<p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 11 marzo 2021 n. 35</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevate dal Tribunale ordinario di Genova, in riferimento agli artt. 117 e 122 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, per genericità nell’identificazione delle norme censurate. Pur affermando di dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, il rimettente avrebbe omesso di dedurre censure «“puntiformi” e mirate» su tale disposizione e operato invece «genericissimi rinvii» al testo del d.lgs. n. 235 del 2012 nella sua integralità, così manifestando l’intento di «colpire l’impianto della c.d. “Legge Severino”, costantemente richiamata nell’ordinanza».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione non è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nella motivazione dell’ordinanza di rimessione è indicato con chiarezza l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 come oggetto delle questioni, mentre gli sparsi e generici richiami alla “legge Severino” nella sua interezza sono diretti a sottolineare che la disposizione censurata rispecchia nel suo specifico contenuto l’impianto complessivo del d.lgs. n. 235 del 2012.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>1.2.1.– L’oggetto delle questioni proposte va comunque circoscritto alla lettera a) del comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, perché questa è la disposizione che, prevedendo la sospensione di coloro che hanno riportato una sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’art. 7, comma 1, lettere a), b) e c), dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012, deve essere applicata nel giudizio a quo, relativo a un provvedimento di sospensione dalla carica di un consigliere regionale condannato in primo grado (anche) per il delitto di peculato, compreso nell’elenco di cui al citato art. 7, comma 1, lettera c).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>1.3.– Il petitum delle questioni, ancorché non indicato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, è ricavabile dal tenore della motivazione, là dove, nel sintetizzare il contenuto delle due questioni di legittimità costituzionale ritenute non manifestamente infondate, il giudice a quo osserva che l’una – che invoca gli artt. 117 e 122 Cost. e il principio di leale collaborazione, la cui violazione è declinata come «difetto di ogni coordinamento e collaborazione» tra lo Stato e le regioni – tende «alla cancellazione integrale del fondamento normativo dell’istituto adottato in concreto», attraverso «una pronuncia soppressiva», mentre l’altra – con cui è dedotta la violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in tema di elettorato passivo – è diretta «alla introduzione di un potere di vaglio necessario minimo della proporzione tra il fatto ritenuto e l’effetto sull’elettorato passivo», attraverso «una pronuncia additiva».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se ne desume che le questioni sono collegate da un rapporto di logica subordinazione, in quanto l’addizione normativa è richiesta per il caso in cui non fosse accolta la domanda, prospettata come prima, di «pronuncia soppressiva» (id est, totalmente ablativa). Ciò che non osta all’ammissibilità delle questioni, alla luce del costante orientamento di questa Corte secondo cui «ben può [...] il giudice rimettente prospettare in termini gradatamente sequenziali, e quindi subordinati, i possibili esiti dello scrutinio di costituzionalità pur senza una formale e testuale qualificazione di ciascuna conclusione rispettivamente come “principale” e “subordinata” (sentenze n. 127 del 2017 e n. 280 del 2011)» (sentenza n. 175 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 36 del 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.– Occorre dunque esaminare prioritariamente la questione principale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Con essa, il giudice a quo lamenta che la disposizione censurata – pur incidendo su una «materia almeno estremamente affine» a quella dell’eleggibilità e dell’incompatibilità dei consiglieri regionali, attribuita alla potestà delle regioni dall’art. 122, primo comma, Cost. – sia stata adottata senza il previo raccordo con le regioni in sede di Conferenza unificata, in violazione del principio di leale collaborazione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non appartiene al thema decidendum, invece, la censura di invasione della sfera di competenza regionale ex art. 122 Cost, anch’essa dedotta dal ricorrente nel giudizio principale, ma non condivisa dal rimettente, che ne critica la fondatezza, richiamando la tesi secondo cui la disciplina della sospensione dalle cariche elettive regionali non si inquadra negli istituti dell’eleggibilità e dell’incompatibilità, bensì in quello dell’incandidabilità, riconducibile alla diversa materia dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza esclusiva dello Stato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.1.– L’eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri di inammissibilità della questione per erronea e generica indicazione del parametro invocato, nonché per il suo tenore dubitativo, non è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’ordinanza di rimessione, nonostante l’apparente tenore dubitativo che ne caratterizza gli snodi, offre esplicite ragioni a sostegno della censura e assume come propri i motivi esposti dal ricorrente nel giudizio principale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si deve ritenere inoltre che, nell’invocare un parametro del tutto inconferente, quale l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., il giudice a quo sia semplicemente incorso in un lapsus calami, essendo palese che esso intendeva richiamare la lettera h) dello stesso secondo comma dell’art. 117 Cost., come dimostra l’esplicito riferimento, nello stesso contesto motivazionale, alla materia «ordine pubblico e sicurezza» ivi prevista.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>D’altra parte, nei termini in cui la questione è sollevata, la censura non investe la norma costituzionale che fonda la competenza esclusiva dello Stato, ma fa valere la lesione del principio di leale collaborazione, in base al quale, nella prospettazione del rimettente, l’intervento del legislatore statale, pur assunto nell’esercizio dell’indicata competenza in funzione della disciplina unitaria della sospensione dalle cariche regionali, non potrebbe incidere su materie di competenza regionale senza un coinvolgimento delle regioni. In questi termini la questione è posta con sufficiente chiarezza dal rimettente, che dall’assenza di tale coinvolgimento fa derivare la violazione del principio di leale collaborazione, assolvendo così all’onere di indicare, a pena di inammissibilità, il parametro alla cui stregua questa Corte è chiamata a valutare la questione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.2.– Nel merito, la questione non è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come visto, secondo il rimettente la disposizione censurata, pur espressione della <strong>competenza statale esclusiva</strong> in materia di «<strong>ordine pubblico e sicurezza</strong>», inciderebbe anche su una materia di competenza regionale, sicché il legislatore delegato avrebbe potuto adottarla solo dopo aver previamente coinvolto le regioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>A sostegno dell’assunto il giudice a quo evoca la sentenza n. 251 del 2016, con cui questa Corte ha affermato che, quantunque il principio di leale collaborazione non si imponga al procedimento legislativo, «[l]à dove […] il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa», la quale «si impone quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost.», che finiscono «con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel richiamare tale precedente il giudice a quo omette tuttavia di verificare se la disposizione statale censurata, che esso stesso riconduce a un titolo di competenza esclusiva dello Stato, incida effettivamente su ambiti materiali nei quali concorrono competenze statali e regionali legate da un intreccio inestricabile, non risolubile tramite un criterio di prevalenza di una materia sulle altre. Solo in un’ipotesi di questo tipo, infatti, «deve trovare applicazione il principio generale, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 140 del 2015), secondo il quale in ambiti caratterizzati da una pluralità di competenze [...] e, qualora risulti impossibile comporre il concorso di competenze statali e regionali, tramite un criterio di prevalenza, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, purché agisca nel rispetto del principio di leale collaborazione che deve in ogni caso permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008) e che può ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell’intesa» (sentenza n. 1 del 2016).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Impostazione, questa, sulla cui linea si pone la stessa evocata sentenza n. 251 del 2016, che, nel considerare applicabili le procedure di leale collaborazione all’iter di formazione dei decreti delegati nel caso di incidenza dell’intervento legislativo su competenze statali e regionali inestricabilmente connesse, la condiziona all’impossibilità di operare una «valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte le altre», poiché solo ricorrendo questo presupposto la concorrenza di competenze rende necessario addivenire a un’intesa.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.2.1.– Occupandosi della disciplina che si è succeduta nel tempo in tema di incandidabilità alle cariche elettive, di decadenza di diritto da esse a seguito di condanna definitiva per determinati reati, nonché di sospensione automatica in caso di condanna non definitiva (istituto che viene qui specificamente in rilievo), questa Corte ha più volte affermato che si tratta di misure «dirette “ad assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli interessi dell’intera collettività” (sentenze n. 352 del 2008 e n. 288 del 1993)» (sentenza n. 118 del 2013, in relazione all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale», i cui contenuti risultano attualmente trasfusi, per la parte che interessa, negli artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 235 del 2012).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In ragione di questa sua finalità, il «nucleo essenziale» della disciplina qui segnatamente in esame è stato ricondotto all’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza legislativa statale esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. (sentenza n. 118 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 218 del 1993 e n. 407 del 1992, ancora in relazione all’art. 15 della legge n. 55 del 1990), materia che, come questa Corte ha sottolineato, presenta carattere prevalente pur quando essa interferisca con la competenza regionale ex art. 122, primo comma, Cost. (sentenze n. 36 del 2019 e n. 118 del 2013).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, anche ritenendo che quest’ultima competenza «comprenda la disciplina delle decadenze connesse alla sopravvenienza delle cause di ineleggibilità dopo l’assunzione del mandato, come pure la disciplina delle ipotesi di sospensione automatica dalla carica collegate, in funzione cautelare e preventiva, alle cause di decadenza», resta «dirimente il rilievo che le ragioni che stanno [...] alla base della prevista sospensione di diritto [...] ascrivono comunque il nucleo essenziale della disciplina, sulla base del criterio della prevalenza, alla già indicata materia di competenza statale esclusiva “ordine pubblico e sicurezza”» (sentenza n. 118 del 2013). Né contrasta con la riconduzione della sospensione in esame a questa materia la circostanza che si tratti della disciplina delle condizioni per la permanenza in carica di un eletto, giacché in questo caso è proprio attraverso la previsione di requisiti di onorabilità degli eletti che si perviene all’obiettivo di garantire, attraverso l’integrità del processo democratico, nonché la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione, l’ordine pubblico e la sicurezza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In conclusione si deve dunque escludere che, nel caso della sospensione automatica disciplinata dal censurato art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, si versi in un’ipotesi di <strong>intreccio inestricabile di materie</strong>, di competenza statale e regionale, non risolvibile con il criterio della prevalenza e, di conseguenza, che sia stato violato il principio di leale collaborazione per mancato coinvolgimento delle regioni nella formazione del decreto legislativo in cui la disposizione contestata è contenuta.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.– Con la seconda questione – che, come visto, si pone in rapporto di logica subordinazione rispetto alla prima – l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 è censurato nella parte in cui prevede l’applicazione della misura cautelare della sospensione come automatica conseguenza della condanna penale non definitiva per determinati reati e preclude così al giudice chiamato a pronunciarsi sul provvedimento sospensivo di valutare in concreto la proporzionalità «tra i fatti oggetto di condanna» e la stessa sospensione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sarebbe pertanto violato <strong>l’art. 3 Prot. add. CEDU</strong>, alla cui stregua, sotto la rubrica «Diritto a libere elezioni», «[l]e Alte Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo». Ad avviso del rimettente, la disposizione convenzionale, come interpretata dalla Corte EDU, consentirebbe di limitare il diritto di elettorato passivo solo a condizione che le eventuali restrizioni derivino «da un “processo decisorio individualizzato” [...] tendenzialmente di natura giurisdizionale», perché solo in questo modo sarebbe possibile valutare la proporzionalità della misura e verificare l’esistenza di un collegamento tra il fatto commesso e l’impossibilità di ricoprire la carica elettiva.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.– Sebbene il rimettente invochi l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, omettendo di richiamare esplicitamente <strong>l’art. 117, primo comma, Cost.,</strong> è in riferimento a tale ultima previsione – rispetto alla quale la citata norma convenzionale funge da parametro interposto (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) – che la censura può e deve intendersi effettivamente proposta. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la questione di legittimità costituzionale deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati ma desumibili in modo univoco dall’ordinanza di rimessione, qualora tale atto faccia a essi chiaro, sia pure implicito, riferimento mediante il richiamo ai principi da questi enunciati (ex plurimis, sentenze n. 5 del 2021, n. 227 del 2010, n. 170 del 2008, n. 26 del 2003, n. 69 del 1999 e n. 99 del 1997).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questo è quanto accade nel caso in esame, in cui il giudice a quo, pur avendo formalmente indicato solo l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, mostra di avere censurato l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 con univoco, ancorché implicito, riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., come è agevole desumere dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, in cui si sottolinea la necessità costituzionale che l’ordinamento nazionale osservi la citata norma convenzionale, e come è del resto significativamente confermato dal fatto che lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto in giudizio ha impostato la sua difesa richiamando testualmente l’art. 117, primo comma, Cost., e dunque assumendone anch’esso come pacifica l’evocazione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.– Nel merito, nemmeno la seconda questione è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.1.– I termini in cui è prospettata impongono un preliminare riferimento all’interpretazione dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU ad opera dalla Corte EDU e ai principi dalla stessa formulati sulla portata generale della garanzia in esso prevista e sulle limitazioni che gli Stati possono introdurre in ragione della particolare natura del diritto di elettorato, in specie di quello passivo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In via generale, la Corte di Strasburgo ha affermato che la disposizione contenuta nell’art. 3 Prot. addiz. CEDU, pur formulata in termini di impegno degli Stati contraenti «a organizzare elezioni [...] in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo», deve essere interpretata – alla luce dei lavori preparatori e nel quadro della Convenzione considerata nel suo insieme – nel senso che essa garantisce diritti soggettivi, comprendenti il diritto di voto (che ne rappresenta l’aspetto “attivo”) e il diritto di presentarsi alle elezioni (costituente l’aspetto “passivo”) (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 6 ottobre 2005, Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi 56 e 57; sentenza 2 marzo 1987, Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio, paragrafi da 46 a 51).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ha precisato ancora che il diritto di presentarsi alle elezioni copre anche il periodo post-elettorale, convertendosi nel diritto di esercitare il mandato come membro del corpo legislativo (Corte EDU, sentenza 24 maggio 2016, Paunović and Milivojević contro Serbia, paragrafo 58), e che quest’ultima nozione, a sua volta, deve essere interpretata alla luce della struttura costituzionale del singolo Stato (Corte EDU, sentenza Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio, paragrafo 53), includendo in particolare, per quanto riguarda il nostro Paese, i consigli regionali, in quanto dotati di attribuzioni e di poteri sufficientemente ampi da essere qualificabili come elementi del corpo legislativo dello Stato nel suo complesso (Corte EDU, sentenza 1° luglio 2004, Vito Sante Santoro contro Italia, paragrafo 52).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto alle limitazioni apportabili dal legislatore nazionale ai diritti di elettorato attivo e passivo, la Corte EDU ha precisato che si tratta di <strong>diritti non assoluti</strong>, che possono essere fatti oggetto di «<strong>limitazioni implicite</strong>», rispetto alle quali gli Stati contraenti godono di un ampio margine di valutazione, in ragione, tra l’altro, delle <strong>peculiarità storiche, politiche e culturali di ciascun ordinamento</strong> (ex plurimis, Corte EDU, sentenza 15 giugno 2006, Lykourezos contro Grecia, paragrafo 51; sentenza Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi 61 e 62; sentenza Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio, paragrafo 52).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il carattere «implicito» delle limitazioni ammissibili consente agli Stati contraenti di introdurre misure restrittive di tali diritti anche per finalità non incluse in elenchi precisi, come quelle enumerate agli articoli da 8 a 11 della CEDU, purché nelle particolari circostanze del caso concreto sia dimostrata la compatibilità del fine perseguito con il principio del primato della legge e con gli obiettivi generali della Convenzione. Per la stessa ragione, nel vagliare la compatibilità delle possibili limitazioni con le garanzie assicurate dalla Convenzione, la Corte EDU non applica i test tradizionali usati nella verifica del rispetto degli stessi articoli da 8 a 11 della Convenzione, basati sui criteri della necessità o dell’urgente bisogno sociale, ma fa riferimento a criteri diversi e specifici.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In base ad essi, in particolare: le limitazioni del diritto di voto e del diritto di candidarsi non devono violarne la sostanza, né privarli di effettività; le restrizioni devono perseguire un fine legittimo, compatibile con il principio del primato della legge e con gli obiettivi generali della CEDU, e segnatamente con la protezione dell’indipendenza dello Stato, dell’ordine democratico e della sicurezza nazionale; i mezzi impiegati non devono essere sproporzionati (ex plurimis, Corte EDU, grande camera, sentenza 27 aprile 2010, Tănase contro Moldavia, paragrafo 161; sentenza 6 novembre 2009, Etxeberria e altri contro Spagna, paragrafo 47; sentenza 5 aprile 2007, Kavakçi contro Turchia, paragrafo 41; sentenza Lykourezos contro Grecia, paragrafo 52; sentenza Vito Sante Santoro contro Italia, paragrafo 54; sentenza Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafo 62).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto in particolare alle restrizioni al diritto di voto nel suo aspetto “passivo”, il controllo della Corte EDU è poi ancora più prudente, sul dichiarato presupposto che al legislatore nazionale deve essere riconosciuto il <strong>potere di disciplinare il diritto di presentarsi alle elezioni, circondandolo di cautele rigorose, anche più stringenti</strong> di quelle predisposte per il diritto di elettorato attivo (Corte EDU, grande camera, sentenza 16 marzo 2006, Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 115; sentenza Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi da 57 a 62). In questa ipotesi viene infatti in gioco la peculiare esigenza di garantire stabilità ed effettività di un sistema democratico nel quadro del concetto, del quale la stessa Corte ha riconosciuto la legittimità, di «democrazia capace di difendere se stessa» (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 100).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>A tale riconosciuta possibilità per gli Stati contraenti di imporre in questi casi requisiti più stringenti corrisponde dunque in sostanza, nella valutazione della Corte di Strasburgo ex art. 3 Prot. addiz. CEDU, una minore severità nel sindacato sulla proporzionalità dei mezzi impiegati nella limitazione, nel senso che, mentre quando si tratti del diritto di elettorato attivo la verifica consiste normalmente in un’approfondita valutazione della proporzionalità delle previsioni che escludono una persona o un certo gruppo di persone, quella operata sulle limitazioni al diritto di elettorato passivo è mantenuta nei limiti dell’accertamento della non arbitrarietà delle misure nazionali che privano un individuo dell’eleggibilità (ex plurimis, Corte EDU, sentenza Etxeberria e altri contro Spagna, paragrafo 49; sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 115).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.2.– Ciò premesso, si può passare all’esame della specifica violazione dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU lamentata dal rimettente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo il giudice a quo, l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, precludendo al giudice di valutare in concreto, secondo il criterio della proporzionalità, la gravità del fatto accertato penalmente rispetto all’esigenza perseguita con la sospensione, si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui le limitazioni di qualsiasi tipo al diritto di voto dovrebbero conseguire a un “processo decisorio individualizzato”, e più precisamente a un provvedimento giurisdizionale personalizzato, idoneo a garantire una verifica sulla proporzionalità della misura e la sussistenza di un effettivo collegamento tra essa e i fatti a causa dei quali essa è applicata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al riguardo occorre tuttavia osservare che, nei termini indicati dal rimettente, la Corte di Strasburgo si è espressa soltanto in una isolata pronuncia (Corte EDU, sentenza 8 aprile 2010, Frodl contro Austria, paragrafi 34 e 35), a fronte della quale si è consolidato invece un diverso orientamento della grande camera della stessa Corte, che riconosce la possibilità che sia il legislatore a determinare nel dettaglio lo scopo e le condizioni di una misura restrittiva, e che, in questo caso, sia lasciato ai giudici solo il compito di verificare se un determinato soggetto appartenga o meno alla categoria o al gruppo contemplato nella previsione di cui si tratta, con esclusione di apprezzamenti giurisdizionali sulla proporzionalità della singola misura (Corte EDU, sentenza 22 maggio 2012, grande camera, Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafi da 97 a 102, dove si confuta l’interpretazione assunta in Frodl contro Austria; sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafi da 112 a 115 e 125).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nei suoi sviluppi più recenti e compiuti, dunque, la giurisprudenza della Corte EDU non postula affatto la necessità che l’applicazione in concreto delle misure restrittive del diritto di voto avvenga <strong>attraverso un provvedimento giurisdizionale</strong>, come sostiene il rimettente, e afferma invece che gli Stati contraenti possono scegliere se affidare alla giurisdizione la valutazione del carattere proporzionale della misura o se “incorporare” tali apprezzamenti <strong>nel testo delle loro leggi</strong>, con la precisa definizione, direttamente in esse, delle circostanze in cui la misura stessa può essere applicata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In questo secondo caso, il legislatore può bilanciare a priori gli interessi in gioco, con il limite del divieto di introdurre restrizioni generali e indiscriminate. Spetterà poi in ogni caso alla Corte EDU di stabilire se, in una determinata ipotesi, il risultato sia stato raggiunto, se il limite sia stato rispettato e se, in generale, la soluzione regolativa prescelta ovvero, nell’altro caso, la decisione giudiziale siano conformi all’art. 3 Prot. addiz. CEDU (Corte EDU, sentenza Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafo 102).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Alla luce di quanto esposto si deve pertanto escludere che la disposizione censurata contrasti con l’art. 3 Prot. addiz. CEDU solo perché non affida ai giudici nazionali il potere di individualizzare pienamente la sua applicazione alla luce della specifica situazione di un soggetto e delle circostanze particolari del caso concreto (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 125). Essa costituisce invero legittimo esercizio, da parte dell’ordinamento nazionale, del margine di apprezzamento che la Convenzione lascia agli Stati nella disciplina della materia, in ragione del fatto che le particolari condizioni di sviluppo storico, di diversità culturale e di pensiero politico che caratterizzano le singole esperienze nazionali modellano, per ciascuna, una sua propria visione democratica (Corte EDU, sentenza Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafo 102). La soluzione adottata in concreto nell’ordinamento nazionale, di individuare legislativamente le condizioni per l’applicazione della restrizione e di riservare ai giudici solo la verifica della loro sussistenza – in particolare se un determinato soggetto appartenga alla categoria o al gruppo contemplato nella previsione legislativa – senza apprezzamenti da operare nel caso specifico, non risulta priva di ragioni, attese la portata e la delicatezza, anche in termini di conseguenze politiche, del giudizio sulla permanenza in carica degli eletti, così come, nelle altre ipotesi disciplinate nella medesima normativa del 2012, sulla loro candidabilità. Si tratta in ogni caso di una scelta legislativa che supera agevolmente il controllo di non arbitrarietà, stante che la prevista restrizione del diritto di elettorato passivo non presenta portata né generalizzata né indiscriminata, essendo circoscritta a una precisa e alquanto limitata categoria di soggetti, costituita da coloro che hanno subito condanne per determinati tipi di reati – la cui individuazione ad opera del legislatore resta comunque estranea alle censure del rimettente – particolarmente gravi o di specifico rilievo in funzione dell’attitudine a incidere sull’immagine e l’onorabilità della pubblica amministrazione, come si dirà appresso.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nella sua sostanza, infine, la scelta operata con il censurato art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 si pone in linea con le finalità che, secondo la stessa giurisprudenza della Corte EDU, possono legittimare misure di questo tipo, come quella di proteggere l’integrità del processo democratico mediante l’esclusione dalla partecipazione all’attività degli organi rappresentativi di individui che possono pregiudicarne il corretto funzionamento (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 122).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.3.– Si deve ancora escludere che la norma censurata contrasti con l’art. 3 Prot. addiz. CEDU sotto il diverso – e in parte concorrente – profilo della <strong>mancata previsione in essa di un collegamento tra la sospensione e i fatti oggetto della condanna penale</strong>, tenuto conto della loro gravità nonché della loro connessione con la carica esercitata al momento della sospensione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò che più precisamente il giudice a quo lamenta è il carattere potenzialmente sproporzionato della misura, derivante dalla presunzione assoluta di pericolo operata dalla norma, pericolo che potrebbe in concreto non sussistere, «come ad esempio nel caso in cui l’illecito fosse relativo ad una carica pregressa e mutata, con impossibilità nella nuova carica di reiterare la condotta».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo il costante orientamento di questa Corte – che si colloca nel solco tracciato da sentenze su analoghe disposizioni previgenti – le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione dalle cariche elettive previste nel d.lgs. n. 235 del 2012, ancorché collegate alla commissione di un illecito, <strong>non hanno carattere sanzionatorio</strong> e rappresentano solo conseguenze del <strong>venir meno di un requisito soggettivo</strong> per l’accesso alle cariche pubbliche considerate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La sospensione dalla carica, in particolare, «risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» e costituisce, per la sua natura provvisoria, «misura sicuramente cautelare» (ex plurimis, sentenze n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il legislatore ha infatti considerato che la permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione – come il peculato, per il quale è stato condannato il ricorrente nel giudizio principale – può comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina ed onore (sentenza n. 36 del 2019, resa sull’art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012, ma con argomenti estensibili all’analoga misura prevista dalla norma qui censurata).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se questo è il fine perseguito dal legislatore – la cui legittimità non è dubitabile, come visto, ai sensi dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU – la modalità prescelta per realizzarlo non è in contrasto con il criterio della proporzionalità, costituendo invece il frutto di un ragionevole bilanciamento tra gli interessi che vengono in gioco nella disciplina dei requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche in questione, e quindi tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come già osservato, la sospensione cautelare in esame non trova applicazione generalizzata e indifferenziata, ma è riservata a una platea delimitata di soggetti, costituita dai condannati in via non definitiva per reati direttamente connessi alle funzioni che sarebbero chiamati ad assumere, perché di particolare gravità (ex art. 7, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 235 del 2012) o perché commessi contro la pubblica amministrazione (ex art. 7, comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 235 del 2012). In ordine a tali reati le esigenze di tutela del buon andamento e della legalità della pubblica amministrazione, anche sotto il profilo della perdita di immagine degli apparati pubblici, sono di immediata evidenza e non richiedono indagini o apprezzamenti ulteriori rispetto a quelli operati dal legislatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In secondo luogo, si tratta di una misura caratterizzata da una strutturale provvisorietà e dalla gradualità nel tempo dei propri effetti, in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato, determinando la decadenza dalla carica (art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 235 del 2012). La sospensione, infatti, cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi, salvo che entro questo termine la sentenza di condanna sia confermata in appello, nel quale caso decorre un ulteriore periodo di sospensione di dodici mesi (art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012). Come questa Corte ha già osservato con riguardo all’analoga previsione dell’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 (sentenza n. 36 del 2019, punto 4.1. del Considerato in diritto), la disciplina richiamata è il risultato di un ulteriore bilanciamento delle descritte esigenze di tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e dell’eletto condannato, dall’altro, diretto a temperare gli effetti automatici della sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia, con l’obiettivo di evitare un’eccessiva compressione del diritto di elettorato passivo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Inoltre, le esigenze cautelari che la sospensione mira ad assicurare non vanno identificate nel pericolo di reiterazione del reato, come erroneamente ritiene il giudice a quo, ma, come visto, nella mera possibilità che la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo determini una lesione dell’interesse pubblico tutelato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La misura non assolve invero a funzioni sanzionatorie o di cautela penale, ma è semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la carica pubblica di cui si tratta, sicché nei suoi riguardi – come questa Corte ha più volte affermato – se un’esigenza di proporzionalità è prospettabile, questa non è rispetto al reato commesso (e, si deve precisare qui, al pericolo della sua reiterazione, di cui la norma censurata non si occupa), ma rispetto all’esigenza cautelare perseguita (ex plurimis, sentenze n. 276 del 2016 e n. 25 del 2002, quest’ultima sull’analoga sospensione già prevista dall’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale»), in una logica che prescinde dalla gravità del fatto di reato e dalla pena in concreto irrogata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se perciò il collegamento tra sospensione e condanna è operato all’esclusivo scopo di realizzare le esigenze cautelari costituenti il fine legittimo della misura, la sospensione non dipende dalla concreta gravità dei fatti per i quali vi è stata condanna, ma solo da quest’ultima, che costituisce l’oggettivo presupposto perché si produca l’effetto ulteriore e distinto previsto dalla norma, destinato a operare in modo autonomo ed “esterno” rispetto all’azione pubblica di repressione penale (sentenza n. 276 del 2016). Né, per le medesime ragioni, rileva che il fatto di reato accertato abbia una qualche incidenza, anche temporale, sull’esercizio del mandato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Esaminata da questo angolo visuale, la sospensione dalla carica, rigorosamente circoscritta nel tempo e <strong>destinata a cessare immediatamente nel caso di sopravvenuti non luogo a procedere, proscioglimento o assoluzione</strong> dell’eletto, non può essere considerata inadeguata o eccedente rispetto al fine perseguito.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.4.– In conclusione, anche tenuto conto dell’ampio margine di apprezzamento riconosciuto al legislatore nazionale nella disciplina del diritto di elettorato passivo, si deve ritenere che la concreta regolazione della misura della sospensione cautelare contenuta nella norma censurata operi – per la platea delimitata di soggetti ai quali si applica, per la temporaneità e la gradualità dei suoi effetti, per la legittimità dei suoi fini e per la sua adeguatezza rispetto alle specifiche esigenze cautelari perseguite – un non irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco e in ogni caso non presenti sintomi di arbitrarietà tali da determinarne il contrasto con l’art. 3 Prot. addiz. CEDU come interpretato dalla Corte EDU.</em></p>