******
GCA, GIURISDIZIONALE – sentenza 20.11.2023 n. 824
2.1. Sul punto, si rammenta che l’art. 101 comma 1 Cod. proc. amm. stabilisce che l’appellante deve indicare, tra altro, a pena di inammissibilità del gravame, “le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”.
Per consolidata giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, VII, 29 settembre 2023, n. 8594; IV, 23 febbraio 2022, n. 1287; VI, 7 gennaio 2022, n. 61; IV, 26 luglio 2021, n. 5534; II, 21 luglio 2021, n. 5504; V, 19 aprile 2021, n. 3159; VI, 8 aprile 2021, n. 2843; IV, 18 febbraio 2020, n. 1228), la norma va interpretata nel senso che l’atto di appello, a pena di inammissibilità, non può limitarsi alla riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado, bensì deve sempre contenere, accanto alla parte volitiva, una parte critica, a confutazione della sentenza impugnata, non trattandosi di un novum iudicium ma di una revisio prioris instantiae: a tal fine, pur non richiedendosi l’impiego di formule sacramentali, si esige comunque che l’appellante soddisfi l’onere specifico, che la norma pone a suo carico, di contestare l’iter argomentativo della sentenza gravata, che ponga il giudice di appello nelle condizioni di comprendere con chiarezza i principi, le norme e le ragioni per cui il giudice di prime cure avrebbe dovuto decidere diversamente.
Alla luce delle predette coordinate normative ed ermeneutiche, le argomentazioni in esame si rivelano inammissibili sotto un duplice profilo, e in particolare:
a) perché si tratta di doglianze esposte in via meramente ipotetica, in quanto gli appellanti ipotizzano (“con ogni probabilità”) e non affermano che le dedotte carenze valutative abbiano inciso sulla decisione del Tar, sicchè manca in radice una reale ed effettiva critica della sentenza gravata;
b) perché una siffatta tecnica censoria (elementi “dedotti a sostegno di tutti i … motivi d’appello, in seno ai quali …devono intendersi integralmente reiterati, ove non diversamente articolati”), trasferisce al giudice di appello l’onere di ricostruire volta per volta il contenuto delle censure, contravvenendo all’obbligo gravante sull’appellante di contestare con chiarezza l’iter argomentativo della sentenza gravata. Tale obbligo si ricava non solo dall’art. 101 ma anche dall’art. 40 Cod. proc. amm., applicabile anche al giudizio di appello in virtù della disposizione di rinvio interno di cui all’art. 38 dello stesso Codice. La norma, nello stabilire al comma 1 che il ricorso deve contenere “distintamente: […] c) l’esposizione sommaria dei fatti; d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso […]”, e al comma 2 che “’I motivi proposti in violazione del comma 1, lettera d), sono inammissibili”, per costante giurisprudenza, ha lo scopo di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine alla prassi dei gravami non strutturati secondo una esatta suddivisione tra “fatto” e “motivi”, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. “motivi intrusi”, ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al “fatto”, che ingenerano a loro volta il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminino tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano in un vizio revocatorio (tra altre, Cons. Stato, V, 4 maggio 2023, n. 4688; 17 marzo 2022, n. 1951; 9 aprile 2020, n. 2343; 31 ottobre 2016, n. 4561; 31 marzo 2016, n. 1268; VI, 4 gennaio 2016, n. 8. Per la casistica relativa ai “motivi intrusi”, V, 5 ottobre 2017, n. 4643; 15 luglio 2016, n. 3166; VI, 25 ottobre 2012, n. 5469). Detto rischio è evidentemente rinvenibile anche ove si desse ingresso alla tecnica espositiva di cui trattasi.