sopportabili, fra i nuclei familiari che dipendono da redditi da pensione, da lavoro dipendente o assimilato, e quelli sostenuti da redditi da lavoro autonomo.</em></p>