Corte Costituzionale, sentenza 27 febbraio 2019 n. 25
La Corte rimettente conosce bene il recente arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 aprile-5 settembre 2017, n. 40076 (cosiddetta “sentenza Paternò”), con la quale le Sezioni unite, innovando la precedente giurisprudenza, hanno affermato il principio di diritto onde l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, da cui conseguirebbe che la condotta di cui l’imputato ricorrente è stato ritenuto responsabile nel caso di specie non costituisce reato; la stessa Corte rimettente non dubita dell’esattezza di questa più recente giurisprudenza, di cui la Corte d’appello, che ha emesso la sentenza impugnata con ricorso per cassazione, non ha potuto tener conto perché successiva e che può qualificarsi come attuale diritto vivente in ragione della provenienza dalle Sezioni unite, le cui pronunce sono ora assistite dal particolare vincolo processuale di cui all’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale (secondo cui, se una sezione della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso); sicché, nella specie – alla luce di tale giurisprudenza − non sussisterebbe il reato ai sensi dell’art. 75, comma 2, concorrente con il reato comune; però – osserva la medesima Corte rimettente – non si tratta di una sopravvenutaabolitio criminis per successione della legge nel tempo, ma di un’interpretazione giurisprudenziale che risulta essere più favorevole per l’imputato ricorrente. La non assimilabilità di tale orientamento giurisprudenziale a uno ius superveniens fa sì che – secondo la Corte rimettente – non è possibile tenerne conto perché il ricorso, nella specie, muove solo censure manifestamente infondate, e quindi inammissibili, alla sentenza impugnata e, pertanto, è destinato a una pronuncia di inammissibilità; invece, laddove l’art. 75, comma 2, fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, si avrebbe una situazione assimilabile all’abolitio criminis, che sarebbe rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. La stessa situazione si riproduce in sede di esecuzione della condanna passata in giudicato perché l’art. 673 cod. proc. pen. prevede la revoca della sentenza per abolizione del reato; rimedio questo non esperibile dal condannato deducendo una giurisprudenza sopravvenuta secondo cui il fatto per cui è stata pronunciata la condanna non costituisce reato; di qui la ritenuta rilevanza delle questioni, la Corte rimettente chiedendo una pronuncia di illegittimità costituzionale per poter rilevare d’ufficio che il fatto contestato come delitto ai sensi dell’art. 75, comma 2, non costituisce reato ed evitare così che si formi un giudicato non più emendabile in sede esecutiva e quindi ingiustamente pregiudizievole per l’imputato ricorrente.
Va condivisa l’affermazione della Corte rimettente secondo cui l’abolitio criminis – per ius superveniens o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato. In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato; l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante, ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo. La Corte (sentenza n. 230 del 2012) − in una situazione similare che vedeva la sopravvenienza di un orientamento delle Sezioni unite penali secondo cui non costituiva reato la condotta oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui era chiesta la revoca ex art. 673 cod. proc. pen. per abolizione del reato − ha sottolineato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]l pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius est condere)». In tal senso, pur con qualche distinzione, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre 2015-23 giugno 2016, n. 26259). Inoltre, si è affermato che l’ordinamento nazionale «conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato» (sentenza n. 210 del 2013). E, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato da una pronuncia della Grande camera della Corte EDU, ha aggiunto che «il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che […] limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice»; a maggior ragione è allora rilevante un dubbio di legittimità costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in cui il giudicato non si è ancora formato, ma sta per formarsi proprio in ragione della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione che la Corte rimettente ritiene debba essere emessa, a meno che non sia accolta la questione di costituzionalità e sia dichiarata l’illegittimità della norma incriminatrice.
Risponde al canone di plausibilità l’ulteriore affermazione della Corte rimettente secondo cui nella strettoia processuale determinata da un ricorso manifestamente infondato, avviato pertanto a una pronuncia di inammissibilità, la Corte possa rilevare d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. l’abolitio criminis, ma non anche la sopravvenienza di una giurisprudenza che esclude la rilevanza penale della condotta per cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, affermazione che trova le proprie radici in un risalente, ma sempre seguito, arresto delle Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 novembre-21 dicembre 2000, n. 32) che, inaugurando un filone giurisprudenziale più volte ribadito, hanno affermato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. Di questo principio si è fatta ripetuta applicazione soprattutto in caso di prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. Più recentemente tale non rilevabilità d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. è stata affermata anche con riferimento alla prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2015-25 marzo 2016, n. 12602). Dibattuta è la rilevabilità, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., della sopravvenuta introduzione di una causa di non punibilità, quale la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.), prevalentemente esclusa in caso di ricorso inammissibile (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 1° febbraio-28 febbraio 2018, n. 9204). Anche la rilevabilità della sopravvenuta abolitio criminis in caso di ricorso inammissibile, più volte affermata dalla giurisprudenza (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 maggio-18 ottobre 2016, n. 44088), non è del tutto pacifica (in senso contrario, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 aprile-28 settembre 2016, n. 40290). In questo contesto giurisprudenziale la valutazione che fa la Corte rimettente è certamente plausibile, anche se corre sul crinale scivoloso della distinzione tra manifesta infondatezza e mera infondatezza dei motivi di ricorso e della conseguente costituzione, o no, del rapporto processuale di impugnazione. Solo se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorché infondato, le questioni di costituzionalità avrebbero potuto essere risolte in via interpretativa e sarebbero risultate prive di rilevanza perché il giudice di legittimità ben avrebbe potuto rilevare che, secondo il mutato orientamento giurisprudenziale, la condotta contestata non costituiva reato (in tal senso, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 21 settembre 2017-21 giugno 2018, n. 28825). Invece, contenendo il ricorso solo censure manifestamente infondate, il giudice di legittimità non può rilevare d’ufficio l’insussistenza del reato secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale e da ciò consegue la rilevanza – e quindi l’ammissibilità − delle questioni di costituzionalità dal momento che solo un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione incriminatrice consentirebbe al giudice di legittimità di annullare la sentenza impugnata limitatamente al concorrente reato di cui al censurato art. 75, comma 2, e quindi all’aumento di pena ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen.
Il parametro nazionale evocato dalla Corte rimettente è il principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato, da ciò discendendo il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La Corte costituzionale (sentenza n. 282 del 2010) ha valutato la conformità a tale principio della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno» e nel comma 2, allora censurato, che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni». Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 − l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini, in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia. La Corte ha ricordato che per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce; e, in particolare, ha ribadito che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (ex plurimis, sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995 e n. 122 del 1993); ha, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: da una parte, le «leggi» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «vivere onestamente» va «collocat[o] nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo.
Dei due parametri convenzionali, evocati nell’ordinanza di rimessione, che però esprimono lo stesso canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale, è stato preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge». La Corte EDU ha ritenuto che «la loi n° 1423/1956 était libellée en des termes vagues et excessivement généraux. Ni les personnes auxquelles les mesures de prévention pouvaient être appliquées (article 1 de la loi de 1956) ni le contenu de certaines de ces mesures (articles 3 et 5 de la loi de 1956) n’étaient définis avec une précision et une clarté suffisantes. Il s’ensuit que cette loi ne remplissait pas les conditions de prévisibilité telles qu’elles se dégagent de la jurisprudence de la Cour». Ossia il sistema nazionale delle misure di prevenzione ‒ quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto − è stato censurato per essere formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare − pur dando atto della (non collimante) interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 282 del 2010 con riferimento all’omologo principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost. − ha ritenuto, all’opposto, che gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (oltre che di «non dare ragione alcuna ai sospetti», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non fossero delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, segnatamente quello posto dall’art. 2 del Protocollo n. 4. La pronuncia della Corte EDU è stata decisiva nell’orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, n. 40076 del 2017 (cosiddetta “sentenza Paternò”); le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione: il sorvegliato speciale, nel commettere un reato comune, aveva (con la stessa condotta) violato anche l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. La Corte di cassazione si confronta con la sentenza de Tommaso, avendo ben presente che – come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 2009) − compete al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla CEDU; considera, in particolare, che «la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)». La Corte procede quindi a una «rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU» e perviene alla conclusione che «il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”». La conclusione è che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011». Aggiungono le Sezioni unite: «ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale». Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.
La convergenza delle Sezioni unite verso la pronuncia della Corte EDU segna l’arresto ultimo del diritto vivente, ben posto in risalto dall’ordinanza di rimessione: l’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, quale prescrizione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, non integra la fattispecie di reato di cui al censurato art. 75, comma 2. Però – per quanto sopra ritenuto in ordine alla rilevanza e all’ammissibilità delle questioni – non si è di fronte a un’abolitio criminis per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a uno ius superveniens, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale. Area questa costituita – come già sopra rilevato − sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili. In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la questione di costituzionalità come possibile completamento dell’operazione di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni unite nei limiti in cui l’interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese. L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU − le cui prescrizioni e principi appartengono indubbiamente ai vincoli derivanti da obblighi internazionali con impronta costituzionale (quelli con «vocazione costituzionale»: sentenza n. 194 del 2018) − non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. È ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia. La Corte costituzionale ha già affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009). È quanto si è verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla CEDU (art. 11). Non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce della Corte costituzionale sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente − rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).
Nella fattispecie in esame ricorrono entrambi i presupposti per completare, con riferimento alla norma oggetto delle questioni di costituzionalità, l’adeguamento alla CEDU in concordanza con quello già operato, in via interpretativa, dalla citata sentenza delle Sezioni unite. Sotto il primo profilo − anche se inizialmente tra i giudici di merito vi sono stati orientamenti non concordanti, in ragione soprattutto della circostanza che la sentenza della Corte EDU de Tommaso si presentava come un nuovo approdo giurisprudenziale (come riconosciuto in quella stessa sentenza: «La Cour note qu’à ce jour elle n’a pas eu à examiner en détail la prévisibilité de la loi n. 1423/1956»), recava plurime opinioni parzialmente dissenzienti e riguardava un caso in cui il rimedio impugnatorio interno aveva portato all’annullamento ex tunc della misura di prevenzione − la giurisprudenza di legittimità si è indirizzata nel senso di valutare tale sentenza come idonea a fondare l’interpretazione convenzionalmente orientata di cui si è detto (“sentenza Paternò” delle Sezioni unite). Da ultimo, la Corte costituzionale (sentenza n. 24 del 2019) ha tenuto conto proprio della sentenza della Corte EDU e dell’esigenza di conformità al principio di prevedibilità, quale espresso da tale pronuncia, per dichiarare l’illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) e degli artt. 4, comma 1, lettera c), e 16 cod. antimafia. Sotto l’altro profilo, si ha che la valutazione di sistema all’interno dei parametri della Costituzione e il possibile bilanciamento con altri valori costituzionalmente tutelati non è affatto distonica, nella fattispecie, rispetto al pieno dispiegarsi dei parametri interposti. L’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno. Vi è poi da considerare, all’opposto, che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura. Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; va dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.