Massima
La confisca è misura polimorfa: in date fogge si applica senza condanna (confisca preventiva), in altre la presuppone (confisca successiva, quale misura di sicurezza); talvolta opera su beni strettamente avvinti al commesso reato, talaltra su beni che sono pericolosi perché chi ne dispone ha commesso un certo reato (o, nel caso della confisca preventiva, quand’anche non lo abbia commesso), senza tuttavia che a quest’ultimo (il reato) tali beni siano direttamente legati; talvolta è formalmente e sostanzialmente un misura di sicurezza, come tale applicabile anche retroattivamente, talaltra è nella sostanza una pena (sotto mentite spoglie formali di misura di sicurezza), incorrendo allora nel rigoroso divieto – previsto a livello così interno come internazionale – di applicazione retroattiva in malam partem.
Crono-articolo
La confisca dei beni del condannato è presente all’interno del sistema punitivo romano già in epoca Repubblicana, attraverso l’istituto della c.d. publicatio bonorum, disposta unitamente alla condanna ed, in genere, accompagnantesi alla perdita dello status di cittadino Romano (c.d. capitis deminutio media); una sorta di conseguenza necessaria dunque dell’accertamento del fatto illecito, assai più che semplice accessorio rispetto all’irrogazione della pena, atteso come al giudice sia sottratta ogni forma di sindacato (potere vincolato) in merito alla relativa applicazione, dovendosi assumere la ridetta publicatio bonorum operativa ipso iure, quale effetto penale della condanna. Esclusi i casi in cui essa si atteggia a sanzione principale per delitti meno gravi, l’ablazione viene dunque in genere correlata – per via accessoria – alla commissione di delitti di particolare gravità, come la pubblicistica perduellio (genericamente assimilabile ad un alto tradimento verso lo Stato) ed il privatistico parricidio cui segue, di norma, l’irrogazione della pena capitale, unica legalmente riconosciuta in epoca repubblicana; solo successivamente, con l’ampliamento del novero delle pene principali (oltre alla condanna a morte), la misura viene applicata anche in conseguenza della c.d. relegatio, da intendersi genericamente come deportazione ed interdizione. Si ha publicatio bonorum anche nelle ipotesi, del pari assai gravi, di condanna a pena principale sub specie di “interdìctio aqua et igni” (allontanamento coatto e definitivo dal territorio romano: coloro che subiscono questo provvedimento non possono più rientrare in Patria e, se varcavano i confini dell’Urbe, non solo non riacquistano la capacità giuridica del civis Romanus, ma possono financo essere impunemente aggrediti da qualsiasi cittadino, mentre in periodo classico subiscono le pena pubblica della deportatio in insulam ); o, più tardi, sub specie di damnàtio ad metalla (pena corporale consistente in lavori forzati da espiare presso miniere; i condannati in metallum sono considerati sostanzialmente degli schiavi). Nel sistema punitivo romano della Repubblica dunque la publicatio bonorum si palesa inscindibilmente avvinta alla commissione di delitti ed alla irrogazione di pene che, come è stato fatto notare, comportano la sostanziale espunzione del reo dalla cerchia sociale, giusta eliminazione fisica (condanna a morte) ovvero a seguito di deportazione; rispetto a tale allontanamento (o a tale dipartita fisica), il deferimento al popolo delle sostanze del condannato si colloca in linea di naturale e logico continuum, quale ulteriore strumento (di natura patrimoniale) per la definitiva cancellazione del novello hostis (nemico) dal novero dei cives Romani. Una ablazione peraltro sprovvista di qualsivoglia nesso eziologico con la concreta condotta criminosa perpetrata dal condannato e che – in termini quantitativi – abbraccia l’interezza del relativo patrimonio senza limitazione alcuna (onde, nelle più blande ipotesi di deportazione, in proprietà del condannato non rimane nulla), senza che alcun limite possa riscontrarsi neppure nella presenza di eredi i quali, a cagione del reato commesso da loro congiunto (ascendente), vengono di fatto privati del diritto a succedere: un temibile strumento dunque, capace di significativa potenza afflittiva non solo nei confronti del condannato, ma anche dei relativi aventi causa, onde le conseguenze nefaste dell’azione criminosa producevano effetti infausti sull’intera “familia” del condannato. Proprio per tale eccessiva afflittività della misura, in epoca imperiale la relativa applicazione viene sovente mitigata da interventi correttivi dell’Imperatore, come nel caso del viaticum, quale piccolo patrimonio che l’esule può prendere perché possa trasferirsi ed installarsi nella terra d’esilio; o delle “portiones concessae”, piccoli lasciti elargiti agli eredi a seguito della condanna del loro dante causa; o ancora di una pensione, sovente consistente, detta “annuum”; istituti di “clemenza” che tuttavia non entrano in frizione con il principio onde al reo va confiscata la totalità dei suoi beni, compendiando piuttosto graziose ed arbitrarie concessioni del potere imperiale, tipiche espressioni di quell’imperium sul quale si fonda l’intero sistema punitivo in epoca classica (periodo nel quale peraltro – e sul crinale opposto rispetto alla cennata mitigazione di regime – la confisca, operativa nella c.d cognitio extra ordinem e dunque ormai al di fuori del processo formulare, assume il nome di ademptio bonorum, con connotati talvolta di maggiore autonomia rispetto alla irrogazione di specifiche pene principali, e con confluenza dei beni “confiscati” nel Fiscus). Più tardi, le ridette concessiones si trasformano in veri e propri diritti in capo agli eredi del condannato ed anzi, per i casi di condanna a morte, in presenza di eredi la publicatio bonorum prende a non operare più, mentre per le fattispecie di deportazione l’erario continua a vantare diritti sul patrimonio del reo e tuttavia non più per l’intero ma per la metà laddove presenti figli, o per quota ancora minore in caso di presenza di altri eredi oltre ai figli. Nel 421 l’imperatore Teodosio sopprime la distinzione tra condannati a morte ed alla deportazione, con conseguente, sostanziale inoperatività della publicatio bonorum; infine il diritto giustinianeo – pur informato al principio secondo cui “non enim res qui delinquit, sed qui res possident” (non sono le cose a delinquere, ma coloro che posseggono cose) – sostanzialmente conferma la sostanziale soppressione della pena della confisca. Va precisato tuttavia come il regime resti molto rigoroso in caso di condanna per perduellio onde, stante la gravità del reato in tal caso commesso, il condannato continua ad essere punito con la morte e con la confisca generale dei beni.
1889
La codificazione liberale Zanardelli non prevede in via generale quelle che verranno poi definite “misure di sicurezza” (avvincibili al concetto di “pericolosità” del reo); disciplina tuttavia – senza una specifica presa di posizione sul piano della relativa collocazione sistematica – la confisca all’art.36 tra gli “effetti dell’esecuzione delle condanne penali”, onde – in caso di condanna – il giudice può (discrezionalmente) ordinare appunto la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il delitto (non, dunque, la contravvenzione), e delle cose che ne sono il prodotto, purché non appartengano a persone estranee al delitto (così palesandosi già una certa sensibilità per la tutela dei terzi). La norma, al comma 2, precisa poi che ove si tratti di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o vendita costituiscano reato, la relativa confisca è sempre ordinata dal giudice (e dunque non è discrezionale, come nelle ipotesi di cui al comma 1), quand’anche non vi sia condanna ed ancorché esse non appartengano all’imputato (e dunque appartengano a terzi). Un caso particolare di confisca è poi quello disciplinato dall’art.486 del codice onde, in ogni caso di contravvenzione per giuoco d’azzardo, il denaro esposto nel giuoco e gli arnesi od oggetti adoperati o destinati per il medesimo “si confiscano”. Su altro crinale, lo stesso codice prevede poi tra le cause di estinzione della pena la morte del reo all’art.85, il cui comma 2, in caso appunto di morte del condannato, prevede l’estinzione anche della pena pecuniaria non soddisfatta e di tutti gli effetti penali della condanna medesima (che non si trasferiscono, dunque, agli eredi), pur ribadendo tuttavia come detta morte non impedisca l’esecuzione delle confische. Tra le cause di “condono” (oltre che di commutazione) della pena il codice annovera anche l’indulto e la grazia all’art.87, precisando tuttavia ancora una volta (art.89) come il condannato non abbia in ogni caso diritto alla restituzione delle cose confiscate (né delle somme pagate a titolo di pena pecuniaria).
1930
Nel codice penale Rocco la confisca viene prevista all’art.240 quale misura di sicurezza patrimoniale legata ad una intervenuta condanna in sede di cognizione, tanto nella versione facoltativa – onde il giudice penale può ordinare la confisca medesima – quanto nella versione obbligatoria, concernente cose legate al commesso reato, come nel caso (comma 2, n.1) di quelle che ne costituiscono il prezzo. Trattandosi di misura di sicurezza, la confisca soggiace poi al regime di cui all’art.200 onde le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, potendo come tali concernere anche fatti anteriori alla ridetta legge che le prevede; peraltro, se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo della esecuzione. Alla normale retroattività in malam partem delle leggi che prevedeno misure di sicurezza si giustappone la irretroattività di quelle che invece prevedono reati e pene, alla stregua dell’incipit del codice stesso, secondo il cui articolo 1 nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, e secondo il cui articolo 2 nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
1948
Viene varata la Costituzione che all’art.25 prevede in primis (comma 2) come nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, cristallizzando in tal modo il principio di legalità, massime sul crinale della non retroattività della norma penale (sfavorevole). Il successivo comma 3 viene esplicitamente dedicato alle misure di sicurezza, prevedendo che nessuno possa essere sottoposto appunto a dette misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge: viene dunque confermato che è la legge a dire in quali casi può essere applicata una misura di sicurezza, ma in questo ipotesi non necessariamente per fatti commessi dopo, potendo applicarsi anche a fatti commessi antecedentemente alla relativa entrata in vigore. Si prevede poi la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza particolarmente importante in fattispecie, come le misure di sicurezza (anche) patrimoniali, in cui la pericolosità del soggetto diviene motivo di rimprovero al soggetto medesimo e “causa” della misura stessa, nell’interesse generale.
1950
Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Importante qui, ratione materiae, il relativo articolo 7, significativamente rubricato nulla poena sine lege, secondo il cui comma 1 nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale, né può essergli inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Al comma 2 si chiarisce poi che nessun ostacolo verrà frapposto al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. La norma ricollega la irretroattività ad una nozione “sostanziale” di pena, alla quale potrebbe essere ricondotta – per quanto concerne l’Italia – anche quella che formalmente è una misura di sicurezza, per la quale vige invece il principio opposto della retroattività applicativa ex art.200 c.p., profilandosi in tal modo una potenziale frizione tra le due disposizioni, almeno per quanto concerne confische di tipo diverso rispetto a quella di cui all’art.240 c.p., quali verranno via via introdotte dal legislatore interno.
1955
Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.
1992
L’8 giugno viene varato il decreto legge n. 306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita’ mafiosa.
Il 7 agosto viene varata la legge n.356 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.306.
1994
Il 20 giugno viene varato il decreto legge n.399, che dispone (con l’art. 2, comma 1) l’introduzione dell’art. 12.sexies nel decreto legge n.306.92. Fa il proprio ingresso nel sistema ordinamentale la figura della c.d. confisca “allargata”, di natura obbligatoria, applicabile in seguito a condanna per taluni delitti di stampo mafioso ovvero concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti. Si tratta di confisca “allargata” perché muove dalla individuazione di tutti i beni rientranti nella disponibilità del condannato, quand’anche per interposta persona, e dalla presa d’atto della sproporzione tra tale patrimonio complessivo ed i redditi dichiarati o comunque derivanti da attività lecite del medesimo, senza che il condannato riesca a giustificare tale sproporzione provando la provenienza (lecita) delle entità patrimoniali “fuori asse” rispetto alle proprie entrate reddituali: in queste ipotesi, il surplus “sproporzionato” è appunto oggetto di confisca “allargata”.
L’8 agosto viene varata la legge n.501 che converte, con modificazioni, il decreto legge 399.
1995
Il 9 febbraio esce la sentenza della Corte EDU n. 307A/1995, Welch v. Regno unito, che assume in frizione con i principi sanciti dall’art. 7 della CEDU l’applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile ad un’ipotesi di confisca “per equivalente” (come tale, avente ad oggetto beni non avvinti direttamente al reato, ma di valore corrispondente al profitto che dal reato stesso ha ritratto il soggetto agente).
2001
Il 13 febbraio viene varata la legge n.45, il cui art.24 estende il regime della confisca allargata di cui all’art.12.sexies del decreto legge 306.92 alla condanna per delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.
2004
Il 19 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.920, Montella, che si occupa della c.d. confisca “allargata”. Per la Corte il legislatore, nel disegnare tale peculiare tipo di misura ablatoria, non ha previsto alcun collegamento tra il singolo e specifico episodio criminoso per il quale il soggetto viene condannato e la provenienza dei beni o delle utilità oggetto di confisca. E’ sufficiente infatti che il soggetto venga condannato per uno dei reati previsti dalla legge – e che si accerti che egli “comunque” disponga un patrimonio sproporzionato rispetto ai propri redditi leciti senza che possa giustificare la provenienza di tale surplus sproporzionato – per procedere alla confisca in parola: si è dunque al cospetto, per la Corte, di una misura di sicurezza atipica che ha funzione di tipo preventivo e dissuasivo, e che si fonda su una presunzione relativa di ingiustificata locupletazione, in forza della quale si aggrediscono poste patrimoniali del soggetto inciso. La funzione della misura ablatoria è dunque special-preventiva, e come tale non impone la prova positiva di un collegamento, sub specie di nesso di derivazione, tra i beni confiscabili ed il reato per il quale si è proceduto, né più in generale tra i ridetti beni confiscabili e l’attività criminosa portata avanti dal soggetto interessatovi, potendo essa essere applicata anche qualora i beni che contribuiscono alla sproporzione (o comunque parte di essi) sia stata acquisita dal soggetto agente prima del reato commesso, la condanna per il quale dà la stura alla confisca medesima, ovvero dopo di esso, e quand’anche il relativo valore superi il concreto provento del delitto, per l’appunto, oggetto di condanna. In sostanza, data la condanna di un soggetto per un determinato delitto (tra quelli previsti dalla legge ai pertinenti fini), si profila pericolosa la detenzione attuale di un cospicuo ed ingente patrimonio (beni) in capo al soggetto medesimo a prescindere dalla provenienza (anche in termini temporali) o dalla destinazione dei beni medesimi, onde non è pericoloso il coacervo di beni in sé considerato, quanto piuttosto i detti beni nella loro specifica relazione con il soggetto condannato, in forza di una presunzione di pericolosità di tale relazione: onde il fatto che tale soggetto disponga di un patrimonio sproporzionato rispetto alla propria lecita redditualità, e che si tratti di un soggetto condannato per particolari (e gravi) delitti lascia affiorare – seppure per via presuntiva – una pericolosità sociale ed insieme una capacità criminale (tanto sul crinale oggettivo quanto su quello soggettivo) tale da imporre e legittimare appunto la confisca del surplus patrimoniale che il condannato non è capace di giustificare in termini di legittima provenienza rispetto al proprio reddito lecito. In conclusione, le SSUU ribadiscono la natura di misura di sicurezza “atipica” della confisca c.d. “allargata”, secondo uno stilema pretorio che sarà confermato dalla giurisprudenza successiva della Corte, cimentantesi in vario modo sul riparto dell’onere della prova tra PM e soggetto inciso dall’ablazione. Tra le considerazioni più interessanti operate dalla Corte vi è anche quella afferente al modus con il quale il giudice del merito deve accertare la sproporzione tra reddito dichiarato o attività economica lecita esercitata, da un lato, e beni acquistati, dall’altro: per la Corte non si tratta di operare un raffronto a livello globale (con riguardo al patrimonio come complesso unitario), ma con riferimento ai singoli acquisti di beni, onde va raffrontato il valore dei beni di volta in volta acquisiti dal soggetto attivo e rapportarla al reddito e all’attività economica dello stesso così come si compendiano nel momento appunto di ciascun singolo acquisto.
2006
Il 27 dicembre viene varata la legge n.296 (legge finanziaria 2007), il cui art.1 estende il regime della confisca allargata di cui all’art.12.sexies del decreto legge 306.92 alla condanna per taluni reati contro la PA.
2007
Il 24 dicembre viene varata la legge n.244, il cui articolo 1, comma 143, estende ai reati tributari – segnatamente, quelli previsti dagli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10.bis, 10.ter,e 11 del decreto legislativo 74.00 – la c.d. confisca “per equivalente”, come tale avente ad oggetto beni del reo per un valore corrispondente a quello del profitto ritratto dal reato.
2008
Il 23 maggio viene varato il decreto legge n.92, che reca misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e che introduce nell’art.2.bis della legge 575.65 (attraverso il relativo articolo 10, comma 1, lettera c) un comma 6.bis, alla cui stregua le misure di prevenzione (antimafia) personali e patrimoniali – tra queste ultime, in particolare la confisca – possono essere richieste e applicate disgiuntamente.
Il 24 luglio viene varata la legge n.125 che converte con modificazioni il decreto legge n.92.
Il 2 luglio esce la sentenza delle SSUU n.26654 che afferma non potersi parlare, nel contesto ordinamentale vigente, di confisca quanto piuttosto di “confische”, trovandosi al cospetto di un sistema di tipo “proteiforme” delle singole “confische” compendiante figure eterogenee tra loro. La pronuncia si occupa segnatamente del profitto del reato oggetto di confisca ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 231/01, identificandolo nel vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto (nel caso di specie, truffa ai danni di enti pubblici, in relazione alla materia dei rifiuti) e chiarendo ad un tempo come la nozione stessa di profitto oggetto di confisca non possa essere estesa (fino ad arrivare ad una duplicazione della sanzione) allorché l’ente, in adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, abbia posto in essere un’attività per i cui risultati economici manchi un nesso diretto ed immediato con il reato medesimo (non potendosi dunque confondere il “profitto del contratto”, non confiscabile, dal “profitto del reato”, confiscabile).
2009
Il 01 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.97, che dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 200, 322-ter del codice penale e 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), sollevata, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare di Trento. Il problema è quello di stabilire se è costituzionalmente legittima la disciplina che prevede la confisca obbligatoria di beni di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto conseguito con il reato (c.d. confisca “per equivalente”), laddove applicata anche ai reati tributari commessi antecedentemente alla entrata in vigore della pertinente disciplina. Il giudice rimettente ha assunto che, poiché il principio di irretroattività della legge penale si applica solo alle norme penali incriminatrici ed alle pene, ma non alle misure di sicurezza, la confisca per equivalente (formalmente, una misura di sicurezza) si applica ex art.200 c.p. anche ai reati tributari commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge 244.07; corollario di questa conclusione è la frizione con l’art.117, comma 1, Cost., attraverso il contrasto con l’art.7 della CEDU (quale parametro di costituzionalità “interposto”): si è al cospetto di un prelievo pubblico che la Cassazione assume di natura “sanzionatoria”, configurando dunque – sostanzialmente ed al di là della relativa qualifica, meramente formale, in termini di misura di sicurezza patrimoniale – una “pena” ai sensi del ridetto art.7, siccome interpretato dalla Corte EDU, con conseguente illegittimità costituzionale della disciplina che ne prevede l’applicazione retroattiva. Per la Corte tuttavia la questione di costituzionalità è manifestamente infondata in quanto non è corretta l’interpretazione della normativa pertinente fornita dal giudice a quo: per la Corte in realtà si tratta di nuove previsioni a carattere non retroattivo. Ciò in quanto, proprio perché si tratta di confisca per equivalente, essa concerne beni intrinsecamente non pericolosi, e peraltro scevri da un rapporto di “pertinenzialità” con il commesso reato, non essendovi avvinti da quel nesso diretto, attuale e strumentale che in genere giustifica la confisca intesa quale misura di sicurezza: si è dunque al cospetto di una misura prevalentemente afflittiva dalla natura eminentemente sanzionatoria, onde ne è impedita già per via interpretativa costituzionalmente orientata la applicabilità a fattispecie pregresse sulla scorta dell’art.200 c.p., che si riferisce a misure di sicurezza non afflittive. Rilevano per la Corte, nel caso di specie, tanto l’art.25, comma 2, Cost., laddove prevede la non retroattività della pena, quanto l’art.7 della CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, richiamando la sentenza n. 307A/1995, Welch v. Regno Unito laddove ha assunto in frizione con i principi sanciti dall’art. 7 della Convenzione l’applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio ad un’ipotesi di confisca per equivalente.
Il 16 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.25096 che, in tema di confisca c.d. “allargata”, ne ribadisce in primo luogo la natura di misura di sicurezza. Nella fattispecie scandagliata il competente Tribunale ha ritenuto tale misura ablatoria non applicabile ad una fattispecie di corruzione commessa prima del gennaio 2007, anno in cui tale genere di confisca è stato esteso a taluni reati contro la PA tra i quali, appunto, la corruzione: per il Tribunale si tratta di una misura la cui natura è sostanzialmente sanzionatoria, onde non opera l’art.200 c.p., quanto piuttosto l’art.2 c.p. (e l’art.25, comma 2, Cost.), con conseguente irretroattività della pertinente previsione estensiva. La Corte, nel cassare il provvedimento del Tribunale, conferma invece la natura preminente di misura di sicurezza della confisca de qua, in una con la funzione essenzialmente special preventiva da essa svolta (intesa non già a punire, quanto piuttosto a neutralizzare la pericolosità sociale del reo, laddove può disporre di un cospicuo patrimonio sproporzionato rispetto al proprio reddito lecito), con conseguente applicazione degli articoli 25, comma 3, Cost. e 199 e 200 c.p., e del principio di retroattività delle misure di sicurezza in essi inscritto.
Il 15 luglio viene varata la legge n.94 che, novellando l’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65, ribadisce che le misure di prevenzione (antimafia) personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente precisando inoltre che, per le misure di prevenzione patrimoniali (e dunque, in primis, per la confisca di prevenzione antimafia), tale applicazione è indipendente dalla pericolosita’ sociale attuale del soggetto proposto al momento della richiesta della misura di prevenzione medesima: in sostanza, se viene meno la pericolosità sociale del proposto, non possono applicarglisi le misure di prevenzione personali, mentre può continuare ad applicarglisi la misura di prevenzione patrimoniale, e dunque la confisca, per la quale l’attualità della ridetta pericolosità non è più requisito imprescindibile di richiesta e di applicazione, pur rimanendo tuttavia necessario l’accertamento da parte del giudice della inquadrabilità del proposto medesimo nel novero di quelli cui può essere applicata la ridetta misura di prevenzione ablatoria.
Il 20 novembre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.301 che – nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 200 e 322-ter del codice penale, dell’art. 321, comma 2, del codice di procedura penale, nonché dell’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questa volta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli – ribadisce le conclusioni già raggiunte con l’ordinanza n.97 del medesimo anno.
2011
Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136. In particolare, la confisca di prevenzione viene disciplinata agli articoli 24 e seguenti del codice, il quale abroga la legge 575.65.
2012
Il 15 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.44534 che ribadisce come la confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992, conv., con modificazioni, in l. n. 356 del 1992 (c.d. confisca “allargata”) esplichi una funzione preventiva e quindi mantenga le caratteristiche proprie della misura di sicurezza patrimoniale, ancorché atipica. Deve quindi ritenersi che essa sia soggetta alla disciplina dettata dal combinato disposto degli art. 200 e 236 c.p. e possa, conseguentemente, trovare applicazione anche nel caso in cui sia correlata a reato commesso prima dell’entrata in vigore della norma che l’ha introdotta nell’ordinamento.
2013
Il 25 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.14044, Occhipinti, che si occupa della questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta. Per la Corte, il fatto che sia venuto meno il requisito della attualità con riguardo alla pericolosità del proposto fa della “nuova” confisca di prevenzione antimafia non più una misura di sicurezza (in termini di natura giuridica), l’obiettivo preso di mira dal legislatore palesandosi non più quello di neutralizzare la pericolosità sociale del proposto; si tratta ormai, piuttosto, di una misura ablatoria che si connota per una finalità decisamente afflittiva e sanzionatoria, atteggiandosi ormai più a pena in senso proprio che a misura di sicurezza, con conseguente soggezione della nuova disciplina del 2008-2009 al principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici, in piena conformità peraltro sia con l’art.25, comma 2, Cost., sia con l’art.7 della CEDU.
Il 23 aprile esce la sentenza delle SSUU n.18374, onde la confisca per equivalente introdotta per i reati tributari dall’art.1, comma 143, della legge n.244.07 (finanziaria 2008) ha natura eminentemente sanzionatoria, non potendosi applicare – come tale – retroattivamente per inoperatività con riguardo ad essa dell’art.200 c.p.
Il 23 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.39204, Ferrara, che si occupa ancora della questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta. Per la Corte, che va in contrario avviso rispetto al precedente di marzo della V sezione, anche dopo la novella del 2008-2009, la confisca di prevenzione antimafia resta, quanto a natura giuridica, una misura di sicurezza e non una pena, con conseguente possibilità di applicazione retroattiva della nuova disciplina. Tale confisca mira infatti a neutralizzare una pericolosità che deriva da come il capitale illecito oggetto di confisca è stato acquistato dal proposto: è come il proposto ha accumulato il patrimonio illecito che è pericoloso, onde la confisca si pone l’obiettivo di sottrarre questo patrimonio “originariamente” pericoloso dal circuito del sistema economico legale, al fine di scongiurare che tale circuito economico legale possa essere alterato da accumuli anomali di ricchezza illecita. In sostanza, anche se non serve più l’attualità della pericolosità per applicare la confisca di prevenzione antimafia, occorre comunque neutralizzare il “modus” pericoloso con il quale il proposto medesimo ha illecitamente accumulato ricchezza. Per questo motivo si tratta ancora – quanto a natura giuridica – di misura di sicurezza, che soggiace al regime di cui all’art.200 c.p. ed alla conseguente possibile applicazione retroattiva.
2014
L’11 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.11752 che rimette alle SSUU la delicata questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta.
2015
Il 2 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4880 che ribadisce, assecondando l’orientamento pretorio maggioritario, la natura giuridica di “misura di sicurezza”, e non già di “pena”, della confisca di prevenzione antimafia uscita dalla novella del 2008-2009, quand’anche essa prescinda ormai dal predicato d’attualità della pericolosità del proposto, con conseguente possibile applicazione retroattiva del nuovo regime ai sensi dell’art.200 c.p. Non si tratta, afferma la Corte, di una misura afflittiva para-penale, quanto piuttosto ancora di una misura di sicurezza in quanto essa può essere applicata, indefettibilmente, solo previo accertamento della pericolosità sociale del proposto, ancorché non debba più trattarsi di una pericolosità “attuale”; in sostanza, il giudice è dispensato solo dal verificare che la pericolosità sociale sia attuale, ma non già dall’accertamento della pericolosità stessa che deve pur sempre essere acclarata, indipendentemente dall’epoca in cui si è manifestata. Resta fondamentale per la Corte accertare che il proposto rientra nelle categorie “soggettive” di pericolosità siccome disegnate dal legislatore, ancorché con riferimento all’acquisto delle res oggetto di confisca, senza che tale pericolosità permanga come tale al momento in cui la misura ablatoria viene richiesta e irrogata: l’attualità della pericolosità del proposto è infatti indefettibile presupposto delle sole misure di prevenzione personali, che non possono essere applicate ad un soggetto che non sia “attualmente pericoloso”, mentre discorso diverso va fatto per le misure di prevenzione patrimoniali, come appunto la confisca, laddove la pericolosità è connotazione immanente alla res e sgorga dalla relativa illecita acquisizione, con conseguente inerenza della pericolosità alla res medesima in via permanente e tendenzialmente indissolubile. Per la Corte occorre considerare un dato della realtà fenomenica che è decisamente scontato, compendiantesi nella contrapposizione ontologico-naturalistica tra persona e res: alla prima (persona) va ordinariamente associato un certo qual dinamismo legato all’evoluzione propria dell’essere umano nel relativo percorso esistenziale, onde in sostanza una persona pericolosa può ad un certo punto divenire non più tale, non potendosi dunque applicare misure di prevenzione personali; alla seconda (res) è invece inerente una certa qual strutturale staticità che – lasciando da parte possibili erosioni legate a vetustà o ad agenti atmosferici – ne mantiene nel tempo l’oggettiva consistenza, onde – pare di capire dal ragionamento della Corte – la pericolosità “genetica” della res, avvinta alla relativa illecita acquisizione da parte del proposto, non muta nel tempo (anche se il proposto, come persona, non è più pericoloso) e resta condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione di una misura ablatoria (la confisca di prevenzione antimafia) che è diretta a neutralizzare tale pericolosità della res sganciandola dal soggetto che ne ha la disponibilità, con conseguente natura di “misura di sicurezza” ed applicabilità retroattiva.
Il 23 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12047 onde la confisca c.d. “allargata” prevista dal D.L. 8 giugno 1992 n. 306, art. 12 sexies, non può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna, giacché da un lato si vanificherebbe ogni distinzione della disciplina di tale tipo di confisca con quella delle misure di prevenzione e, dall’altro, si attribuirebbero al giudice dell’esecuzione compiti di accertamento tipici del giudizio di cognizione.
2017
Il 17 ottobre viene varata la legge n.161 che – oltre ad innovare significativamente l’impianto normativo in tema di prevenzione patrimoniale finalizzata al contrasto della criminalità organizzata di tipo mafioso (novellando ratione materiae il c.d. codice antimafia) – rivede con consistenti novità anche la c.d. confisca allargata o per sproporzione, introdotta dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 convertito nella L. 356/1992, incidendo tanto sul crinale processuale quanto su quello sostanziale. Sul piano processuale, importante la nuova previsione onde i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni sequestrati di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo vanno citati in giudizio in modo da garantire la relativa partecipazione al contraddittorio e tutelarne i diritti di difesa, con attribuzione al giudice competente di funzioni assimilabili a quelle proprie del giudice delegato nelle procedure di prevenzione patrimoniale. Viene poi assegnato al giudice dell’esecuzione il potere di confisca sia allargata che per equivalente allorché vi si debba provvedere dopo il passaggio in giudicato della sentenza, disponendosi che in caso di morte del destinatario di una confisca pronunciata con sentenza di condanna il procedimento prosegue nei confronti degli eredi o aventi causa. Sul crinale sostanziale, oltre ad un ulteriore ampliamento dell’elenco delle fattispecie incriminatrici che implicano tale tipologia di confisca (viene ora richiamata l’intera categoria dei reati menzionati dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.), la confisca “allargata” è ora disposta anche nei casi in cui il giudizio si concluda con sentenza di non doversi procedere per amnistia o prescrizione, purché in precedenza sia comunque già intervenuta una sentenza di condanna nel merito; viene inoltre esplicitamente esclusa l’efficacia della giustificazione della legittima provenienza dei beni confiscabili fondata sulla dimostrazione della disponibilità di redditi nascosti all’amministrazione finanziaria e quindi oggetto di evasione, onde l’evasione fiscale non costituisce più “giustificazione” al fine di scongiurare la misura ablatoria de qua, nel senso onde essa rileva ormai in malam partem ed a fini di “sproporzione”, non più in bonam partem ed a fini di “proporzione”.
*Il 27 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.53625 onde la confisca c.d. “allargata” prevista dal D.L. 8 giugno 1992 n. 306, art. 12 sexies, non può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna, giacché da un lato si vanificherebbe ogni distinzione della disciplina di tale tipo di confisca con quella delle misure di prevenzione e, dall’altro, si attribuirebbero al giudice dell’esecuzione compiti di accertamento tipici del giudizio di cognizione.
2018
Il 21 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 33 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dell’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui include il delitto di ricettazione tra quelli per i quali, nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, è sempre disposta la speciale confisca prevista dal medesimo art. 12-sexies.
Il 20 marzo esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16 onde l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6, letto in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della direttiva medesima, impone agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive per le violazioni del divieto di abuso di informazioni privilegiate. Se è pur vero che la Corte ha statuito che l’articolo 14, paragrafo 1, di detta direttiva si limita a imporre agli Stati membri l’obbligo di prevedere sanzioni amministrative che presentino siffatte caratteristiche, senza imporre agli Stati membri di prevedere anche sanzioni penali nei confronti degli autori di abusi di informazioni privilegiate, cionondimeno gli Stati membri possono anche legittimamente prevedere un cumulo di sanzioni penali e amministrative, sia pure nel rispetto dei limiti che risultano dal diritto dell’Unione e, segnatamente, dei limiti derivanti dal principio del ne bis in idem, garantito dall’articolo 50 della Carta, posto che questi ultimi si impongono, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, di quest’ultima, in sede di attuazione del diritto medesimo. Tuttavia, l’applicazione di sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive, prevista dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 nell’ipotesi di violazione del divieto di abusi di informazioni privilegiate, presuppone che le autorità nazionali competenti accertino fatti che dimostrino l’esistenza, nella fattispecie in esame, di un’operazione tale da giustificare l’irrogazione di una sanzione amministrativa. Orbene, ai sensi dell’articolo 187 undecies del TUF, la Consob dispone della facoltà di partecipare al procedimento penale, segnatamente costituendosi come parte civile, ed è inoltre tenuta, ai sensi dell’articolo 187 decies del TUF, a trasmettere alle autorità giudiziarie la documentazione raccolta nell’esercizio della sua attività di controllo. Alla luce di tali elementi, risulta che la Consob può effettivamente accertare che una sentenza penale di condanna o, come nel caso dei procedimenti principali, di assoluzione sia pronunciata tenendo conto di tutti gli elementi di prova di cui dispone detta autorità ai fini dell’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 187 bis del TUF. Pertanto, l’autorità di cosa giudicata che una disposizione nazionale conferisce alle affermazioni in punto di fatto di una siffatta sentenza penale nei confronti del procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa non osta a che violazioni della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate possano essere accertate e sanzionate in modo effettivo nell’ipotesi in cui, a termini di tale sentenza penale, i fatti in causa siano provati. Nell’ipotesi opposta, l’obbligo, prescritto agli Stati membri dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6, di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive non potrebbe portare a escludere l’autorità di cosa giudicata che una sentenza penale di assoluzione possiede in forza di una disposizione nazionale quale l’articolo 654 del CPP, nei confronti di un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa vertente sui medesimi fatti di cui detta sentenza ha statuito che non risultano provati. Una tale valutazione fa salva la possibilità, prevista dall’articolo 4, paragrafo 2, del protocollo n. 7 alla CEDU, di eventuale riapertura del processo penale, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza penale pronunciata.
Il 29 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 24156 onde non appare rilevante il rischio di una duplicazione di conseguenze patrimoniali sfavorevoli per gli imputati a causa della previsione di cui all’art. 322-ter cod. pen., che impone la confisca dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato o di beni di valore corrispondente, e la funzione del risarcimento del danno correlata alla costituzione di parte civile nel processo. La funzione dell’istituto della confisca e quello del risarcimento del danno sono, infatti, nettamente differenziate tra di loro poiché l’istituto della confisca vuole evitare che il reo tragga un vantaggio economico dal reato; non opera a vantaggio della vittima e anche nel caso in cui sia disposto in forma diretta ha natura specificamente sanzionatoria mentre il secondo, mira specificamente al ristoro del danneggiato e prescinde dall’esistenza di vantaggi conseguiti dal reo, che potrebbero anche non essersi realizzati. La costituita parte civile, assume la posizione di vittima e non vi sono ragioni per escludere l’applicabilità della previsione di cui all’art. 185, secondo comma, cod. pen., fermo restando l’apprezzamento riservato al giudice di merito, per individuare il concreto contenuto del danno non patrimoniale e l’adozione, ai fini del perseguimento del ristoro del danno subito, delle procedure di legge a tanto preposte, e che non possono essere superate mediante la retrocessione alla parte civile della somma di denaro confiscata.
Il 28 giugno esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU sul caso G.i.e.m.S.r.l.ealtri c. Italia ove, compiendo un passo indietro rispetto al precedente giudizio sul caso Varvara, viene affermata la compatibilità convenzionale della confisca urbanistica disposta a seguito di un proscioglimento per prescrizione, pur ribadendo la necessità di accertare tutti gli elementi costitutivi del reato di lottizzazione abusiva. Tuttavia, la Corte ritiene che la sentenza che applichi la confisca urbanistica a una persona fisica o giuridica che non abbia preso parte al processo nel cui ambito la misura è stata disposta viola il principio secondo cui un soggetto non può essere punito per un atto relativo alla responsabilità di altri ed è quindi incompatibile con l’art. 7 Cedu; principio applicabile in quanto tale pronuncia deve essere qualificata condanna ai sensi del citato art. 7. Inoltre, una simile condanna si pone altresì in contrasto con l’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 Cedu in quanto interferente con il diritto di proprietà in modo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito dalla misura ablativa. In proposito la dottrina ha subito evidenziato la necessità di individuare una interpretazione convenzionalmente conforme dell’istituto che il giudice nazionale possa fare propria, nelle more di un auspicato intervento legislativo che gli restituisca compatibilità convenzionale
3 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 29923 onde ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su un conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura fungibile del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto dell’ablazione e il reato, poiché la misura de qua non deve necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale. Pertanto, il sequestro preventivo funzionale alla confisca diretta può avere ad oggetto anche le somme di denaro che siano entrante nella disponibilità dell’ente percettore del profitto del reato soltanto in epoca successiva all’esecuzione del decreto applicativo della misura cautelare reale, fino alla concorrenza e nei limiti dell’importo confiscabile indicato nell’originario provvedimento ablatorio.
Il 2 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 37558 che ribadisce i noti principi espressi dalla giurisprudenza in materia di tutela dei terzi creditori in costanza della disciplina previgente, già positivamente orientata, nella sua evoluzione – posta la necessità di contemperare la natura della confisca «speciale», prevista dalla normativa antimafia, e la tutela del diritto di credito assistito da garanzia reale sulla res confiscata in capo a un terzo potenzialmente estraneo all’attività illecita «a ritenere che la devoluzione del bene alla mano pubblica non comporta di per sé la totale ‘cancellazione’ della storia del bene medesimo e non comporta l’automatica estinzione dei diritti dei terzi gravanti sull’oggetto, a condizione che il terzo, pur se creditore garantito da ipoteca, dimostri in concreto la sua posizione di ‘buona fede’ e di ‘affidamento incolpevole’ nei momenti essenziali della intervenuta contrattazione civilistica». La configurazione della nozione di estraneità al reato su basi esclusivamente oggettive, indipendenti cioè dall’affidamento incolpevole, oltre a contrastare con i principi accolti dall’ordinamento in ordine alla circolazione giuridica dei beni mobili, condurrebbe a risultati lesivi del principio di personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27, primo comma, Cost. (sent. n. 232 del 1998) e ha puntualizzato che la salvaguardia del preminente interesse pubblico non può giustificare il sacrificio inflitto al terzo, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, soltanto ed esclusivamente quando esso sia in buona fede, dovendo considerarsi la sua posizione tutelabile quando possa utilmente richiamarsi il «principio della tutela dell’affidamento incolpevole, che permea di sé ogni ambito dell’ordinamento giuridico» (Corte Cost. n. 1 del 1997).
Il 7 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 50157 onde relazione alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, suscettibile dapprima di sequestro e poi di confisca, è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria In altri termini, deve ammettersi che il giudice penale ben possa, sulla scorta di elementi di fatto, discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con l’agenzia delle entrate, ma nell’esercizio di tale autonomo potere deve darne congrua argomentazione, diversamente ragionando si perverrebbe alla introduzione di una pregiudiziale tributaria non prevista nell’ordinamento giuridico.
L’8 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 50949 che afferma come nessuna norma sanziona penalmente l’uso non autorizzato di marchi o segni distintivi autentici apposti si beni che non abbiano caratteristiche intrinseche tali da non potere essere commercializzati secondo il contratto fra titolare del marchio e produttore dei beni dal marchio contrassegnati; tale commercializzazione costituisce, in tesi, illecito civile, atteso che, per il divieto di analogia in materia di norme incriminatrici, non può ritenersi configurabile né il reato previsto dall’art. 474 cod. pen. (che punisce, per quanto qui interessa, il commercio di prodotti con marchi o segni distintivi contraffatti o alterati, ma non l’utilizzazione di marchi o segni distintivi autentici senza o oltre il consenso del titolare), né quello previsto dall’art. 471 cod. pen. – che punisce l’uso non autorizzato di sigilli e strumenti di autenticazione “veri”, ma non quello di marchi o altri segni distintivi.
Il 30 novembre esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n. 30990 che ribadisce l’orientamento secondo cui l’eventuale conflitto tra i diritti dei creditori del condannato stesso (anche se essi siano assistiti da garanzia reale sul bene e/o abbiano già proceduto al pignoramento) e quelli dello Stato, beneficiario del provvedimento stesso, non si risolve, sul piano civilistico, in base all’anteriorità della iscrizione o trascrizione nei registri immobiliari dei relativi acquisti, essendo sufficiente, per la prevalenza degli effetti civili della confisca, che questa intervenga (a prescindere dalla sua trascrizione) nel momento in cui il bene confiscato risulti ancora di proprietà del condannato (o quanto meno esso non sia stato già oggetto di un provvedimento di aggiudicazione in favore di un terzo, in sede di esecuzione forzata, secondo quanto espressamente previsto dalle disposizioni in tema di confisca di prevenzione: in questo senso, dunque, e solo in questo senso, può affermarsi la natura “derivativa” del relativo acquisto in favore dello Stato); il suddetto conflitto, ai fini della tutela dei diritti dei terzi creditori, può essere risolto invece sul piano penalistico, in sede di incidente di esecuzione della misura.
Il 3 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 54024 che esclude la confisca ex art. 609-septies c.p. ai casi di condanna per il reato di caporalato. Eventualmente, i beni che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del delitto potranno essere confiscati solo in ragione della specifica previsione dell’art. 603-bis n. 2 c.p., con esclusivo riferimento ai fatti commessi a decorrere dal 4.11.2016, data di entrata in vigore di tale ipotesi specifica di confisca obbligatoria, diretta o per equivalente.
2019
Il 3 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 105 onde, pur rilevato, in linea di principio, che nei confronti del soggetto impersonale il quale, in via di fatto, si sia avvantaggiato della commissione del reato fiscale commesso dal proprio legale rappresentante, è ammissibile la sola confisca diretta e non anche quella per equivalente (laddove non ricorra la ipotesi residuale del soggetto persona giuridica che costituisca, tuttavia, un mero schermo dietro il quale agisca direttamente la persona fisica del suo amministratore, ipotesi nella quale è consentita, attesa la mera apparenza della soggettività della persona giuridica, anche la confisca per equivalente), va tuttavia, altresì, ricordato che, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, in caso di sequestro di danaro, la misura cautelare deve intendersi prodromica ad una confisca diretta, posto che il danaro, costituendo comunque il frutto del risparmio di spesa derivante dall’omesso versamento tributario, è, stante la naturale fungibilità del bene in questione, ordinariamente legato ad un rapporto di pertinenzialità con il reato in provvisoria contestazione.
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Il 10 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 15745 onde, in tema di reati fiscali, la confisca per equivalente non si applica ai fatti di occultamento o distruzione di documenti contabili commessi fino al 20 ottobre 2015, data di entrata in vigore dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000.
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Il 23 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 17399 in tema di lottizzazione abusiva secondo cui, pur se resta estraneo al relativo procedimento penale, l’acquirente degli immobili, in cui tale reato edilizio si è concretato, non è automaticamente qualificabile come terzo in buona fede rispetto all’attività criminosa; in altri termini, non può, sempre automaticamente, rimanere indenne dalla confisca degli immobili stessi. Infatti, qualora – al momento dell’acquisto e nel periodo delle prodromiche trattative – si comporti in modo imprudente e negligente, con tale condotta l’acquirente si pone in una situazione di inconsapevolezza che apporta un determinante contributo causale all’attività illecita.
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Il 24 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 17535 secondo cui, nei reati dichiarativi, come l’omesso versamento IVA, la sanzione tributaria non rientra nel concetto di “profitto”, ma di “costo” del reato, che trova origine nella commissione del reato e, di conseguenza, la commisurazione della confisca anche sull’importo della sanzione tributaria deve ritenersi illegittima, dovendo individuare il profitto nella sola imposta evasa.
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Il 10 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 112 che, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; viene inoltre dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.
Secondo la Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.
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Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 26255 che richiama l’orientamento secondo cui solo l’integrale pagamento del debito può condurre alla non operatività della confisca, essendo insufficiente la mera ammissione ad un piano rateale di pagamento o il parziale pagamento.
La natura sanzionatoria della confisca per equivalente ed il tenore della norma che prevede la misura ablativa rende illegittimo il ragionamento del giudice del patteggiamento che applichi incongruamente il principio espresso nella pronuncia Sez.3, n. 44446 del 15/10/2013, secondo cui “la confisca del profitto non può essere disposta nel caso di restituzione integrale all’erario della somma anticipata dallo Stato, giacché tale comportamento elimina in radice l’oggetto della misura ablatoria”. Il principio affermato, invero esclude implicitamente che un adempimento parziale possa autorizzare a non disporre la confisca del profitto.
L’elisione del profitto illecito può avvenire soltanto come conseguenza di «integrale pagamento del profitto realizzato» e non in presenza di un programma di rateizzazione delle somme dovute, dall’esito incerto fino all’ultima rata. A tale applicazione dell’istituto non potrebbe conseguire una duplicazione dei versamenti, atteso che la stessa confisca sarà interamente operativa solo con il verificarsi delle condizione del mancato pagamento dei ratei e quindi, dopo il passaggio in giudicato della decisione, il Pubblico Ministero potrà mettere in esecuzione la misura qualora sia stato accertato l’inadempimento dell’accordo ed il mancato versamento dei ratei previsti.
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Il 3 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 29091 che richiama il principio secondo cui in caso di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato.
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Il 22 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 36341 che affronta la questione giuridica afferente alla confisca del bene sequestrato a seguito di una sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.
Orbene, negli ultimi anni si è assistito ad un vero e proprio dialogo, in alcuni casi acuitosi fino ad apparire come un vero e proprio scontro, tra le Corti nazionali e sovranazionali sulla questione afferente l’indefettibilità di una sentenza di condanna per l’applicazione della confisca. Ovviamente non di scarso rilievo sono le conseguenze derivanti dall’individuazione o meno nella prima di un presupposto della seconda, essendo in gioco da un lato le molteplici finalità politico-criminali della misura ablativa (reintegrare l’ordine giuridico violato – funzione compensativo/riparatoria; garantire un effetto deterrente-funzione generai/preventiva o neutralizzante- funzione special/preventiva), dall’altro la salvaguardia degli interessi individuali del destinatario del provvedimento.
Il problema dell’applicabilità della confisca in assenza di un espresso accertamento della responsabilità penale si presenta, ga va sans dire, non nei casi di proscioglimento per insussistenza del fatto, ma piuttosto in quelle situazioni processuali in cui, sebbene non si sia giunti ad una sentenza di condanna in senso formale, sia tuttavia emersa obbiettivamente, nel corso del procedimento, la commissione del fatto tipico e la sua ascrivibilità all’imputato, come può verificarsi qualora quest’ultimo venga prosciolto per l’intervento di una causa di estinzione del reato. Il contesto normativo nazionale non fornisce alcun appiglio all’interprete, dal momento che la previa condanna è indicata positivamente come presupposto solo per alcune figure di confisca (art. 240, c.1, c.p.; art. 12-sexies L. n. 356/1992), sebbene non siano mancate pronunce giurisprudenziali che hanno affermato la non necessarietà della condanna, e ciò, presumibilmente, proprio al fine di consentire l’esplicazione delle sue funzioni politico-criminali della confisca, recte compensative e preventive, diverse da quella punitiva. A tale confusione si aggiunge quindi la peculiare ambiguità funzionale della misura ablativa. Non mancano tuttavia ipotesi in cui è normativamente esclusa la condanna come presupposto per l’applicazione della confisca, come ad esempio per le cose obbiettivamente illecite (art. 240, c.2, c.p.) o ancora la confisca di prevenzione la quale in quanto misura ante o praeter delictum, non richiede il previo accertamento della commissione di un reato.
Proprio con riferimento a tali fattispecie, e per quelle relativamente alle quali il presupposto-condanna non costituisce un dato certo, è sorto il dubbio sulla compatibilità con i principi costituzionali e con le fonti sovranazionali sovraordinate.
Infatti, mentre la previsione di cui al secondo comma dell’art. 240 c.p. appare coerente con la sua finalità, ossia sottrarre alla disponibilità dei privati cose illecite in quanto dotate, per presunzione legislativa, di intrinseca pericolosità, ciò giustificando il sacrificio del diritto di proprietà del titolare anche se non formalmente condannato, più complicata è l’applicabilità della confisca in assenza di pronuncia di condanna penale per confisca “di prevenzione”, soprattutto agli occhi di coloro che vedono in tale misura patrimoniale una vera e propria pena mascherata che, in quanto sostanzialmente tale, non dovrebbe essere applicabile al di fuori delle garanzie del processo penale e in assenza di condanna penale.
Per le figure di confisca rispetto alle quali il presupposto della condanna non è, a livello normativo, né espressamente escluso né previsto, sono sorti nella giurisprudenza non pochi contrasti, sopiti solo temporaneamente da una sentenza del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale aveva accolto la tesi favorevole al vincolo condanna-confisca. Successive sentenze hanno ammesso il potere del giudice, in caso di proscioglimento per estinzione del reato, di procedere ugualmente, ai fini della confisca, ad accertare la responsabilità penale dell’imputato. Una ulteriore sentenza del giudice (Sez. U, n. 31617 del 26 giugno 2015, n. 31617) di legittimità nella sua più autorevole composizione è giunta ad una posizione “mediana”, riconoscendo l’applicabilità della confisca diretta del prezzo del reato anche in caso di. intervenuta prescrizione, purché nel corso del processo fosse già intervenuta pronuncia di condanna, ovviamente non definitiva, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del fatto illecito, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato.
In tema di lottizzazione abusiva, la dottrina si è divisa circa la natura della confisca prevista dall’art. 44, c.2, D.P.R. n.380/2001: secondo taluni essa costituiva una misura di sicurezza patrimoniale; secondo talaltri una sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale. Tale ultimo orientamento è quello condiviso dalla giurisprudenza, rilevando l’impossibilità di parlare di un istituto assimilabile alla confisca facoltativa, ex all’art. 240, c.1, c.p., in quanto obbligatoria da irrogare indipendentemente da una sentenza di condanna, considerando anche che i terreni sono destinati al patrimonio comunale invece che a quello statale. Analogamente non potrebbe parlarsi di confisca obbligatoria, ai sensi del secondo comma dell’art. 240 c.p., essendo il terreno abusivamente frazionato non intrinsecamente connotato da pericolosità, sanzionandosi piuttosto una specifica destinazione di esso la quale sarà antigiuridica se non autorizzata.
La giurisprudenza dominante, sulla base del dato testuale dell’art. 44, c. 2, D.P.R. n. 380/2001, era pervenuta alla conclusione che la condanna non fosse presupposto necessario di applicabilità della misura, conclusione confortata non solo dal silenzio del legislatore ma anche dalla asserita natura di sanzione amministrativa della confisca, applicabile dunque anche in caso di assoluzione per causa diversa dall’insussistenza del fatto, laddove fosse stata accertata in giudizio la realizzazione obiettiva del fatto tipico. È stato però osservato che la confisca in questione interessa un duplice oggetto, ossia i terreni e fabbricati oggetto di lottizzazione, apparendo diversa la funzione politico-criminale della misura a seconda che si prendano in considerazione gli uni o gli altri: mentre la confisca delle opere abusivamente costruite è teleologicamente diretta al ripristino dello status quo ante, il quale sembra opportuno garantire anche in assenza di una condanna in senso formale, relativamente ai terreni abusivamente lottizzati non si rinverrebbe una funzione riparatoria/ripristinatoria, bensì, essenzialmente, ad una punitiva e general/preventiva, con indefettibilità dell’accertamento della responsabilità penale.
Tale orientamento è stato ridimensionato a seguito della pronuncia della Corte EDU sul caso Sud Fondi c. Italia del 2009: i giudici di Strasburgo, rilevata la finalità non meramente compensativo/riparatoria della confisca (proprio in virtù della sua applicazione, nel caso concreto, anche a terreni non ancora edificati), hanno affermato la natura sanzionatoria della misura, con conseguente applicazione delle garanzie previste dalla Cedu per la materia penale. I giudici nazionali, sebbene abbiano aderito alla tesi della natura sanzionatoria della confisca, negandone l’applicabilità nelle ipotesi di assoluzione per assenza di colpevolezza, hanno comunque continuato ad ammetterla, pur in assenza di una condanna formale, per i casi di proscioglimento motivato dalla esistenza di una causa di estinzione del reato (soprattutto per prescrizione).
In tale quadro vengono a collocarsi la sentenza del 2013 della Corte Edu sul caso Varvara c. Italia, alla quale fece seguito la pronuncia della Corte Costituzionale n.49/2015.
Con la prima decisione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato la posizione precedentemente espressa circa l’incompatibilità con diverse norme Cedu (l’art. 7 e dell’art. 1, prot. n. 1) dell’applicazione della confisca urbanistica in assenza di condanna, sebbene in tale fattispecie il proscioglimento era stato dovuto all’estinzione del reato per prescrizione (ipotesi nella quale la giurisprudenza italiana aveva manifestato maggiori resistenze vertendosi in ipotesi in cui, sebbene il reato fosse stato accertato in tutti i suoi elementi costitutivi, la punibilità risultava tuttavia preclusa a seguito dell’intervento della prescrizione).
La Corte Costituzionale, investita di due questioni di legittimità dell’art. 44, c. 2, D.P.R. n. 380/2001, ne ha dichiarato l’inammissibilità, procedendo ad una reinterpretazione della disposizione la quale potesse essere ritenuta compatibile con i principi costituzionali e, al contempo, con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, rammentando che il dovere del giudice di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Cedu è comunque subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, riflettendo tale modus operandi il “predominio assiologico” della Costituzione sul testo convenzionale. Il giudice delle leggi ha abbracciato una posizione mediana, sostenendo la non automatica preclusione dell’applicabilità della confisca urbanistica nel caso in cui non si sia pervenuti ad una condanna, ciò in particolare qualora il reato venga dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, purché, in sede di giudizio penale, sia stato effettuato un adeguato accertamento di responsabilità penale. Pertanto, solo in presenza di un simile accertamento sarebbe legittimo applicare la misura ablativa, ricorrendone il presupposto sostanziale della realizzazione di un fatto penalmente illecito, rimanendo invece irrilevante la pronuncia di una condanna in senso formale.
Sulla questione è poi tornata per una terza volta la Corte Edu, Grand Chambre, nel caso GIEM ed altri c. Italia: in linea con quanto affermato nel giudizio precedente del 2013, è stato ribadito che l’art. 7 Cedu esclude la possibilità di irrogare una sanzione penale nei confronti di una persona senza un previo accertamento e declaratoria della sua responsabilità, dovendosi la confisca ritenere sostanzialmente una sanzione, in applicazione degli Engel’s criteria. Tuttavia, cogliendo la voce della Corte Costituzionale, i giudici di Strasburgo hanno precisato che nel caso in cui tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva siano sostanzialmente evincibili dagli atti, ed il processo si sia concluso con sentenza dichiarativa dell’intervenuta prescrizione del reato, le risultanze processuali possono essere considerate come una “condanna” in senso sostanziale, sicché l’art. 7 Cedu non risulterebbe violato. Ad avviso della Corte, infatti, è necessario guardare oltre le apparenze e il linguaggio adoperato, concentrandosi, oltre che sul dispositivo del provvedimento anche sulla motivazione, costituente una parte integrante della sentenza. Si rammenta inoltre che il giudice nazionale è tenuto al rispetto del principio di proporzionalità nell’individuazione dei beni oggetto della misura ablativa, onde evitare un pregiudizio sproporzionato del diritto di proprietà, tutelato ex art. 1 Prot. 1 Cedu.
Coerentemente con tale orientamento, la Corte di Cassazione ha precisato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei terreni, oggetto di ipotizzata lottizzazione abusiva, non può essere legittimamente adottato quando l’esercizio dell’azione penale risulti precluso, essendo già maturata la prescrizione del reato, poiché in tal caso è impedito al giudice di compiere, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la piena partecipazione degli interessati, l’accertamento del fatto illecito, sotto il profilo oggettivo e soggettivo (richiedendosi almeno la colpa). Ne consegue che il principio generale dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato risulta recessivo rispetto alle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo e la conseguente acquisizione delle prove in funzione di quell’accertamento strumentale all’emanazione del provvedimento finale. Nella sentenza Martino, la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017 – dep. 29/11/2017, Martino, Rv. 272791) ha affermato che, in presenza di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca urbanistica, il giudice del dibattimento, qualora maturi una causa di estinzione del reato non ha l’obbligo di immediata declaratoria della causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p., potendo disporre la confisca urbanistica, anche in assenza di una sentenza di condanna, purché il fatto-reato sia stato previamente accertato nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio. A tal fine, quindi, il giudice, pur in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato avrebbe dovuto proseguire nell’istruttoria dibattimentale, differendo la declaratoria di estinzione del reato all’esito del giudizio e disponendo la confisca urbanistica qualora fosse risultata provata l’avvenuta lottizzazione abusiva e la stessa possa essere ascritta all’imputato almeno a titolo di colpa.
In linea con tale orientamento è intervenuto il legislatore italiano il quale, con il D.Igs. n. 21/2018, ha introdotto l’art. 578-bis c.p.p., in forza del quale “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”. Il riferimento ad “altre disposizioni di legge”, come osservato in dottrina, rende applicabile la disposizione processuale anche alla confisca disposta ai sensi dell’art. 44 D.P.R. 380/01.
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Il 4 ottobre esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 40847 che fissa il seguente principio di diritto: il divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, opera anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio; tale divieto riguarda le cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., comma 2, ma non anche le cose soggette a confisca obbligatoria contemplata da previsioni speciali, con l’eccezione del caso in cui tali previsioni richiamino l’art. 240 c.p., comma 2, o, comunque, si riferiscano al prezzo del reato o a cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato.
La Corte affronta la questione circa l’ampiezza del divieto di restituzione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, che si riferisce espressamente ai “casi indicati nell’art. 240 c.p., comma 2”, ovvero alle cose soggette a confisca obbligatoria ai sensi di tale comma, ma è stato esteso, da una parte della giurisprudenza di legittimità, anche ad altre categorie di cose soggette a confisca. Si tratta di una questione ascrivibile essenzialmente all’ambito del diritto sostanziale, che è resa complessa dall’eterogeneità della casistica di cui all’art. 240 c.p., comma 2, nella formulazione attualmente vigente; eterogeneità che rende problematica l’individuazione della ratio del divieto di restituzione, perché, al prezzo del reato e alle cose intrinsecamente criminose confiscabili anche senza condanna, si aggiungono ormai cose dotate di caratteristiche che sarebbero riconducibili, sul piano sistematico, a categorie contemplate da altre disposizioni.
Secondo le Sezioni Unite, risulta insuperabile, sul piano letterale, il riferimento alle sole confische di cui all’art. 240 c.p., comma 2, aventi ad oggetto, nella formulazione originaria della norma, le cose intrinsecamente pericolose, per le quali la restituzione è comunque esclusa ben al di là della fase cautelare e indipendentemente dall’esito del giudizio di merito. Ed è questa intrinseca pericolosità che distingueva, nell’originaria intenzione del legislatore, tali tipologie di confisca dalle confische obbligatorie previste da altre disposizioni. Il quadro era complicato, già in origine, dalla compresenza, nell’ambito del richiamato comma 2, del n. 1), riferito al prezzo del reato, di per sé normalmente rappresentato da denaro o beni fungibili e, dunque, privo di intrinseca pericolosità. Sul punto, conformemente a quanto statuito dalle sentenze Sez. U, n. 5 del 25/03/1993, Carlea, Rv. 193119, e Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, De Maio, Rv. 240565, ha a lungo dominato l’opinione per cui la confisca del prezzo del reato si distingueva dalla confisca delle cose ai sensi del n. 2) dell’art. 240 c.p., esigendo, a differenza di queste, una sentenza di condanna, al cospetto della quale scattava la previsione di obbligatorietà. Tale ricostruzione si basava sulla valorizzazione del dato letterale, per cui l’utilizzazione dell’avverbio “sempre”, all’inizio dell’art. 240 c.p., comma 2, intende rendere obbligatoria, diversamente da quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo, una confisca che altrimenti sarebbe stata facoltativa; mentre solo nei casi indicati nel n. 2) del comma 2 dell’articolo l’obbligatorietà è destinata ad operare “anche se non è stata pronunciata condanna”. A ciò si aggiungeva, per sostenere l’affermazione secondo cui l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione impedisce la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato, il rilievo che la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle stesse bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, il cui positivo accertamento è necessario presupposto (argomento ex Sez. 1, n. 7860 del 20/01/2015, Meli, Rv. 262759; Sez. 6, n. 8382 del 09/02/2011, Ferone, Rv. 249590). L’orientamento in questione è, però, superato da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434, secondo cui il giudice può applicare, a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 1), la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322 ter, la confisca del prezzo o del profitto del reato, sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato (in senso conforme, Sez. 2, n. 51088, del 20/10/2017, Marrazzo). E tale interpretazione garantisce una maggiore uniformità alle due categorie dei numeri 1) e 2) del richiamato comma 2, giacché per entrambe la confisca può prescindere dalla condanna, anche se in relazione al prezzo presuppone necessariamente che vi sia stato un accertamento di responsabilità comunque divenuto definitivo. In tale quadro sistematico si inserisce nella già delineata evoluzione del testo dell’art. 240 c.p., comma 2, sulla quale è necessaria una precisazione. Come già evidenziato, si tratta, infatti, di un percorso che non appare del tutto coerente, in quanto, al nucleo essenziale del prezzo del reato e delle cose intrinsecamente pericolose di cui ai nn. 1) e 2), si sono venute aggiungendo cose che certamente presentano caratteristiche diverse (n. 1-bis). Ne consegue un’indubbia tensione rispetto all’originaria ratio della disposizione quanto alla natura di misura di sicurezza della confisca ivi prevista, che giustificava con chiarezza il divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7. Per contro, deve rilevarsi che l’effetto della riconduzione di categorie eterogenee di cose oggetto di confisca alla disposizione dell’art. 240 c.p., comma 2 è comunque quello di non consentirne la restituzione anche all’esito del giudizio di merito; cosicché, almeno sotto questo profilo, permane un parallelismo con quanto avviene in sede cautelare.
Le SU si allineano all’orientamento maggioritario anche nella parte in cui – evidentemente valorizzando la ratio originaria della disposizione – consente di ritenere comprese nel divieto di restituzione anche quelle confische che, pur previste da disposizioni diverse, riguardino cose intrinsecamente pericolose, perché tali cose rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione dell’art. 240 c.p., comma 2, se non fossero contemplate da leggi speciali.
A tali rilievi deve aggiungersi la considerazione, di carattere generale, che l’estensione del divieto di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, a tutti i casi di confisca obbligatoria, diversi da quelli ricadenti nella previsione dell’art. 240 c.p., comma 2, costituirebbe un’applicazione analogica della norma, che non appare corretta sul piano ermeneutico, perché, pur trattandosi di disposizione processuale, deve essere considerata la particolare funzione che il divieto di restituzione assolve.
Un ulteriore argomento a favore della tesi qui condivisa deriva dalla giurisprudenza in materia di decreto penale di condanna, la quale, nella quasi totalità dei casi, interpreta in senso restrittivo l’art. 460 c.p.p., comma 2, che prevede, con una formula sostanzialmente identica a quella dell’art. 324 c.p.p., comma 7, che: “Con il decreto di condanna il giudice (…) ordina la confisca, nei casi previsti dall’art. 240 c.p., comma 2, o la restituzione delle cose sequestrate”. Si nega, in particolare, che possa essere disposta con decreto la confisca obbligatoria del mezzo utilizzato per il trasporto abusivo di rifiuti, ovvero dell’area adibita a discarica abusiva. Nè può dirsi che la soluzione qui prospettata presenti inconvenienti di carattere pratico, perché, al fine di evitare la restituzione di cose soggette a confisca ma non sottoposte al divieto dell’art. 324, comma 7, il pubblico ministero potrà sempre assumere – ricorrendone i presupposti – l’iniziativa di un nuovo sequestro.
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L’8 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 45535 onde, nei casi di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90 non è consentita la confisca “obbligatoria” del denaro inteso quale prodotto o profitto del reato ai sensi della legge n. 356 del 1992, art. 12 sexies. Ove il denaro costituisca prodotto o profitto o provento del reato di cessione di sostanze stupefacenti, la confisca è comunque consentita solo se ricorrano le condizioni per farsi luogo ad essa ai sensi della disposizione generale del codice penale, ossia la sussistenza del vincolo di pertinenzialità tra somma e reato ex art. 240 comma 1 cod. pen. Il provvedimento impugnato non individua detto vincolo, non potendosi ritenere esaustiva la generica affermazione circa il quantitativo di dosi rinvenuto e l’assenza di mezzi leciti di sostentamento in capo all’imputato, né essendo oggetto di contestazione specifici episodi di cessione che avrebbero consentito di configurare in modo tranquillante il nesso di pertinenzialità.
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Il 20 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 47101 che ricorda che in tema di caccia esiste un rapporto di specialità tra la disciplina delle armi e la disciplina venatoria. Pertanto l’applicabilità della confisca delle armi utilizzate per la commissione dei reati venatori richiamati dall’art. 28, secondo comma della Legge n. 157/1992, è possibile solo in caso di condanna e non risulta quindi applicabile la disciplina di cui all’articolo 6 I. n.152/75.
Quest’ultima prevede una più ampia ipotesi di confisca obbligatoria di cose intrinsecamente pericolose, costituenti corpo di reato, anche se in concreto non sia stata pronunciata condanna ed è applicabili solo in caso di specifica contestazione di violazione in materia di armi e munizioni. Del resto, il richiamo operato dal legislatore alla disciplina delle armi non ha natura di rinvio in senso tecnico tale da determinare un collegamento sanzionatorio tra la normativa sulla caccia e quella in materia di armi, ma in virtù del rapporto di specialità che intercorre tra le due discipline viene esclusa la possibilità di applicare il combinato disposto degli artt. 240 cpv. C.P. e 6 I. 22 maggio 1975 n. 152, in forza del quale può disporsi la confisca anche in assenza di una pronuncia di condanna quando si trattasi di reati concernenti le armi.
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Il 25 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 47837 onde la confisca diretta o di valore dei beni costituenti il profitto o il prodotto del reato non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro, quando viene assunto un impegno formale con le modalità previste per legge, permanendo, invece, per le parti residue.
2020
L’8 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 225 che ribadisce l’orientamento consolidato secondo cui la confisca può essere ordinata anche in assenza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro, purché sussistano norme che la consentano od impongano, a prescindere dalla eventualità che, per l’assenza di precedente tempestiva cautela reale, il provvedimento ablativo della proprietà non riesca a conseguire gli effetti concreti che gli sono propri; il giudice della cognizione, nei limiti del valore corrispondente al profitto del reato, può emettere il provvedimento ablatorio anche in mancanza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro e senza necessità della individuazione specifica dei beni da apprendere, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell’esecuzione qualora dovesse ritenersi pregiudicato dai criteri adottati dal P.M. nella selezione dei cespiti da confiscare.
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Il 30 aprile esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 13539 che affronta il seguente quesito di diritto: “Se, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sia consentito l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura, secondo il principio indicato dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia”.
La suddetta questione presuppone che, con riguardo al reato oggetto di condanna, sia maturato il corrispondente termine di prescrizione.
Residua, infatti, su un piano che è innanzitutto di dommatica generale del processo penale, la necessità di accertare se, all’annullamento senza rinvio “della sentenza impugnata”, possano resistere singole statuizioni della stessa, sulla base della possibilità di individuare una sostanziale autonomia di esse; ciò che, in definitiva, rappresenta il presupposto per dare risposta alla questione rimessa alle Sezioni Unite, ovvero la possibilità che la Corte di Cassazione, annullando la sentenza di condanna per il reato di lottizzazione in quanto estinto per prescrizione, possa, allo stesso tempo, decidere dell’impugnazione quanto alla confisca, in ciò dunque compresa, per venire alla specificità del quesito posto, anche la possibilità di annullare con rinvio, quanto a tale limitato aspetto, al giudice di merito.
Deve subito dirsi che, salvo a volere arbitrariamente frammentare la portata unitaria dell’annullamento della sentenza logicamente derivante dalla prescrizione del reato quale causa di estinzione dello stesso, la possibilità di individuare all’interno della sentenza statuizioni che restino “immuni” rispetto all’effetto caducante esercitato dalla prescrizione stessa, non può che essere il frutto di disposizioni normative che, espressamente o implicitamente, consentano una tale operazione.
Del resto, la stessa ordinanza di rimessione è giunta ad interrogarsi sulla legittima attribuzione alla Corte del potere di annullamento con rinvio della sentenza limitatamente alla confisca proprio nella ritenuta impossibilità di rinvenire una norma che tale facoltà consenta.
La questione è peraltro inevitabilmente connessa, trovando in essa il suo presupposto logico, a quella più in generale riguardante i rapporti intercorrenti tra declaratoria di prescrizione, da un lato, e adozione della confisca lottizzatoria, dall’altro, posto che, evidentemente, se detta declaratoria impedisse radicalmente di potere disporre la confisca, lo stesso interrogativo posto alle Sezioni Unite in ordine ai poteri del giudice di legittimità resterebbe privo di senso giacché lo stesso, una volta constatata la prescrizione del reato, non potrebbe fare altro che annullare senza rinvio in toto la sentenza impugnata.
Secondo un orientamento consolidato, essenzialmente fondato sulla lettera del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2 (“La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca del terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”), la confisca dei terreni ben può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva.
Condensato inizialmente nella semplice affermazione della compatibilità tra dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato e confisca delle aree lottizzate in ragione della sufficienza di un accertamento del reato, il principio si è via via irrobustito, forgiato anche dall’apporto della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, attraverso, dapprima, la indicazione della “latitudine” dell’accertamento, necessariamente comprensivo, per tenere conto delle indicazioni a suo tempo giunte dalla sentenza della Corte EDU 30/08/2007, Sud Fondi c. Italia, sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del reato e, successivamente, attraverso la predisposizione di modalità procedimentali coerenti con i principi del “giusto processo”, come tali richiedenti la sussistenza del contraddittorio delle parti quale elemento imprescindibile dell’accertamento stesso.
E seppure in un primo momento l’assunto si sia trovato in dissonanza con la giurisprudenza della Corte EDU, da ultimo, invece, come già anticipato, lo stesso ha incontrato, nella lettura della Corte sovranazionale, la affermazione di una sua compatibilità con i principi della Convenzione.
Se infatti la pronuncia della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia, aveva affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza, potesse subire una “pena” (tale dovendo secondo la Corte essere considerata la confisca lottizzatoria), in contrasto con la previsione dell’art. 7 CEDU, successivamente, sia l’elaborazione della Corte costituzionale che la “rilettura” operata, in tempi più recenti, dalla Corte EDU, hanno offerto ulteriore fondamento all’indirizzo esegetico ricordato.
Segnatamente, con la sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha ribadito la necessità, ai fini della confisca urbanistica, di un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito dalla confisca, precisando tuttavia che un tale “pieno accertamento” non sarebbe precluso nel caso di proscioglimento dovuto a prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe “accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato”; in altri termini, ai fini della confisca urbanistica, ben potrebbe tenersi conto “non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento”, valorizzandosi le potenzialità di accertamento del fatto di reato consentite anche a fronte di pronuncia di sentenza di proscioglimento; in definitiva, secondo la Corte, “nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità”.
Quanto poi alla Corte EDU, la stessa, nella pronuncia della Grande Camera 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, ribadendo che i principi di legalità e colpevolezza, condensati nell’art. 7 CEDU, rendono “necessario impegnarsi, al di là delle apparenze e del vocabolario utilizzato, ad individuare la realtà di una situazione”, andando “oltre al dispositivo di una decisione interna”, per “tener conto della sua sostanza, in quanto la motivazione costituisce parte integrante della decisione”, ha affermato che “qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’art. 7, che in questo caso non è violato”.
Può dunque dirsi che, nella “lettura” data dalla Cassazione, l’art. 44 cit., là dove ricollega la confisca lottizzatoria all’accertamento del reato, consente di prescindere dalla necessità di una sentenza di condanna “formale” permettendo di fondare la “legittimità” del provvedimento ablatorio su un accertamento del fatto che, pur assumendo le forme esteriori di una pronuncia di proscioglimento, equivale, in forza della sua necessaria latitudine (estesa alla verifica, oltre che dell’elemento oggettivo, anche dell’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza) e delle sue modalità di formazione (caratterizzate da un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati), ad una pronuncia di condanna come tale rispettosa ad un tempo dei principi del giusto processo e dei principi convenzionali, proprio come riconosciuto, da ultimo, anche dalla Corte EDU.
Tornando, dunque, al quesito rimesso, le pronunce che hanno inizialmente affermato la possibilità di annullamento con rinvio, hanno evidentemente individuato un tale esito come un logico ed inevitabile corollario proprio del principio poco sopra ricordato, pena, diversamente, la sua declamazione solo virtuale: infatti, la possibilità di coesistenza della prescrizione e della confisca, riconosciuta, da ultimo, anche dalla Corte EDU, acquista un concreto valore, in quanto si consenta che, nonostante la intervenuta prescrizione maturata nel corso del giudizio di impugnazione, il giudice possa ugualmente disporre la misura in oggetto.
E sempre tali pronunce hanno trovato una conferma di ciò nell’art. 578-bis c.p.p. secondo cui “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”.
È senz’altro esatto che la formulazione originaria della norma, introdotta dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 4, (di attuazione della delega per la riserva di codice), e da ultimo modificata con la L. n. 3 del 2019 (che vi ha inserito l’inciso relativo alla “confisca prevista dall’art. 322-ter c.p.”), ha rappresentato, salva la precisazione di cui oltre, il sostanziale trapianto, nel codice di rito, del contenuto del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, comma 4-septies, secondo cui “le disposizioni di cui ai commi precedenti, ad eccezione del comma 2-ter, si applicano quando, pronunziata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il giudice di appello o la Corte di cassazione dichiarano estinto il reato per prescrizione o per amnistia, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”.
Infatti, il riferimento ai “commi precedenti” effettuato da tale norma ricomprendeva anche il comma 1 con il quale, per determinate ipotesi di reato, si prevedeva che, in casi di sentenza di condanna o di applicazione della pena, fosse sempre disposta la confisca cosiddetta “allargata”, ovvero quella concernente i beni di cui il condannato non potesse giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito; e tale comma è stato sostanzialmente trasfuso nell’art. 240-bis c.p., nel comma 1 inserito nel codice dal D.Lgs. n. 21 del 2018 cit., art. 6, comma 1, e richiamato espressamente dall’art. 578-bis (così come, appunto, l’art. 12-sexies, comma 4-septies cit. richiamava il comma 1).
Ed è ulteriormente esatto che l’art. 12-sexies cit., comma 1 (e, conseguentemente, in virtù della già indicata corrispondenza, l’art. 240 bis cit., comma 1), prevedeva, come sopra anticipato, la sola confisca cosiddetta “per sproporzione”, senza in alcun modo contemplare la confisca urbanistica, ma è anche vero che l’art. 578-bis non si è limitato a richiamare la “confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1” ma ha ulteriormente aggiunto, sin dalla versione originaria, il richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge” e, successivamente, per effetto della modifica intervenuta ad opera della L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 4, lett. f), il richiamo alla confisca “prevista dall’art. 322-ter c.p.”.
È pertanto evidente che, quali che siano state le ragioni che hanno determinato il legislatore ad introdurre la norma in oggetto nel codice di rito, la stessa non può che essere letta secondo quanto in essa espressamente contenuto, in particolare non potendo non riconoscersi al richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge”, formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere in essa anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale.
Va aggiunto che già le Sezioni Unite avevano significativamente affermato come il riferimento dell’art. 578-bis c.p.p. alle “altre disposizioni di legge” evocasse “le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali”, in tal modo condividendo la legittimità di una lettura ad ampio raggio, non limitata alla sola confisca “per sproporzione”.
Del resto, la riferibilità dell’art. 578-bis cit. anche alla confisca urbanistica poggia anche su un criterio di evidente razionalità: l’esigenza che ha spinto il legislatore a dettare una norma volta, in chiara analogia con la disposizione dell’art. 578 c.p.p. (non a caso immediatamente precedente nella topografia codicistica), ad evitare che la prescrizione del reato, a fronte di un’affermazione di responsabilità che resta, nella sostanza, immutata, vanifichi la confisca di cui all’art. 240-bis cit. nel frattempo disposta in primo grado o in grado di appello (a seconda che la prescrizione maturi rispettivamente nel giudizio di appello o in quello di legittimità), in linea con il principio di conservazione degli effetti delle pronunce di merito sul punto non sovvertite nei gradi successivi (così come, con riguardo all’art. 578, si è voluta evitare la dissipazione degli effetti sul piano delle statuizioni civili), è ancor più tangibile nel caso della confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44.
Come si è già detto, infatti, ai fini di disporre la confisca lottizzatoria non è necessaria una pronuncia di condanna, essendo invece sufficiente il “sostanziale” accertamento del fatto, sia pure circondato dalle garanzie sostanziali e processuali già ricordate sopra; non si comprende allora quale senso potrebbe avere consentire che il mero fatto di una prescrizione sopravvenuta in grado di appello o in quello di legittimità (ovvero, in altri termini, il sopravvenire di una situazione che, ove prodottasi già in primo grado, non avrebbe comunque potuto impedire la sanzione amministrativa de qua) impedisca al giudice dell’impugnazione di decidere comunque agli effetti della confisca.
Da tale punto di vista, dunque, il parallelismo che, con riguardo alla confisca “per sproporzione”, il legislatore ha posto, per le altre confische, tra la norma sostanziale di cui all’art. 240-bis e quella processuale di cui all’art. 578-bis, va, con riguardo alla confisca urbanistica, più specificamente instaurato tra il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (quale “legge speciale” richiamata dalla norma del codice di procedura) e l’art. 578-bis.
Il parallelismo appena evidenziato, è, allo stesso tempo, la ragione per la quale l’art. 578-bis c.p.p. non può presupporre che ai fini della confisca urbanistica sia sempre necessaria, in primo grado, una pronuncia di condanna.
Premesso che la formulazione letterale della norma in sé considerata non contiene alcun espresso riferimento a tale presupposto (venendo unicamente menzionata la necessità di una previa confisca), il necessario antecedente di una sentenza di condanna non può neppure essere rinvenuto nell’incipit dell’art. 240 bis, comma 1, cit., che menziona la condanna (nonché la sentenza di applicazione della pena), appunto perché, come appena detto, il necessario referente dell’art. 578-bis, per quanto riguardante specificamente la confisca urbanistica, non può essere l’art. 240-bis bensì il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 che opera il chiaro riferimento al solo “accertamento”.
Allo stesso tempo, tuttavia, va necessariamente precisato, affinché sia razionalmente ricostruito il “sistema” ricavato dalle norme appena ricordate, che la possibilità per il giudice dell’impugnazione, che dichiari la prescrizione, di decidere comunque agli effetti della confisca, non può implicare, come invece ritenuto da alcune pronunce, che il giudizio di primo grado, una volta intervenuta la prescrizione e non ancora accertato il fatto, possa comunque proseguire a tali soli fini di accertamento.
Vengono, in definitiva, enunciati i seguenti principi di diritto: “La confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1, proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis c.p.p., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44″.
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Il 19 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 15308 che si allinea all’orientamento secondo cui le somme di denaro oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, che costituiscono il profitto del reato oppure un valore ad esso equivalente, non possono essere sostituite con beni mobili od immobili di identico valore, perché tale operazione comporta la permuta di un bene di immediata escussione con un diritto di proprietà non immediatamente convertibile in un valore corrispondente al profitto del reato.
Osserva ancora il Collegio che non è ammissibile – neppure qualora vi sia il consenso del soggetto interessato – sottoporre a vincolo un bene immobile di proprietà del soggetto che si è avvantaggiato del reato ma che, a quanto pacificamente risulta, non costituisce profitto, nemmeno indiretto, dell’illecito. Si tratterebbe di un vincolo preordinato ad una confisca per equivalente del profitto che la legge non prevede in capo al soggetto che si è avvantaggiato del reato, essendo la stessa prevista – e solo in caso di impossibilità della confisca del profitto del reato – nei riguardi dell’autore dello stesso. Nonostante il consenso del soggetto interessato al trasferimento del sequestro dal denaro all’immobile l’eventuale sentenza di condanna non potrebbe mai disporre la confisca di quel bene, non prevista né consentita dalla legge, sicché il provvedimento cautelare si rivelerebbe privo degli effetti che gli sono propri. Le disposizioni sulla confisca, di fatti, rivestono carattere di stretta interpretazione e, avendo spiccata natura pubblicistica, il loro contenuto ed i loro effetti non possono formare oggetto di pattuizioni che si muovono nell’ambito dell’autonomia negoziale.
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Il 9 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 25609 onde, secondo il chiaro disposto dell’art. 648-quater, comma secondo, cod. pen., la c.d. “confisca di valore” può essere disposta soltanto “nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca di cui al primo comma”, id est all’ablazione del prodotto o del profitto dei reati-presupposto.
In ossequio all’inequivoco dato testuale della norma, la costante giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere che la confisca per equivalente del compendio delittuoso possa essere legittimamente disposta solo se, per una qualsivoglia ragione, i proventi dell’attività illecita, di cui pure sia certa l’esistenza, non siano rinvenuti nella sfera giuridico – patrimoniale dell’agente.
L’ablazione per equivalente, o di valore, è invero prevista per il solo caso in cui non sia possibile agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, a cagione del mancato loro reperimento, e consente di apprendere utilità patrimoniali di valore corrispondente, di cui il reo abbia la disponibilità: in tale caso, l’ablazione per equivalente può riguardare un qualunque bene di cui l’imputato abbia la disponibilità, anche in modo legittimo e, comunque, indipendentemente dalla commissione dell’illecito penale a lui contestato, a condizione — si ribadisce — che nella sfera giuridico – patrimoniale del soggetto attivo non sia rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o profitto del reato per cui si proceda, ma di cui sia ovviamente certa l’esistenza.
In applicazione di tale principio di diritto, allorchè, nel patrimonio dell’autore del reato ovvero di taluno dei concorrenti, siano individuabili denaro o beni fungibili costituenti profitto del reato, prima di poter disporre la confisca per equivalente in sentenza (anche di applicazione della pena su richiesta) è necessario previamente disporre, o quantomeno tentare, l’ablazione diretta dei valori costituenti provento di reato, di tal che la confisca di valore è possibile soltanto nel caso in cui il tentativo di aggressione diretta del profitto si sia rivelato infruttuoso per l’indisponibilità materiale di beni da apprendere.
Sempre in linea generale, va evidenziato che, come sancito dalle Sezioni Unite, qualora il profitto sia costituito da una somma di denaro – bene fungibile per eccellenza -, essa non è assoggettabile a confisca per equivalente, in quanto il denaro è sempre oggetto di confisca diretta, e la sua trasformazione in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo, che può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito.
D’altra parte, costituiscono “profitto” del reato anche gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa e i beni in cui questo è trasformato, in quanto tali attività di impiego di trasformazione non possono impedire che venga sottoposto ad ablazione ciò che rappresenta l’obiettivo del reato posto in essere. Ed invero, nel sistema penale non costituiscono ostacolo alla confisca (e, quindi, nella fase delle indagini, al sequestro) le trasformazioni o modifiche che il prodotto del reato abbia subito, cosicché ove le cose da sequestrare siano per loro natura fungibili – originariamente o a seguito di trasformazione – l’eventuale commistione tra cose lecite e cose illecite, appartenenti allo stesso genere, costituisce una forma di trasformazione dell’originario prodotto del reato in cose comunque separabili con operazioni di peso, misurazione o numerazione. Il tutto in conformità della regola civilistica che prevede, per le obbligazioni che hanno ad oggetto denaro o altre cose fungibili, l’obbligo di restituire “altrettante cose della stessa specie e qualità”, regola generale applicabile anche in sede penale, in considerazione della natura patrimoniale della misura di sicurezza.
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Il 2 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 30422, secondo la quale esistono limiti all’esercizio di poteri cognitivi o autoritativi del giudice penale (o di prevenzione) che ha disposto la confisca di beni, in epoca posteriore al giudicato, salva l’esistenza di specifiche disposizioni di legge attributive di un tipizzato potere di intervento e salva la – limitata – potestà ricognitiva dei contenuti del giudicato, ove necessario.
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Il 9 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 34956 onde la confisca per equivalente può essere disposta anche in relazione ai bei della società qualora questa costituisca uno “schermo” del reo, in modo tale da impedire che uno schermo societario meramente fittizio valga ad escludere la riconducibilità al reo di beni ed utilità formalmente e fittiziamente intestati a quel soggetto giuridico e di cui il medesimo comunque “ha la disponibilità” nel senso richiesto dall’art. 322 ter c.p.
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L’11 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 35547, alla stregua della quale, qualora a seguito di nuove investigazioni tributarie emergano consistenze patrimoniali prima sconosciute anche ad anni di distanza dal giudicato, al giudice dell’esecuzione ex art. 676 c.p.p. spetterà motivare adeguatamente la “pertinenza temporale” fra reato e i nuovi beni rinvenuti, ai fini dell’applicazione della “confisca allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 240 bis c.p..
2021
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 52, in materia di rapporti tra prescrizione e confisca. Ad avviso della Corte, la dichiarazione di estinzione del reato non consente di disporre la confisca diretta in tutti i casi in cui l’adozione del provvedimento ablativo è condizionata, da una norma di legge, alla pronuncia di un giudicato formale di condanna, ad eccezione dei casi in cui il Legislatore preveda che alla confisca dei beni economici dell’autore di un fatto costituente reato, la cui responsabilità formi comunque oggetto di un esaustivo accertamento giudiziale, si debba (in caso di confisca obbligatoria) o si possa (in caso di confisca facoltativa) procedere in assenza di una sentenza di condanna (definitiva).
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Il 14 gennaio esce la sentenza della Corte di Giustizia UE sulla causa C393/19 onde la confisca di uno strumento utilizzato per commettere un reato di contrabbando aggravato non è consentita qualora tale strumento appartenga a un terzo in buona fede.
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Il 15 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite Penali della Cassazione n. 27421, alla stregua della quale il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di confisca ex art. 240-bis cod. pen., esercitando gli stessi poteri che, in ordine alla detta misura di sicurezza atipica, sono propri del giudice della cognizione, può disporla, fermo restando il criterio di “ragionevolezza temporale”, in ordine ai beni che sono entrati nella disponibilità del condannato fino al momento della pronuncia della sentenza per il c.d. “reato-spia”, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza, ma con risorse finanziarie possedute prima.
La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è formulata nei seguenti termini: «Se la confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen., disposta in fase esecutiva, possa avere ad oggetto beni riferibili al soggetto condannato ed acquisiti alla sua disponibilità fino al momento della pronuncia di condanna per il cd. reato “spia” ovvero successivamente, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza ma con risorse finanziarie possedute prima».
Per ragioni di ordine logico si rende necessario esaminare preliminarmente le questioni processuali.
È privo di fondamento il primo motivo, comune a tutti i ricorrenti, col quale si ripropone l’eccezione di nullità del provvedimento di confisca per violazione del principio della domanda e per l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento nell’avviso di fissazione dell’udienza camerale.
Contrariamente a quanto rappresentato dalle difese, la decisione sulla confisca è stata assunta nell’ambito di un procedimento sorto a seguito della richiesta del pubblico ministero di sottoporre i beni dei ricorrenti a sequestro preventivo finalizzato alla confisca. L’imposizione della misura ablatoria ha costituito l’esito di una decisione richiesta dalla parte pubblica legittimata ed è intervenuta quando la Corte di appello, investita delle opposizioni dei soggetti che avevano subito il sequestro, era stata sollecitata a stabilire la successiva destinazione dei beni: dissequestro e restituzione agli aventi diritto, come richiesto dagli opponenti, oppure confisca.
Diversamente da quanto dedotto dalle difese, il pubblico ministero, in relazione all’udienza dell’I. marzo 2017, aveva depositato il 22 febbraio 2017 una memoria, con la quale aveva chiesto il rigetto delle richieste di revoca del sequestro preventivo e «la confisca di tutti i beni mobili ed immobili sequestrati il 6 dicembre 2016».
Non può, dunque, condividersi l’assunto difensivo, per il quale la richiesta di imporre la sola misura cautelare del sequestro preventivo avrebbe impedito al giudice dell’esecuzione di assumere la decisione sulla confisca in assenza di una istanza ulteriore del pubblico ministero, con la conseguente omessa preventiva informazione delle parti sull’oggetto del procedimento camerale. L’istanza, seppur non necessaria, era stata avanzata ed è stata legittimamente delibata con piena effettività del contraddittorio tra le parti, sicché deve escludersi che il procedimento di esecuzione sia stato celebrato in assenza dell’impulso di parte.
Come affermato da precedenti decisioni di questa Corte, del tutto condivisibili, l’iniziativa del pubblico ministero per l’attivazione del procedimento esecutivo ex art. 666 cod. proc. pen. differisce dall’esercizio dell’azione penale nel processo di cognizione di cui all’art. 405 cod. proc. pen. ed è priva di formalità, potendo essere affidata anche alle conclusioni rassegnate nel contesto dell’udienza camerale (Sez. 1, n. 19998 del 12/02/2013, Morabito ed altro, Rv. 257008; Sez. 3, n. 6901 del 18/11/2008, dep. 2009, Favato, Rv. 242734).
A tal fine non può ritenersi che l’aver richiesto un provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca determini una qualche ipotesi di nullità degli atti ai sensi dell’art. 178 lett. b) e c) cod. proc. pen. per omessa iniziativa assunta dal pubblico ministero o per omessa partecipazione al procedimento dell’organo dell’accusa. Inoltre, non vale nemmeno obiettare che l’adozione di un provvedimento di confisca pretenda necessariamente il previo sequestro del bene.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno già chiarito che «Il sequestro non è indissolubilmente correlato alla confisca (arg. ex art. 12-sexies, comma 1 e 4) come un passaggio necessario dell’iter procedimentale conducente al provvedimento ablativo» e, comunque, «non costituisce principio assoluto (arg. ex art. 676, comma 3, cod. proc. pen.) che il giudice dell’esecuzione non possa mai procedere di ufficio» (Sez. U, n. 29022 del 30/05/2001, Derouach, Rv. 219221). Nel caso specifico, la natura cautelare del sequestro, quale anticipazione interinale e provvisoria di una decisione conclusiva di confisca, era già di per sé idonea a rendere le parti edotte dell’oggetto della procedura instaurata e del suo fisiologico epilogo definitivo in caso di mancato accoglimento delle loro istanze.
Tanto più che, in riferimento alla confisca applicata in esecuzione, non è riproducibile la dicotomia tra procedimento cautelare e procedimento principale, propria del giudizio di cognizione e non è pretesa una specifica e distinta richiesta del soggetto legittimato.
La giurisprudenza richiamata dalla difesa a sostegno del proprio assunto (Sez. 1, n. 1839 del 28/11/2006, dep. 2007, Fortini, Rv. 235794) non é pertinente, in quanto ha riguardo ad ipotesi di non consentite iniziative officiose del giudice. Ben diverso è il caso in esame, in cui è stata la parte pubblica a sollecitare il sequestro in funzione della successiva misura di sicurezza e poi l’adozione della stessa, con conseguente investitura del giudice dell’esecuzione del potere di assumere entrambi i provvedimenti.
Altrettanto infondato è il secondo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti in termini coincidenti hanno sollevato un’ulteriore questione procedurale pregiudizi a le.
I ricorrenti non contestano l’avvenuta celebrazione dell’udienza in forma pubblica, come da loro stessi richiesto, bensì si dolgono dell’errore contenuto nel decreto di fissazione dell’udienza e nel verbale di udienza, redatto dal cancelliere, atti che fanno entrambi improprio riferimento alla “camera di consiglio”. Si tratta all’evidenza di meri errori materiali (Sez. 3, n. 3585 del 13/11/2018, F., Rv. 275831 in un caso di contrasto tra verbale d’udienza e provvedimento giudiziale; Sez. 5, n. 11064 del 07/11/2017, dep. 2018, Puliga Rv. 272658; Sez. 3, n. 45251 del 09/02/2016, Agostinelli, Rv. 268055; Sez. 2, n. 32991 del 24/06/2011, V., Rv. 251350) che non hanno avuto alcuna concreta incidenza sulla validità della vocatio in iudicium, sull’esercizio effettivo del diritto di difesa, sulla pienezza del contraddittorio, sul regime di pubblicità dell’udienza.
Infine, i riferimenti alla “camera di consiglio”, contenuti nel provvedimento impugnato, attengono al solo momento deliberativo della decisione adottata e non alle forme di celebrazione dell’udienza.
Tanto osservato sulle questioni preliminari in rito, il terzo motivo proposto da Crostella investe il giudizio di sproporzione tra le acquisizioni patrimoniali ed i redditi percepiti e documentati.
Il motivo di ricorso è manifestamente infondato. Le deduzioni del ricorrente, pur denunziando formalmente la violazione della norma di riferimento e carenze ed illogicità motivazionali del provvedimento impugnato, in realtà censurano il merito della decisione della Corte territoriale, per di più in termini non specifici.
In primo luogo, la pretesa illogicità del giudizio di sperequazione per difetto tra redditi ed acquisti patrimoniali con un saldo negativo di poche migliaia di euro viene prospettata in termini vaghi ed imprecisi. Manca la specifica confutazione dei passaggi argomentativi dell’ordinanza contestata, che, con motivazione immune da vizi ha messo in luce la modesta entità dei redditi ufficiali disponibili e ha correttamente posto a confronto investimenti e redditi leciti per inferirne la riconosciuta sproporzione.
Le censure difensive, inoltre, omettono di confrontarsi con un dato oggettivo evidenziato nell’ordinanza impugnata: l’avvenuto trasferimento in Bulgaria da parte di Crostella e della moglie Borissova in diverse epoche, comprese tra il 2004 ed il 2008 – coincidenti sul piano cronologico con l’attività criminosa svolta da Crostella e giudicata con la sentenza della Corte di appello di Milano del 10 gennaio 2013, (irrevocabile il 29 aprile 2014) – di consistenti somme di denaro per l’importo complessivo di euro 440.390,00, dei quali euro 138.655,00 giustificati come destinati ad investimenti immobiliari e la restante parte a regalie e sussidi a terzi (pag. 34 ordinanza impugnata).
La circostanza, mai contestata nella sua veridicità e concludenza probatoria, ha indotto la Corte di merito a ravvisare una vistosa sproporzione tra i beni di cui Crostella, anche tramite la moglie, ha acquisito la titolarità e i flussi leciti di ricchezza di cui aveva potuto beneficiare. Le obiezioni mosse in ricorso (necessità di considerare la media di introiti leciti, pari a 13.000 euro annui, conseguiti tra il 2000 ed il 2009; utilizzo del corrispettivo della vendita di altri veicoli prima dell’acquisto di quelli nuovi; percezione di indennizzi assicurativi) ripropongono temi già affrontati e risolti dai giudici di merito con motivazione adeguata, attinente alle questioni proposte con l’atto di opposizione, oltre che logicamente coerente.
Col quarto ed ultimo motivo Crostella deduce il vizio di motivazione con riferimento all’omessa considerazione della percezione di redditi ulteriori rispetto a quelli fiscalmente dichiarati, conseguiti grazie ad indennizzi per sinistri stradali ed all’attività lavorativa di sorvegliante e “buttafuori”, svolta presso alcuni locali notturni. In particolare, censura l’illogica omessa valutazione di quanto riferito da soggetti informati sui fatti e di quanto accertato dalla sentenza del Tribunale di Camerino n. 204/2001.
Ad avviso del Collegio, le doglianze non colgono nel segno. In primo luogo, restano insuperate le considerazioni critiche della Corte di appello sulla inidoneità dimostrativa della documentazione prodotta a supporto dell’allegata percezione di indennizzi assicurativi, liquidati in favore del ricorrente nell’arco di venti anni. L’assenza di tracce documentali circa l’erogazione degli importi e l’assoluta impossibilità di attribuire rilievo probatorio alle copie di perizie mediche, contenenti quietanza manoscritta vergata con unica grafia e prive di qualsiasi attestazione di conformità all’originale, nell’assenza di documentazione ufficiale, danno conto dell’impossibilità, ritenuta nell’ordinanza impugnata, di utilizzare il materiale documentale prodotto per assenza di rilievo oggettivo.
Altrettanto corrette sono le argomentazioni sviluppate nel provvedimento impugnato in ordine all’incerta provenienza delle informazioni, contenute in fogli manoscritti privi di qualsiasi attestazione di autenticità e dei requisiti formali per essere qualificabili come testimonianze, oppure esito di indagini difensive, condotte ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen. Si ricorda al riguardo che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, da confermare in questa sede, sono inutilizzabili le dichiarazioni di persone informate dei fatti, acquisite senza il rispetto delle forme e delle garanzie dettate dagli artt. 391-bis e segg. cod. proc. pen. ed introdotte nel procedimento quali allegati ad una memoria difensiva (Sez. 6, n. 12921 del 28/02/2019, Galletti, Rv. 275645; Sez. 2, n. 51073 del 15/09/2016, La Cava, Rv. 268903; Sez. 1, n. 36036 del 28/11/2013, Miceli, Rv. 261119).
In ricorso si è richiamato quanto risultante dalla sentenza del Tribunale di Camerino circa l’attività svolta da Crostella quale “buttafuori-addetto alla sicurezza” in locali notturni. La deduzione soffre di generica formulazione, poiché priva della precisa indicazione dei periodi di svolgimento dell’attività lavorativa non regolare e dei relativi proventi, in modo tale da consentire una loro contabilizzazione e di ravvisarvi una fonte lecita, ancorché sfuggita a tassazione, accrescitiva dei mezzi finanziari di cui Crostella aveva potuto disporre. In definitiva, non è censurabile nella sua logicità e legittimità il giudizio espresso dalla Corte territoriale che non ha accreditato, quale criterio attendibile di ricostruzione dei flussi di ricchezza accessibili, la mera verosimiglianza delle deduzioni difensive, quando, come nel caso, non supportate da puntuali e verificabili allegazioni e non in grado di offrire dati certi di conoscenza.
Da quanto esposto discende la non pertinenza dei rilievi, svolti in ricorso e diretti a sostenere l’inapplicabilità, alla fattispecie, della regola dettata dall’art. 240- bis cod. pen., come modificato dall’art. 31 della legge n. 161 del 2017, per il quale il condannato per un reato “spia” «non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale». In linea generale risponde al vero che la disposizione, di natura processuale, non può disciplinare un caso, come quello presente, in cui gli accertamenti patrimoniali hanno riguardato annualità antecedenti alla sua entrata in vigore. Tuttavia, la decisione sfavorevole alla tesi del ricorrente non si è basata sulla non computabilità di entrate lecite, ma percepite “in nero”, bensì sulla mancanza di prova della loro effettiva corresponsione e dei relativi importi.
Le superiori considerazioni rendono inammissibile, per difetto di rilevanza, anche la questione di legittimità costituzionale, sollevata con i motivi aggiunti dalla difesa di Crostella in riferimento ad una disciplina normativa, che non risulta essere stata applicata nell’ambito della decisione contestata. Ne discende il rigetto del ricorso, infondato in tutte le sue deduzioni, con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.
Vanno ora esaminati i motivi di ricorso proposti da Dimitrinka Petrova Borissova e da Katerina Mario Miteva, che prospettano ulteriori questioni preliminari.
Col terzo motivo le ricorrenti si dolgono della mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dalle dichiarazioni di Matteo Luigi Carretta, raccolte nell’ambito delle indagini difensive, e di quelle degli agenti verbalizzanti della Guardia di Finanza, prove idonee a dimostrare la capienza del patrimonio di Borissova, la fruizione di introiti extra-lavorativi in grado di giustificare il suo tenore di vita e gli investimenti effettuati in Italia ed in Bulgaria, nonché a smentire la ritenuta riconducibilità a Crostella dei beni confiscati.
L’ordinanza in esame non è censurabile sotto il profilo dell’adeguatezza e della logicità motivazionale e della mancata assunzione delle prove richieste dalle ricorrenti. Va premesso che nella giurisprudenza di legittimità il motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. è considerato proponibile soltanto per il processo di cognizione a rito dibattimentale, non anche per i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio e che sono regolati da differenti disposizioni con riferimento all’attività istruttoria (Sez. 1, n. 32116 del 10/09/2020, Gaita; Sez. 1, n. 49180 del 6/07/2016, Barberio ed altro, rv. 268652; sez. 1, n. 8641 del 10/02/2009, Giuliana, rv. 242887; Sez. 1, n. 38947 del 01/10/2008, Greco, Rv. 241309; Sez. 1, n. 15605 del 28/03/2008, Locci, rv. 242148).
Anche a prescindere da tale preliminare ed assorbente rilievo, il Collegio rileva che la doglianza non ha pregio, per il difetto del requisito della decisività della prova non ammessa. Sul punto la Corte di appello, con analitico argomentare, ha osservato che i presunti interventi in favore di Borissova da parte di Carretta non potevano ritenersi riscontrati dalle dichiarazioni del teste Carretta in assenza di idonea «documentazione bancaria anche del solo prelievo delle dette somme dai conti correnti del Carretta».
Ha giustificato tale valutazione in base agli esiti degli accertamenti patrimoniali, condotti dalla Guardia di Finanza, per i quali: non era emersa nessuna traccia di rapporti di natura finanziaria tra Carretta e Borissova; la pretesa vincita al lotto di Carretta, collocabile nel 2008, era successiva agli acquisti immobiliari effettuati da Borissova nel 2003 e nel 2007 e non poteva, dunque, essere correlata ad essi quale fonte della provvista utilizzata; i redditi netti percepiti dal teste nell’anno 2007 erano pari a 24.000 euro, sicché, se le elargizioni in favore della ricorrente fossero state pari a 4.000.000 di lire mensili, come sostenuto dalla sua difesa, avrebbero dovuto assorbire l’intero suo reddito annuo, circostanza ritenuta inverosimile.
Anche una verifica estesa ad altre annualità, a giudizio della Corte di appello, non rende plausibili trasferimenti per oltre 400.000,00 euro complessivi in assenza di qualsiasi traccia documentale delle imprescindibili operazioni bancarie. Analogo rigore logico è riscontrabile nel giudizio di insufficienza ed inattendibilità espresso in riferimento alle informazioni fornite da Nicola Gismondi, Sesto Mengani e Sergio Mengo. Premesso che costoro hanno rilasciato dichiarazioni su fogli manoscritti, privi di qualsiasi formalità e dell’accertamento sulla loro provenienza, su circostanze non riscontrate dalle fonti dirette, ossia dai datori di lavoro, e smentite dai dati documentali agli atti, valgono le medesime considerazioni già svolte al punto 6.1.
Le argomentazioni esposte dalla Corte di merito, connotate da pertinenza ai temi sollevati dalla difesa, coerenza e logicità, danno conto in modo esaustivo ed incensurabile della non decisività delle prove non ammesse. Gli accertamenti richiesti, nel confronto con la piattaforma probatoria acquisita, sono stati motivatamente ritenuti inidonei a condurre ad un esito decisorio differente e più favorevole per la parte che intendeva avvalersene ed a compromettere, per la loro mancata assunzione, la tenuta logica del ragionamento valutativo condotto in sede di merito. Basti considerare che l’impostazione difensiva mira ad accreditare la tesi del possesso in capo a Borissova di entrate lecite, diverse dagli introiti lavorativi ufficiali, ma non si confronta minimamente con le argomentazioni spese nel provvedimento per dimostrare l’intestazione fittizia dei beni riconducibili a Crostella, che ne aveva conservato la disponibilità materiale.
Il giudizio di inaffidabilità dei contributi informativi offerti dalla difesa e di incapienza della situazione finanziaria della ricorrente non si pone in contrasto con gli oneri di mera allegazione di circostanze in grado di giustificare le proprie possidenze, gravanti sul terzo proprietario di beni confiscati.
In ordine alla confisca atipica, disposta nei confronti di un terzo estraneo al reato per cui è intervenuta condanna irrevocabile, questa Corte ha già avuto modo di affermare che è la pubblica accusa ad essere gravata dell’onere di dimostrare l’esistenza di situazioni indicative della divergenza tra intestazione formale del terzo e disponibilità effettiva del bene in capo al condannato, intesa quale riconducibilità alla sua persona dell’iniziativa economica sottesa all’acquisizione.
Da tale accertamento si può desumere con certezza che il terzo intestatario si sia prestato ad assumere la titolarità apparente del bene al solo fine di favorirne la conservazione in capo ad altri. Spetta al giudice che disponga la misura ablativa illustrare efficacemente le ragioni della ritenuta interposizione, reale o fittizia, valorizzando allo scopo circostanze sintomatiche ed elementi fattuali, dotati dei crismi della gravità, precisione e concordanza, idonei a sostenere, anche in chiave indiretta, l’assunto accusatorio secondo lo schema tipico del ragionamento indiziario.
A tale fine, non soccorre la presunzione relativa, fondata sulla sproporzione dei valori, operante nei confronti del solo condannato, ma è richiesta un’attivazione probatoria da parte della pubblica accusa istante, analoga a quella necessaria per l’accertamento giudiziale di qualsiasi fatto avente giuridica rilevanza.
L’intestazione al terzo del bene in realtà appartenente al condannato va, dunque, dimostrata e la relativa prova può essere desunta anche per facta concludentia mediante la considerazione, ad esempio, dei rapporti e dei vincoli personali tra terzo e condannato, della condizione personale del terzo per età, salute ed attività svolta, della natura giuridica e delle modalità esecutive della vicenda negoziale acquisiva, della sproporzione di valore tra il bene formalmente intestato e il reddito percepito dal terzo, del potere di disposizione esercitato dal condannato, nonostante l’altruità del bene.
Circostanze queste da confrontarsi con gli altri aspetti concreti del caso, in modo che risulti sicuramente dimostrata la discrasia tra titolarità ufficiale ed appartenenza del bene (Sez. 5, n. 13084 del 06/03/2017, Carlucci, Rv. 269711; Sez. 2, n. 15829 del 25/02/2014, Podestà, Rv. 259538; Sez. 1, n. 6137 del 11/12/2013, dep. 2014, Soriano, Rv. 259308; Sez. 1, n. 44534 del 24/10/2012, Ascone, Rv. 254699; Sez. 1, n. 27556 del 27/05/2010, Buompane, Rv. 247722).
Inoltre, al terzo non compete l’onere della positiva dimostrazione della lecita origine del proprio patrimonio, ma della sola allegazione di circostanze contrarie all’assunto dell’accusa, che il giudice, secondo il principio del libero convincimento, è tenuto a vagliare (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226491). E’ altrettanto vero, però, che tale onere non può essere assolto dalla parte mediante giustificazioni prive di serietà (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola ed altri, Rv. 238216), perché, come nel caso specifico, non credibili ed insuscettibili di qualsiasi verifica oggettiva.
Non è, infine, ravvisabile nessun profilo di irrazionalità nella motivazione del provvedimento per non avere considerato dimostrata l’avvenuta percezione da parte di Borissova di contributi economici extra-lavorativi, erogati da ignoti amanti e da Cardella, non contabilizzabili, né denunciabili a fini fiscali: seppure la circostanza fosse rispondente al vero, la relativa deduzione pecca di genericità per la mancata allegazione dei relativi importi, delle modalità di erogazione e di custodia del denaro, nonché del suo reinvestimento.
Risultano, pertanto, incensurabili nella loro logicità le valutazioni svolte dalla Corte di appello sulla non plausibilità dell’acquisizione con mezzi leciti della somma di oltre 440.000 euro, trasferita in Bulgaria in un arco temporale di quattro anni dal 2003 al 2007, oltre che degli altri investimenti mobiliari ed immobiliari effettuati. Meramente esplorativa risulta la richiesta di escutere i verbalizzanti della Guardia di Finanza, inammissibilmente finalizzata ad attestare la consuetudine di retribuire “in nero” i lavoratori dei locali notturni. Deve essere, infine, sottolineata la irrimediabile astrattezza e genericità del quesito da rivolgere ai testi, non riferito agli esercizi commerciali ed ai periodi nei quali Borissova aveva prestato la sua attività.
Infine, come già riscontrato per la posizione di Crostella, nel caso in esame non assume rilievo il divieto di giustificare la legittima provenienza dei beni con l’impiego di denaro frutto di evasione fiscale, secondo la disposizione dettata dall’art. 240-bis cod. pen., dal momento che il rigetto delle deduzioni difensive è stato determinato da differenti ragioni.
Il quarto motivo proposto da Borissova e Miteva riguarda le vicende degli immobili siti in Bulgaria, la cui intestazione congiunta alla prima ricorrente ed al marito Fausto Crostella si assume essere stata determinata quale effetto automatico del regime patrimoniale di comunione tra coniugi e non frutto dell’apporto finanziario di entrambi o del solo Crostella, anche perché acquisiti in parte prima del matrimonio.
Per contrastare il giudizio espresso nell’ordinanza impugnata, in ricorso si afferma che la relazione tra Crostella e Borissova doveva essere fatta decorrere dal matrimonio contratto nel 1997, mentre la proprietà dell’area in seguito edificata era entrata nel patrimonio di Borissova nel 1994, il permesso di costruire era stato rilasciato in quell’anno e l’approvazione del progetto risaliva al 1996, sicché nel 2006 era avvenuta soltanto la regolarizzazione urbanistica della costruzione, realizzata in epoca antecedente al rapporto di coniugio.
L’assunto difensivo ha già ricevuto adeguata e pertinente smentita nel provvedimento in esame, laddove si è rimarcato che, non soltanto non è dato conoscere il periodo di inizio della relazione sentimentale tra Crostella e Borissova, che certamente non può farsi decorrere dal momento delle nozze, ma anche che la pretesa automatica cointestazione ad entrambi i coniugi dei beni acquistati in costanza di matrimonio in Bulgaria, conseguenza della disciplina giuridica applicabile, è smentita documentalmente dal fatto che gli stessi sono risultati proprietari esclusivi di singoli cespiti: Crostella dell’appartamento di Sofia, ,via Chataldzha n, 49; Borrisova del terreno di Bankya e dell’appartamento di Sofia, via Kiril and Metodiy, n. 22. Inoltre, nessun travisamento dei dati documentali è ravvisabile, avendo la Corte di merito considerato in modo fedele le relative emergenze.
Non giova alla difesa nemmeno sostenere il modesto valore degli altri beni acquisiti in Bulgaria nel 2005 e delle polizze Intesa San Paolo Vita stipulate nel 2009 e la loro congruità rispetto alla redditualità di Borissova a prescindere da qualsiasi operazione interpositiva: il giudizio sull’impossibilità per la stessa di ottenere tali incrementi patrimoniali con mezzi personali è stato giustificato dai giudici di merito con motivazione esente da vizi giuridici e logici in base al confronto con gli emolumenti riscossi negli anni di acquisto, pari a 1.298,00 euro nel 2005 ed a 1.399,75 euro nel 2009, somme analoghe a quelle percepite negli anni precedenti, quando realmente incamerate.
Col quinto motivo Borissova e Miteva hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 666, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., che assumono in contrasto col diritto di difesa e di iniziativa economica di cui agli artt.3, 24 e 42 Cost., oltre che con gli artt. 6, comma 1, 13 della Convenzione EDU e 1 Prot. add. stessa Convenzione.
Il tema non è nuovo, perché è stato già risolto in termini condivisibili dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 29022 del 17/07/2001, Derouach, Rv. 219221. Tale decisione, nell’ammettere la possibilità che la confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 sia imposta anche con autonomo provvedimento del giudice dell’esecuzione, da adottarsi nell’ambito di procedimento che segue il rito degli incidenti di esecuzione, ha escluso ogni profilo di illegittimità costituzionale della relativa disciplina. Per pervenire a tale affermazione di principio, le Sezioni Unite hanno respinto la prospettazione, secondo la quale dovrebbe provvedersi soltanto nel giudizio di cognizione a contraddittorio pienamente attuato.
Hanno testualmente osservato: «l’obiezione più consistente che l’opposto orientamento muove al riguardo fa leva sul penetrante accertamento che di norma richiede la giustificazione della provenienza del possesso di patrimoni, anche per interposta persona, che il condannato deve dare, ove il valore sia sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla sua attività economica. Intanto, sul punto deve osservarsi che la procedura de plano in materia di confisca in sede esecutiva (art. 676 correlato all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.) postula una semplicità nell’accertamento – arg. anche dallo stesso art. 676, comma 2 – compatibile col provvedimento ablativo in oggetto ove i risultati da ricercare, emersi in sede di merito, siano contenuti nella sentenza di condanna o di patteggiamento. D’altra parte, non si rinviene una regola generale che riservi la procedura in discorso alla confisca codicistica ed è apodittico affermare che le questioni inerenti a tale misura siano sempre di facile soluzione, mentre tale semplicità non inerisce alla confisca speciale, richiedendosi di norma approfonditi accertamenti.
Tale assunto non ha un referente normativo che assurga a canone definitorio di competenza. Comunque, esperita la procedura de plano, l’interessato con l’opposizione avverso il provvedimento emesso può attivare il procedimento di esecuzione ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. che prevede la piena attuazione del contraddittorio (comma 4) e la possibilità di completa acquisizione probatoria (comma 5 e art. 185 disp. att. cod. proc. pen.) in ordine alla quale, in effetti, si esalta l’esercizio del diritto di difesa.
In ogni caso, nulla vieta al giudice dell’esecuzione di disporre sin dall’inizio, come si è verificato nel caso in esame, il procedimento di esecuzione, azionando direttamente il meccanismo del contraddittorio ai fini di un immediato accertamento probatorio (Cass. Sez. 1 9/8/2000 n. 3599 e Sez. 3 28/7/95 n. 2414). […] Sotto il profilo costituzionale, nessun problema d’illegittimità deriva accordando privilegio all’indirizzo che riconosce la competenza a disporre la confisca in questione al giudice dell’esecuzione.
Non in riferimento all’art. 24 Cost., comma 2, per quanto si è evidenziato, aggiungendo che il diritto di difesa non va inteso in senso assoluto ma va modulato secondo l’oggetto (altro è in relazione all’accertamento della colpevolezza, altro è in rapporto all’applicazione di una misura di sicurezza patrimoniale). Il fenomeno del contraddittorio differito, poi, è presente nel sistema (v. in materia di applicazione di misure cautelari, di procedimento per decreto), senza che il doppio grado di merito sia un postulato generale (arg. ex art. 111 Cost., art. 593, comma 3, cod. proc. pen. e, appunto, art. 666, comma 6, cod. proc. pen., nonché v. sentenze n. 236/84 e n. 116/74 della Corte Costituzionale)».
Nell’interpretazione offerta dalla sentenza Derouach, all’opposizione è assegnato il valore di strumento essenziale, ineliminabile anche quando la confisca sia disposta in una prima fase esecutiva nel contraddittorio delle parti, per far valere il diritto di difesa del soggetto condannato o del terzo e contrastare la domanda anche col ricorso ad acquisizioni probatorie. La trattazione da parte dello stesso giudice, pronunciatosi inizialmente de plano, non costituisce motivo di compromissione dell’effettività del diritto di difesa e del diritto ad ottenere una pronuncia a cognizione piena sui temi proposti dal condannato o dal terzo, ai quali, in conformità ai canoni del giusto processo ed ai principi costituzionali, è comunque riconosciuta la possibilità di impugnazione mediante ricorso per cassazione per far valere l’insussistenza dei presupposti applicativi della confisca.
Anche il possibile contrasto tra la confisca atipica disposta in sede esecutiva ed il diritto di proprietà ed iniziativa economica, tutelato dall’art. 42 Cost., è stato risolto negativamente dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 920 del 2003, L Montella, già citata, per la quale «[…] La prevenzione speciale e la dissuasione, perseguite non irragionevolmente dal legislatore attraverso la presunzione in esame, assolvono appunto ad una funzione sociale che è a fondamento dei limiti che il legislatore stesso può imporre». I dubbi di incostituzionalità non risultano fondati nemmeno sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), poiché nel caso specifico le limitazioni sul piano probatorio subite dai ricorrenti non sono dipese dalla trattazione della richiesta di confisca in sede esecutiva, piuttosto che nel processo ordinario di cognizione, quanto dalla natura e dai contenuti delle prove sollecitate, che, per gli aspetti di incertezza sulla provenienza e di scarsa verosimiglianza delle circostanze di fatto che si è chiesto di dimostrare nei termini già evidenziati, non avrebbero avuto accesso nemmeno nel giudizio di cognizione.
Infine, non ha pregio la denuncia di sperequazione nelle posizioni tra la pubblica accusa e la difesa a scapito degli interessi delle parti private, che non è rintracciabile nella struttura del procedimento esecutivo per come delineato nel sistema processuale. Il lamentato pregiudizio alla possibilità di articolare un’efficace strategia di contrasto della domanda di confisca non può riconoscersi nella necessità di superare la presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, che, come già detto, non opera nei riguardi dei terzi, ma soltanto del condannato.
Al contrario ai terzi è richiesta soltanto l’allegazione di circostanze giustificative specifiche e verificabili. In ragione di queste considerazioni parte della dottrina assume che proprio la sede esecutiva costituisce il momento processuale più idoneo ad affrontare la questione della confisca ed a deciderla nel contraddittorio delle parti, perché successivo alla condanna ed allo sforzo dimostrativo per conseguire l’accertamento di responsabilità in superamento della presunzione di non colpevolezza e per consentire l’esercizio più completo del diritto di difesa.
La compatibilità del modello procedurale esecutivo rispetto ai principi costituzionali evocati dalla difesa delle ricorrenti si apprezza anche in relazione al profilo dell’attribuzione al medesimo giudice, già pronunciatosi de plano, della competenza a decidere sull’opposizione ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. avverso il medesimo provvedimento. La Corte di cassazione si è già occupata del tema, osservando l’insussistenza di motivi incompatibilità, che presuppongono l’espressione di valutazioni di merito pregiudicanti nell’ambito di gradi o di fasi diverse del processo.
Tale condizione non si realizza nel giudizio di opposizione, che non ha natura di impugnazione e non rappresenta una fase distinta ed autonoma, ma integra un segmento, nell’ambito di un procedimento unitario, attraverso il quale si attua, in via eventuale e su iniziativa della parte stessa, il contraddittorio pieno. Per tale ragione, l’adozione della decisione sull’opposizione da parte dello stesso giudice non contrasta con le esigenze di imparzialità e di terzietà del giudice 20 (Sez. 1, n. 35580 del 25/11/2020, Rabeschi, non mass.; Sez. 1, n. 30638 del 14/02/2017, Lombardo, Rv. 270959; Sez. 1, n. 52058 del 10/06/2014, Bimbola, Rv. 261604).
In conclusione sul punto, va aggiunto che il dubbio di costituzionalità sollevato in relazione alla violazione del principio di eguaglianza risulta inammissibile per difetto di rilevanza, oltre che manifestamente infondato: il mancato accoglimento delle richieste difensive non dipende da inesistenti limitazioni alle facoltà probatorie in sede di incidente di esecuzione, bensì soltanto dalla genericità e dalla manifesta infondatezza delle prospettazioni.
Col sesto e col settimo motivo di ricorso, da valutarsi congiuntamente perché implicanti la soluzione del medesimo quesito in punto di diritto, le ricorrenti si dolgono della disposta confisca di elementi patrimoniali, conseguiti in data successiva alla pronuncia della sentenza di condanna in primo grado, emessa a carico di Crostella dal Tribunale di Milano il 17 maggio 2011 per il “reato-spia” di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 e, comunque, posteriori persino alla irrevocabilità della predetta sentenza che ha definito il processo di cognizione.
I motivi di ricorso prospettano la questione, sulla quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi, della individuazione del limite temporale per l’applicabilità della confisca obbligatoria, prevista dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 (ora dall’art. 240-bis cod. pen.), in riferimento alla acquisizione dei valori e dei beni di cui il condannato sia titolare, anche per interposta persona. La tematica si è posta all’attenzione degli interpreti a seguito dell’avvenuto riconoscimento, da parte delle Sezioni Unite nella citata sentenza Derouach, del potere del giudice dell’esecuzione di ordinare la confisca c.d. “allargata” «sul patrimonio del soggetto al momento della condanna o del patteggiamento». Da qui la necessità di stabilire se in sede esecutiva i beni e le utilità confiscabili siano quelli esistenti nel patrimonio al momento della pronuncia di condanna per uno dei reati inclusi nell’elencazione della norma stessa, oppure se si possa procedere anche su quelli pervenuti nella disponibilità del condannato successivamente alla detta pronuncia e sino al suo passaggio in giudicato.
La questione ha ricevuto soluzioni opposte nella giurisprudenza di questa Corte.
Un primo indirizzo interpretativo, sostenuto anche da parte della dottrina, ritiene che siano confiscabili soltanto i beni esistenti al momento della pronuncia della sentenza di condanna per il reato presupposto, salvo che ulteriori valori ed utilità, pervenuti al condannato in epoca successiva, costituiscano il reimpiego di risorse finanziarie già disponibili in precedenza. Sin dalle prime pronunce ascrivibili a questo orientamento (Sez. 1, n. 12047 del 11/02/2015, Nikolla, Rv. 263096; Sez. 2, n. 46291 del 06/11/2012, Polinti, Rv. 255239), si è ritenuto che ammettere l’ablazione di beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna significa negare ogni distinzione fra confisca obbligatoria ex art. 12-sexies dl. n. 306 del 1992 e confisca di prevenzione e riconoscere la possibilità di monitorare il patrimonio del reo attraverso indagini patrimoniali, condotte in fase di esecuzione senza limiti temporali, analogamente a quanto disposto per il settore della prevenzione dall’art. 19 del d.lgs. n. 159 del 2011. Inoltre, in tale ipotesi si finirebbe per gravare il giudice dell’esecuzione dell’accertamento tipico del giudizio di cognizione ed in termini ancora più estesi rispetto alla sede processuale di accertamento della responsabilità in ordine al “reato-spia”.
Poiché, invece, la confisca atipica presuppone il giudizio di colpevolezza del reo e viene adottata in sede esecutiva in funzione surrogatoria della mancata pronuncia del giudice della cognizione, il limite temporale per poterla disporre coincide con il momento della pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento, non con quello del suo passaggio in giudicato, pena lo stravolgimento dei confini che l’ordinamento processuale assegna alla giurisdizione esecutiva (Sez. 1, n. 22820 del 12/04/2019, Panfili, Rv. 276192; Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane; Sez. 1, n. 36592 del 28/03/2017, Barresi; Sez. 1, n. 17539 del 21/10/2016, dep. 2017, Consiglio, Rv. 269866).
Altro orientamento assume che la confisca atipica può aggredire, in sede esecutiva, anche beni pervenuti nel patrimonio del condannato fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato presupposto (Sez. 1, n. 51 del 19/12/2016, dep. 2017, Cecere, Rv. 269293). La citata sentenza muove dalla premessa che la confisca ex art. 12-sexies è strumento di privazione della ricchezza accumulata dal soggetto in quanto condannato per determinate gravi fattispecie di reato e non derivata dalla commissione dell’illecito penale e che, pertanto, non assume rilievo il nesso pertinenziale tra reato e bene e nemmeno il momento di acquisto di quanto da confiscare (precedente o successivo al reato per il quale è intervenuta condanna) così come non è nemmeno richiesto un giudizio di proporzione del suo valore rispetto al profitto ricavato (Sez. U, n. 920 del 2004, cit.).
Osserva, poi, che nel caso concreto esaminato dalle Sezioni Unite Montella la decisione era stata assunta in un procedimento cautelare, cui era risultato del tutto estraneo qualsiasi riferimento alla circostanza che gli acquisti fossero stati effettuati «in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna»; b) una parte dei beni colpita da sequestro finalizzato alla confisca atipica era stata acquistata in anni coincidenti con la commissione di alcuni episodi delittuosi per i quali si era proceduto; c) l’analisi era stata concentrata sulla « rilevanza del tempo con riguardo alla persistenza del sospetto di illecita accumulazione, essendo illogico escludere detto sospetto per i beni acquistati nell’arco temporale in cui il delitto è stato commesso». Pertanto, secondo Sez. 1 Cecere, gli acquisti vanno considerati in riferimento a due distinti ambiti temporali: l’uno anteriore al reato e l’altro ad esso successivo e protratto sino alla formazione del giudicato di condanna.
Per gli elementi patrimoniali conseguiti prima e durante la commissione del reato opera il criterio della “ragionevole distanza” da esso; per quelli successivi il limite temporale di confiscabilità coincide con la data di irrevocabilità della sentenza di condanna, poiché «fino a tale momento opera la presunzione d’illecita accumulazione del patrimonio». Le successive sentenze Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, Rv. 273612 e Sez. 1, n. 35856 del 17/05/2019, Iannò, Rv. 276717 hanno ribadito gli stessi principi, osservando che, poiché la presunzione di illecito arricchimento, introdotta dall’art. 12-sexies del dl. n. 306 del 1992, trova il proprio fondamento nell’accertamento definitivo della commissione di uno dei delitti indicati nel medesimo articolo e nel suo epilogo con la sentenza di condanna, essa determina anche l’estensione temporale sino alla quale opera la presunzione ed autorizza la sottoposizione a confisca dei beni acquistati o comunque entrati nella disponibilità del condannato fino alla data di passaggio in giudicato, oppure in un momento successivo ove si dimostri, in modo specifico ed incontroverso, che l’acquisto sia avvenuto con mezzi ottenuti prima della condanna.
Le Sezioni Unite ritengono di dover aderire al primo orientamento.
E’ opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale sull’istituto in esame, ricavabili da orientamenti ermeneutici ormai pacifici nella giurisprudenza di legittimità ed in dottrina. La “confisca in casi particolari”, in origine disciplinata dal dl. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, convertito dalla legge n. 356 del 1992, è ora prevista dall’art. 240- bis cod. pen. a seguito dell’introduzione con la legge n. 103 del 2017 del principio di riserva di codice, attuato dal digs. 1 marzo 2018, n. 21.
Quest’ultima disposizione stabilisce: «nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 51, comma 3- bis, del codice di procedura penale, dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 325, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 453, 454, 455, 460, 461, 517-ter e 517-quater, nonché dagli articoli 452-quater, 452-octies, primo comma, 493-ter, 512-bis, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 603-bis, 629, 644, 648, esclusa la fattispecie di cui al secondo comma, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1, dall’articolo 2635 del codice civile, o per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine costituzionale, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica».
Con specifico riferimento alla violazione dell’art. 73 del d.P.R. 30 ottobre 1990, n. 309, rilevante nel caso in esame, il Collegio osserva che la sua mancata inclusione nel catalogo dei reati che impongono la confisca, contenuto nell’art. 240- bis cod. pen., non ostacola l’applicazione della misura ablativa, atteso che con il d. Igs. n. 21 del 2018, contestualmente all’abrogazione dell’art. 12-sexies, commi 1, 2-ter, 4-bis, 4-quinquies, 4-sexies, 4-septies, 4-octies e 4-novies del dl. n. 306 del 1992, sono stati introdotti l’art. 240-bis con il medesimo contenuto delle norme abrogate e, nel corpo delle disposizioni del d.P.R. n. 309 del 1990, l’art. 85-bis, che testualmente recita «nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta, per taluno dei reati previsti dall’articolo 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, si applica l’articolo 240-bis del codice penale».
Tanto convince della mancata eliminazione dall’orizzonte normativo della previsione, già contenuta nell’art. 12- sexies, del reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 quale “reato-spia”, per effetto della sua sostituzione, in perfetta continuità prescrittiva, con il citato art. 85- bis, introdotto dalla stessa legge abrogante, che rimanda all’art. 240-bis cod. pen. attualmente vigente. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo, realizzatosi mediante l’intervento di riordino dei testi normativi contenenti la disciplina della confisca allargata, non ha determinato l’eliminazione della possibilità della sua applicazione a fattispecie concrete antecedenti all’entrata in vigore del d. Igs. n. 21 del 2018 ed all’abrogazione dell’art. 12-sexies, come accaduto nel caso in esame, poiché l’art. 240-bis si pone in rapporto di continuità con la disposizione abrogata (Sez. 1, n. 35580 del 25/11/2020, Rebeshi, non mass.; Sez. 1, n. 15542 del 12/11/2019, dep. 2020, Ianni, Rv. 278900).
Nella prassi applicativa la confisca in casi particolari è definita “atipica”, “allargata” o “estesa” per distinguerla dalle altre ipotesi di confisca obbligatoria, dalle quali si differenzia perché non colpisce il prezzo, il prodotto o il profitto del reato per il quale sia stata pronunciata condanna, ma beni del reo che, al momento del loro acquisto, siano non giustificabili e di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività svolta. La previsione normativa della confisca, che anche dalla collocazione sistematica qualifica la sua natura di misura di sicurezza patrimoniale, replicante alcuni caratteri della misura di prevenzione antimafia disciplinata dalla legge n. 575 del 1965 e la stessa finalità preventiva perseguita (Sez. U, n. 29022 del 2001, Derouach, cit.), trae giustificazione dalla presunzione relativa di accumulo di ricchezza illecita da parte del soggetto condannato penalmente.
L’accertata responsabilità per taluni reati tassativamente elencati di particolare gravità ed allarme sociale costituisce “spia” ovvero indice presuntivo della commissione di altre attività illecite, fattori di un arricchimento che l’ordinamento intende espropriare per prevenirne l’utilizzo quale strumento per ulteriori iniziative delittuose.
Nell’ottica del contrasto alla proliferazione del crimine, il legislatore consente una semplificazione probatoria, che si realizza mediante lo svincolo dell’oggetto dell’ablazione dal reato e l’onere, gravante sul condannato titolare o detentore dei beni da confiscare, di giustificarne la provenienza mediante specifica allegazione di elementi in grado di superare la presunzione e di elidere l’efficacia dimostrativa dei dati probatori offerti dall’accusa.
Sul piano dell’analisi testuale, la disposizione dell’art. 12-sexies, così come quella dell’art. 240-bis cod. pen., non contiene indicazioni per la soluzione del quesito devoluto alle Sezioni Unite, dal momento che si limita a stabilire che la confisca va “sempre” disposta, prevedendo così la sua obbligatoria applicazione, quando sia intervenuta la condanna per taluno dei reati previsti. In via interpretativa è pacificamente escluso che la disposizione di legge pretenda che tra i beni del condannato ed il delitto presupposto sussista un collegamento di derivazione quale profitto o provento dello stesso, oppure un nesso pertinenziale (Sez. U, n. 920 del 2004, Montella, cit.; Sez. U, n. 29022 del 2001, Derouach, cit.). La relazione tra “reato-spia” ed elemento patrimoniale non è espressa dal legislatore in termini di produzione causale del secondo ad opera del primo, né di proporzione di valore tra i due elementi, ragione per la quale anche la collocazione temporale dell’incremento della ricchezza del condannato di per sé non assume rilievo quale criterio di selezione dei beni confiscabili.
Nel silenzio della norma di riferimento, secondo la lettura offerta dalle Sezioni Unite nella sentenza Montella, «essendo la condanna e la presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realtà attuali, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna». Tra i pochi dati obiettivamente ricavabili dal testo normativo, vi è la necessaria subordinazione della confisca all’accertamento della responsabilità penale per uno dei reati inclusi nella sua elencazione.
La configurazione della confisca atipica come collegata al giudizio di sussistenza del reato – definito nella prassi “spia”, “matrice” o “sorgente” – e di commissione da parte dell’imputato, o comunque alla accettazione dell’ipotesi accusatoria, implicita nella pronuncia di applicazione della pena a richiesta delle parti, nonché il tenore di un nutrito novero di disposizioni sostanziali e processuali, che ne menzionano l’adozione con sentenza, autorizzano a ritenere che il relativo provvedimento trovi la sua collocazione naturale nell’ambito del giudizio di cognizione e della pronuncia giudiziale che lo definisce.
In tal senso militano: l’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., per il quale «con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza»; l’art. 546, comma 1, lett. e) n. 2, cod. proc. pen. che, in tema di requisiti della sentenza e di obbligo di motivazione, lo impone anche in ordine alle «misure di sicurezza»; gli artt. 417, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. per la richiesta di rinvio a giudizio, 429, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il decreto che dispone il giudizio e 552, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il decreto di citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero, i quali, fra i requisiti formali dei rispettivi atti, prescrivono di specificare il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza; l’art. 579, commi 1 e 2, cod. proc. pen., secondo il quale l’impugnazione può investire i punti della sentenza riguardanti le sole misure di sicurezza; l’art. 578-bis cod. proc. pen., per il quale, quando sia stata applicata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’art. 240-bis cod. pen., in caso di proscioglimento dell’imputato per estinzione del reato per prescrizione o amnistia, il giudice dell’impugnazione decide ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato; l’art.597 cod. proc. pen. che assoggetta al divieto di reformatio in peius anche le statuizioni della sentenza applicative di misure di sicurezza; l’art. 205 cod. pen., a norma del quale «le misure di sicurezza sono ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento» e solo in via di eccezione, nei casi previsti dalla legge, anche con provvedimento successivo.
Con l’introduzione dell’art. 183-quater disp, att. cod. proc. pen, ad opera del d. Igs. n. 21 del 2018 si sono tradotti in disposizione di legge i principi affermati dalle Sezioni Unite con la pronuncia Derouach, costantemente ribaditi dalle pronunce di legittimità successive (ex multis: Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018, Spaziante, Rv. 276183; Sez. 6, n. 5018 del 17/11/2011, dep. 2012, Chafìk, Rv. 251792; Sez. 1, n. 19516 dell’01/04/2010, Barilari, Rv. 247205; Sez. 1, n. 22752 del 09/03/2007, Billeci, Rv. 236876) e si è stabilito che: «competente ad emettere i provvedimenti di confisca in casi particolari previsti dall’art. 240-bis del codice penale o da altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, dopo l’irrevocabilità della sentenza è il giudice di cui all’articolo 666 commi 1, 2 e 3 del codice».
Anche questo intervento legislativo non apporta, tuttavia, elementi utili per il componimento del contrasto, rimesso alle Sezioni Unite, poiché esso, se da un ’76 lato consente esplicitamente che la confisca allargata sia disposta in fase esecutiva, dall’altro non chiarisce, né delimita il possibile oggetto della misura da adottare dopo la formazione del giudicato di condanna, lasciando irrisolti gli interrogativi sollevati nel caso in esame.
Le Sezioni Unite ritengono che la soluzione risieda, in primo luogo, nella considerazione del presupposto soggettivo della confisca e della collocazione sistematica della giurisdizione esecutiva.
Sotto il primo profilo, il legislatore ha scelto di delineare la confisca allargata quale misura di sicurezza che, seppur basata su un sistema probatorio presuntivo, è necessariamente dipendente dalla sussistenza del “reato-spia”. L’accertamento giudiziale della configurabilità in tutti i suoi elementi costitutivi di una delle fattispecie criminose previste dall’art. 240-bis cod. pen. fonda il sospetto che il condannato (o chi ha definito il processo con sentenza di patteggiamento) abbia tratto dall’attività delittuosa le forme di ricchezza di cui dispone, anche per interposta persona.
Il giudizio di colpevolezza in ordine al reato commesso e la natura particolare di questo, idoneo ad essere realizzato in forma continuativa e professionale ed a procurare illecita ricchezza, fanno ritenere l’origine criminosa di cespiti, di cui si sia titolari in valore sproporzionato rispetto a redditi ed attività, in base alla presunzione relativa della loro derivazione da condotte delittuose ulteriori rispetto a quelle riscontrate nel processo penale, che, comunque, costituiscono la base della presunzione stessa. Nella considerazione del legislatore, quindi, l’attribuzione al soggetto della commissione di uno dei “reati-spia” costituisce indicatore dell’acquisizione dei beni, sia pure non per derivazione da quel reato specifico.
E’ la previsione di tale imprescindibile condizione a dare ragione del fatto che il processo di cognizione costituisce la sede naturale ed ordinaria per imporre la confisca, unitamente alle altre statuizioni penali, in un unico contesto deliberativo. La “destinazione funzionale” della sentenza quale provvedimento che deve contenere la decisione anche sulla confisca trova conferma nell’impossibilità di provvedervi in sede esecutiva, quando la relativa domanda sia stata già respinta dal giudice della cognizione, o di revocarla, se disposta in quella sede.
L’unica eccezione all’intangibilità della decisione di confisca, dipendente dal giudicato, è ravvisabile nei riguardi del terzo non partecipe al processo già definito ed ammesso a proporre incidente di esecuzione per ottenere la revoca della misura (Sez. 1, n. 4096 del 24/10/2018, dep. 2019, Lacatus, Rv. 276163; Sez. 3, n. 29445 del 19/06/2013, Principalli e altro, Rv. 255872; Sez. 3, n. 7036 del 18/01/2012, Aharens, Rv. 252022; Sez. 1, n. 3311 del 11/11/2011, deo. 2012, Lonati, Rv. 251845).12.2. Nella giurisprudenza di questa Corte è, piuttosto, controverso il valore da assegnare alla conclusione del processo ed alla formazione del giudicato. Per la tesi sostenuta dalle pronunce più recenti, che si inseriscono nel primo orientamento tra quelli citati al paragrafo
Il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento del “reato-spia” costituisce soltanto il momento terminale del giudizio di cognizione, a partire dal quale la competenza a decidere sulla confisca allargata spetta al giudice dell’esecuzione. Pertanto, non opera anche quale limite temporale finale per aggredire quanto entrato nel patrimonio del condannato. Per l’altra linea interpretativa, invece, sino all’irrevocabilità della decisione non si realizza la condizione dell’affermazione della responsabilità in ordine al reato presupposto, cui è subordinata l’applicabilità della presunzione di acquisto illegale dei beni, ed il giudicato rappresenta anche il limite finale sino al quale opera la presunzione stessa.
Per come strutturata, la norma di cui all’art. 183 -quater disp. att. cod. proc. pen. si limita ad esplicitare il conferimento al giudice dell’esecuzione della competenza ad adottare i provvedimenti sulla confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen., peraltro già genericamente previsto dall’art. 676 cod. proc. pen., per significare che si tratta delle stesse determinazioni che avrebbero potuto e dovuto essere adottate con la sentenza. L’estensione in tali termini della sfera di attribuzioni della giurisdizione esecutiva non muta e non amplia l’orizzonte decisorio, poiché l’intervento del giudice dell’esecuzione è concepito come surrogatorio e residuale sul presupposto dell’omessa adozione della confisca nella sua sede propria, quella di cognizione. Se, dunque, dopo il giudicato di condanna si può e si deve ancora disporre la confisca, ciò potrà avvenire soltanto nel rispetto dei limiti e dell’ambito cognitivo del giudice che ha accertato la responsabilità penale in ordine al “reato spia”.
Tale considerazione e ragioni di coerenza sistematica impongono di affermare la perfetta simmetria del potere di ablazione in casi particolari dei beni del condannato, esercitatile entro gli stessi confini, tanto in fase di cognizione, quanto in quella di esecuzione e di negare in quest’ultima situazione processuale uno spazio di intervento più esteso sino a consentire la confisca di elementi patrimoniali pervenuti al condannato dopo la pronuncia di condanna o, persino, dopo il giudicato. Del resto, anche sul piano pratico, all’atto dell’emissione della sentenza di condanna o di patteggiamento il giudice conosce e valuta i fatti rappresentati dai mezzi di prova assunti sino a quel momento, e, quanto alla confisca, può attingere soltanto i beni esistenti e noti nella fase del procedimento che ha celebrato, senza poter estendere il proprio giudizio ad altri cespiti non ancora entrati nel patrimonio dell’imputato o dei terzi. La limitazione che vale per il giudice della cognizione, per la descritta simmetria di funzioni e di poteri, circoscrive anche l’ambito oggettivo della confisca in sede esecutiva.
Le considerazioni sinora svolte trovano conferma anche nella giurisprudenza costituzionale. Invero, pronunciando in ordine al sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12 -sexies dl. n. 306 del 1992, la Consulta ne ha affermato la legittimità a ragione della sua strumentalità ad impedire la sottrazione o dispersione dei beni da confiscare in ipotesi di condanna (Corte cost., ord. n. 18 del 1996), così riconoscendo che il sequestro deve essere emesso in via ordinaria nel corso del giudizio di cognizione ed in funzione del suo esito; pertanto, ove sia disposto da parte del giudice di esecuzione dopo la sentenza di condanna, non per questo si può autorizzare la modifica della «prospettiva temporale, che è anche prospettiva funzionale, connessa a tale misura ed alla confisca rispetto a cui il sequestro è strumentale» (Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane, cit.).
La diversa tesi, sostenuta anche dal Procuratore generale nella sua requisitoria, che afferma l’autonomia della competenza, attribuita dall’art. 183- quater, perché svincolata dai limiti propri del giudizio di cognizione, fa affidamento sulla natura innovativa della previsione e sulla funzione della confisca, finalizzata a privare il soggetto responsabile di gravi illeciti della ricchezza conseguita grazie alla commissione, rimasta “sommersa” ed incerta nei dati circostanziali di perpetrazione, di altri reati. Secondo tale prospettiva, sarebbero aggredibili le utilità, magari non individuate nel corso del processo già definito, di valore sproporzionato e non giustificato nella lecita provenienza, pervenute al condannato sia prima che dopo la sentenza definitiva che lo ha condannato.
A tale ricostruzione difetta, però, il necessario riscontro normativo, poiché l’art. 183-quater, come già detto, in tema di confisca conferisce al giudice una competenza in nulla diversa rispetto a quella esercitabile in fase di cognizione, tanto meno più estesa. Per superare tale considerazione non giova nemmeno richiamare la riflessione più generale e di ordine sistematico sul ruolo assegnato dall’ordinamento al giudice dell’esecuzione ed i penetranti poteri riconosciutigli di intervento sul giudicato. L’argomentazione, per quanto corretta in linea teorica, non si confronta con lo statuto normativo specifico della confisca allargata e non considera la asimmetria cognitiva che in modo ingiustificato verrebbe determinata dal riconoscimento al solo giudice dell’esecuzione del potere di confiscare beni, acquisiti dal condannato sino all’irrevocabilità della pronuncia di condanna, potere non egualmente esercitatile dal giudice in sede di cognizione.
Inoltre, pur essendo indiscutibile che il giudizio di penale responsabilità interviene soltanto con la sentenza definitiva, ritenere che la condanna cui, in assenza di ulteriori specificazioni, fa riferimento l’art. 240-bis cod. pen. sia soltanto quella irrevocabile, comporta effetti distonici con il proposito del legislatore e persino paradossali, poiché, a stretto rigore, tale condizione non sussisterebbe mai per il giudice della cognizione, che sarebbe sempre inibito dal disporre la confisca con la propria sentenza, perché non ancora formatosi il giudicato sulla condanna dalla stessa stabilita.
L’orientamento interpretativo qui disatteso non si misura nemmeno con l’ulteriore argomento, fatto proprio dal primo indirizzo, secondo il quale l’opposta lettura della confisca allargata, disposta in esecuzione, finirebbe per annullare ogni distinzione rispetto alla confisca di prevenzione, rivelando un’inutile duplicazione di istituti giuridici. Infatti, se il momento della emissione della sentenza di condanna (o di patteggiamento) non costituisse lo sbarramento temporale, oltre il quale è impedita la confisca allargata e se fosse consentita la conduzione sine die di indagini patrimoniali per l’individuazione dei beni pervenuti al condannato anche in tempi ad essa successivi, si consentirebbe un’esplorazione continua ed illimitata, analoga a quella che l’art. 19 del d. Igs. n. 159 del 2011 consente per la formulazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione reale.
Come correttamente osservato nell’ordinanza di rimessione, le due misure ablatorie presentano indubbie affinità di funzioni e di effetti, poiché «il legislatore utilizza […] la condotta illecita formalizzata (il reato-spia) come indice rivelatore di una particolare pericolosità soggettiva ed adotta un modello descrittivo dell’analisi patrimoniale (disponibilità anche indiretta dei beni, mancata giustificazione della provenienza, sproporzione di valore con il reddito dichiarato o con i risultati dell’attività economica svolta) del tutto coincidente con quello elaborato nel settore della prevenzione patrimoniale». Risponde al vero che da tempo è in atto un progressivo allineamento della rispettiva disciplina giuridica, al punto che anche la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato marcati profili di assonanza, individuati nel requisito della pericolosità sociale del destinatario, nell’assenza del nesso di derivazione dal reato dell’utilità confiscata e nella comune finalità di contrasto alla criminalità lucrogenetica (Corte cost., sent. n. 33 del 2018 e sent. n. 24 del 2019).
Tuttavia, l’affermazione che le due forme di confisca costituiscono «altrettante species di un unico genus […] identificato nella confisca dei beni di sospetta origine illecita» (Corte cost., n. 24 del 2019, punto 10.3) non può essere condotta sino alle estreme conseguenze per desumerne la loro coincidenza, posto che esse mantengono autonomia ontologica e parziale divergenza di requisiti, che il secondo orientamento finisce per negare inconsapevolmente. E’ sufficiente considerare al riguardo che il principale elemento differenziale consiste nella superfluità dell’instaurazione di un processo penale nei confronti del soggetto e del giudicato sulla responsabilità penale quale presupposto soggettivo per imporre la confisca di prevenzione, che pretende piuttosto l’inquadramento in una delle categorie di pericolosità tipizzate dagli artt. 1 e 4 del d. Igs. 159 del 2011, oltre che nella ben più ampia piattaforma probatoria attingibile per il giudizio prevenzionale.
Ad avviso delle Sezioni Unite s’impone la necessità di fornire una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto in esame. La confisca, adottata in sede esecutiva, di beni pervenuti al condannato fino o anche dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna o di patteggiamento comporta possibili ingiustificate disparità di trattamento tra soggetti, che, seppur chiamati a rispondere dello stesso illecito quale “reato-spia”, verrebbero a subire la privazione definitiva dei loro beni in misura diversa e con maggior pregiudizio a seconda che la confisca sia adottata dal giudice all’atto della pronuncia della sentenza di condanna, piuttosto che in esecuzione.
Solo in questo secondo caso, infatti, verrebbe ampliata l’area della confiscabilità in dipendenza di fattori del tutto estranei al volere del condannato ed al di fuori della sua sfera di controllo. Di conseguenza il criterio differenziale sarebbe costituito dai motivi di opportunità, che hanno guidato le scelte operate dal pubblico ministero sul momento di proposizione della domanda. Tale opzione ermeneutica comporterebbe la violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché in modo illogico e privo di valida giustificazione determinerebbe un differente trattamento di situazioni eguali.
Altrettanto vulnerato ne risulterebbe il principio di ragionevolezza con effetti contra reum: la protrazione del processo per effetto di impugnazione proposta dall’imputato, e per tempi non preventivabili, in dipendenza della legittima aspettativa di riforma della condanna emessa in primo grado, finirebbe per penalizzarlo, in quanto legittimerebbe un più esteso potere di aggressione patrimoniale, conseguente alla proposizione dell’istanza di confisca al giudice dell’esecuzione. In altri termini, l’esigenza di garanzia, che ispira il riconoscimento al condannato della facoltà di impugnazione, potrebbe risolversi in un fattore di pregiudizio e di inibizione dell’assunzione di iniziative che dilatino la durata del processo per il timore di vedersi espropriati beni acquisiti successivamente alla condanna, subita in primo grado, in conseguenza della maggiore protrazione del giudizio a causa delle impugnazioni proposte.
Al contrario, soltanto riconoscendo che la pronuncia della sentenza di condanna (o di patteggiamento) costituisce il termine finale di riferimento per operare la confisca dei beni ex art. 240-bis cod. pen. si assicura identità di regime giuridico a situazioni coincidenti e si prevengono strumentali iniziative temporeggiatrici dell’accusa, finalizzate ad ottenere una confisca più estesa iin sede esecutiva.
Gli inconvenienti segnalati sul piano del possibile contrasto con i principi costituzionali si risolvono, facendo ricorso al criterio della “ragionevolezza temporale”.
La premessa di fondo da cui muove l’intera costruzione dogmatica dell’istituto della confisca in casi particolari, come già detto, si basa sull’assenza del nesso di pertinenzialità tra il reato presupposto ed i beni da confiscare e tale postulato dà ragione della negazione in via di principio della rilevanza, quale criterio normativo di selezione dei beni aggredibili, della relazione di collegamento temporale tra momento della loro acquisizione ed il tempus commissi delicti.
Per le Sezioni Unite Montella e per le decisioni successive sono appunto confiscabili indifferentemente i cespiti pervenuti al condannato in epoca anteriore o successiva alla commissione del “reato spia”, poiché non è pretesa la loro acquisizione in periodo coincidente con la specifica condotta di reato giudicata. L’assenza di un collegamento di natura cronologica tra l’ingresso nel patrimonio del soggetto di ricchezza, sproporzionata ed ingiustificata nella sua origine, e l’attività criminosa presupposta, di per sé consentirebbe applicazioni illimitate della misura ablativa con effetti fortemente pregiudicanti i diritti di proprietà e di iniziativa economica del destinatario, oltre a rendergli molto difficoltosa, se non impossibile, la dimostrazione della legittima provenienza degli incrementi patrimoniali distanziati dal reato, specie se ad esso di molti anni antecedenti.
La giurisprudenza della Corte di cassazione a Sezioni semplici già da tempo ha avvertito la necessità di rinvenire un punto di equilibrio tra la finalità del contrasto alla criminalità lucrogenetica ed il sacrificio dei diritti di proprietà individuali, consapevolezza che ha ispirato la linea interpretativa, per la quale le possibilità applicative della confisca allargata vanno circoscritte in funzione del criterio della “ragionevolezza temporale”. Con tale locuzione s’intende significare che il momento di acquisto del bene non deve essere talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato-spia” da determinare l’irragionevolezza della presunzione di derivazione da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella giudicata (Sez. 1, n. 41100 del 16/04/2014, Persichella, Rv. 260529; Sez. 4, n. 35707 del 07/05/2013, D’Ettorre, Rv. 256882; Sez. 1, n. 2634 del 11/12/2012, Capano, Rv. 254250, Sez. 4, n. 12734 del 16/01/2014, Valentino; Sez. 1, n. 11049 del 05/02/2001, Di Bella, Rv. 226051).
Un approccio ermeneutico ispirato da analoghe esigenze di garanzia ha indotto in via interpretativa anche alla delimitazione temporale dell’area oggettiva della confisca di prevenzione: le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli ed altro, Rv. 262605, hanno affermato n ‘ come necessario per garantire la costituzionalità della misura reale che, nella ricognizione dei presupposti richiesti, sia assicurata la correlazione temporale tra l’acquisto del bene e la manifestazione di pericolosità sociale, la quale, oltre che presupposto imprescindibile della confisca, costituisce anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, nel senso che sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è accertata la pericolosità sociale.
Assume rilievo significativo che il criterio, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, sia stato assunto anche dalla Corte costituzionale a parametro di verifica della tenuta costituzionale della confisca in casi particolari. Con la sentenza interpretativa di rigetto n. 33 del 2018 la Consulta, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata nell’ambito di una procedura di esecuzione, dell’art. 12-sexies nella parte in cui include la ricettazione tra i delitti presupposto, ha riconosciuto che la coerenza col sistema dei valori costituzionali della presunzione relativa di illecita accumulazione dei beni di valore sproporzionato pretende che essa «sia circoscritta […] in un ambito di ragionevolezza temporale».
Ha specificato tale concetto, affermando che il momento di acquisizione del bene da confiscare non dovrebbe risultare così lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, anche se differente da quella che ha determinato la condanna e rimasta priva di un positivo accertamento.
A tal fine, il criterio della ragionevolezza temporale impedisce la abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata” ed il monitoraggio patrimoniale dell’intera vita del soggetto, sebbene condannato per un singolo reato compreso nella lista. Pur senza spingersi a suggerire concreti elementi orientativi del giudizio sulla ragionevole distanza tra reato ed acquisto del bene confiscabile, la Corte costituzionale ha precisato che la stessa va determinata in riferimento «alle caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela» e che compete al giudice verificare se, in relazione a tali circostanze e alla personalità del reo, la vicenda criminosa risulti episodica ed occasionale e produttiva di modesto arricchimento, così da non corrispondere al “modello” normativo che fonda la presunzione che ricostruisce in via indiziaria la illiceità della ricchezza acquisita.
La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema evidenzia la costante adesione ai medesimi principi, divenuti patrimonio del diritto vivente, seppur applicati in riferimento a fattispecie concrete nelle quali al giudice dell’esecuzione era stata posta la questione con esclusivo riferimento all’anteriorità dell’acquisto dei cespiti rispetto all’epoca di commissione del “reato- spia” (Sez. 2, n. 32626 del 26/10/2018, Grillo, Rv. 274468; Sez. F., n. 56596 del 03/09/2018, Balsebre ed altri, Rv. 274753; Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, cit.; Sez. 5, n. 21711 del 28/02/2018, Betti, Rv. 272988).
Ulteriore sollecitazione all’individuazione di limiti di natura temporale all’operatività della presunzione di illecito arricchimento di chi sia stato condannato per determinate fattispecie di reato si coglie nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014, con la quale sono state dettate prescrizioni per la regolamentazione nell’Unione Europea del congelamento e della confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato e che ha ricevuto attuazione nell’ordinamento italiano con il d. Igs. 29 ottobre 2016, n. 202, contenente modifiche all’art. 240 cod. pen. ed all’art. 12 -sexies del dl. n. 306 del 1992. La Direttiva, con il dichiarato scopo programmatico di «modificare e ampliare le disposizioni delle decisioni quadro 2001/500/GAI e 2005/212/GAI», pur nel suo limitato contenuto di previsione di norme minime, «non impedisce agli Stati membri di attribuire poteri più estesi nel proprio diritto nazionale» (punto 22 del considerando).
In particolare, all’art. 5 detta la nozione di “confisca estesa” di beni derivanti da condotte criminose, anche se non accertate dall’autorità giudiziaria, ma imposta in base alla probabilità che siano di origine illecita, nel cui schema rientra pacificamente la confisca in casi particolari ex art. 240-bis cod. pen.; quindi, al successivo punto 21 del considerando ha espressamente previsto: «In tale contesto, l’autorità giudiziaria deve considerare le circostanze specifiche del caso, compresi i fatti e gli elementi di prova disponibili, in base ai quali può essere adottata una decisione di confisca estesa. Una sproporzione tra i beni dell’interessato e il suo reddito legittimo può rientrare tra i fatti idonei ad indurre l’autorità giudiziaria a concludere che i beni derivano da condotte criminose.
Gli Stati membri possono inoltre fissare un periodo di tempo entro il quale si può ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose». Dal citato testo legislativo comunitario si trae, dunque, conferma del possibile ricorso alla delimitazione temporale della presunzione, che autorizza la confisca, quale strumento per assicurare il rispetto del principio di necessità e proporzionalità del sacrificio imposto al destinatario della misura, riconosciuto dagli artt. 42 della Convenzione EDU e 1 del Protocollo addizionale, e per contenere il potere statuale di espropriare ricchezza di origine illecita, cui si ispira anche il criterio di ragionevolezza temporale, elaborato dalla giurisprudenza italiana. La rassegna delle fonti normative sopranazionali consente di ricavare altro argomento rafforzativo della tesi esposta: il Regolamento n. 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e confisca, emessi in procedimenti in materia penale, adottato il 14 novembre 2018 dal Parlamento europeo e dal Consiglio, al considerando punto 15 impone che «le decisioni da riconoscere ed eseguire siano presumibilmente sempre prese in conformità dei principi di legalità, sussidiarietà e proporzionalità», concetto ribadito al punto 21, per il quale «Nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, l’autorità di emissione dovrebbe assicurare il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità».
Il medesimo criterio di ragionevolezza temporale, con analoghi effetti e finalità, deve essere riferito anche alle situazioni in cui l’acquisizione patrimoniale si collochi in un momento successivo alla perpetrazione del “reato-spia” e l’intervento ablatorio sia richiesto al giudice dell’esecuzione. Le Sezioni Unite ritengono debba essere superato il principio affermato dalla sentenza Montella di indifferenza del momento in cui il bene da confiscare sia entrato nel patrimonio del soggetto che amplia a dismisura l’area della confiscabilità.
Al contrario, ferma restando la natura non pertinenziale della relazione tra cosa e reato e l’assenza del nesso di derivazione della prima dal secondo, vanno ritenuti confiscabili anche gli elementi patrimoniali acquisiti dopo la perpetrazione del reato, purché non distaccati da questo da un lungo lasso temporale che renda irragionevole la ablazione e, comunque, non successivi alla pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento. Ammettere la confisca anche in caso di divario cronologico di molti anni tra compimento dell’attività criminosa e successivo conseguimento dei valori sproporzionati darebbe luogo ai medesimi dubbi di costituzionalità per irragionevolezza e sproporzione per eccesso del mezzo rispetto al fine che sono stati riconosciuti dalla Corte costituzionale.
Diversamente da quanto osservato dalla Sezione rimettente, lo scrutinio sulla ragionevolezza temporale non è estraneo e non opera su un piano diverso rispetto all’ambito oggettivo della confiscabilità dei beni in sede esecutiva, dal momento che decidere se la disposizione dell’art. 240-bis cod. pen. imponga di apprendere consistenze patrimoniali esistenti al momento della emissione della decisione di condanna o al momento del suo passaggio in giudicato riguarda situazioni concrete di aggressione di forme di ricchezza pervenute necessariamente dopo il reato giudicato. Inoltre, nella prassi giudiziaria non è infrequente che i tempi di avvio e di definizione anche solo in primo grado del processo si distacchino notevolmente dalla consumazione dell’illecito sorgente.
Dalle premesse poste deve pervenirsi alla conclusione che il momento dell’acquisto dei beni da sottoporre a confisca non è indifferente alla dimensione temporale del reato presupposto, ma deve risultare a distanza ragionevole dallo stesso, tanto se antecedente, come se successivo. La limitazione in termini che devono essere ragionevoli del distacco tra i due elementi a raffronto concorre anche ad individuare nella emissione della sentenza di condanna o di patteggiamento, non nella data di irrevocabilità, il termine ultimo ed invalicabile di operatività della presunzione di provenienza illecita dei beni del condannato di valore sproporzionato al reddito o all’attività svolta, che il giudice deve sempre rispettare, sia se si pronunci nella fase della cognizione, sia che intervenga in sede esecutiva.
Tanto comporta il riconoscimento della possibilità che un’acquisizione patrimoniale, collocata in un tempo successivo, ma molto distanziato dal “reato- spia”, renda irragionevole il giudizio presuntivo sulla sua origine criminosa, anche se antecedente al processo penale ed al momento di ricostruzione della responsabilità dell’imputato. Al contrario, collocare il termine ultimo della confiscabilità dei beni nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, che segue di anni anche il solo avvio del processo penale e si distanzia ancor più dalla consumazione del delitto sorgente, significa ignorare l’esigenza di ragionevolezza ed il parametro che, nell’interpretazione della Consulta, garantisce la legittimità costituzionale della confisca per sproporzione.
S’impongono ulteriori precisazioni. Poiché l’affermazione della responsabilità dell’imputato può intervenire in gradi diversi a seconda dello sviluppo concreto del rapporto processuale e dell’impulso che vi diano le parti con la proposizione delle impugnazioni, per sentenza di condanna deve intendersi quella emessa dal giudice di merito in primo grado – se nei successivi sia confermata o riformata soltanto in punto di pena – in grado di appello o di rinvio in ipotesi di riforma di una precedente pronuncia assolutoria. Inoltre, in situazioni di processi cumulativi sul piano oggettivo o soggettivo la medesima osservazione va riferita alla statuizione adottata per ciascun reato presupposto e nei confronti di ognuno degli imputati chiamati a risponderne. Pertanto, il momento finale di aggredibilità a fini di confisca del loro patrimonio potrebbe variare, pur nell’ambito dello stesso unico processo, in dipendenza delle vicende riguardanti i singoli capi della sentenza.
Va, infine, ribadita l’ammissibilità, pacifica per entrambi gli orientamenti interpretativi contrapposti, della confisca, quando sia offerto congruo riscontro probatorio, di beni pervenuti anche in data successiva alla sentenza come sopra individuata nei casi in cui i cespiti siano frutto del reimpiego di mezzi finanziari acquisiti in un momento antecedente alla sentenza stessa, oppure si tratti di denaro o di altri strumenti di investimento mobiliare, preesistenti alla sentenza e solo in seguito scoperti o rinvenuti, ossia di beni che si sarebbe potuto confiscare nel processo di cognizione (Sez. 1,n. 51 del 19/12/2016, dep. 02/01/2017, Cecere, cit; Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane, cit.; Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, cit.).
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Il 18 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite Penali della Cassazione n. 42415, secondo cui, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerarlo oggetto di ablazione.
Più nel dettaglio, la questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.
Le Sezioni Unite hanno più volte esaminato il perimetro della confisca diretta del prezzo e del profitto del reato consistente in una somma di denaro.
Per prima, Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, Rv. 228166, ha affermato che è ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono profitto di reato sia nel caso in cui la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, sia quando sussistono indizi per i quali il denaro di provenienza illecita risulti depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare.
Nel valorizzare la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento, tale pronuncia ha escluso che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, ben potendosi apprendere la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purchè sia attribuibile all’indagato. La sentenza sottolinea, inoltre, che l’ablazione di quegli attivi monetari o finanziari richiede comunque la sussistenza del rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa).
Sul tema della correlazione tra il bene da aggredire con la confisca diretta – e, quindi, con il sequestro ad essa preordinato – e il reato produttivo di utile economico, le Sezioni Unite sono tornate con altra sentenza, secondo la quale, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322 ter c.p., costituisce profitto del reato anche il bene immobile acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700).
Dopo aver ribadito che “nel concetto di profitto o provento di reato vanno compresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che lo stesso realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa”, quella sentenza ha chiarito che la nozione di profitto del reato “deve essere riguardata in rapporto all’arricchimento complessivo” e ha precisato che “una corretta interpretazione letterale dell’art. 240 c.p., e logico-sistematica dell’istituto della confisca” impone che “qualsiasi trasformazione che il denaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto del reato quando sia causalmente collegata al reato stesso ed al profitto immediato – il denaro – conseguito e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto”.
Nell’abbracciare “una nozione di profitto estensibile anche ai beni ottenuti indirettamente dal reo attraverso l’utilizzo del profitto stesso”, le Sezioni Unite hanno inoltre fatto espressamente proprio il principio di diritto – già affermato da Sez. 6, 14/6/2007, Puliga, Rv. 236984 – secondo cui, quando il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art. 322 ter c.p., comma 1, il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato finalizzato a confisca diretta.
Dopo aver ritenuto di dover superare tanto le decisioni che suggeriscono una interpretazione più restrittiva della nozione di profitto e che sottolineano la necessità di una stretta e diretta correlazione tra il profitto confiscabile e la condotta illecita (Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, cit.; Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226490), quanto la dottrina che riferisce il profitto del reato unicamente “al primo rapporto di scambio”, la sentenza in esame ha quindi affermato che il bene costituente profitto di reato è suscettibile di confisca diretta ogni qualvolta esso sia ricollegabile causalmente in modo preciso all’attività criminosa posta in essere dall’agente. Sicchè è necessario “che siano indicati in modo chiaro gli elementi indiziari sulla cui base determinare come i beni sequestrati possano considerarsi in tutto o in parte l’immediato prodotto di una condotta penalmente rilevante o l’indiretto profitto della stessa, siccome frutto di reimpiego da parte del reo del denaro o di altre utilità direttamente ottenute dai concussi”, non risultando comprensibile un’interpretazione degli art. 240 c.p. e art. 322 ter c.p., comma 1, prima parte, “che consenta la confisca del denaro ricevuto dal concessore e non anche del bene immobile acquistato con tale denaro perchè non di diretta derivazione causale dall’attività del reo”.
Le conclusioni alle quali le Sezioni Unite erano pervenute con la sentenza Miragliotta sono state ribadite, specificate e approfondite da Sez. U, n. 10561 del 30 gennaio 2014, Gubert, Rv. 258647, con riferimento al profitto derivante da reato tributario e corrispondente all’imposta evasa.
Con tale decisione le Sezioni Unite hanno infatti recepito una nozione di profitto funzionale alla confisca capace di accogliere al suo interno “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa (…) la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2, il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.
Sulla base di tale principio, la Corte di cassazione ha espressamente qualificato come risparmio di spesa il profitto causato dal reato tributario e, al contempo, ha ritenuto configurabile la confisca diretta del denaro corrispondente all’imposta evasa, rimasto nel patrimonio della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio il reato sia stato commesso, non potendo l’ente considerarsi, salvo il caso in cui costituisca un mero schermo della persona fisica, terzo estraneo rispetto al reato.
La successiva giurisprudenza di legittimità ha consolidato il principio affermato da Sez. U, Gubert, nel senso che la confisca del prezzo o del profitto del reato rappresentato da una somma di denaro – che si sostanzi, quindi, in un effettivo accrescimento patrimoniale di natura monetaria – non è “per equivalente”, ma, attesa la fungibilità del bene, è sempre confisca diretta (Sez. 6, n. 2336 del 7/1/2015, Pretner Calore, Rv. 262082; Sez. 3, n. 39177 dell’8/5/2014, Civil Vigilanza S.r.l., non mass. sul punto; Sez. 7, Ord. n. 50482 del 12/11/2014, Castellani, Rv. 261199, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima la qualificazione come confisca diretta dell’ablazione, disposta con sentenza di patteggiamento per i reati di concussione e peculato, di somma contante rinvenuta e sequestrata nella cassetta di sicurezza della figlia dell’imputato, considerata prestanome di quest’ultimo; in precedenza, nello stesso senso, Sez. 6, n. 30966 del 14//6/2007, Puliga, Rv. 236984, con specifico riferimento a sequestro preventivo a fini di confisca relativo a disponibilità di conto corrente dell’imputato).
Si è in particolare rilevato che, nella ipotesi in cui il profitto del reato sia costituito da numerarlo, cosa fungibile, è legittimo il sequestro delle disponibilità di conto corrente dell’imputato a norma della prima parte e non della seconda parte dell’art. 322 ter c.p., poichè “nella dizione dell’art. 322 ter c.p., il denaro, come cosa essenzialmente fungibile e, anzi, quale parametro di valutazione unificante rispetto a cose di diverso valore rispettivo, non può qualificarsi come cosa di valore corrispondente ed esorbita pertanto dal sistema della confisca per equivalente, la cui funzione è di rapportare il valore in denaro del bene ulteriormente disponibile all’importo del prezzo del reato. Prezzo che nel sistema di questa forma di confisca, che si riferisce anche a beni di per sè estranei sia al prezzo che al profitto del reato, ha in tal caso la sola funzione di parametro di riferimento al valore con fiscabile. Pertanto, la norma dev’essere intesa nel senso che, ove sia impossibile sottoporre a confisca i beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato e nel patrimonio del condannato non vi sia disponibilità di denaro liquido, si ricorrerà alla confisca di beni diversi, eventualmente disponibili, nei limiti del valore corrispondente al prezzo del reato. A fronte di questa interpretazione – è stato quindi dedotto – erroneamente si esclude la configurabilità della confisca, e quindi del sequestro, in relazione al denaro liquido disponibile nel conto corrente dell’imputato sul presupposto che si tratti di profitto e non di prezzo del reato, prescindendo dalla considerazione che la fungibilità del bene, e la confusione delle somme che ne deriva nella composizione del patrimonio, rendono superflua la ricerca della provenienza con riferimento al prezzo o al profitto del reato”.
Le fondamenta ermeneutiche appena descritte sono state ulteriormente consolidate dalla pronuncia resa da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437, secondo cui, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato.
Le Sezioni Unite hanno in particolare affermato che “ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d’essere – nè sul piano economico nè su quello giuridico – la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo. Soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, giacchè, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (l’oggetto della confisca diretta non può essere appreso e si legittima, così, l’ablazione di altro bene di pari valore). Nè è a dirsi, come parte della giurisprudenza mostra di ritenere, che la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato, in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente, determinerebbe una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerarlo comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario”.
A seguito del duplice pronunciamento delle Sezioni Unite favorevole alla qualificazione come diretta della confisca di denaro costituente prezzo o profitto del reato, la giurisprudenza successiva ha dato con continuità applicazione a quel principio di diritto ogni qualvolta si sia riscontrata una obiettiva “confusione” nel patrimonio dell’indagatolimputato del profitto monetario conseguito quale diretta conseguenza del reato a lui ascritto.
Tra queste sentenze si segnala Sez. 5, n. 23393 del 29/03/2017, Garau, Rv. 270134, secondo la quale il denaro, essendo il bene fungibile per eccellenza, non solo si confonde necessariamente con le altre disponibilità del reato, ma perde anche qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Ciò che rileva, quindi, è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, il che legittima sempre la confisca diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo (in senso conforme, Sez. 5, n. 5459 del 18/01/2018, Barbato, non mass.).
I principi di diritto affermati dalle più recenti sentenze delle Sezioni unite, ed in particolare da Sez. U, Lucci, sono stati posti in discussione da talune decisioni che la Corte di cassazione ha reso in ordine a fattispecie caratterizzate a vario titolo dalla particolarità del fatto concreto o dalla specifica natura dei reati contestati.
La Sesta Sezione ha così ritenuto che, in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è illegittima l’apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito, ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino allo stesso collegate, neppure indirettamente (Sez. 6, n. 6816 del 29/1/2019, Sena, Rv. 275048). La Corte ha, al riguardo, ammesso “che, nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato”, ma ha subordinato tale evenienza alla condizione che “si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento”, in quanto “solo in tali ipotesi è possibile ragionevolmente sostenere che il denaro è sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perchè tale relazione è considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo.
Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato – momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato – si finirebbe obiettivamente per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro sì oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, ma che solo con una inaccettabile forzatura possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perchè del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito.
D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso”.
È stata altresì messa in evidenza la necessità che il sequestro a fini di confisca diretta di somme di denaro giacenti su conti correnti o di altri strumenti finanziari consegua all’accertamento del nesso di pertinenzialità tra il denaro sottoposto a vincolo ed il profitto del reato (Sez. 6, n. 17997 del 20 marzo 2018, Bagalà, Rv.272906, con la quale la Corte ha annullato con rinvio il sequestro di conti correnti, libretti postali, titoli ed altri strumenti finanziari intestati all’indagato, disposto sulla base del generico presupposto che tali beni fossero provento dell’appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso; Sez. 5, n. 48625 del 24/09/2018, Ratio s.r.l., n. m.).
In dottrina sono prevalenti le posizioni nettamente contrarie a quelle espresse da Sez. U, Gubert e Lucci.
Si è ritenuto che tali pronunce, modulando il principio nominalistico in funzione del superamento dell’individuazione della riferibilità al reato del denaro oggetto di vincolo a fini di ablazione, si sarebbero spinte fino a recidere l’individuazione di un nesso diretto tra la somma da confiscare e quella costituente profitto del reato, il che comporterebbe la sostanziale trasformazione della misura, da confisca diretta a confisca per equivalente.
Al riguardo, si è sottolineato che, per potersi affermare in ogni caso la natura diretta della confisca del profitto monetario del reato, nella sentenza Gubert si è dovuto ammettere che tale confisca non deve necessariamente ricadere sul denaro immediatamente conseguito col reato, ben potendosi confiscare anche le utilità mediate e conseguenziali.
Le Sezioni Unite avrebbero, per tale via, definito un vero e proprio regime derogatorio alla confisca del profitto monetario, nel quale la naturale fungibilità del denaro consente di superare la pur necessaria individuazione del vincolo di provenienza.
Si è poi osservato che proprio il rilievo svolto da Sez. U, Lucci – secondo cui il denaro non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del reato, ma perde, per il fatto stesso di essere ormai divenuto un’appartenenza del reo, qualsiasi connotato di autonomia e ogni identificabilità fisica – induce a concludere nel senso che la confisca del denaro, ove di quest’ultimo non sia tracciabile l’origine, dovrebbe essere considerata una confisca di valore. In questa prospettiva, la fungibilità caratteristica del denaro non potrebbe comportare l’elisione del requisito della pertinenzialità, in realtà sussistente solo se proprio la somma di denaro vincolata a fini di ablazione è causalmente collegata in via diretta al reato. Sicchè la confisca diretta dovrebbe ritenersi circoscritta ai casi in cui il denaro costituente profitto del reato rimanga identificabile, perchè depositato o custodito senza che si sia determinata confusione con altri attivi monetari del reo, ovvero perchè direttamente reinvestito con modalità che ne consentano la tracciabilità.
Al di là di tali limiti, si verificherebbe una vera e propria trasfigurazione della nozione stessa di profitto del reato, nella quale evaporerebbe il nesso di pertinenzialità, rendendosi possibile la confisca di qualsiasi vantaggio derivante dal reato, a prescindere dal fatto che si tratti di un effettivo e concreto accrescimento patrimoniale.
Le Sezioni Unite intendono rispondere al quesito posto dalla Sezione remittente dando continuità al principio di diritto affermato, in tema di sequestro a fini di confisca diretta del prezzo o profitto monetario del reato, da Sez. U, Lucci.
In particolare, il Collegio vuole ribadire che, ai fini della confisca diretta del pretium delicti rappresentato da una somma di denaro, è indifferente l’identità fisica del numerarlo oggetto di ablazione rispetto a quello illecitamente conseguito.
Conseguentemente, ritiene necessario precisare che il nesso eziologico di diretta provenienza che lega al reato la somma acquisita dall’autore, lungi dal venir meno, va tuttavia individuato, definito e conformato in relazione alla peculiare natura del denaro e alla disciplina giuridica sua propria.
Il denaro è bene numerarlo fungibile. Esso è strumento corrispettivo di valore per eccellenza, specificamente destinato alla circolazione e a servire da mezzo di pagamento.
Da tali sue intrinseche caratteristiche derivano, ai fini che qui interessano, alcune rilevanti conseguenze giuridiche.
La prima è che il denaro è bene ontologicamente diverso rispetto a qualunque “utilità” di altro tipo.
Non è quindi un accidente che le varie norme penali che ad esso si riferiscono – in particolare nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma non solo traccino una espressa e netta demarcazione tra queste due categorie – “denaro o altra utilità” – allorchè si tratta di individuare le cose e i beni nei quali può consistere il prezzo, il profitto o il prodotto del reato.
Se si esamina tale distinzione nella prospettiva della confisca-misura di sicurezza di cui all’art. 240 c.p., è agevole rilevare che allorchè la norma fa riferimento a “cose”, “beni” e “strumenti”, il denaro, ove rappresenti uno dei suddetti proventi, è genericamente considerato bene soggetto a confisca diretta. Infatti, quando il legislatore ha voluto riservare all’ablazione del denaro una specifica disciplina, lo ha fatto in modo espresso, al citato art. 240 c.p., comma 1 bis, il quale per l’ipotesi ivi descritta prevede che tale ablazione possa avvenire unicamente per equivalente.
La peculiare natura del “bene-denaro” costituente il prezzo o il profitto del reato conforma i tratti e la disciplina della confisca che lo abbia ad oggetto.
A tale fine, quale numerarlo fungibile destinato ex lege a servire da mezzo di pagamento, esso è infatti ontologicamente e normativamente indifferente all’individuazione materiale del relativo supporto nummario: natura e funzione del denaro rendono recessiva la sua consistenza fisica, determinando la sua automatica confusione nel patrimonio del reo, che ne risulta correlativamente accresciuto.
Per la confisca del prezzo o del profitto del reato che sia consistente in una somma di denaro è quindi irrilevante che il numerarlo conseguito dall’autore – perciò stesso confuso nel suo patrimonio, al pari, del resto, di eventuali altre acquisizioni monetarie lecite – sia materialmente corrispondente a quello sottoposto a confisca.
La somma di denaro che ha costituito il prezzo o il profitto del reato non va dunque considerata, ai fini che ci occupano, nella sua fisica consistenza, ma nella sua ontologica essenza di bene fungibile e paradigma di valore. Se il prezzo o il profitto del reato è rappresentato da una somma di denaro, essa si confonde con le altre componenti del patrimonio del reo e perde perciò stesso ogni giuridico rilievo la sua identificabilità fisica.
Da un lato, quindi, non occorrerà ricercare lo stesso numerarlo – le medesime banconote – conseguito dall’autore come diretta derivazione del reato da lui commesso, e, dall’altro, nessuna rilevanza sarà attribuibile all’eventuale esistenza di altri attivi monetari in ipotesi confluiti nel patrimonio del reo, foss’anche a seguito di versamenti di denaro aventi origine lecita nel suo conto corrente bancario.
Lo scopo della misura non è, infatti, di ritrovare sul conto corrente del reo le stesse banconote ab origine costituenti il prezzo o il profitto del reato, ma di realizzare l’ablazione della somma che sia già entrata nel patrimonio dell’autore a causa della commissione dell’illecito ed ivi sia ancora rinvenibile. Come icasticamente affermato dall’Avvocato generale nella sua pregevole memoria, “la confisca diretta insegue non le banconote, ma la somma di denaro quale entità che incrementa il patrimonio del reo”.
Allo stesso modo, risultano irrilevanti le vicende che abbiano in ipotesi interessato la somma riveniente dal reato, una volta che la stessa- intesa, come per sua natura, quale massa monetaria fungibile – sia stata reperita nel patrimonio del reo al momento dell’esecuzione della misura ablativa o, se del caso, del prodromico vincolo cautelare.
In tale ipotesi, infatti, l’occultamento o il consumo eventuali del pretium delicti, ovvero la sua sostituzione con altro numerarlo – anche di origine lecita – avrebbero ad oggetto un valore monetario già confluito nel patrimonio del reo e divenuto perciò, al pari degli altri dello stesso tipo ivi rinvenuti, una sua indistinguibile componente liquida, tutt’ora esistente al momento della confisca. Mentre l’eventuale trasformazione di quella componente monetaria rileverebbe solo in quanto essa abbia comportato, al momento della cautela reale o dell’ablazione, il venir meno nel patrimonio del reo di qualsivoglia attivo dello stesso genere. Solo in questa ipotesi, che Sez. U, Lucci ha definito “novazione oggettiva”, cioè quando non sia più rinvenuto l’accrescimento monetario derivante dal reato perchè la persona non dispone più di denaro, opererà, nei casi normativamente previsti, lo strumento surrogatorio della confisca per equivalente, attuabile sui beni di diversa natura di cui disponga l’autore del reato.
Il denaro rappresenta non solo cosa essenzialmente fungibile, ma anche l’archetipo di bene corrispettivo di valore. Esso è, infatti, parametro di valutazione unificante del valore di cose tra loro diverse. Rispetto ad esso è quindi impossibile – e comunque inutile, logicamente prima ancora che giuridicamente – ricercare in altra somma di denaro un equivalente di valore. Sicchè, nel caso in cui il prezzo o il profitto del reato siano originariamente costituiti da numerarlo, quest’ultimo esorbita dal sistema della confisca per equivalente, la cui funzione è quella di rapportare il valore in denaro del diverso bene disponibile a fini di ablazione a quello dei proventi del reato.
Altrimenti detto, se la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato consistente in una somma di denaro ha necessariamente ad oggetto un determinato valore, non v’è ragione che non possa essere quello stesso valore, se esistente nel patrimonio del reo, a formare oggetto di ablazione diretta. Lo strumento della confisca per equivalente ha, infatti, carattere surrogatorio ed è applicabile nel caso in cui il bene suscettibile di ablazione diretta non sia rintracciabile, rendendosi così necessario confiscare un bene di valore corrispondente. Ma ove il bene oggetto di confisca diretta sia, come il denaro, ex se privo di una propria rilevante identità fisica e sia esso stesso ontologicamente rappresentativo di un valore e di un corrispettivo monetario, non c’è spazio per operare tale sostituzione dell’aliud pro alio.
Da tutto quanto precede consegue che, contrariamente agli assunti dei critici della più volte citata Sez. U, Lucci, l’esegesi innanzi descritta non determina la recisione del nesso di diretta derivazione causale tra il reato e il prezzo o profitto monetario sottoposto a confisca, bensì la necessaria conformazione di quel rapporto eziologico alla peculiare natura del denaro e alla sua concreta funzione economica.
Per il denaro, il nesso di pertinenzialità col reato non può essere inteso come fisica identità della somma confiscata rispetto al provento del reato, ma consiste nella effettiva derivazione dal reato dell’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dal reo, che sia ancora rinvenibile, nella stessa forma monetaria, nel suo patrimonio. E’ tale incremento monetario che rappresenta il provento del reato suscettibile di ablazione, non il gruzzolo fisicamente inteso.
Se correttamente definito e individuato, il rapporto eziologico di derivazione dal reato non viene dunque meno per il fatto che la somma di denaro oggetto di ablazione sia rappresentata da un numerarlo “diverso” rispetto a quello fisicamente conseguito per effetto del reato.
Da ciò derivano le conseguenze di seguito descritte.
Una volta risolto l’equivoco di fondo che sorregge l’opposta ricostruzione interpretativa – la quale riferisce il rapporto di pertinenza tra il bene e il reato non già all’incremento monetario provocato nel patrimonio del reo, bensì al denaro fisicamente inteso – il rapporto eziologico di causazione che lega il prezzo o il profitto monetario al reato rimane strutturalmente autonomo rispetto alle caratteristiche intrinseche del bene, alla sua fungibilità.
Perchè il prezzo o il profitto monetari possano essere soggetti ad ablazione diretta, è necessario che il loro effettivo conseguimento da parte del reo (ed il relativo accrescimento patrimoniale) sia provato secondo gli ordinari standard probatori, previsti, dapprima, per l’eventuale adozione della cautela reale e, poi, in termini di certezza processuale, per la confisca.
Rispetto a tale thema probandum l’indagato-imputato gode di tutte le facoltà che l’ordinamento gli riconosce per garantire la pienezza del contraddittorio e il suo diritto di difendersi provando. Non è dunque vero che consentire all’indagato-imputato la prova dell’origine lecita di componenti finanziarie del suo patrimonio al fine di paralizzare la confisca proprietaria del prezzo o del profitto monetario del reato rappresenti l’unica garanzia compatibile con i principi costituzionali e convenzionali che presidiano l’effettività del diritto di difesa, ed in particolare del diritto di difendersi provando.
Se si ammettesse che la confisca diretta del denaro costituente il prezzo o il profitto del reato si debba arrestare di fronte alla concreta allegazione che gli attivi monetari oggetto di ablazione abbiano origine lecita (cioè che quel denaro, pur facente parte del patrimonio del reo, è cosa diversa da quello conseguito per effetto del reato), si determinerebbero effetti non desiderabili in punto di coerenza di sistema e di funzionalità della misura ablativa.
Sotto il primo profilo, il metodo probatorio della confisca diretta, basato sul rigoroso accertamento del nesso eziologico di derivazione dal reato dell’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dall’autore del fatto delittuoso, assumerebbe caratteristiche diverse dall’attuale previsione codicistica. Esso sarebbe, infatti, soggetto ad una innaturale ibridazione con le modalità di accertamento del presupposto della sproporzione, proprie della confisca di prevenzione e di quella “allargata”. Verrebbe infatti ad essere riconosciuta al reo – nei confronti del quale è stato dimostrato l’effettivo conseguimento del pretium delicti, entrato pertanto nel suo patrimonio – una eccezione probatoria, finalizzata alla giustificazione della provenienza del denaro oggetto di ablazione, fondata sull’allegazione che nella componente patrimoniale attinta dalla misura sono confluite disponibilità monetarie di origine lecita.
Gli effetti pratici di un tale approccio risulterebbero amplificati dal fatto che nella confisca diretta la distribuzione dell’onere probatorio è naturalmente diversa rispetto alle confische “di sproporzione”. In queste ultime è l’interessato a dover giustificare la legittima provenienza delle sue risorse per sottrarsi all’ablazione, mentre alla confisca diretta, contrariamente a quanto suggerito nell’ordinanza di rimessione, è estranea qualunque forma di presunzione ed è l’accusa a dover dimostrare l’effettivo conseguimento del prezzo o del profitto monetario del reato da parte del suo autore.
L’esegesi che si contesta avrebbe, dunque, per effetto di porre a carico del pubblico ministero – in tutti i casi in cui il reo ha visto provato l’effettivo conseguimento da parte sua del denaro costituente prezzo del reato, ma ha avuto cura di occultare lo specifico numerarlo o di rendere non tracciabile la sua circolazione – l’ulteriore e alternativo onere di rinvenire proprio quel denaro, ovvero di dimostrarne le vicende che hanno condotto alla sua sostituzione o trasformazione in beni della stessa o diversa natura. Tutto ciò in spregio del fatto che la commixtio nummorum col patrimonio del reo, e la conseguente perdita di autonoma identificabilità degli attivi monetari che vi sono soggetti, si verifica in via automatica tanto per il denaro provento di reato che per gli altri asset monetari di origine lecita confluiti in quel patrimonio al momento della misura ablatoria.
Sicchè il più volte descritto fenomeno di confusione attrae tutte quelle componenti liquide nel patrimonio monetario del reo e giustifica che su tale patrimonio venga eseguita la confisca diretta dei proventi del reato rappresentati da somme di denaro.
L’ordinanza di rimessione ricorda correttamente che secondo la giurisprudenza di questa Corte l’applicabilità del principio di legalità penale in tema di confisca è conseguente alla valutazione della natura giuridica dell’ablazione, affidata all’individuazione della funzione ad essa assegnata dall’ordinamento e da essa concretamente assicurata. Sicchè ove la confisca assolva una funzione afflittivo-punitiva, la stessa dovrà essere considerata alla stregua di una pena, nel senso che al termine assegna la CEDU, e il soggetto che la subisce deve poter godere delle garanzie di cui agli artt. 25, 27 Cost., artt. 6, 7 CEDU e art. 2 c.p.. Nel caso in cui, invece, la confisca assolva ad una finalità di prevenzione, di mero riequilibrio, la stessa non è soggetta alle indicate garanzie. (Sez. U, Lucci, cit.; Sez. U, n. 4880 del 26/4/2014, dep. 2015, Spinelli, Rv. 262602).
Ebbene, come innanzi ricostruita, la confisca diretta dei proventi monetari del reato non ha carattere afflittivo e, tantomeno, sanzionatorio. A tale riguardo, in effetti, non ha tanto rilievo la sua formale collocazione tra le misure di sicurezza, quanto il fatto che essa assolve unicamente una finalità ripristinatoria. L’ablazione ha ad oggetto, infatti, solo l’effettivo accrescimento monetario direttamente prodotto nel patrimonio del reo dal dimostrato conseguimento da parte sua del prezzo o profitto del reato consistente in una somma di denaro.
Del resto, se il nesso di diretta derivazione dal reato dovesse essere unicamente riferito alla somma di denaro fisicamente conseguita dal reo o, al più, esteso a quella risultante in via immediata dalla sua trasformazione tracciabile (i cosiddetti succedanei, già considerati da Sez. U., Miragliotta, cit.), la confisca diretta del denaro sarebbe limitata a rarissime e del tutto marginali ipotesi, a veri e propri casi di scuola.
La dottrina ne ha puntualmente individuati alcuni: per esempio, il denaro contante riversato sul conto corrente a saldo zero, ovvero su quello destinato a ricevere unicamente proventi criminosi. Altre, quale la tracciatura preventiva delle banconote prezzo di corruzione o profitto di estorsione rinvenute ancora in possesso del consegnatario al momento del sequestro, emergono dall’esperienza giudiziaria.
Definire residuali i casi nei quali si avrebbe certezza che un attivo monetario è confiscabile in via diretta – in quanto fisica derivazione dal reato e distinguibile da altri asset liquidi dei quali il reo possa concretamente allegare l’origine lecita – sarebbe un eufemismo.
Negli altri casi, la confisca del denaro dovrebbe sempre essere ritenuta una confisca di valore e potrebbe operare solo in ragione delle eccezionali ipotesi in cui quello specifico strumento ablatorio è consentito. Ma ciò, oltre a contraddire l’innanzi descritta, ontologica natura del denaro, caratterizzato dall’essere destinato a circolare rapidamente e in forma per lo più anonima quale strumento di pagamento e parametro di valore, comporterebbe evidenti ricadute negative sul piano della coerenza stessa del sistema, il quale verrebbe a fondarsi principalmente, in casi così rilevanti e frequenti, sullo strumento ablativo surrogatorio, normativamente riservato a un ristretto numero di fattispecie penali, laddove, al contrario, quello di carattere generale avrebbe di fatto un’applicazione del tutto residuale.
Al quesito sottoposto alle Sezioni Unite deve dunque conclusivamente rispondersi nei seguenti termini: “Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerarlo oggetto di ablazione”.
Venendo all’esame dei motivi di ricorso, va rilevato che il primo è privo di fondamento.
In questa sede il ricorrente non contesta il fumus del delitto di traffico di influenze illecite oggetto di imputazione provvisoria, che gli viene attribuito in relazione all’avvenuto conseguimento, come prezzo della mediazione illecita verso i pubblici ufficiali e per remunerarli in relazione al compimento di atti contrari ai loro doveri di ufficio, della somma complessiva di 175.000 Euro.
Il vincolo cautelare tutt’ora applicato sulla somma che residua dalla riduzione disposta dal Tribunale in sede di riesame deve dunque ritenersi conforme al principio di diritto sopra affermato, poichè il sequestro preventivo disposto a fini di confisca diretta ha colpito denaro, rinvenuto su conti correnti intestati al ricorrente e nella sua effettiva disponibilità, che rappresenta l’accrescimento patrimoniale monetario da lui conseguito quale prezzo e profitto del reato oggetto di contestazione provvisoria, senza che possa rilevare a tale scopo l’allegazione dell’origine lecita delle somme depositate su quei conti correnti.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto aspecifico, poichè non si confronta in alcun modo con l’ordinanza impugnata, là dove tale provvedimento testualmente evidenzia che la condotta contestata al ricorrente in questa sede “è diversa sotto il profilo fattuale da quella riportata nel precedente sequestro e relativa ad una specifica vicenda tributaria seguita dallo studio C. ed in relazione alla quale venivano rappresentati fatti diversi da quelli reali per indurre i denuncianti a corrispondere un dato onorario”. Circostanza questa che esclude il verificarsi in questa sede di qualsivoglia preclusione per medesimezza del fatto.
Il terzo motivo è pure inammissibile, poichè meramente reiterativo di analoga doglianza alla quale il Tribunale ha già offerto corretta e congrua risposta, rilevando che nel caso in esame la contestazione riguarda una relazione coi pubblici ufficiali realmente esistente, e non solo vantata, sicchè le condotte oggetto di imputazione, realizzate nel dicembre 2016, già erano suscettibili di integrare la fattispecie di cui all’art. 346 bis c.p., quale risultava dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, entrata in vigore il 28 novembre 2012.
Il quarto e ultimo motivo è anch’esso inammissibile, poiché l’art. 346 bis c.p., non è reato proprio del pubblico agente, prevede che il prezzo della mediazione illecita possa essere corrisposto da un privato ad altro privato e non esclude che entrambi possano direttamente ricavare dal medesimo reato un diverso profitto.
Questioni intriganti
In che senso deve parlarsi di “confische” e non già di confisca?
Le varie confische previste dal legislatore italiano sono eterogenee tra loro anche in termini di natura giuridica ed assolvono a funzioni diverse, pure essendo tutte chiamate “confische”, con conseguente necessità di valutare di volta in volta se opera o meno la retroattività in malam partem autorizzata dall’art.200 c.p. e vietata dall’art.2 c.p. e dall’art.25 della Costituzione:
- confisca come misura di sicurezza;
- confisca come vera e propria pena in senso stretto;
- confisca come misura di carattere generale preventivo, orientata come tale a scoraggiare la collettività dalla promiscuità con aree comportamentali di illecito;
- confisca come misura di carattere preventivo, non collegata ad alcuna previa condanna ed orientata – sulla scorta di indizi oggettivi – a neutralizzare la pericolosità del soggetto che la subisce prima ancora che quegli commetta reato;
- confisca come misura compensativa, tendente al recupero per compensazione di quanto l’illecito ha consentito al soggetto agente di sottrarre alla collettività;
- confisca come misura retributiva, orientata a “rispondere” dal punto di vista sanzionatorio al contegno illecito del soggetto agente.