TAR MARCHE, I – sentenza 02.12.2023 n. 793
PRINCIPIO DI DIRITTO
“costituisce principio ormai consolidato (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1413/2015 e nn. 1388 e 856 del 2012, nonché Sez. III, n. 4105/2014; Sez. IV, n. 4135 e n. 1609 del 2013) quello secondo cui “per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Ne deriva che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio; [omissis]
La configurabilità del mobbing richiede, quindi, sotto il profilo soggettivo, una strategia unitaria, in attuazione della quale il datore di lavoro deve realizzare “una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez, II, n. 4671/2022 e n. 862/2021 e l’ulteriore giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione ivi richiamata).
[…]
Come affermato dalla Sezione, occorre a tal fine il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo ma doloso, cosicché “in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. […] (Consiglio di Stato sez. II, 19/12/2022, n. 11050).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
[…] la ricorrente, già assistente capo coordinatore della Polizia di Stato, in servizio sin dal 1991 e dal 2020 dispensata per motivi di salute, domanda risarcimento del danno a seguito di condotte ritenute illegittime e contrarie a buona fede, da parte del datore di lavoro, asseritamente tenute nel periodo compreso tra la fine del 2018 e il 2021 (precisamente a cominciare dal 15 dicembre 2018, cfr. pagg. 3 e 49 del ricorso) e ritenute configuranti mobbing [Omissis]
Nel ricorso si afferma che le condotte vessatorie dell’Amministrazione nei suoi confronti sarebbero scaturite da problematiche inerenti la fruizione di permessi […] oggetto di contenzioso definito mediante la sentenza di questo Tribunale n. 514/2020, passata in giudicato, favorevole alla ricorrente [omissis].
Delle dedotte condotte vessatorie, farebbe parte, altresì, il trasferimento di ufficio di assegnazione a decorrere dal 18 marzo 2019, anche questo oggetto di ricorso giurisdizionale, esitato nella sentenza di questo Tribunale n. 515/2020, che ha rigettato il ricorso.
Sentenza appellata e riformata dal Consiglio di Stato […]
A seguito delle condizioni lavorative createsi, la ricorrente deduce danno biologico e danno esistenziale, legato alla lesione alla propria professionalità […].
Occorre ribadire che “costituisce principio ormai consolidato (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1413/2015 e nn. 1388 e 856 del 2012, nonché Sez. III, n. 4105/2014; Sez. IV, n. 4135 e n. 1609 del 2013) quello secondo cui “per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Ne deriva che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio; la condotta (mobbizzante) del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, in quanto, la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente di per sé di affermare l’esistenza di un’ipotesi di mobbing laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi idonei a dimostrare l’esistenza effettiva di un univoco disegno vessatorio o escludente in suo proprio danno”, (Cons. Stato, Sez. II, n. 4982/2022).
La configurabilità del mobbing richiede, quindi, sotto il profilo soggettivo, una strategia unitaria, in attuazione della quale il datore di lavoro deve realizzare “una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez, II, n. 4671/2022 e n. 862/2021 e l’ulteriore giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione ivi richiamata).
In altri termini, un singolo atto illegittimo, o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, di per sé considerati, non sono necessariamente sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, quale innanzi delineato.
Come affermato dalla Sezione, occorre a tal fine il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo ma doloso, cosicché “in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell”exceptio doli generalis’, consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro” (così Cons. Stato, Sez. II, n. 862/2021, cit.; in termini, ancor più di recente, Sez. II, n. 4982/2022 e n. 6534/2022), (Consiglio di Stato sez. II, 19/12/2022, n. 11050).
Richiamati tali principi, occorre rilevare che nella vicenda per cui è causa difettano vari elementi costitutivi del mobbing, così come dalla giurisprudenza delineati.
In primo luogo l’orizzonte temporale della vicenda all’esame del Collegio non pare sufficientemente prolungato per configurare la sistematica e reiterata adozione di atti o condotte, idonea a integrare l’ipotesi di mobbing lavorativo.
In verità, infatti, si tratta di un periodo [omissis] circa un anno e mezzo, dunque, durante il quale la ricorrente ha discontinuamente prestato attività lavorativa, per aver fruito di congedi ex lege previsti e sopra menzionati.
Inoltre, quanto agli atti incidenti sulla gestione del rapporto di lavoro, […] ancorché siano riscontrabili più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, ciò non necessariamente è sintomatico della presenza di un comportamento mobbizzante.
Peraltro, con statuizioni non riformate in appello, il Giudice di prime cure, nella sentenza n. 515/2020 ha escluso espressamente l’elemento soggettivo della colpa in capo all’Amministrazione, con riferimento alla originariamente negata fruizione dei permessi, alla luce dei rilievi sollevati dalla Ragioneria territoriale in tema.
[Omissis].
Infatti, l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento e il suo conseguente annullamento, per grave difetto di motivazione, non necessariamente equivale a qualificarlo come avente carattere punitivo. Carattere, viceversa, escluso dal Giudice di prime cure (che aveva affermato come “la possibilità di adibire l’interessato ad altro incarico equivalente nella stessa sede di servizio, tale opzione ben può essere percorsa dall’amministrazione, senza che ciò equivalga ex se ad un trasferimento “punitivo”), con statuizione non riformata sul punto.
[…]
I restanti fatti (su alcuni dei quali, consistendo in meri comportamenti, è dubbia la giurisdizione di questo Giudice, cfr. Consiglio di Stato sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371), ancorché posti in connessione con quelli menzionati, paiono potersi ricondurre, al più, a sporadiche situazioni conflittuali fisiologiche nei rapporti di lavoro, piuttosto che a un disegno persecutorio preordinato a creare un danno alla ricorrente.
Disegno ed elemento psicologico di cui è mancata, comunque, la prova sufficiente in giudizio.
Anche il nesso eziologico è risultato indimostrato.
[Omissis]
In sintesi, malgrado la dettagliata e meticolosa ricostruzione della vicenda e la corposa documentazione versata in atti, nel caso all’esame non è configurabile quel comportamento datoriale “miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio”, richiesto per potersi configurare un caso di mobbing.
Al più pare possano configurarsi difetti di comunicazione, criticità organizzative, malintesi, non adeguata cura delle relazioni interpersonali o del benessere organizzativo d’insieme, i quali innestati su di una situazione familiare delicata, possono aver portato alla loro amplificazione negativa nella percezione della ricorrente.
[…]
Tali fatti, pur potendo astrattamente costituire elementi di danno evento, non necessariamente lo sono anche di danno conseguenza (che, comunque, andrebbe provato, assieme alla colpa non scusabile dell’Amministrazione), sicuramente non paiono epifania di un intento vessatorio unitario avente quale unico scopo quello di perseguitare e danneggiare la ricorrente.
[Omissis]
Né, per le ragioni anzidette, le patologie di cui soffre la ricorrente possono essere eziologicamente connesse, in modo più probabile che non, alle condotte dell’Amministrazione nel ridotto arco temporale rilevante e indicato.
Non occorrono, dunque, né consulenza tecnica di ufficio medica, né contabile, al fine della decisione, difettando, nella specie gli elementi costitutivi tipici del mobbing, così come delineati dalla giurisprudenza.
Il ricorso va, pertanto, respinto.