<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non è sempre facile stabilire quando un fatto o un comportamento sono causa di un altro, e ciò in particolare laddove il fatto “causante” consista in una omissione negligente o in una condotta imprudente (colpa), ovvero laddove il fatto “causato” compendi una reazione di tipo psichico appartenente all’imperscrutabile foro interno e connessa a sollecitazioni esterne accolte o subite da chi la pone in essere. Sono i problemi più delicati che coinvolgono il nesso di causalità, e che si atteggiano in modo diverso – dovendo fronteggiare esigenze del pari diverse – nei variegati settori dell’ordinamento, con particolare riguardo ai sotto-insiemi civile e penale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel <strong>diritto romano</strong> la figura antesignana della moderna responsabilità civile – e, con essa, del <strong>nesso di causalità</strong> tra <em>factus</em> e <em>damnum</em> - si riscontra nella notissima <strong><em>Lex Aquilia de damno</em></strong> – datata 287-286 a.C. - che, con riguardo al medico, specificava <strong>diversi livelli di colpa</strong>, con particolare riferimento all’abbandono del malato, all’errore da <strong>imperizia</strong> e alla sperimentazione pericolosa, con connesso obbligo di risarcire gli eventuali danni in tal modo provocati al malato stesso. La successiva <strong><em>Lex Cornelia de iniuriis</em></strong> (82-81 a.C.) previde poi uno specifico <strong><em>damnum iniuria datum per medicum</em></strong>. Importante un passo del Digesto (Libro I, Tit. XVIII, <em>De Officio presidis</em>) in cui si afferma che in genere al medico <strong>non può essere imputata la morte</strong> del paziente, dovendo tuttavia essergli imputata laddove essa sia stata <strong>conseguenza della relativa imperizia</strong> (“<em>quod per imperitiam commisit</em>”). Sempre nel Digesto (Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.7.8) viene riportato un passo di <strong>Ulpiano</strong> che richiama un parere di <strong>Proculo</strong> secondo il quale laddove un medico <strong>abbia operato</strong> uno schiavo “<strong><em>imperite</em></strong>”, ovvero con imperizia, nei relativi confronti viene ammessa <strong>actio <em>ex locato</em></strong> o <strong><em>ex lege Aquilia</em></strong>. Infine, molto importante un altro passo di <strong>Ulpiano</strong> contenuto nel Digesto (D.9.2.), in cui – seppure attraverso una sovrapposizione tra <strong>nesso di causalità</strong> e <strong>colpa</strong>, non rimproverabile ai Romani a cagione dell’ancora <strong>basso spessore dogmatico</strong> della loro speculazione – affiora prepotentemente il problema del <strong>nesso causale</strong>: un barbiere sta facendo la barba ad uno schiavo all’aperto in piazza mentre dei bimbi giocano a palla, quando quest’ultima giunge improvvisamente sulla mano del barbiere che col rasoio uccide lo schiavo tagliandogli la gola; va fatta applicazione della <em>Lex Aquilia de damno</em>, ma <strong>è dubbio contro chi</strong>, tanto che secondo il giurista <strong>Fabius</strong> <strong>Mela</strong> il fatto va imputato ai bambini, secondo <strong>Proculo</strong> la colpa è del barbiere (che ha scelto un posto pericoloso dove esercitare il suo lavoro) mentre secondo <strong>Ulpiano</strong> la “<em>colpa</em>” potrebbe addirittura essere <strong>dello schiavo </strong>rimasto ucciso, se sia stato lui a scegliere di sedersi proprio in quel luogo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli non reca norme esplicitamente dedicate al nesso di causalità, in quanto all’art.45 esso viene previsto insieme e quasi subordinatamente rispetto al dolo, come elemento soggettivo (principe) di imputabilità del fatto (“<em>nessuno può essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione</em>”); tuttavia la imprescindibilità di tale nesso appare palese in tutte le disposizioni in cui si parla di “<em>commissione</em>” del reato. Qualche specifica norma si rinviene in tema di concorso di persone nel reato (articoli 63 e 64) laddove – a differenza del successivo art.110 del codice Rocco – la posizione di ciascuno dei compartecipi viene distinta in funzione proprio del diverso contributo da essi fornito alla realizzazione del fatto penalmente rilevante; e in tema di provocazione (art.51), laddove si ventila già in qualche modo il c.d. nesso di causalità psichica (fatto ingiusto e conseguente stato d’ira provocato), secondo uno schema che viene lambito anche dall’articolo 135, laddove viene punita la “<em>provocazione</em>” (oggi, istigazione) a commettere reati contro la patria e contro i poteri dello Stato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il codice penale Rocco prevede all’art.40 il nesso di causalità e in particolare, al comma 2, l’omissione c.d. impropria; all’articolo 41 viene prevista la disciplina del concorso di cause, mentre ai successivi articoli 42 e 43 si disciplina (insieme alla responsabilità oggettiva), il c.d. elemento psicologico del reato in modo autonomo rispetto al nesso di causalità, accostando alla classica responsabilità per fatto doloso quella per fatto colposo. All’articolo 62, n.2, viene poi disciplinata come circostanza attenuante speciale la provocazione, sul crinale del nesso di causalità c.d. psichico, che viene lambito anche dalle norme sul concorso di persone nel reato (<em>sub specie</em> di concorso morale) e da tutte le fattispecie in materia di istigazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Vede la luce la Costituzione repubblicana che, oltre a scolpire il principio di legalità (art.25), afferma la necessaria personalità della responsabilità penale (art.27) e, con essa, la sostanziale inammissibilità di una responsabilità per fatto non imputabile sul profilo oggettivo e non colpevole (e, come tale, non rimproverabile) sul crinale soggettivo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1971</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 gennaio esce la sentenza della Cassazione civile n.174 sul caso Meroni (lesione del credito), che assume, per imprescindibili esigenze di unitarietà e di coerenza dell’ordinamento giuridico, applicabili alla causalità civile i medesimi criteri di accertamento che presidiano la responsabilità penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione, caso Melis che, occupandosi della responsabilità medica per omissione impropria, si riferisce al canone delle “<em>serie ed apprezzabili probabilità di successo</em>” per connotare il comportamento alternativo lecito omesso, come tale capace di far predicare una responsabilità penale in capo al sanitario.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1988</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione, caso Servadio, che – con riguardo alla fattispecie della responsabilità medica omissiva impropria – si pone nel solco di un rigoroso orientamento facente perno sulla c.d. volatilizzazione del nesso causale: muovendo dal valore peculiare dei beni in gioco, quali la vita umana e la salute, va predicata una vera e propria volatilizzazione del nesso causale, con il conseguente abbandono dello schema causale - condizionalistico in favore del criterio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio predicabile in difetto del comportamento alternativo lecito, come tale penalmente sanzionabile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione, caso Silvestri, che in tema di responsabilità medica per omissione impropria abbraccia il criterio di accertamento fondato sulle serie ed apprezzabili probabilità di successo da predicarsi con riguardo al comportamento alternativo lecito omesso dal sanitario. La pronuncia concerne il nesso di causalità tra la condotta del medico e l’evento in materia di responsabilità professionale per colpa sanitaria: per la Corte non occorre sia certo al 100% che il comportamento alternativo lecito omesso avrebbe avuto possibilità di successo; per affermare la responsabilità penale del medico è sufficiente che tale comportamento alternativo lecito possa esser stato idoneo a produrre effetti di protezione del bene poi risultato leso anche più limitati (nel caso di specie, pari al solo 30%): è sufficiente che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata per affermare la responsabilità del medico sulla base di un nesso causale convincente. Basta “<em>una certa probabilità di salvezza</em>” per assumere provato il nesso eziologico, sulla base di un approccio che appare più fondato sulla possibilità che sulla probabilità. La dottrina criticherà l’orientamento inaugurato con questa pronuncia dalla Cassazione, assumendo vulnerato tanto il principio fondamentale di legalità penale (il nesso causale dovrebbe essere presidiato da tale principio, e finisce invece in balia della discrezionalità dell’accertamento di ogni singolo collegio giudicante) tanto il principio, altrettanto fondamentale, della responsabilità penale per fatto proprio, palesandosi improprio affermare la responsabilità penale omissiva del medico in presenza di fattispecie in cui la riferibilità di un concreto evento alla specifica condotta dell’agente appare affidato a meri e generici probabilismi (se non possibilismi).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione onde, in tema di provocazione, si è al cospetto di attenuante che presenta due distinti elementi: uno di natura oggettiva, che si compendia nel fatto ingiusto della vittima del reato attenuato, tale da far luogo ad un comportamento antigiuridico ma anche, ed in misura bastevole, alla sola violazione di norme sociali o di costume (violazione che può atteggiarsi a parimenti provocante); l’altro di natura soggettiva, vale a dire lo stato d’ira provocato dal comportamento antigiuridico della vittima del reato attenuato, quale eccitazione psichica capace di incidere sul funzionamento dei freni inibitori. I due elementi sono collegati da un nesso di causalità psichica, onde al comportamento antigiuridico di una parte consegue, quale effetto, lo stato d’ira dell’altra, la cui condotta penalmente rilevante risulta attenuata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 ottobre esce la sentenza della I sezione n. 11055 che si riferisce alla peculiare fattispecie in cui un individuo si sia suicidato a cagione della precaria situazione psicologica in cui è caduto per delle angherie subite dal proprio usuraio: si tratta per la Corte di una ipotesi di c.d. causalità psichica che si aggiunge a quelle codificate (provocazione ex art.62 c.p.; concorso morale nel reato ex art.110 c.p.). Anche se non possono rinvenirsi leggi scientifiche di copertura del c.d. giudizio controfattuale, resta comunque la possibilità di accertare il nesso causale (di tipo psichico) al di là di ogni ragionevole dubbio: si può infatti fare ricorso a massime di esperienza che siano affidabili e che siano pertinenti al caso oggetto di decisione alla stregua di un elevato grado di credibilità razionale, tale da far escludere la rilevanza di un processo eziologico alternativo. L’usuraio viene punito ai sensi dell’art.586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto, ovvero l’usura).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.1688, caso Batrocchi, che inaugura la triade delle 3 sentenze c.d. “<em>Battisti</em>”, dal nome del giudice estensore che le ha redatte: il principio cardine è quello onde, tanto nei reati commissivi quanto in quelli omissivi, il nesso di causalità va accertato nel medesimo modo, con le medesime coordinate e seguendo il medesimo paradigma. Muovendo dall’art.13 del progetto preliminare di riforma del codice penale elaborato dalla “<em>Commissione Grosso</em>”, che parla per il nesso di causalità di “<em>condizione necessaria</em>” dell’evento, la Corte ribadisce <em>in primis</em> il doveroso ossequio che si deve ai principi di tassatività e di stretta legalità e che coinvolgono anche il nesso causale. Sia la scienza che la logica ci dicono che cosa è una “<em>alta probabilità</em>”, ed il diritto penale non può che mutuare tali soluzioni, dovendo imputare una responsabilità penale allorché la condotta sia stata una condizione necessaria dell’evento. Se dunque non si vuole rinnegare lo stesso principio di personalità della responsabilità penale, anche nei reati omissivi occorre accertare che l’omissione – con probabilità vicina alla certezza, e dunque prossima al 100% - sia stata causa (esattamente come l’azione) dell’evento: il che significa dire che il comportamento alternativo lecito avrebbe scongiurato con altissima probabilità (vicina al 100%, appunto) l’evento lesivo che poi si è prodotto. Il nesso causale può infatti assumersi provato, sulla scorta della dottrina più accreditata, solo se predicabile al di là di ogni ragionevole dubbio: un criterio di probabilità confinante con la certezza deve presiedere alla connessione che avvince l’omissione all’evento lesivo, sulla scorta di leggi universali o di leggi statistiche quasi universali (queste ultime dotate di un coefficiente percentualistico vicino ad 1).</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2123, caso Di Cintio, che compendia la seconda sentenza “<em>Battisti</em>” e che riproduce le conclusioni cui è già giunta la sentenza Batrocchi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2139, caso Musto, che compendia la terza sentenza “<em>Battisti</em>” e che riproduce le conclusioni cui è già giunta la sentenza Batrocchi e la sentenza Di Cintio. La dottrina tuttavia, a valle delle 3 sentenze “<em>Battisti</em>”, si pone in modo ragionatamente critico, muovendo dall’incertezza che contraddistingue tipicamente gli interventi medico-chirurgici, e che non appare molto compatibile con il livello di certezza (più o meno) assoluta richiesto dalla Corte per affermare la responsabilità omissiva medica. Può accadere, abbracciando l’opzione della Cassazione, che condotte gravemente colpose restino impunite quand’anche il comportamento alternativo lecito, seppure non con un grado di probabilità prossimo alla certezza, ma comunque elevato, avrebbe potuto incidere sul decorso (poi rivelatosi sfavorevole) della condizione morbosa del paziente. Bisognerebbe allora, senza generalizzare, limitarsi al settore specifico oggetto dell’indagine del giudice, guardando al più alto grado di probabilità ad esso riferibile al fine di verificare se sussiste o meno il nesso causale: un grado di probabilità che, per quanto elevato, potrebbe non essere necessariamente prossimo alla certezza. Beni primari come la vita e la salute dovrebbero poi, per una parte della dottrina, far rivalutare la teoria del c.d. rischio consentito, con riferimento a talune categorie professionali, come i medici appunto, in capo alle quali è riconoscibile una posizione di garanzia proprio rispetto a tali beni, con obbligo di attivarsi (e di non omettere) laddove essi si trovino esposti ad un rischio. Ogni norma di intervento appare in questo settore come regola cautelare connotata da una certa incertezza sua propria, con la conseguenza onde – anche in sede di accertamento del nesso causale tra omissione ed evento lesivo – occorre scontare tale incertezza, non potendosi richiedere, al fine di escludere la responsabilità penale, quel grado di quasi-certezza in termini di potenzialità impeditive del comportamento alternativo lecito che già non è propria della stessa regola cautelare. In altri termini, proprio perché l’osservanza della regola cautelare non esclude, nel singolo caso di specie, il verificarsi dell’evento lesivo che essa mira a prevenire, ciò impone di calibrare anche l’accertamento del nesso causale rispetto all’incertezza del singolo caso concreto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 luglio esce la sentenza delle SSUU civili n 9566 che in un caso di investimento di un pedone e di conseguente danno biologico e danno alla persona, assume, per imprescindibili esigenze di unitarietà e di coerenza dell’ordinamento giuridico, applicabili alla causalità civile i medesimi criteri di accertamento che presidiano la responsabilità penale. Ciò anche per considerazioni di carattere puramente letterale: è il codice penale a fornire le regole “<em>universali</em>” che presidiano al nesso di causalità “naturalistico”, agli articoli 40 e 41, mentre nel codice civile non esistono norme analoghe, il che impone di mutuare anche nel settore civile le regole sulla causalità che presidiano il settore penale. Si tratta, nella sostanza, del criterio condizionalistico (c.d. <em>condicio sine qua non</em>) con sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura e col temperamento della c.d. causalità adeguata (fattori sopravvenuti eccezionali da soli sufficienti a produrre l’evento dannoso ex art.41, comma 2, c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">L’11 settembre esce la nota sentenza delle SSUU sul caso Franzese, che si occupa della responsabilità penale per omissione impropria del medico chirurgo e che si chiede se il comportamento alternativo lecito omesso dal medico avrebbe impedito l’evento lesivo con un grado di probabilità elevato e vicino alla certezza (con percentuale quasi prossima a 100), ovvero avrebbe avuto solo “<em>serie ed apprezzabili probabilità di successo</em>”, con una percentuale di riuscita in ogni caso più bassa rispetto a quella prossima al 100%. Per l’arresto delle SSUU una pronuncia di condanna può avere a proprio fondamento soltanto una certezza “<em>processuale</em>”, dovendosi all’uopo distinguere tra la probabilità statistica e quella logica. Con la “<em>probabilità statistica</em>” si individua una frequenza che caratterizza una determinata successione di eventi; il giudice non può accontentarsi di essa, ma deve procedere con l’accertamento della “<em>probabilità logica</em>”, onde – con riguardo allo specifico fatto da provare – si ha una ipotesi formulata sul crinale scientifico che va confermata sul piano logico, ed il relativo grado di conferma si raggiunge attraverso l’incedere induttivo del ragionamento probatorio: il giudice ha a disposizione una intera evidenza affiorata dal processo e deve operare, in modo aggiuntivo, una verifica in ordine alla attendibilità della legge statistica rispetto al singolo evento, in modo da giungere ad un accertamento che sia dotato di persuasiva e razionale credibilità. In sostanza, la stella polare per la Corte è la singola vicenda processuale e tutti gli elementi conoscitivi che sono patrimonio del singolo giudizio: solo muovendo da questi elementi è possibile scandagliare la pertinenza di un determinato coefficiente di probabilità statistica che in sé (ovvero sganciato dalla singola dimensione processuale) rappresenterebbe un valore meramente astratto. Il fatto che l’intervento salvifico del medico debba avere avuto serie ed apprezzabili probabilità di successo è affermazione che finisce con l’appuntarsi su coefficienti di probabilità indeterminati e cangianti, come tali manipolabili dall’interprete ed idonei ad attestarsi in qualche caso su standard di probabilità davvero esigui, onde un comportamento doveroso omesso potrebbe assumersi penalmente rilevante anche laddove le probabilità di successo si attestino su valori – per l’appunto – tutt’affatto esigui. Si rischia anche, per la Corte, la sovrapposizione di elementi diversi, quali gli aspetti deontologici e la colpa professionale per violazione del principio di precauzione, da un lato, e le scelte di politica legislativa orientate agli scopi della repressione penale e l’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica, dall’altro. Una confusione non ammissibile e che impone, per le SSUU, di sceverare una regola di giudizio che si basi su un ragionamento induttivo tarato sul singolo caso di specie e che si appunti sui principi di “<em>elevata probabilità logica</em>”, di “<em>alto grado di credibilità razionale</em>”, di “<em>probabilità prossima alla certezza</em>” e con essa confinante. Le SSUU rifiutano dunque di aderire all’orientamento tradizionale delle “<em>serie ed apprezzabili possibilità di successo</em>”, senza tuttavia abbracciare la soluzione raggiunta dalle sentenze “<em>Battisti</em>” del 2000, anche al fine di dare seguito alle critiche dottrinali che hanno visto in quelle pronunce una sorta di salvezza indiscriminata del medico anche laddove ad esso siano imputabili chiare epifanie di colpa grave. Quando si tratta di accertare il rapporto causale tra omissione medica ed evento lesivo, occorre disconoscere valenza esclusiva ai coefficienti di probabilità perché è obiettivamente impossibile decifrare tutti gli anelli della “<em>catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi</em>”. Vi saranno allora casi in cui il comportamento alternativo lecito omesso può predicarsi tale da rivestire un coefficiente di probabilità positiva anche non prossimo ad 1, senza che ciò escluda il nesso causale e la connessa responsabilità del medico; e, all’opposto, ipotesi in cui il coefficiente di probabilità statistica potrà dirsi molto elevato, ma in ogni caso non sufficiente ad affermare il nesso di causalità tra omissione ed evento e la connessa responsabilità penale del medico laddove lo specifico quadro probatorio lasci inferire – nella ricostruzione dell’evento e della relativa genesi causale – spiegazioni di tipo diverso rispetto a quella riconducibile all’omissione medica. In sostanza, per la sentenza Franzese le possibilità/probabilità di successo del comportamento alternativo lecito omesso del medico non debbono necessariamente lambire il 100%, né debbono limitarsi ad un mero 30%, dovendosi escludere qualunque automatismo valutativo, che finirebbe con lo svilire il ruolo accertativo del giudice (il processo è la sede della piena verifica di tutte le risultanze probatorie che specificamente lo connotano) e lo stesso principio di stretta legalità che presidia il diritto penale: le lesioni o l’omicidio, anche laddove prodotti da omissione medica, sono infatti reati di evento, e non possono essere trasformati in reati di mera condotta con l’evento additabile quale (mera) condizione obiettiva di punibilità. L’ipotesi prospettata dall’accusa è da intendersi neutralizzata, con esito assolutorio per il medico, tutte le volte che il riscontro probatorio risulti connotato da insufficienza, contraddittorietà ed incertezza in ordine alla ricostruzione del nesso causale, affiorando il “<em>ragionevole dubbio</em>” – sulla scorta della evidenza disponibile – in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta omissiva medica rispetto ad “<em>altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 953, che si occupa di una ipotesi accusatoria rivolta agli amministratori di una società per azioni che produce, ripara e demolisce carrozze ferroviarie, ed i cui lavoratori sono stati soggetti per diversi anni ad una consistente ed incontrollata esposizione a polveri di amianto, con morte di taluni di essi per mesotelioma pleurico e peritoneale. Gli amministratori in questione sono stati tali per un arco temporale pari a 3 anni, mentre i lavoratori sono stati sottoposti alla incontrollata esposizione alle polveri nocive per un arco di tempo molto più ampio, e questo per la Corte è in grado di incidere sul nesso causale (anche omissivo) - rispetto all’evento morte – della condotta degli amministratori incriminati. Secondo la Corte il nesso di causalità, se da un lato assume a proprio punto di riferimento il verificarsi dell’evento siccome prodottosi, dall’altro si appunta sulla natura e sui tempi dell’offesa e, dunque, della condotta offensiva. Va allora riconosciuto il nesso causale quando vi sia la prova che il comportamento alternativo lecito omesso (perché non posto in essere affatto in caso di omissione, o perché posto in essere in luogo di quello doveroso in caso di commissione) avrebbe scongiurato l’evento lesivo in concreto verificatosi, ovvero ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore; va parimenti riconosciuto il nesso causale anche quando l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato, ma in tempi significativamente più lunghi (accelerazione dell’insorgenza) o quando la condotta commissiva od omissiva colposa sia stata causa di quell’evento morte per aver solo ridotto in modo significativo i tempi di epifania (riduzione della latenza) di una malattia che è ricollegabile ad altra causa e magari a condotta di terzi. Da questo punto di vista, non conta allora che al momento in cui gli amministratori (poi imputati) prendono le redini della compagine societaria vi sia già stata per i lavoratori esposizione alle sostanze nocive ed insorgenza della malattia letale, in quanto l’evento loro addebitato per causalità omissiva (non hanno sospeso o ridotto l’esposizione dei lavoratori e la conseguente inalazione) viene riconnesso non già alla morte per esposizione ad amianto, quanto piuttosto – e più specificamente – alla morte per esposizione ad amianto in quel giorno determinato piuttosto che in un altro ad esso successivo.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.18945 che si occupa del risarcimento del danno da perdita di chance: in questo caso, il nesso causale avvince da un lato il comportamento antigiuridico e dall’altro, appunto, la perdita di chance. Per la Corte la chance non compendia una mera aspettativa di fatto, quanto piuttosto una vera e propria posta patrimoniale autonoma, suscettibile di propria valutazione laddove pregiudicata. In queste ipotesi il creditore è tenuto a provare, avvalendosi di presunzioni e di calcoli di probabilità, che si sono realizzati in concreto taluni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato, e che tale raggiungimento è stato impedito dalla condotta illecita, conseguenza immediata e diretta della quale è appunto non già il mancato raggiungimento del risultato sperato, quanto piuttosto la perdita delle possibilità di raggiungerlo (viene citato il precedente n. 10748 del 1996).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 marzo esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n.4400 che, nel confermare come i criteri di accertamento della causalità nel settore civile debbano essere identici a quelli che presidiano il settore penale dell’ordinamento, dovendo da quest’ultimo essere mutuati, dichiara più in specie di fare proprie le conclusioni cui è giunta la sentenza delle SSUU penali del 2002 sul caso Franzese. La pronuncia, in modo tutt’affatto significativo afferma che non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’esistenza nel caso di specie del nesso causale: il giudice deve infatti verificare la validità di questa ipotesi causale nel caso concreto sottopostogli, sulla base delle circostanze di fatto e dell’evidenza disponibile; all’esito del ragionamento probatorio tarato sul caso concreto, e che ha consentito di escludere rilevanti fattori causali alternativi, deve risultare giustificata e processualmente certa la conclusione onde la condotta omissiva e in ogni caso colpevole del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale e di probabilità logica. Si tratta di conclusione che la Corte raggiunge (in piena adesione ai criteri della sentenza Franzese) con riguardo al danno da mancato raggiungimento del risultato sperato; diversa è invece, per la Corte, la domanda intesa ad ottenere il danno emergente connesso con la perdita delle possibilità di raggiungere tale risultato (c.d. perdita di chance): per quest’ultimo il discorso si fa meramente probabilistico, onde l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi; mentre per il risarcimento del danno connesso alla perdita del risultato sperato (e lesivo del diritto alla salute, in termini di lucro cessante) si applicano dunque i criteri della sentenza Franzese (leggi statistiche, ipotesi condizionale e riscontro tramite concrete evidenze probatorie), per il risarcimento del danno connesso alla perdita delle mera chance di ottenere il risultato sperato (lesivo del diverso diritto ad approfittare di tutte le possibilità di miglioramento terapeutico accessibili, come danno emergente) sono sufficienti le sole leggi statistiche e probabilistiche.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.1752 che, occupandosi del risarcimento del danno da perdita di chance, ribadisce come in questo caso il nesso causale avvinca da un lato il comportamento antigiuridico e dall’altro, appunto, la perdita di chance. Per la Corte la chance non compendia una mera aspettativa di fatto, quanto piuttosto una vera e propria posta patrimoniale autonoma, suscettibile di propria valutazione laddove pregiudicata. In queste ipotesi il creditore è tenuto a provare, avvalendosi di presunzioni e di calcoli di probabilità, che si sono realizzati in concreto taluni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato, e che tale raggiungimento è stato impedito dalla condotta illecita, conseguenza immediata e diretta della quale è appunto non già il mancato raggiungimento del risultato sperato, quanto piuttosto la mera perdita delle possibilità di raggiungerlo (viene citato il precedente n. 10748 del 1996).</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.7997 che si occupa ancora di responsabilità omissiva medica e di nesso di causalità. In sede civile, al fine di affermare la responsabilità del medico non occorre giungere ad un giudizio di certezza più o meno assoluta, palesandosi piuttosto sufficiente la ragionevole probabilità che la condotta omessa avrebbe consentito di scongiurare il danno, sempre che non vi sia la prova di fattori concausali alternativi preesistenti, concomitanti o sopravvenuti. I due sistemi ordinamentali, civile e penale, sono diversi, e l’accertamento della causalità in sede civile va assunto autonomo rispetto al parallelo accertamento della causalità in sede penale, potendosi l’ambito civile accontentare (a differenza di quello penale) delle mere probabilità su base statistica (ovviamente più generalizzanti ed automatiche). Da questo punto di vista, sono esigenze specifiche del settore penale ad imporre l’utilizzo dei criteri dettati dalle SSUU nel caso Franzese, strettamente connesse al principio “<em>in dubio pro reo</em>” e, come tali, di natura garantistica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 settembre esce la sentenza delle SSUU n. 33748, Mannino, che si occupa di una particolare ipotesi di concorso morale (causalità psichica) nel reato, vale a dire il concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza è qui importante perché, al fine di assumere accertato dal giudice il nesso causale, richiama quanto statuito nel precedente del 2002 Franzese in tema di responsabilità omissiva colposa medica: il riferimento va in particolare al concetto di “<em>elevato grado di credibilità razionale</em>” che deve presiedere alla verifica del contributo causale che ha spiegato l’<em>extraneus</em> sì da determinare un autentico rafforzamento della compagine criminale. In sostanza, il modulo contro-fattuale (c.d. <em>condicio sine qua non</em>) viene declinato, trattandosi di un caso problematico, in modo analogo a quanto accade nella ipotesi del reato omissivo improprio colposo del medico: se si accerta che il comportamento alternativo lecito – con alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale – non avrebbe rafforzato il sodalizio criminoso, ciò implica condanna dell’imputato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 febbraio esce una sentenza del Tribunale di Palmi, sezione civile, che si colloca nel solco di quella giurisprudenza che assume non automaticamente trasferibili in sede civile i criteri di accertamento del nesso eziologico elaborati dalle SSUU penali nel 2002 col caso Franzese, strettamente connessi al principio “<em>in dubio pro reo</em>” e, come tali, di natura garantistica. Riconoscere una responsabilità penale anche laddove detta responsabilità si configuri come modesta finisce col trasformare un reato di danno in reato di pericolo, oltre che a degradare l’evento penalmente rilevante a mera condizione obiettiva di punibilità, il che è inammissibile in sede penale (ma è invece pienamente ammissibile quando si giudichi in sede civile, laddove fenomeni di responsabilità oggettiva hanno piena cittadinanza).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce l’importante sentenza della III sezione della Cassazione civile n.21619 secondo la quale – in tema di responsabilità omissiva del medico - l’accertamento del nesso causale in ambito civile può basarsi su criteri del tutto difformi da quelli richiesti nel diritto penale, ed osservando più in particolare come, nell’accertamento del nesso causale civile, sia possibile accedere ad una soglia meno elevata di probabilità (di successo del comportamento alternativo lecito) rispetto a quella penale, la causalità civile obbedendo alla logica del "<em>più probabile che non</em>". Si tratta di una pronuncia importante anche perché si esprime nel senso di una scala discendente di valori tra il sistema penale e quello civile, che è in grado di palesare una del pari discente scala di valori che presiedono all’accertamento del nesso causale, passandosi dall’”<em>oltre ogni ragionevole dubbio</em>” penale (con riguardo al comportamento alternativo lecito omesso che avrebbe scongiurato il reato-inadempimento) al “<em>più probabile che non</em>” (con riguardo al comportamento alternativo lecito omesso che avrebbe scongiurato l’illecito civile).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 gennaio esce la sentenza delle SSUU civili n.581, in una fattispecie relativa al risarcimento dei danni richiesti al Ministero della Salute a cagione di sangue infetto: si tratta di una fattispecie di responsabilità omissiva, con relativa imputazione sulla base di un nesso causale a carattere ipotetico e normativo. La Corte muove dalla più attenta dottrina che ha evidenziato come in tutti gli ordinamenti occidentali si registrino (in modo sostanzialmente identico) standard probatori diversificati con riguardo al processo penale e a quello civile; rappresenta allora come il processo penale e quello civile siano governati da principi probatori di natura diversa: nel processo penale vige la regola dell’”<em>oltre ogni ragionevole dubbio</em>”, mentre in quello civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, ovvero “<em>del più probabile che non</em>”, e ciò in considerazione della circostanza onde nel processo penale vi è diversità di valori in gioco tra accusa e difesa, mentre in quello civile vi è equivalenza dei detti valori tra le parti contendenti. La Corte, senza mettersi in contrasto diretto con le acquisizioni della pronuncia penale delle SSUU Franzese del 2002, muove piuttosto dall’affermazione onde la causalità di fatto (o fisica, o naturalistica) è regolata allo stesso modo nel diritto civile e in quello penale, dovendosi assumere come imprescindibile punto di riferimento in entrambi i sistemi gli articoli 40 e 41 del codice penale: si tratta delle uniche norme esplicite rinvenibili nell’ordinamento in tema di regolarità causale, che integrano principi di tipo logico conformi a massime di esperienza. Applicare gli articoli 40 e 41 anche alla causalità civile non può ritenersi escluso dalla natura atipica dell’illecito civile (rispetto alla tipicità di quello penale), né dalla ammissibilità di forme di responsabilità oggettiva (inammissibili nel sistema penale), stante la differenza che intercorre tra nesso eziologico (in ogni caso da accertarsi) e criteri di imputazione della responsabilità (che possono solo spostare il fuoco dell’attenzione dalla condotta del soggetto agente, che è sempre il primo punto di riferimento nel nesso causale penale, ad altri fattori individuati dal criterio di imputazione civile, che ivi innescano l’eziologia dell’illecito), né tampoco dal diverso regime probatorio che è sotteso al processo civile rispetto a quello penale, potendo quest’ultimo valore incidere solo sul grado di valenza probatoria del nesso causale che, a valle del processo, può assumersi bastevole per l’imputazione di responsabilità (civile, piuttosto che penale). Anche nel sistema civile nondimeno, come in quello penale, pur potendosi il giudice accontentare – ai fini della prova del nesso causale – della regola del “<em>più probabile che non</em>” (non dovendo raggiungere la soglia dell’”<em>oltre ogni ragionevole dubbio</em>”), vale in ogni caso il canone “<em>Franzese</em>” che fa seguire ad un giudizio fondato sulla probabilità scientifica di tipo statistico (che le SSUU civili identificano nella c.d. probabilità quantitativa o pascaliana) uno, proprio del singolo giudicante, fondato sulla probabilità logica (che le SSUU civili identificano nella c.d. probabilità, appunto, logica o baconiana), nel contesto del quale l’ipotesi probabilistica scientifica trova confermata la propria attendibilità giusta inferenza dal compendio probatorio del singolo processo (gli anglosassoni parlano in proposito di <em>evidence and inference</em>). A questa sentenza si adeguerà la giurisprudenza successiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 gennaio esce la sentenza della I sezione n. 2112 che si riferisce alla peculiare fattispecie in cui un individuo malato di cancro rifiuta di sottoporsi alla medicina convenzionale, a ciò indotto da un naturopata, con conseguente, fatale degenerazione della malattia ed esito letale: si tratta per la Corte di una ipotesi di c.d. causalità psichica che si aggiunge a quelle codificate (provocazione ex art.62 c.p.; concorso morale nel reato ex art.110 c.p.). Anche se non possono rinvenirsi leggi scientifiche di copertura del c.d. giudizio controfattuale, resta comunque la possibilità di accertare il nesso causale (di tipo psichico) al di là di ogni ragionevole dubbio: si può infatti fare ricorso a massime di esperienza che siano affidabili e che siano pertinenti al caso oggetto di decisione alla stregua di un elevato grado di credibilità razionale, tale da far escludere la rilevanza di un processo eziologico alternativo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.23846 che – in tema di omissione del medico, e più precisamente di omessa diagnosi di un processo morboso terminale – ribadisce i principi già espressi sulla perdita di chance del paziente (e sul pertinente nesso di causalità) dalla pronuncia n.4400 del 2004, onde quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno (emergente) inferto alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è viceversa – prosegue la Corte – rilevante solo ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la relativa perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla. Sotto altro profilo, la Corte precisa che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare la conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le relative sofferenze. L’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, quando abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo prima del suo normale decorso, e risulti per effetto del ritardo, oltre alla verificazione dell’intervento in termini più ampi, anche che sia andata in conseguenza perduta dal paziente la chance di conservare durante quel decorso una migliore qualità di vita e la chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi di più rispetto a quelli poi vissuti, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona. L’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale - in quanto nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, “<em>che fare</em>” nell’ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e quindi, in senso lato, l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell’essere si esprime in vista e fino a quell’esito - integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 12 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.42128 che ribadisce, sulla scia del precedente del 2003, come in tema di esposizione dei lavoratori a sostanze tossiche non conti tanto che al momento in cui gli amministratori (poi imputati) prendono le redini della compagine societaria vi sia già stata per i lavoratori esposizione alle sostanze nocive ed insorgenza della malattia letale, in quanto l’evento loro addebitato per causalità omissiva (non hanno sospeso o ridotto l’esposizione dei lavoratori e la conseguente inalazione) viene riconnesso non già alla morte per esposizione alle sostanze nocive medesime (già anteriore alla loro carica), quanto piuttosto – e più specificamente – alla morte per esposizione ad amianto in quel giorno determinato piuttosto che in un altro ad esso successivo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 ottobre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.38786 che si occupa di violazione da parte dell’utente della strada delle regole antinfortunistiche dettate, per l’appunto, dal codice della strada. Secondo la Corte, non basta accertare la natura antigiuridica della condotta di un conducente per attribuirgli a titolo di colpa un dato evento lesivo di un bene (interesse) giuridico altrui. Più in specie, la regola cautelare mira a prevenire un determinato risultato offensivo tipico, e può parlarsi di responsabilità colposa solo laddove la violazione della regola cautelare da parte dell’utente della strada abbia concretizzato lo specifico rischio che la norma cautelare violata mirava a prevenire. La norma cautelare è destinata a prevenire (e ad evitare) tutta una classe di eventi: solo se l’evento cagionato dalla violazione di tale norma cautelare rientra nella classe di quelli che essa mira a prevenire può parlarsi di imputazione penale colposa dell’evento. Da questo punto di vista, secondo la Corte, è corretto parlare di “<em>causalità della colpa</em>” assai più che di causalità della condotta (antigiuridica), e ciò proprio in quanto non ogni condotta antigiuridica può essere considerata causalmente avvinta all’evento lesivo, ma solo quella precipuamente “<em>colposa</em>”, in quanto violativa della specifica regola cautelare che mira a prevenire ed evitare eventi proprio del genere e della classe di quelli che si sono prodotti nel caso di specie, attraverso una concretizzazione del relativo rischio di accadimento concreto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 ottobre esce la sentenza del Tribunale dell’Aquila n.380 che, nell’occuparsi della c.d. causalità psichica, ne afferma la relativa sussumibilità sotto leggi scientifiche, al pari della causalità fisica o naturalistica; in particolare, la sociologia e l’antropologia sono in grado di mettere a disposizione del giudice penale determinate leggi scientifiche affidabili che consentono di stabilire con ragionevole certezza quando un determinato comportamento di un soggetto rechi seco un comportamento penalmente rilevante di un altro soggetto. Viene assunto come esempio il modello c.d. delle “<em>rappresentazioni sociali</em>”, ovvero di taluni schemi culturali condivisi e comuni, capaci come tali di orientare le scelte dei singoli in modo sufficientemente credibile ed attendibile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.1716 onde, nell'accertamento della colpa medica per omissione, il nesso causale non può essere desunto da dati statistici. Secondo la Corte infatti nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente prescindersi da tutti gli elementi concernenti la causa dell'evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 giugno esce la sentenza della IV sezione n.37762 che si occupa di un caso di esposizione dei lavoratori per un lungo periodo di tempo al cromo esavalente. Molti di loro sono successivamente deceduti a causa di un tumore ai polmoni (patologia neoplastica) dalla natura multifattoriale, che cioè può essere stata innescata da una serie alternativa di fattori, primo fra tutti il fumo da sigaretta, al quale taluni di essi erano dediti. Il problema è allora quello delle patologie neoplastiche multifattoriali insorte in lavoratori esposti a sostanze nocive in modo prolungato: per la Corte non basta un fattore causale alternativo di innesco della malattia per escludere il nesso causale, e con esso la responsabilità penale, rispetto alla condotta omissiva degli amministratori e dei manager della società cui sia imputabile la esposizione nociva. Occorre piuttosto procedere con coordinate di specificità, e dunque ad una verifica di tipo puntuale che tenga conto delle peculiarità della singola vicenda e che si muova in concreto piuttosto che in astratto, al fine di verificare quale effetto abbia comunque prodotto la prolungata esposizione dei lavoratori rispetto a specifici fattori di rischio. Una pronuncia di assoluzione, per la Corte, potrebbe fondarsi solo su un ragionevole dubbio che tuttavia – sulla scia di quanto affermato dalla sentenza Franzese sulla responsabilità omissiva colposa medica – deve essere un ragionevole dubbio effettivo e concreto anche in presenza di patologie multifattoriali, non potendosi il giudice accontentare, a fini assolutori, della possibilità che la malattia sia insorta per altra causa alternativa (ad esempio, il fumo) rispetto all’esposizione del lavoratore a sostanze nocive in stabilimento. Il fattore causale alternativo deve avere allora spiegato una effettiva efficacia condizionalistica, tale da alimentare in concreto quel ragionevole dubbio che giustifica l’assoluzione dell’imputato: vanno esclusi automatismi ed apriorismi, ben potendo affiorare dal processo, sulla base delle leggi scientifiche di copertura del settore e sulla scorta dell’evidenza complessiva inferibile dal processo medesimo (compendio probatorio acquisito) che la concausa (fumo, quale fattore interagente) sia in concreto ininfluente sulla scorta di un giudizio di credibilità razionale, rispetto alla causa individuata come fonte di responsabilità (esposizione a sostanze nocive).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5107 in tema di responsabilità penale del c.d. <em>Internet provider</em>, decidendo sulla nota vicenda di un video raffigurante un soggetto affetto da sindrome di Down preso in giro con frasi offensive e azioni vessatorie da parte di altri soggetti minorenni. Per la Corte, che opera preliminarmente una accurata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, il ricorso della Procura è da respingere tenendo conto della circostanza onde il video incriminato è stato caricato su Google video, servizio di <em>Internet hosting</em>, all’insaputa di tale soggetto; successivamente, alcuni utenti hanno segnalato la presenza del video sul sito e ne hanno chiesto la rimozione, invocata anche dalla Polizia postale in data 7 novembre 2006; in quello stesso giorno il video è stato poi rimosso dal <em>provider</em>. Fatte queste premesse fattuali, per la Corte la posizione di Google Italia S.r.l. e dei relativi responsabili è quella appunto di un mero <em>Internet host provider</em>, soggetto che – in quanto tale - si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli utenti possono liberamente caricare i loro video, del cui contenuto restano (e non possono non restare) gli esclusivi responsabili. Per la Corte gli imputati, e dunque i rappresentanti del <em>Provider</em>, non sono titolari di alcun trattamento, gli unici titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito dovendosi assumere gli stessi utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono dunque essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento dal Codice Privacy. Per la Corte sono dunque responsabili della violazione,– contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura ricorrente – gli utenti che hanno caricato il video sulla piattaforma <em>Google video</em> e non anche (neppure in concorso) i soggetti responsabili per la gestione di tale piattaforma, trattandosi appunto di un mero servizio di hosting. Per la Corte, in sostanza, non è configurabile alcun obbligo generale di controllo in capo ai rappresentanti di Google Italy s.r.l., gestore del servizio stesso, e dunque in genere degli <em>Internet provider</em>, con conseguente esclusione in radice della configurabilità – sotto il profilo oggettivo ancora prima che sotto quello soggettivo – di una responsabilità penale dell’<em>Internet host provider</em>.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza delle SSUU n. 38343, caso Thyssen Krupp, che ribadisce come l’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento si basi su un giudizio di elevata probabilità logica che sfugge ai rigidi automatismi per essere piuttosto caratterizzato da un ineliminabile contenuto di valutazione: in sostanza il giudice non può essere condizionato da alcuna rigida determinazione di tipo quantitativo, essendo a lui affidato un prudente apprezzamento che, pur non potendo sconfinare nell’arbitrio, deve esitare appunto in un giudizio eziologico dalla elevata probabilità logica (in sostanza, l’accertamento o meno della responsabilità penale non può essere affidato ad una formula matematica). Da un lato va dunque individuata <em>ope iudicis</em> la legge scientifica di copertura del nesso eziologico; dall’altro il giudice medesimo deve – se del caso, avvalendosi dell’aiuto di esperti e tecnici - prestare massima attenzione alla specificità del caso concreto, compiendo in ogni caso una valutazione che sia personalizzata, seppure sempre fedele ad un parametro scientifico, e sempre aderente alle peculiarità del caso concreto, dovendosi altrimenti assumere inattendibili le conclusioni da esso raggiunte.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 11128, caso Fincantieri, che si occupa ancora una volta di una fattispecie di decesso di lavoratori per mesotelioma pleurico derivante da esposizione ad amianto. Si parte dal fatto che, per acquisita consapevolezza scientifica, anche una minima dose di amianto è capace di innescare in modo irreversibile il processo patologico tumorale, per soffermare l’attenzione sulle dosi inalate successivamente rispetto alla dose scatenante (<em>trigger dose</em> o dose grilletto). In particolare il problema è quello della rilevanza penale delle dosi successive, che dipende dall’alternativa se esse accelerino – o meno – il processo patologico e conseguentemente il decesso della vittima: nel primo caso si parla di dose “<em>correlata</em>” o “<em>dipendente</em>”, e nel secondo di dose “<em>indipendente</em>” perché non idonea ad accelerare il decorso della malattia o a diminuirne la latenza. La Cassazione abbraccia le più recenti acquisizione della comunità scientifica assumendo le dosi successive di inalazione “<em>dipendenti</em>” e, come tali, capaci di accelerare l’insorgenza della malattia o di diminuirne la latenza, con conseguente responsabilità penale degli amministratori che non abbiano sospeso o apprezzabilmente ridotto l’esposizione ad amianto già iniziata sotto il governo societario dei loro predecessori.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione che si occupa di una particolare fattispecie di c.d. causalità psichica, collegata alla devastante esperienza del terremoto aquilano del 2009: in quella circostanza, una delle Autorità preposte a governare la situazione (il vice Presidente della protezione civile) – pur in presenza di una serie di scosse sismiche - aveva rassicurato in modo indebito la popolazione, così inducendola a non abbandonare le proprie case e dunque a subire un devastante terremoto con esito letale. Confermando la condanna per omicidio colposo plurimo, la Corte approfondisce proprio il concetto di causalità psichica: mentre nella condizione fisico-naturalistica si assiste in modo aperto a relazioni di tipo più o meno oggettivo, nel caso della causalità psichica non vi è possibile e concreta opportunità di osservazione e verifica di qualcosa che si risolve <em>in toto</em> nell’ambito della imperscrutabile dimensione spirituale della persona. Il giudice penale, al fine di assolvere o condannare, deve per la Corte porsi alla preventiva ricerca di possibili generalizzazioni esplicative delle azioni individuali: nel fare ciò può avvalersi di consolidate e riscontrabili massime di esperienza, quando queste siano tali da consentirgli di selezionare <em>ex ante</em> delle condotte condizionanti (socialmente o culturalmente tipizzabili). <em>Ex post</em> rispetto alla individuazione di tali condotte presuntivamente condizionanti (sulla base delle massime di esperienza), egli dovrà poi sottoporre la fattispecie al vero e proprio accertamento causale (di riscontro). Le massime di esperienza vengono allora messe dalla Corte sul medesimo piano delle leggi scientifiche di tipo probabilistico, essendo entrambe le categorie accomunate dall’appartenenza al c.d. “<em>sapere incerto</em>”: data una certa ipotesi causale, le massime di esperienza (come le leggi scientifiche probabilistiche) possono alimentarne la concretezza, avvalendosi del procedimento logico della abduzione. Si tratta allora di ipotesi causali congetturali che vanno confermate attraverso il concreto accertamento e la concreta affermazione del vero e proprio nesso causale, giusta rigoroso e puntuale riscontro critico fornito “<em>dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto</em>”, stavolta attraverso il procedimento logico della induzione. In questo modo è possibile convalidare o falsificare l’ipotesi causale originaria, escludendo od ammettendo – al di là di ogni ragionevole dubbio – la possibilità di ogni altro decorso causale alternativo. Anche in questo caso, l’arresto Franzese del 2002 finisce con l’essere allora per la Corte il punto di riferimento essenziale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’ 8 marzo viene varata la legge n. 24 recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie (c.d. legge Gelli-Bianco) che disciplina, tra le altre cose, proprio i profili di responsabilità colposa nell’attività medico-chirurgica. Sul crinale penale, rileva in particolare l’art. 6, che introduce nel codice penale una nuova fattispecie incriminatrice, rubricata all’art. 590 <em>sexies</em>: “<em>responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario</em>” ed il cui comma 1 stabilisce che se i fatti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose “<em>sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma</em>”; il quale ultimo (comma 2), a propria volta, prevede un’ipotesi di “<em>esclusione della punibilità</em>” (dalla configurazione dogmatica incerta, potendosi anche compendiare in una interruzione del nesso causale) onde: “<em>qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto</em>”. Viene anche abrogato l’art. 3, comma 1, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, da L. 8 novembre 2012, n. 189, meglio noto come “Decreto Balduzzi”, laddove esclude la penale responsabilità, per colpa lieve, dell’esercente la professione sanitaria, “<em>che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.12175, caso c.d. Montefibre bis, in tema di esposizione dei lavoratori ad amianto, in una fattispecie che tuttavia è – per esplicita presa di posizione della Corte – di natura commissiva, e non già omissiva. Per la Corte infatti, nonostante le scelte lessicali e ricostruttive manifestate con la contestazione, i reati ascritti agli imputati hanno struttura di reati commissivi, incentrati sulla esposizione di lavoratori alle fibre di amianto aereodisperse; la componente omissiva esaltata dall'imputazione in realtà attiene alla connotazione colposa della condotta, essendo costituita dalla mancata adozione delle misure prevenzionali imposte dalla legge ("<em>la condotta attribuibile ai responsabili dell'azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva; giacché l'esposizione all'agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione di tipo organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché se il lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione l'evento non si sarebbe verificato</em>": in tal senso il precedente della Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 - dep. 13/12/2010, Cozzini). Un simile rilievo – rammenta la Corte - non ha valore meramente teorico, perché indirizza l'accertamento giudiziario, sia per il versante del soggetto attivo che per quello del nesso di causalità, per il primo aspetto la puntualizzazione svelando che non si tratta di ricercare la posizione di garanzia (nozione che viene in considerazione nell'ambito dei reati omissivi impropri) ma di accertare piuttosto chi abbia tenuto la condotta attiva. E' però parimenti vero, precisa la Corte in modo significativo, che nell'ambito di un'organizzazione complessa, qual'era Montefibre s.p.a. all'epoca dei fatti, anche questa generalmente più semplice ricerca deve fare i conti con l'articolazione concreta della compagine onde identificare, al di là dei ruoli formalmente ricoperti, a chi debba imputarsi la decisione di esporre i lavoratori all'agente patogeno nelle condizioni date; e chi, avendo residui compiti di controllo, non li abbia svolti. Si ripropone, quindi, la questione dell'accertamento dei poteri; ma – rammenta la Corte - in una logica significativamente differente: come sottolineato dalle SSUU, in contesti organizzativi caratterizzati dalla complessità l'individuazione della responsabilità penale passa non di rado attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestíonale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione, rilevando dunque rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, e dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno: va individuata concretamente la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo, tenendo presente l'intricata trama delle connessioni che rende di non agevole conseguimento la precisa definizione dell'area di competenza di ciascuno dei gestori del rischio (così SSUU, n. 38343 del 24/04/2014 ).</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza della VI sezione civile della Cassazione n. 13096 che – in una fattispecie in cui il danneggiato è caduto ed è dubbio se sia inciampato in un gradino o sia stato invece strattonato da un terzo – fa un bel riepilogo della giurisprudenza in materia. La Corte muove dalla circostanza onde il nesso causale, è elemento costitutivo dell’illecito, e rientra tra i compiti del giudice individuare, tra le possibili concause, gli antecedenti in concreto rilevanti per la verificazione del danno, mediante l’adozione di un criterio di selezione la cui scelta - censurabile in sede di legittimità ex art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ. in quanto suscettibile di essere operata in violazione di norme sostanziali - correttamente è effettuata procedendo all’identificazione della c.d. "<em>causa prossima di rilievo</em>" quale causa di per sé sufficiente a produrre l’evento -, secondo quanto dispone l’art. 41, secondo comma, cod. pen. (vengono richiamati in particolare due precedenti: Sez. 3, Sentenza n. 26997 del 07/12/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014). Dopo questa premessa, la Corte ricorda come abbia da tempo delineato i principi che debbono presiedere all’accertamento del nesso causale, evidenziando come un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della "<em>conditio sine qua non</em>"): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, precisa la Corte, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno). In tal senso, continua la Corte, viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze dannose, cui allude l’art. 1225 cod. civ., ed anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poiché essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell’uomo medio, ossia all’elemento soggettivo dell’illecito, e concerne, invece, le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto. Nell’ambito di detta nozione di prevedibilità in tema di responsabilità aquiliana sono dunque risarcibili anche gli eventi lesivi indiretti e mediati, purché appunto siano un effetto normale secondo il suddetto principio della causalità adeguata (viene richiamata Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 31/05/2005). La nozione di "<em>normale prevedibilità</em>" intesa quale nesso logico relazionale tra l’accadimento antecedente o concomitante e l’evento susseguente è stata ulteriormente precisata, avendo la Corte in passato chiarito come, ai fini della riconducibilità dell’evento dannoso ad un determinato comportamento, non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile, alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una conseguenza non imprevedibile dell’antecedente (viene richiamata Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15895 del 07/07/2009 e Cass, Sez. L, Sentenza n. 8885 del 14/04/2010); occorre quindi dar rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono - ad una valutazione "<em>ex ante</em>" - del tutto inverosimili, in base alle leggi generali di copertura proprie delle scienze esatte applicate ai fenomeni naturali, in tal senso giustificandosi il nesso relazionale causa-conseguenza secondo un giudizio di probabilità scientifica, ovvero - in assenza di tali leggi- in base alla valutazione dei dati di esperienza e della rilevazione della intensità delle frequenze statistiche degli accadimenti, che consentano di desumere, per via induttiva, la esistenza del nesso eziologico (viene richiamata Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7997 del 18/04/2005), dovendo in quest’ultima ipotesi considerarsi – precisa in modo significativo la Corte - che non vi è piena coincidenza nel regime probatorio dell’accertamento del nesso eziologico in sede civile ed in sede penale, avuto riguardo ai differenti valori sottesi ai due processi: ed infatti, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del "<em>più probabile che non</em>", ispirato al criterio della normalità causale, mentre nel processo penale vige la regola della prova "<em>oltre il ragionevole dubbio</em>" che risponde ad un criterio di elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla "<em>certezza</em>" (viene richiamata Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21619 del 16/10/2007; nonché le note Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008).</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.26922, che si occupa di una ipotesi di responsabilità medica, affermando come in tema di reato omissivo improprio <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3dBVQRF%26C%3dKY%26y%3dRNYCS%269%3dQBVMUI%26L%3d2J5G_Bqdq_M1_3rmp_C7_Bqdq_L68NG.4tI3J5Fy7tLCJtQ31.tK_Bqdq_L6y6GI_3rmp_C7KU_3rmp_C7TZKaTXEUNT_3rmp_C7YBpDyD52B5_PI75wC3Dt_h3DA3EHr_6_WEy28_dzP65_lC61_30w534u_4pC_854J9_3lLC1w6_85w_Iy15F_9CtJC97F_3C1I9F309.85D6_Hbtj_SqLDC_4FEHn6_Bqdq_M4O6a_DpNCBpKD53_Iksa_SPK5D_75o0EC_3rmp_D5yCl061l2u_Hbtj_RGLDC_n27Fl01D_3rmp_D5X5R%265%3d%263I%3dCSORH">il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenti i connotati del paradigma indiziario e si fondi anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi <em>ex post</em> sulla base di tutte le emergenze disponibili, dovendo culminare in un giudizio di elevata probabilità logica.</a> Per la Corte, più in specie, con riferimento all'accertamento del rapporto di causalità, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (viene richiamata la pronuncia delle SSUU n.30328 del 10/07/2002, <em>Franzese</em>). E' stato affermato – prosegue la Corte - che deve considerarsi utopistico un modello di indagine causale fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali in quanto, nell'ambito dei ragionamenti esplicativi, si formulano giudizi sulla base di generalizzazioni causali, congiunte con l'analisi di contingenze fattuali; in tale prospettiva, la Corte rammenta come sia stato chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante e che è invece importante che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi, nella verifica dell'imputazione causale dell'evento occorrendo dunque dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l'agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Con particolare riferimento alla casualità omissiva - che viene in rilievo nel caso di specie sottoposto alla Corte - la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando un preciso itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi <em>ex post</em> sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata "<em>probabilità logica</em>" (vengono richiamate ancora le SSUU n. 30328 del 10.7.2002), con la precisazione onde le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto quando l'apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica (in proposito si richiama il precedente di Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010). Ai fini dell'imputazione causale dell'evento, pertanto, il giudice di merito deve per la Corte sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all'imputato dall'ordinamento (la Corte richiama il precedente delle SSUU n. 38343 del 24.04.2014). Nel reato colposo omissivo improprio, conclude la Corte, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a propria volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (vengono richiamati i precedenti della Sez.4,n.49707 del 04/11/2014 e n.26491 del 11/05/2016).</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.28187, alla cui stregua, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=5%3d7cETA%26J%3d9a%26t%3dYCT0e%26w%3dS7cAWD%26S%3dpLzN_zsYx_A3_xyar_8D_zsYx_083U5.6oPqLzMm9oS1LoXq3.oR_zsYx_08tC5K_xyar_8D9V_xyar_8DHbFhHZ0cES_xyar_8DT3_rCo9k_omDrG_JAgLkG_oL_17jC_x7t9t7_yG_iHvJq5g_QwDu_9q_8gR2A_iMuEkQ1A_oL_mHuAi_K1Ak7yQqNg_9tDg_Pq8uPu3.nRuD_xyar_9D3Ls_QwMxAm_JW1X_Ujlmi_tC5KrC2LkP_zsYx_0X1Ru_EkBqMs_PYuV_al7s9qD3g9i_xyar_8d3Ls_AiEv9q9t_PYuV_alfko%26l%3d%26Ay%3dZ0aFZ">assunto che l’art. 3 del c.d. decreto Balduzzi è stato abrogato e che l’interpretazione della ridetta norma aveva portato a ritenere che in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica si fosse verificata la decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve (con responsabilità penale dunque solo in caso di colpa grave), la più severa normativa di cui appunto alla legge n. 24/2017 – che nulla prevede in tal senso – ai sensi dell’art. 2 c.p. troverà applicazione solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 39771 che si pronuncia in tema di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie, dopo l’entrata in vigore della legge n.24 del 2017 (c.d. Gelli Bianco). La Corte in primo luogo precisa come la propria giurisprudenza sia uniforme nell'affermare che integra il delitto colposo di interruzione della gravidanza la condotta dell'ostetrica che, incaricata di eseguire un 'tracciato cardio-tocografico all'esito del quale si evidenzi un'anomalia cardiaca del feto, ometta di informare tempestivamente il medico di turno, sempre che la violazione della regola cautelare, consistente nella richiesta di intervento immediato del sanitario, abbia cagionato o contribuito significativamente a cagionare l'evento morte (viene richiamata la pronuncia della Sez. 5, n. 20063 del 12/12/2014. Sulla stessa linea, precisa la Corte, si è osservato che l'ostetrica, che abbia sotto la propria assistenza e controllo una partoriente, deve sollecitare tempestivamente l'intervento del medico appena emergano fattori di rischio per la madre e comunque in ogni caso di sofferenza fetale. In una fattispecie, relativa ad omicidio colposo del nascituro, la Corte ricorda di avere affermato la responsabilità dell'ostetrica la quale, quantunque il monitoraggio cardio-tocografico della paziente indicasse una progressiva sofferenza fetale, aveva ritardato ad avvertire i sanitari con la conseguenza del decesso del feto (così nella sentenza della Sez. 4, n. 21709 del 29/01/2004; conformi Sez. 4, Sentenza n. 35027 del 16/07/2009; Sez. 4, Sentenza n. 21709 del 29/01/2004. Venendo poi a trattare del nesso causale, la Corte richiama il principio di diritto da ritenere operativo nella materia <em>de qua</em> individuandolo in quello affermato dalla giurisprudenza di legittimità più recente e particolarmente dalla sentenza della Sez. 4, n. 49707 del 2014, postasi peraltro nel solco della più nota sentenza delle SSUU Franzese del 2002, onde anche nell'ambito della causalità omissiva vale la regola di giudizio della ragionevole, umana certezza; tale apprezzamento va compiuto tenendo conto da un lato delle informazioni di carattere generalizzante afferenti al coefficiente probabilistico che assiste il carattere salvifico delle misure doverose appropriate, e dall'altro delle contingenze del caso concreto. Del pari, la Sez. feriale della Corte, nella sentenza n. 41158 del 25/08/2015, ha affermato che in tema di responsabilità per condotte omissive in fase diagnostica, ai fini dell'accertamento della sussistenza del nesso di causalità, occorre far ricorso ad un giudizio contro-fattuale meramente ipotetico, al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest'ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell'evento o comunque ridotto l'intensità lesiva dello stesso. Sulla stessa linea, rammenta la Corte (citando Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013) si èosservato che in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di contrafattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva. Sul tema specifico della responsabilità del personale infermieristico, la Corte rammenta infine come valga il principio enunciato da Sez. 4, n. 9170 del 14/02/2013, secondo cui il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 gennaio esce la sentenza (non definitiva) della V sezione del Consiglio di Stato n.118 alla cui stregua in tema di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nel cui paradigma è inquadrabile la responsabilità della P.A. per illegittimità provvedimentale, la c.d. teoria della causalità alternativa ipotetica ha rilievo solo in relazione agli illeciti omissivi, per i quali occorre stabilire se l’evento dannoso non si sarebbe verificato se il preteso responsabile avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, mentre deve assumersi priva del relativo presupposto rispetto ad illeciti commissivi, quali quelli derivanti dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, in relazione ai quali l’accertamento del giudice deve stabilire se gli atti amministrativi abbiano costituito la causa del danno lamentato, e dunque se costituiscano il fatto illecito che è fonte di responsabilità ai sensi della clausola generale dell’art. 2043 c.c. Proprio muovendo da questo postulato, la Sezione rimette all’Adunanza plenaria la questione se, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, spetti il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico qualora la PA avesse invece bandito la gara.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della sezione civile Lavoro della Cassazione n.1770 che in tema di leucemia da radiazioni in ambiente lavorativo, condanna l’azienda a risarcire i danni al dipendente. Per la Corte, attesa la natura civilistica della responsabilità per cui è causa, va riaffermata la giurisprudenza civile consolidata (vengono richiamate Cass. n. 5174 del 2015, n. 23990 del 2014, n. 23207 del 2014) onde, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass., n. 17978 del 2015). Nella specie, prosegue la Corte, il giudice territoriale ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi accertando l'efficacia quantomeno concausale dell'esposizione, che risultava provata, del lavoratore per un lunghissimo periodo alle radiazioni ionizzanti, come emerso dalle argomentazioni scientifiche ampiamente esposte dal collegio peritale, escludendo - in presenza di tale esposizione - la riconducibilità della patologia (leucemia mieloide acuta unicamente) a cause estranee all'attività lavorativa, quali il fumo.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.6138 alla cui stregua, in fattispecie di suicidio di un soggetto arrestato avvenuto in caserma e di connesso, omesso impedimento dell’evento, come ripetutamente affermato, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.7659, che si occupa di un caso in cui un medico è stato accusato di omicidio per aver convinto un paziente affetto da tumore a curarsi con la sola medicina ayurvedica. La Corte richiama in proposito la propria giurisprudenza assolutamente dominante, alla cui stregua è "<em>causa</em>" di un evento quell'antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l'evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l'evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale ("<em>contro i fatti</em>"), che – precisa la Corte - è l'operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell'imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe infatti evidente che la condotta dell'imputato non costituisce causa dell'evento. Il giudizio controfattuale costituisce pertanto, per la Corte, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, richiede preliminarmente l'accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Cass., Sez. 4, n. 23339 del 31-1-2013), per effettuare il giudizio contrattuale occorrendo quindi ricostruire con precisione la sequenza fattuale che ha condotto all'evento. In tema di responsabilità medica, è dunque per la Corte indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato (viene richiamato il precedente della Sez. 4, n. 43459 del 4- 10-2012). Rammenta la Corte come l'importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica sia stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l'evento lesivo, non si può prescindere dall'individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla "<em>causa</em>" dell'evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto. Al riguardo, rammenta la Corte, le SSUU, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, tutta una serie di principi di diritto compendiati come segue: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica-, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, cosìcché, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "<em>alto grado di credibilità razionale</em>"; l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio (SSUU,10.7.2002, Franzese). Ne deriva per la Corte che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (viene richiamato il precedente della Sez.4,n. 30649 del 13-6-2014).Sussiste pertanto il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa (viene richiamato il precedente della Sez. 4, n. 18573 del 14-2-2013).</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8770 alla cui stregua <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=5%3dOcNTS%26J%3dHa%26B%3dZKTUZ%266%3dSOcJWV%26S%3dyLHN_9sqx_J3_Fyjr_PD_9sqx_I8KUD.67PzLHMv97S0L7Xz3.7R_9sqx_I8BCDK_Fyjr_PDHW_Fyjr_PDQbXhQZVYQY_Fyjr_PDc3_eC3D7_jz3BA6_Ny_93D3_1vR7M5A_sLzL3_J_zEDC9ANGr_FCL_v_HILz47Jv_KCJA3BR6_K3_Jz7JC.yLAJ_9sqx_J8IR4_KCS953_Phun_auf3o_57KQ37HRvJ_Fyjr_PdBLA_Kv67S4_Jo1g_U2C437J_9sqx_IXIR4_5yK737E5_3y9rJo1g_U2lvi%262%3d%26G0%3dURdIb">un medico – nel vigore della legge c.d. Gelli-Bianco - risponde per morte o lesioni personali colpose nel caso in cui l'evento si sia verificato, anche per colpa lieve, a causa di negligenza e imprudenza; risponde altresì anche per colpa lieve dovuta ad imperizia nei casi in cui non vi siano linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali finalizzate a regolare il caso concreto, ovvero nel caso in cui queste ultime – esistenti - siano state erroneamente individuate o non siano adeguate al caso di specie. Per la Corte infine il sanitario risponde (solo) per colpa grave dovuta ad imperizia nell'esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida o nelle buone pratiche clinico-assistenziali pertinenti rispetto al caso concreto, avuto riguardo alle speciali difficoltà dell'atto medico.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.9161, in tema di episodio stradale letale (allagamento di un sottopasso per forte precipitazione atmosferica) ed obblighi cautelari delle autorità preposte alla sicurezza stradale. Per la Corte, attribuire alla condotta alla guida del conducente il carattere dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità per avere egli violato nel caso di specie l'art. 141 Cod. Strada significherebbe trascurare il fatto che la vittima era un utente della strada, sulla cui osservanza delle regole cautelari non era lecito fare incondizionato affidamento. La condotta imprudente e inosservante degli automobilisti costituisce infatti una condizione che, per esperienza comune, é concretamente prevedibile non solo dagli altri utenti della strada, ma anche dalle autorità preposte alle misure di sicurezza stradali, ed é per questo – precisa la Corte - che il verificarsi di peculiari condizioni di pericolo impone l'adozione (nella specie al Comune, trattandosi di rete stradale urbana: cfr. art. 37, Cod. Strada) di apposite misure, ad esempio segnaletiche, anche in caso di eventi atmosferici (si veda ad esempio quanto prescritto dall'art. 77, comma 4, Reg. al Codice della Strada, in ordine all'adozione di segnali verticali "<em>al fine di preavvisare i conducenti delle reali condizioni della strada per quanto concerne situazioni della circolazione, meteorologiche o altre indicazioni di interesse dell'utente</em>"). In tale quadro, per la Corte non può affermarsi che la condotta imprudente alla guida tenuta dal conducente non sarebbe stata impedita dal comportamento alternativo diligente richiesto (quello, cioè, di prevenire il pericolo scaturente da allagamenti del sottopasso e di interdirne l'accesso ai veicoli), valendo piuttosto il principio in base al quale, in caso di sinistro originato dall'assenza delle necessarie misure di sicurezza stradale a cura di enti e soggetti competenti, nessuna efficacia causale può essere attribuita alla imprudenza alla guida da parte della parte offesa, nel caso in cui tale condotta sia da ricondurre proprio alla mancanza delle suddette cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del comportamento del conducente (viene citato il precedente della Sez. 4, n. 26394 del 20/05/2009). Sotto altro profilo, la Corte rammenta che é certamente ipotizzabile la sussistenza di profili di colpa generica anche in relazione a condotte omissive per violazione di regole cautelari non scritte, la relativa valutazione dovendo discendere da un processo ricognitivo che individui i tratti tipici dell'evento, per poi procedere formulando l'interrogativo se questo fosse prevedibile ed evitabile <em>ex ante</em>, con il rispetto della regola cautelare in oggetto, alla luce delle conoscenze tecnico - scientifiche e delle massime di esperienza (viene richiamato il precedente della Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016). Per quanto infine concerne il giudizio controfattuale, per la Corte occorre muovere dalla considerazione onde il comportamento alternativo diligente attiene alla possibilità di evitare l'evento attenendosi alle regole di cautela pertinenti nel caso di specie, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione <em>ex ante</em>, non avrebbe potuto comunque essere evitato (viene richiamato il precedente della Sez. 4, n. 34375 del 30/05/2017); tuttavia, precisa la Corte, proprio per il fatto che il giudizio <em>de quo</em> deve operarsi con valutazione <em>ex ante</em>, é di tutta evidenza che l'adozione di misure idonee ad agevolare, nel caso di specie, il deflusso delle acque meteoriche e, nelle more, di misure interdittive della circolazione nel sottopasso si poneva appunto - nel quadro di siffatta valutazione- come idonea ad evitare eventi del tipo di quello per cui é processo; eventi il cui verificarsi, in caso di mancata adozione delle suddette misure, si poneva come concretizzazione del rischio che tali misure miravano a prevenire.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce la sentenza della Cassazione civile, sez. III, n. 5641, che si pronuncia sul danno da perdita di chance. Il c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico della evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di chance, mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale; la chance patrimoniale, infatti, presenta i connotati dell’interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un quid su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance “non pretensiva”, pur essendo anch’essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un quid inteso come preesistenza positiva. Ne consegue che, in sede risarcitoria, il giudice di merito deve inevitabilmente tener conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno. In caso di perdita di una chance a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto” (nella specie, maggiori chance di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa); tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto. In materia di perdita di chance, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito, la quale aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni parentali conseguenti al decesso di un congiunto, avvenuto a causa di errori diagnostici che ritardarono di oltre due anni la diagnosi di un tumore polmonare, in quanto la Corte territoriale aveva escluso che l’inadempimento dei sanitari avesse ridotto la chance di guarigione del paziente, sul rilievo che la morte si sarebbe comunque verificata, omettendo così di identificare correttamente l’evento di danno nella perdita anticipata della vita e nella peggiore qualità della stessa).</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce la sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, n. 6688. La Corte di legittimità afferma che in tema di attività medico-chirurgica, grava sul sanitario che esegua un esame diagnostico l’obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell’accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza. Questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia tuttavia ancora dinanzi - ove la condotta medica fosse corretta - la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza - sempre nell’ipotesi di condotta medica corretta - sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.16713, che si occupa di un episodio di infortunio mortale, ponendosi sulla scia della prpria consolidata giurisprudenza successiva alla celebre sentenza delle Sezioni Unite n. 38343/2014, relativa al noto caso <em>Thyssenkrupp</em>. Per la Corte nel caso di specie la disamina dei proposti motivi impone una triplice comune premessa: in punto di posizione di garanzia del datore di lavoro; in punto di nesso di causalità tra il sinistro e le contestate infrazioni della disciplina antinfortunistica; nonché in punto di idoneità delle eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato (o comunque, come nel caso di specie, ad altro dipendente) ad interrompere, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p., il nesso di causalità sussistente tra l'omissione colposa di un garante e l'evento mortale (o, più semplicemente lesivo) che ne è derivato. Sotto il primo profilo, afferma la Corte, secondo il consolidato indirizzo interpretativo già in precedenza abbracciato (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014; sent n. 20595 del 12/04/2005), le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di scongiurare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all'esercizio dell' attività lavorativa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione da parte del lavoratore subordinato, tale conclusione dovendo assumersi fondata sulla disposizione generale di cui all'art.2087 c.c. e su quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica secondo le quali, il datore di lavoro o comunque la persona dallo stesso delegata, è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza onde, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2. Ne consegue – prosegue la Corte - che il titolare della posizione di garanzia ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera, essendo tale posizione di garanzia estesa anche al controllo della correttezza dell'agire del lavoratore, essendo imposto al "<em>garante</em>" (anche) di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela. Quanto al profilo causale, prosegue la Corte, è indubbio che l'applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatismo rispetto all'addebito di responsabilità e si impone la verifica, in concreto, della violazione da parte dell'imputato non solo della regola cautelare (generica o specifica), ma, soprattutto nel caso di specie, della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso, che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. "<em>concretizzazione</em>" del rischio). L'individualizzazione della responsabilità penale impone infatti per la Corte di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l'evento (ciò che si risolve nell'accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare sia essa generica o specifica, ma anche se l'autore della stessa potesse prevedere, con giudizio "<em>ex ante</em>" quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento non sono sufficienti per fondare l'affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l'evento derivatone rappresenti o no la "<em>concretizzazione</em>" del rischio, che la regola stessa mirava a prevenire; e se l'evento dannoso fosse o meno prevedibile, da parte dell'imputato (si richiama Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009). La Corte rammenta come la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgano un articolato ruolo fondante: sono all'origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. In particolare, l'art. 43 c.p. reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l'evento non è voluto e "<em>si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia</em>...". Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse direzioni. La Corte rammenta in proposito come l pensiero giuridico italiano abbia da sempre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire, tale esigenza confermando l'importante ruolo della prevedibilità e prevenibilità nell'individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta per la Corte di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all'epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio, l'accadimento verificatosi dovendo cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, e dovendone dunque costituire "<em>la concretizzazione del rischio</em>". Quanto poi alla rilevanza della eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato o ad altro dipendente dell'impresa, occorre per la Corte osservare che, in tema di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'offesa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano considerarsi tali quelle che diano luogo a una serie causale, sebbene non del tutto autonoma rispetto a quella riferibile all'agente, che si atteggi in termini di assoluta anomalia, eccezionalità e imprevedibilità (si richiama Sez. 4, sent. n. 13939 del 30/01/2008). In particolare, rammenta la Corte, è stato chiarito (da Sez. 4, sent. n. 7267 del 10/11/2009,) che la condotta colposa del lavoratore non esclude la responsabilità dell'imprenditore, poiché il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possano pregiudicarne l'integrità psico-fisica: l'imprenditore è esonerato da responsabilità soltanto nel caso in cui il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile (e non anche nel caso in cui l'irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni). Con particolare riferimento alla sicurezza sul luogo di lavoro, la Corte ritiene che presenti efficacia interruttiva del rapporto causale esistente tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l'offesa soltanto il comportamento abnorme del lavoratore che, per la relativa stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (viene richiamata Sez. 4, sent. N. n. 14440 del 05/03/2009), il che è assunto certamente da escludersi nel caso di specie.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 maggio esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. IV, n. 24109, che si pronuncia in un caso di responsabilità dell’automobilista per l’investimento di un ciclista circolante di notte su strada. La Corte di legittimità, confermando la sentenza impugnata, ribadisce che, nel caso di specie, anche se il ciclista non marciava tenendo rigorosamente il margine destro della carreggiata, ma spostato di circa 80 cm., non per questo la sua condotta irregolare poteva ritenersi un fattore eccezionale interruttivo del nesso di causalità. Il ragionamento seguito dalla Corte di appello è corretto. Giova in proposito rammentare il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di reati colposi l'elemento soggettivo del reato richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione di regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione "ex ante", non avrebbe potuto comunque essere evitato (Sez.4, n.34375 del 30/5/2017, Rv.270823; Sez.4, n.9390 del 13/12/2016, Rv.269254). Il tema è stato di recente approfondito anche dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte che, nel delineare i tratti distintivi tra la regola di giudizio relativa all'evitabilità dell'evento per effetto di condotte appropriate e quella relativa alla dimostrazione del nesso causale, hanno precisato che è proprio la regola fissata dall'art.43 cod proc.pen, che, configurando la colpa quando l'evento sia stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, esclude il nesso eziologico qualora una condotta appropriata (ovvero un comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento: dunque, concludono le Sezioni Unite, la colpa si configura quando la cautela richiesta avrebbe avuto significative probabilità di successo, quando cioè l'evento avrebbe potuto essere ragionevolmente evitato, quando - insomma - si configura la cosiddetta "causalità della colpa" (S.U., n.38343 del 24/4/2014, Espenhahn). In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento non sono, pertanto, sufficienti per fondare l'affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l'evento derivatone rappresenti o no la "concretizzazione" del rischio che la regola stessa mirava a prevenire. In tema di reati colposi, l’elemento soggettivo del reato richiede non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione di regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile alla cui stregua – in presenza di un <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3dEWGRI%26D%3dAY%262%3dTHTNa%26y%3dQEWCUL%26M%3drJ8H_2qgr_C1_6scp_F8_2qgr_B6AO7.4wJsJ8Go7wM3JwRs1.wL_2qgr_B6277I_6scp_F8AT_6scp_F8JZNbJXMXER_6scp_F8YCsK3E_36_sDsKkJ8G_sD772917xJ3_6o9_r349_w6oD8Ap9q3490A_n9_9F_kL0Gm18G_3KuDs_5z7x3vA_45z7pE2Am9_q_7_z566sJo_6s_3v3x3sK.rJ1D_2qgr_C69Lw_I3M23s_Jasd_Undsi_x5AKv58LoH_6scp_FX5J1_Eo4wM1o3kw_HeuZ_Sr7w1wD_2qgr_BV9Lw_3oEz1w9x_HeuZ_Srfog%26r%3d%26A3%3dSMWAU">omesso od inesatto inserimento nell'elenco telefonico di dati afferenti ad un professionista - si realizza un danno compendiantesi nel non poter essere contattati da nuova clientela; in queste eventualità, per la Corte nessuna prova di nesso causale rispetto alla perdita (e dunque al danno) può essere pretesa se non in termini di mera possibilità, trattandosi di perdita di chance suscettibile di valutazione equitativa.</a></p> <p style="text-align: justify;">L’11 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.26582, che si occupa di una fattispecie di somministrazione di bevande alcooliche ad un minore all’interno di un locale. Per la Corte, nel caso di specie l’imputato, nella relativa qualità di titolare dell'esercizio commerciale in cui è avvenuta la somministrazione di bevanda alcolica al minorenne, non può giovarsi, al fine di andare esente da responsabilità penale, dell'errore in cui sarebbe caduta la cameriera addetta al servizio bar, non adeguatamente "<em>controllata</em>" dai soggetti cui aveva dato in appalto tale incombenza. La natura di reato di pericolo della fattispecie in esame, infatti, per la Corte impone in capo al proprietario dell'esercizio commerciale di una effettiva e necessaria diligenza nell'accertamento dell'età del consumatore, atteggiamento che, nel caso, come quello in esame, non può essere soddisfatto né dalla presenza nel locale di cartelli indicanti il divieto di erogazione di bevande alcooliche ai minori, né limitandosi a delegare il controllo dell'età degli avventori a terzi (vengono richiamati i precedenti della Sez. 5, 2/12/2010, n. 7021, e 5.5.2009, n. 27916). Quello previsto dall'art. 689 cod. pen. è per la Corte un obbligo che grava innanzitutto sul soggetto che gestisce l'esercizio commerciale in cui si pratica la vendita al pubblico di bevande alcoliche, assicurandone la somministrazione, su richiesta dei clienti, personalmente o attraverso forme di organizzazione del lavoro incentrate sull'impiego di uno o più dipendenti retribuiti. In questo caso appare evidente alla Corte che su tale soggetto grava una peculiare responsabilità, avendolo collocato il precetto normativo in una specifica posizione di garanzia a tutela di interessi diffusi (così Sez. 5, 5/5/2009, n. 27916, e 6/11/2012, n. 4320), onde la valutazione dei parametri di imputazione - negligenza ed imprudenza - deve essere assunta con severità, non potendo il gestore delegare né al personale dipendente né a terzi l'accertamento della effettiva età del consumatore, ma dovendo, invece, egli vigilare affinché i lavoratori alle relative dipendenze svolgano con la dovuta diligenza i loro compiti ed osservino scrupolosamente le istruzioni al riguardo loro fornite dal gestore (così già Sez. 5, n. 46334 del 26/06/2013).</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26858, alla cui stregua – in tema di infortunio sul lavoro - il ricorso, nel caso di specie, confonde vistosamente il profilo causale colposo concausativo dell'infortunio ipoteticamente addebitabile al lavoratore, ma in ogni caso non tale da escludere la primaria responsabilità del datore di lavoro, con la condotta abnorme ovvero esorbitante del lavoratore, la sola che potrebbe condurre all'esonero del datore di lavoro. La Corte richiama in proposito la nozione di abnormità da essa costantemente fornita, onde il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente ed ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (vengono richiamati precedenti della Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, n. 15124 del 13/12/2016, n. 16397 del 05/03/2015, n. 23292 del 28/04/2011, n. 7267 del 10/11/2009). Nessuna abnormità della condotta della vittima è anche solo lontanamente ipotizzabile nella concreta situazione, in cui, come si è già visto, era stato il datore di lavoro ad incaricare il prestatore, in formazione da poco più di un mese quale installatore riparatore di apparecchi elettronici ed elettromeccanici, di svolgere attività lavorativa estranea al proprio profilo professionale in quota, sopra un tetto, in assenza di qualsiasi formazione ed informazione ed in mancanza di dispositivi di protezione contro le cadute dall'alto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sezione III Civile, n. 15767 che Si pronuncia sulla responsabilità del locatore, in caso di immissioni intollerabili. La Corte, annullando la sentenza d’appello, sostiene che l’accertamento del giudice di merito è stato nel senso che la proposizione dell’azione di risoluzione della locazione, previo esercizio della relativa diffida, da parte del locatore «avrebbe spiegato un immediato effetto deterrente nei confronti del locatario e, con ogni probabilità, avrebbe reso superfluo il successivo dirimente interventodel giudice. Essa avrebbe, in ogni caso, sollevato i locatori da qualunque addebito di colpa e dalla conseguente condanna al risarcimento, correttamente adottata dal Tribunale». Ciò che il giudice di merito ha valutato è stato un «effetto di deterrenza», il quale avrebbe potuto spiegare efficacia non nei confronti dell’eventodannoso ma della condotta del conduttore che ha cagionato il danno. Il giudice di merito non ha valutato il concorso causale dell’omissionerispetto all’evento dannoso, ma una sorta di condizionamento che il contegno omesso avrebbe potuto esercitare sull’azione compiuta dall’autore del fatto illecito che è valutazione estranea al contributo causale dell’omissione rispetto all’evento. Ed invero fra il contegno omesso e l’evento si interpone la condotta produttrice del danno, spiegandosi l’efficacia del contegno, che il locatore avrebbe dovuto assumere, non rispetto all’evento, ma rispetto alla condotta del conduttore. Esercitandosi l’incidenza eziologica della condotta omessa non rispetto all’evento ma rispetto all’azione che lo ha prodotto, non è configurabile un concorso causale dell’omissione rispetto all’evento. Trova in tali limiti conferma la giurisprudenza più recente che, anche sotto il profilo del danno cagionato da cosa in custodia, ha escluso la responsabilità del proprietario della cosa locata per omissione di formale diffida nei confronti del conduttore autore delle immissioni.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 giugno esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. III, che si pronuncia su un caso di abbandono colposo di rifiuti su strada da parte di un dipendente. La Corte, annullando la sentenza di merito, ricorda che secondo il consolidato orientamento di questa Corte in materia ambientale, í titolari e i responsabili di enti ed imprese rispondono del reato di abbandono incontrollato di rifiuti non solo a titolo commissivo, ma anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che abbiano posto in essere la condotta di abbandono (Sez. 3, n. 40530 del 11/06/2014 - dep. 01/10/2014, Mangone e altro, Rv. 261383 in relazione ad una fattispecie di scarico incontrollato di rifiuti bituminosi all'interno di un parco fluviale). Il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 2, sebbene reato proprio dell'imprenditore o del responsabile di ente, non è infatti necessariamente un reato a condotta attiva, ravvisabile nel solo caso in cui questi si sia reso responsabile di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti, ben potendo concretarsi anche in una omissione, scaturente da comportamenti che violino i doveri di (-, diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda (cfr. Cass. pen. sez. 3/11.12.2003, n. 47432 che ha ritenuto la responsabilità dei titolari di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni", nonché Cass. pen. sez. 3, n. 24736 del 18.5.2007 in una fattispecie riguardante un autocarro adibito al trasporto di rifiuti abbandonati in modo incontrollato e condotto da un dipendente del titolare dell'impresa). Ciò nondimeno la culpa in vigilando da parte del titolare dell'impresa sul fatto dei propri dipendente che abbia posto in essere una condotta di abbandono dei rifiuti, così come viene ipotizzato nel capo di imputazione nei confronti dell'odierna ricorrente, postula pur sempre un accertamento pieno dell'eventuale contenuto attivo, partecipativo o omissivo, della condotta contestata alla legale rappresentante della società. Occorre in altri termini, affinchè possa ritenersi la responsabilità concorrente del titolare dell'impresa, non costituente un'ipotesi di responsabilità oggettiva, accertare che la condotta incriminata non sia frutto di una autonoma iniziativa dei lavoratori contro le direttive e ad insaputa dei datori di lavoro, specie allorquando la condotta sia stata posta in essere, come nel caso di specie, dall'autista della società, di cui l'imputata era la legale rappresentante, nel mentre si trovava da solo alla guida del mezzo, su cui erano state caricate le acque provenienti dalla molitura delle olive, sversandole lungo il tragitto sulla pubblica via. La circostanza che il dipendente abbia affermato nell'immediatezza del fatto di aver contravvenuto, per ridurre i tempi di lavoro, agli ordini impartitigli dal datore di lavoro secondo cui avrebbe dovuto trasportare i reflui nei terreni deputati allo spandimento, così come riportato dai verbalizzanti, lascia di per sè emergere un ragionevole dubbio sul concorso della ricorrente nel reato in contestazione, che il giudice di merito non risulta proprio essersi posto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 giugno esce la sentenza n. 29291 della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, che si pronuncia in un caso di incidente stradale nei pressi di un cantiere. In tema di responsabilità pe omicidio colposo stradale in caso in cui l’incidente abbia origine dall’assenza delle misure di sicurezza stradali per segnalare e delimitare i cantieri «nessuna efficacia causale può essere attribuita alla imprudente velocità tenuta dalla parte offesa, nel caso in cui tale condotta sia da ricondurre proprio alla mancanza delle suddette cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del comportamento del conducente». La decisione della Corte di merito viene confermata, perchè in linea con plurime puntualizzazioni della Corte di legittimità, sia pure rese in fattispecie non del tutto coincidenti con quella in esame. Infatti: «In tema di responsabilità per omicidio colposo da sinistro stradale, la circostanza aggravante della violazione della normativa sulla circolazione stradale è ravvisabile non solo quando la violazione della normativa di riferimento sia commessa da utenti della strada alla guida di veicoli ma anche nel caso di violazione di qualsiasi norma che preveda a carico di un soggetto, pur non impegnato in concreto nella fase della circolazione, un obbligo di garanzia finalizzato alla tutela della sicurezza degli utenti della strada (Fattispecie in cui è stata ritenuta configurabile l'aggravante nei confronti del caposquadra incaricato di dirigere i lavori di manutenzione della strada, il quale, omettendo di apporre idonea segnaletica temporanea, determinava l'insorgenza di una situazione di pericolo, costituita dalla presenza di un dosso non visibile, a causa del quale si verificava il sinistro stradale in cui perdeva la vita un motociclista)» (Sez. 4, n. 44811 del 03/10/2014, Salvadori, Rv. 260643).</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno esce la sentenza della Cassazione, sez. III Civile, n. 16919, che si pronuncia sul danno da omessa diagnosi. Nella vicenda in esame, gli attori avevano convenuto in giudizio innanzi al Tribunale competente la U.S.L. ed un medico, chiedendone la condanna il risarcimento del danno per la morte del loro congiunto, in quanto quest’ultimo, dopo essersi recato presso il pronto soccorso per violenti dolori, era stato rinviato a casa, ma il giorno seguente, era deceduto. Il Tribunale adito, in accoglimento della domanda, ha condannato in solido al pagamento del risarcimento i convenuti, ma questi ultimi hanno impugnato la sentenza proponendo distinti appelli, successivamente accolti dalla Corte territoriale. Nello specifico, secondo il giudice di merito, il comportamento negligente e/o imperito del medico, non poteva essere posto in rapporto causale con l'evento morte, non essendo quantificabili, sotto il profilo risarcitorio, le eventuali differenze nella sopravvivenza in periodi brevissimi, atteso che la sopravvivenza del paziente non poteva ritenersi più probabile della morte, neppure nel brevissimo periodo. Gli eredi del defunto hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo, tra le censure sollevate, che, come emergeva dalle risultanze del CTU, delle tre cause che avrebbero potuto condurre al decesso il proprio congiunto, le prime due, se fossero state individuate prontamente dal medico, sarebbero potute esser trattate con una discreta possibilità di successo, e che tale circostanza, non era stata esaminata dalla Corte d'appello. Inoltre, hanno rilevato che il congiunto era stato privato anche della possibilità di vivere per un periodo più lungo, avendo la stessa Corte di merito, accertato la probabilità di un prolungamento di vita fino a 3-12 mesi. Pertanto, tale persistenza di chance di vita era stata impedita dalla condotta colposa del medico convenuto, atteso che l'evento morte non si sarebbe verificato con tale anticipo, se la malattia fosse stata tempestivamente diagnosticata e quindi curata. La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo, evidenziando, in particolare, l’esclusione da parte del giudice di merito dell'esistenza del nesso di causalità della perdita di un periodo di sopravvivenza del defunto con la condotta colposa del sanitario, ed inoltre, che l'omissione della diagnosi di un processo terminale, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona, ove risulti che, a causa di tale omissione, il paziente abbia perso la chance di vivere alcune settimane o mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, n. 29514, che respinge il ricorso per cassazione proposto dagli imputati, sulla base delle seguenti argomentazioni. Tutti i ricorrenti hanno dedotto l’ interruzione del nesso di condizionamento a causa del comportamento imprudente del lavoratore che ,anziché far passare il cavo elettrico di una prolunga di circa 25 metri attraverso le stanze attigue alla terrazza, lo avrebbe lanciato attraverso il ballatoio del vano scale, per farlo passare da una finestra che si affacciava sulla terrazza medesima. Ampio spazio è stato riservato da tutti i ricorrenti al tema della condotta altrui quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, non solo al fine di separare e distinguere le varie figure di «garanti», correlandole al rischio da ciascuno gestito, al fine di separare le responsabilità (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014,Espenhahn, in motivazione; Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, Sorrentino, Rv.264365,) ma soprattutto si è cercato di enucleare un criterio di valutazione della condotta del lavoratore idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra il comportamento datoriale e l'infortunio. Con riguardo a quest'ultimo profilo, sono note le sentenze di questa Sezione (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, Rv. 254094) e delle Sezioni Unite (Sez. U,n.38343 de124/04/2014, Espenhahn) nelle quali si è ritenuto che il comportamento del lavoratore avesse interrotto il nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del datore di lavoro e l'evento, onde sarà sufficiente un richiamo a dette pronunce per ribadire che va considerata interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore che si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è «interruttivo» non perché «eccezionale» ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. In tema di rapporto di causalità, ai sensi dell'art.41,terzo comma, cod.pen., il nesso di causalità non resta escluso dal fatto altrui, cioè quando l'evento è dovuto anche all'imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch'esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali (Sez. 4, n. 31679 del 08/06/2010, Rigotti, Rv. 248113), a meno che tale comportamento non sia qualificabile come concausa qualificata, capace di assumere di per sé rilievo dirimente nella spiegazione del processo causale e nella determinazione dell'evento. La giurisprudenza di legittimità è, infatti, ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l'infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez.4, n.22044 del 2/05/2012, Goracci, n.m.; Sez.4, n.16888,de107/02/2012,Pugliese,Rv.252373;Sez.4,n.21511,de115/04/2010,DeVita,n m.). Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l'area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione fodere di pericoli (Sez.4, n.4114 del 13/01/2011, n.4114, Galante, n.m.; Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 2479962).</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. III, n. 30173 che si pronuncia in tema di sicurezza sul lavoro. Osserva in primo luogo la Corte che in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (per tutti, Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261109). Nel solco tracciato dalle Sezioni Unite, si è ulteriormente precisato che il datore di lavoro ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro, e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016 - dep. 16/05/2016, Serafica e altro, Rv. 267253). Secondo la Corte di Cassazione, nel caso in esame, il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi ora ricordati, ritenendo che la generica sensibilizzazione dei lavoratori sull'uso di scarpe chiuse, contenuta nel documento di valutazione dei rischi, anche per il periodo estivo, non fosse sufficiente per tutelare i lavoratori dagli specifici pericoli incombenti nei luoghi di lavoro.</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 30644, che, respingendo l’appello proposto dall’imputata, afferma che la responsabilità del titolare di una attività commerciale persiste anche se il locale viene dato in gestione. Confermata pertanto anche nel giudizio di cassazione la condanna dell’imputata per il reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) per gli schiamazzi e i rumori continui nel locale che disturbavano il riposo dei vicini. La ricorrente contestava molto genericamente la decisione impugnata ed in particolare rilevava l'assenza di una sua diretta responsabilità per aver ceduto la gestione dell'attività commerciale al marito. La Corte ribadisce che, per la giurisprudenza della Corte, il titolare di un'attività risponde per non aver impedito gli schiamazzi (Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015 - dep. 06/08/2015, Gallo, Rv. 26450101; e nello stesso senso, Sez. 1, n. 48122 del 03/12/2008 - dep. 24/12/2008, Baruffaldi, Rv. 24280801: «Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio (nella specie, una pizzeria) che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne - La Corte ha precisato che la qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica -»).</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 luglio esce la sentenza della Cassazione penale, sezione IV, n. 32228, che si pronuncia su un caso di appalto di lavori affidati a soggetto di non verificata professionalità, infortunio e responsabilità penale. Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva sancito che è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore il committente che affida lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non verificata professionalità. in violazione dell'art. 26 D. vo 9.4.2008 n. 81, secondo cui il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima: a) Verifica, con le modalità previste di decreto di cui all'art. 6, comma 8, lettera g), l'idoneità delle imprese appaltatrice o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o mediante contralto d'opera o di somministrazione. b) Fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività. In realtà, secondo la tesi proposta in ricorso, al soggetto committente, rispetto ad un lavoratore autonomo, non compete un generale principio di tutela e, soprattutto, sarebbe attribuibile un obbligo d'informazione sullo stato dei luoghi ove dovranno essere svolti detti lavori, oggetto del contratto di lavoro autonomo, ma non certo di formazione. La Corte di Cassazione, confermando la sentenza di appello, sostiene che la giurisprudenza ha, in più occasioni, ribadito che é titolare di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore il committente che affida lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non verificata professionalità (Sez. 4, n. 35534 del 14/5/2015, Gallone, Rv. 264405 nella cui motivazione la Corte ha precisato che l'unitaria tutela del diritto alla salute, indivisibilmente operata dagli artt. 32 Cost., 2087 cod. civ. e 1, comma primo, legge n. 833 del 1978, impone l'utilizzazione dei parametri di sicurezza espressamente stabiliti per i lavoratori subordinati nell'impresa, anche per ogni altro tipo di lavoro; conf. Sez. 4, n. 42465 del 9/07/2010, Angiulli, Rv. 248918). E, ancora di recente, in un caso con molte similitudini con quello che ci occupa, è stato ribadito che il committente ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (così Sez. 3, n. 35185 del 26/4/2016, Marangio, Rv. 267744 in relazione alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall'alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo dei committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza).</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 33387, che sostiene il principio secondo cui in tema di reati edilizi-urbanistici, per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 e s.m.i., è configurabile la responsabilità del proprietario e compriprietario, poiché esiste in capo al medesimo un effettivo e concreto obbligo di vigilanza anche nel corso dell’esecuzione dei lavori. Sostiene infatti la Corte che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065). Pena la sostanziale applicazione del ripudiato principio della responsabilità formale per il mero possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 luglio esce la sentenza della Cassazione penale, Sez. IV, n. 33405, in cui la Corte di legittimità, pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva ribaltato quella del tribunale, assolvendo un chirurgo dal reato di omicidio colposo ai danni di un paziente ( sanguinamento e decesso, dovuto ad errore nella traforazione di vena sanguigna), ritiene non correttamente accertato, dal giudice di merito, il nesso di causalità colposa del medico. Interessante è il quadro giuridico, ricostruito dalla Corte di Cassazione: “ Al riguardo, occorre rilevare come dall'epoca in cui si è verificato il fatto, nell'anno 2007, ad oggi si siano succedute ben tre normative. Nel 2007 l'ordinamento non dettava alcuna particolare prescrizione in tema di responsabilità medica. Erano dunque applicabili i principi generali in materia di colpa, alla stregua dei quali il sanitario era penalmente responsabile, ex art. 43 c.p., quale che fosse il grado della colpa. Era cioè indifferente, ai fini della responsabilità, che il medico versasse in colpa lieve o in colpa grave. Nel 2012 entrò in vigore il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189, (cosiddetta legge Balduzzi), il quale all'art. 3, comma 1, stabiliva che l'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attenesse alle linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non dovesse rispondere penalmente per colpa lieve. E' poi, di recente, entrata in vigore la L. 8 marzo 2017, n. 24, (c.d. legge Gelli-Bianco), la quale, all'art. 6, ha abrogato il predetto D.L. n. 158 del 2012, art. 3, e ha dettato l'art. 590 sexies c.p., attualmente vigente. Occorre dunque stabilire quale sia il regime applicabile al caso di specie. Abbiamo, infatti, appena rilevato come nel contesto del regime normativo originario la distinzione fra colpa lieve e colpa grave fosse del tutto irrilevante ai fini della responsabilità penale, potendo, al più, assumere rilievo nell'ottica del trattamento sanzionatorio, in quanto colpa lieve e colpa grave erano titoli del tutto equivalenti d'imputazione soggettiva dell'illecito. Sia il decreto Balduzzi che la legge Gelli-Bianco prevedono invece delle limitazioni alla responsabilità del medico che erano sconosciute al regime originario e costituiscono, dunque, entrambe, legge più favorevole, nell'ottica delineata dall'art. 2 c.p.. Esclusa dunque l'applicabilità del regime vigente nel 2007, occorre stabilire quale delle due normative sopravvenute sia applicabile. Orbene,in questa prospettiva, va rilevato come il tenore testuale dell'art. 590 sexies, introdotto dalla L. n. 24 del 2017, nella parte in cui fa riferimento alle linee-guida, sia assolutamente inequivoco nel subordinare l'operatività della disposizione all'emanazione di linee-guida "come definite e pubblicate ai sensi di legge". La norma richiama dunque la L. n. 24 del 2017, art. 5, che detta, come è noto, un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee - guida. Dunque, in mancanza di linee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui alla L. n 24 del 2017, art. 5, non può farsi riferimento all'art. 590 sexies c.p., se non nella parte in cui questa norma richiama le buone pratiche clinico - assistenziali, rimanendo, naturalmente, ferma la possibilità di trarre utili indicazioni di carattere ermeneutico dall'art. 590 sexies c.p., che, a regime, quando verranno emanate le linee-guida con il procedimento di cui all'art. 5, costituirà il fulcro dell'architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico….sempre nell'ambito della colpa da imperizia, per quanto attiene invece alla fase attuativa, l'errore determinato da colpa lieve, secondo il condivisibile orientamento del supremo Collegio, andava esente da responsabilità per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all'art. 590 sexies c.p., essendo in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla decisione del giudice penale che si pronunci nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio. Dunque, per quanto riguarda la fase attuativa dei precetti delle linee-guida, legge Balduzzi e legge Gelli - Bianco si equivalgono, perchè entrambe scriminano l'errore determinato da colpa lieve. Questa configurazione concettuale dei rapporti tra il decreto Balduzzi e la legge Gelli-Bianco deriva dalla impalcatura teorica elaborata dalle Sezioni unite, nell'interpretazione della legge Gelli-Bianco, secondo cui l'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio dell'attività medico-chirurgica: a) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali; c) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nell'individuazione nella scelta di linee guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l'evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico…E, sotto quest'ultimo profilo, non appare inutile richiamare l'orientamento giurisprudenziale secondo cui al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave possono essere utilizzati i seguenti parametri: a) la.misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi; b) la misura del rimprovero personale, sulla base delle specifiche condizioni dell'agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass., n. 22405 dell'8-5-2015, Rv. 263736). Sui quesiti appena prefigurati il giudice a quo non fornisce adeguata risposta, ragion per cui è riscontrabile il vizio di mancanza di motivazione, ravvisabile non solo quando quest'ultima venga completamente omessa ma anche quando sia priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio (Cass., Sez. 6, n. 27151 del 27-6-2011; Sez. 6, n. 35918 del 17-6-2009, Rv. 244763).</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 luglio esce l’ordinanza della Corte di Cassazione civile, sez. VI, n. 19699, chiarisce la regola probatoria applicabile in sede di accertamento del nesso causale tra vaccinazioni – o trasfusioni o somministrazione di emoderivati - e malattia ai fini dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210/92. La questione posta al vaglio dei Giudici di legittimità scaturisce da una richiesta d’indennizzo avanzata da un uomo al Ministero della Salute e alla Regione Campania, in quanto sosteneva che il figlio si era gravemente ammalato a causa della vaccinazione obbligatoria a cui era stato sottoposto nel 2001. Il Tribunale di prima istanza e la Corte d’Appello respingevano l’istanza del genitore. La decisione dei Giudici di merito veniva condivisa dalla Suprema Corte, la quale ha sostenuto che “<em>non è configurabile nesso causale tra la malattia e la vaccinazione</em>”. In particolare, con il ricorso per cassazione il ricorrente aveva contestato la decisione della Corte d’Appello, sostenendo che l’indennizzo era stato negato sulla base “<em>dell’errata comprensione della problematica</em>” e “<em>della mancata valutazione degli studi scientific</em>i”. Il genitore censurava, inoltre, “la mancata indicazione delle possibili cause alternative della patologia”. La Cassazione, dal canto suo, ha ricordato che la valutazione in ordine alla sussistenza del nesso causale deve essere effettuata secondo “<em>un criterio di ragionevole probabilità scientifica</em>“, mentre la correlazione tra somministrazione del vaccino e autismo, supposta dal ricorrente, rappresentava una “<em>mera possibilità teorica</em>”. La Corte ha precisato, inoltre, che il consulente tecnico incaricato dalla Corte d’Appello non ha ritenuto ipotizzabili reazioni avverse ai vaccini a carico del sistema nervoso. Mentre, con riferimento alla mancanza di cause alternative, gli Ermellini hanno osservato che si tratta “<em>di complesse malattie la cui origine è ancora ignota e la ricerca di fattori ulteriori e diversi rispetto al patrimonio genetico è oggetto di studio della ricerca scientifica</em>“. La Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso</p> <p style="text-align: justify;">Il 1 ° agosto esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, n. 37106, che si pronuncia in un caso di comportamento abnorme del lavoratore (c.d. rischio (im)prevedibile) ed interruzione del nesso causale. La Corte afferma il principio di diritto secondo cui in alcun modo può ritenersi abnorme ed eccentrico od addirittura estraneo alle mansioni affidate il comportamento del lavoratore che superando delle transenne apposte a chiusura di un’area pericolosa, rispetto alla quale è interdetto il transito, ponga in essere proprio quell’azione paventata, per evitare la quale la tutela viene predisposta. Sostengono i giudici di legittimità che il fattore sopravvenuto atipico, interruttivo della serie causale precedente esclude la responsabilità dell’imprenditore allorché l’infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui è addetto. La Corte, pertanto, ritiene penalmente responsabile il datore di lavoro anche nel caso di osservanza scrupolosa delle regole cautelari da parte dello stesso lavoratore. In siffatte ipotesi, si rileva tuttavia, l’ascrizione della responsabilità penale in capo al garante, non avendo agito con negligenza, imprudenza o imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, può essere ascritta solo attraverso l’utilizzazione di ipotesi di responsabilità oggettiva o una responsabilità di posizione entrambe, invise ad un diritto penale del fatto, come il nostro, di derivazione costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 agosto esce la sentenza n. 39125 della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, che si pronuncia in un caso di incidente avvenuto in ospedale a causa di un ascensore guasto. Sostiene la Corte che responsabile è il manutentore dell'impianto, pertanto la sentenza di appello è legittima, poiché “le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo sono d'altronde del tutto conformi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele, così come quella dei terzi. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore e dei terzi anche dai rischi derivanti dalle stesse imprudenze e negligenze del lavoratore o dagli errori di quest'ultimo, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161).</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 agosto esce la sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, n. 39139 che si è occupata della questione relativa alla sicurezza delle piscine. All’attenzione della Corte è stato portato l’incidente occorso ad una bambina, già capace di nuotare che è rimasta immersa in una piscina alta 1.60 metri, probabilmente a causa di una congestione, per un lasso temporale compreso tra 3 e 10 minuti, causandole indebolimento permanente dell’organo della deambulazione e la menomazione delle facoltà cognitivo-mnesiche e comportamentali. Già il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sull’appello proposto averso la sentenza del Giudice di pace che aveva condannato il gestore della piscina alla pena di euro 900,00 di multa oltre al risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in separata sede, pur con una provvisionale di 100.000,00 euro, aveva confermato la sentenza di primo grado, sottolineando la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza dell’imputato, consistite nell’aver adibito una sola persona all’assistenza dei bagnanti, peraltro senza adeguata divisa che la rendesse facilmente riconoscibile e senza consentirgli di dedicarsi solo ai compiti di assistenza e salvataggio, essendo anche addetta alla fornitura di ombrellone e lettino. Fra i motivi di ricorso, l’imputato assumeva l’idoneità della condotta tenuta dalla vittima ad interrompere il nesso di causalità, laddove, incurante della circostanza per cui avesse appena finito di pranzare, si era immersa nella piscina, avendone in tal modo una congestione che le provocava il malessere che le ha poi impedito di risalire dall’acqua. La Corte, pur avendo compiutamente esaminato tutti i motivi di doglianza, ha dichiarato l’impugnazione inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma di euro 2.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria. In particolare, i Giudici di legittimità, hanno sottolineato come il gestore delle piscine deve essere ritenuto quale garante della sicurezza degli utilizzatori e, pertanto, egli ha l’obbligo di impedire gli eventi lesivi (art. 40 cod. penale), andando incontro, diversamente, al risarcimento dei danni causati dalla cosa in custodia (art. 2051 Cod. Civile). Pertanto, secondo la Corte e in applicazione della normativa vigente, gli addetti al salvataggio, oltre a dover indossare una divisa che li renda immediatamente riconoscibili, non devono essere adibiti ad altre attività se non a quelle di continuo e costante e monitoraggio dei bagnanti e devono assicurare l’assistenza durante tutto l’orario di funzionamento della piscina, prevedendo, se del caso, delle turnazioni fra più addetti che devono comunque essere previsti in numero proporzionale al numero di persone che frequentano la piscina.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 ottobre esce la sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, n. 25113. La pronuncia della Corte riguarda la colpa professionale dei notai ed il nesso di causalità tra la loro condotta colposa ed il danno, arrecato alle parti che si siano affidate a tale assistenza professionale per la redazione di un contratto. Viene chiarito che in tema di responsabilità professionale dei notai, l’omessa rilevazione dell’esistenza di un vincolo (nella specie, di natura archeologica) su un bene immobile oggetto di compravendita o permuta determina, secondo la regola probatoria della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, l’addebito al professionista dell’evento dannoso che si presenti come effetto normale secondo il principio della cd. regolarità causale, consistito nella successiva adozione, da parte del Comune, della revoca in autotutela della concessione edilizia e dell’ordine di demolizione delle opere nel frattempo realizzate, nonché nell’acquisizione dell’area al patrimonio demaniale. Pertanto, qualora sia stata disposta la demolizione in via amministrativa di un’opera edilizia realizzata su un terreno gravato da vincolo archeologico, non rilevato dal notaio rogante la relativa compravendita (o permuta), e ciò sia dipeso anche dalla mancanza di talune autorizzazioni amministrative e da difformità urbanistiche, questi ultimi fattori, pur se imputabili al danneggiato non valgono ad interrompere la serie causale, perché lo stesso, se avesse conosciuto l’esistenza del vincolo, non avrebbe, secondo un criterio logico-probabilistico, acquistato il terreno e non avrebbe intrapreso alcuna attività edilizia (criterio della preponderanza dell’evidenza); trattandosi, però, di fattori umani, degli stessi è possibile tenere conto nella liquidazione del danno, ponendo a raffronto l’efficienza causale della condotta (colpevole) del notaio e quella (altresì colpevole) dell’acquirente che ha costruito in mancanza di alcune delle autorizzazioni necessarie ed in difformità rispetto al progetto approvato. Ai fini processuali, viene chiarito che il convenuto non può opporsi ad una domanda di condanna generica, ma ha la facoltà di domandare in via riconvenzionale l’accertamento negativo della sussistenza del danno, con conseguente onere dell’attore, in tal caso, di dare piena prova dell’esistenza del danno e divieto per il giudice, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., di rimettere la determinazione del quantum ad un separato giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 ottobre esce l’ ordinanza della Corte di Cassazione, sez. VI Civile, n. 27720 che si pronuncia sull’accertamento del nesso di causalità, in ambito di responsabilità civile. Nell’accertamento del nesso causale in materia di responsabilità civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza – o del “più probabile che non” – a differenza che nel processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”. Chiarisce la Corte che in tema di responsabilità per colpa professionale da condotta omissiva la regola "del più probabile che non", si applica sia all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, sia all'accertamento del nesso tra quest'ultimo e le conseguenze dannose risarcibili, posto che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa, per cui è destituita di fondamento l'affermazione secondo cui la responsabilità professionale dell'avvocato per una condotta omissiva avrebbe dovuto fondarsi sulla prova certa circa l'esito favorevole del giudizio di rinvio, anziché sulla sola valutazione di un'elevata probabilità di vittoria, comunque espressa dalla Corte territoriale; la Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che, nell'accertamento del nesso causale in materia di responsabilità civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", a differenza che nel processo penale, ove vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899; più di recente, fra le molte: Sez. 3, Sentenza n. 22225 del 20/10/2014, Rv. 632945; Sez. 3, Sentenza n. 23933 del 22/10/2013, Rv. 629110; Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013, Rv. 628702). Tale criterio va tenuto fermo anche nei casi di responsabilità professionale per condotta omissiva (qual è quello in esame); in sostanza, nei casi come quello in esame, l'accertamento del nesso causale si estende con medesimi criteri probabilistici - anche alle conseguenze dannose risarcibili sul piano della causalità giuridica, ossia al mancato vantaggio che, ove l'attività professionale fosse stata svolta con la dovuta diligenza, il cliente avrebbe conseguito. Di tale danno, in queste circostanze, non può richiedersi una prova rigorosa e certa, incompatibile con la natura di un accertamento necessariamente ipotetico, in quanto riferito a un evento non verificatosi, per l'appunto, a causa dell'omissione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 dicembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. lavoro, n. 31873, che sancisce che l'ospedale che pone in essere la profilassi non è responsabile della malattia dalla tirocinante. Laddove lo studente contragga una malattia all’interno dell’ospedale nel quale sta svolgendo il tirocinio, non vi è responsabilità della struttura laddove questa abbia posto in essere la profilassi a tutela della sua integrità psico-fisica consistente nella somministrazione di un vaccino. La Corte motiva, confermando la sentenza impugnata, ricordando che l'obbligo di sicurezza che grava sull'imprenditore e sulle amministrazioni pubbliche è assunto non solo nei confronti dei lavoratori subordinati ma anche rispetto ad altre categorie di soggetti che, a vario titolo, si vengono a porre in relazione con i luoghi di lavoro; la normativa antinfortunistica, infatti, tutela chiunque «svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione»(art. 2, lett. a) d.lgs. n. 81/2008 che, sebbene non applicabile alla fattispecie ratione temporis, riprende la definizione già contenuta nell'art. 3 del d.P.R. n. 547/1955 e nell'art. 3 del d.P.R. n. 303/1956). Valgono, pertanto, anche in relazione al rapporto contrattuale di tirocinio i principi, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, che regolano la responsabilità ex artt. 1218 e 2087 cod. civ., alla stregua dei quali l'inadempimento dell'obbligo di tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore è fonte di responsabilità contrattuale e risarcitoria, che sorge qualora la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche (cfr. fra le tante Cass. n. 749/2018; Cass. n. 15082/2014; Cass. n. 8855/2013). E’ stato precisato al riguardo che detta responsabilità non ha natura oggettiva perché, sebbene la colpa si presuma ex art. 1218 cod. civ., con onere a carico del datore di lavoro di superare la presunzione, tuttavia a quest'ultimo non può essere addebitato qualsiasi evento lesivo della salute del dipendente, bensì solo quello che sia eziologicamente collegato alla regola cautelare violata, regola che deve essere specificamente volta a scongiurare il rischio di verificazione dell'evento realizzatosi (Cass. n. 749/2018). Corollario di detto principio è che la dipendenza della malattia da una causa di servizio non necessariamente implica responsabilità del datore di lavoro, perché la patologia può essere anche conseguenza della qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o può essere insorta per una causa non addebitabile al datore, per avere quest'ultimo adottato le misure imposte dal legislatore o suggerite dalla tecnica e dalle regole di ordinaria prudenza. A detti principi di diritto si è attenuta la Corte territoriale che, dopo avere affermato che il datore di lavoro è garante della sicurezza anche rispetto ai tirocinanti, ha escluso la responsabilità della Gestione liquidatoria rilevando, sostanzialmente, che, essendo pacifica l'avvenuta somministrazione del vaccino, l'evento non poteva essere addebitato a colpa della struttura ospedaliera perché, da un lato, non poteva essere garantita l'assoluta salubrità dell'ambiente di lavoro, in considerazione dell'ineliminabile presenza nel reparto di soggetti malati, dall'altro la vaccinazione, nella normalità dei casi, impedisce il contagio e la resistenza al vaccino, seppure possibile, non poteva essere ascritta al datore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 gennaio esce la sentenza n. 758 del Consiglio di Stato, Sez. III, che chiarisce che “l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa; tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa. 2. L’ordinamento italiano, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità. 3. Il criterio civilistico del “più probabile che non”, seguito costantemente dalla giurisprudenza del CdS in materia di informative antimafia, si pone quale adeguata regola, sufficiente garanzia e, insieme, necessario strumento di controllo circa la prognosi di permeabilità alle infiltrazioni mafiose, fondata anche su irrinunciabili dati dell’esperienza, e, in particolare, consente di verificare la correttezza dell’inferenza causale che da un insieme di fatti sintomatici, di apprezzabile significato indiziario, perviene alla ragionevole conclusione di permeabilità mafiosa, secondo una logica che nulla ha a che fare con le esigenze del diritto punitivo e del sistema sanzionatorio, laddove vige la regola della certezza al di là di ogni ragionevole dubbio per pervenire alla condanna penale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce l’ordinanza della <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=A%3dDVMZH%26C%3dGg%261%3dTGcGZ%265%3dYDVIcK%26L%3dxR7G_8yfq_I9_5rix_E7_8yfq_HD0NC.BvIyR7FuEvL9RvQy9.vK_8yfq_HDnC2Ct20G_5rix_E7Gb_5rix_E7PhMaPfFWIa_5rix_E7SM5Ku_Bv_dqQ62FG2Eu_QrQ_YqV_dyTvCu_M55yLnEF9_1_SMgM_RO_BrG5QvKqRn_02_aD_8uL12yM.uK3J_5rix_F7ARz_J5S54u_Pdtf_aqeuo_16CQy60RrI_8yfq_Hd8K3_Kr5ySz_Ig1c_TtCz2yJ_5rix_EWARz_4qK32yE19n2q_Ig1c_Ttlrh%26t%3d%26G6%3dUIZEa">Corte di Cassazione, sez. III Civile, (n. 2790)</a> che chiarisce il principio di diritto per cui i<a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3d2ZBR6%26G%3d6Y%26o%3dX6U5d%26t%3dQ2Z8U9%26P%3dmJuK_wqTu_81_svXp_3A_wqTu_76xR2.4jMnJuJj7jPxJjUn1.jO_wqTu_76o02I_svXp_3A6T_svXp_3AEZAeEY3a6W_svXp_3AHEoOf7jJ_i1_fHtJs6x6vNnEo0_q1_s0xFpIx1cDq9u6_i5m_rnDjNy5sJ_i5mGf_sbGzJf_ItD_f_Gj7bOf_1m_8w9u0w9p_9jBm6_hEmKf.8uHq_HRxU_SgPyC_tJzHd0_wqTu_84E0L_DfRxBfOy5s_MVsQ_WAKuH_r5eDzC_svXp_491b6fjCbDq_HRxU_R7PyC_d6rFbDlD_svXp_49I5H%269%3d%26nI%3d5X7RA">n tema di responsabilità del Ministero della Salute per patologie derivanti da emotrasfusioni, ciò che rileva ai fini del giudizio sul nesso causale è l'evento obiettivo dell’infezione e la sua derivazione probabilistica dalla trasfusione, a prescindere dalla specificazione della prima in termini di malattia tipica. Il rapporto eziologico tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la specifica patologia insorta viene apprezzato sulla base delle cognizioni scientifiche acquisite al tempo della osservazione (quindi con valutazione ex post), le quali hanno consentito di identificare e nominare le malattie tipiche.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. III, n. 1511, che ritiene responsabile per il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato che sia comunque cessato dalla carica di amministratore, pur dopo la notifica della diffida ex art. 2, comma 1, della l. n. 638/1983. La Corte respinge la tesi, sostenuta dal ricorrente, secondo cui non sarebbe imputabile, al cessato amministratore, la condotta di omesso versamento dei contributi e ciò in quanto materialmente non in grado di far operare la clausola di non punibilità, essendo oramai estraneo alla compagine sociale, con conseguente esclusione della sua responsabilità per non avere commesso il fatto; secondo il ricorrente, infatti, la Corte di Appello aveva errato, poiché il soggetto destinatario dell’obbligo di adempimento doveva essere individuato nel nuovo amministratore e non nella persona che ha cessato la carica. Nel confermare la sentenza impugnata, invece, la Corte di legittimità rende la seguente spiegazione: “va, anzitutto, ricordato che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali (art. 2, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, conv. in legge 11 novembre 1983, n. 638), in quanto reato omissivo istantaneo, si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, attualmente fissato, dall’art. 2, comma primo, lett. b) del D.Lgs. n. 422 del 1998, al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi, essendo irrilevante, ai fini dell’individuazione del momento consumativo, che la data per adempiere al pagamento sia fissata nei tre mesi successivi alla contestazione della violazione, poichè la pendenza di tale termine determina esclusivamente la sospensione del corso della prescrizione per il tempo necessario a consentire al datore di lavoro di avvalersi della causa di non punibilità di cui all’art. 2, comma primo bis, del citato D.L. (Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, Rv. 264031). Il soggetto attivo del rapporto previdenziale è solo ed esclusivamente il datore di lavoro il quale, anche quando delega ad altri il versamento delle ritenute, conserva l’obbligo di vigilare sull’adempimento dell’obbligazione da parte del terzo (Sez. 3, n. 34619 del 23/06/2010, Di Mambro, Rv. 248332; Sez. 3, n. 5416 del 07/11/2002, Soriano, Rv. 223372; Sez. 3, n. 33141 del 10/04/2002, Nobili, Rv. 222252). In tale ambito, tenuto ad adempiere alla diffida inviata ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 463 del 1983, resta pertanto colui che era obbligato al momento dell’insorgenza del debito anche se, “medio tempore”, ha perso la rappresentanza o la titolarità dell’impresa. Ciò perché il pagamento costituisce una causa personale di esclusione della punibilità, sicché vi è tenuto solo l’autore del reato, tenuto a sollecitare, nel caso in cui altri abbiano assunto la veste di datore di lavoro, perché succedutisi nella carica sociale, questi perché adempia al pagamento nel termine trimestrale decorrente dalla contestazione o della notifica dell’avvenuto accertamento della violazione (Sez. 3, n. 39072 del 18/07/2017, Falsini, Rv. 271473; Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, Assirelli, Rv. 259741). L’imputato, che non sia più legale rappresentante della società vincolata al versamento contributivo, autore del reato, resta tenuto ad adempiere alla diffida ai sensi dell’art. 2 d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, e può beneficiare della causa personale di non punibilità adempiendo all’obbligazione in nome e per conto di quest’ultima, secondo lo schema del pagamento del terzo di cui all’art. 1180 cod. civ. (Sez. 3, n. 30879 del 27/03/2018, Lazzari, Rv. 273335)” .</p> <p style="text-align: justify;">Il giorno 11 febbraio esce la sentenza n. 6414 della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, che si pronuncia <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3dMYHUQ%26F%3dBb%260%3dWBYSc%26z%3dTMYDXT%26O%3dsMFJ_3tot_D4_Duds_N0_3tot_C9IQ8.75LtMFIp05O4M5Tt4.5N_3tot_C9098L_Duds_N0BX_Duds_N0KcVdKbNaFb_Duds_N0N4GMlE5Nl_71Fw4_yIwIw_9_nBD7zEwTtH09_4MD5o489.sM9F_3tot_D9GNx_LAO361_Lbvl_Wog1k_y8IMw8F4w5lNpK_Duds_NZ6M9_Gp75Ox_Kmwa_Vz9x45F_3tot_CYGNx_6wG145Ay_Kmwa_Vzhpj%26z%3d%26C4%3dWOWJW">in tema di colpa stradale. In tema di omicidio stradale, in presenza di una norma cautelare c.d. elastica (che, cioè, lascia all'interprete un ampio margine valutativo) qual è quella di cui all'art. 141, comma 3, C.d.S. che impone al conducente di regolare la velocità in alcuni contesti precisamente descritti (nei tratti di strada a visibilità limitata, nelle curve, in prossimità delle intersezioni e delle scuole o di altri luoghi frequentati da fanciulli indicati dagli appositi segnali, nelle forti discese, nei passaggi stretti o ingombrati, nelle ore notturne, nei casi di insufficiente visibilità per condizioni atmosferiche o per altre cause, nell'attraversamento degli abitati o comunque nei tratti di strada fiancheggiati da edifici), prescrivendo dunque comportamenti determinabili in base a circostanze contingenti, vi è spazio per un cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello, operazione logicamente successiva all'analisi ed alla valutazione del dato scientifico necessario per accertare l'oggettiva evitabilità dell'evento, ossia l'effettiva esistenza di un margine di manovra atto ad evitare l'evento da parte dell'agente modello.</a></p> <p style="text-align: justify;"><a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=A%3d0YOZD%26F%3dIg%26w%3dWJYBX%267%3dY0YKcG%26O%3dzR3J_0ybt_K9_1ukx_A0_0ybt_JD6QE.BrL1R3IwErOARrT19.rN_0ybt_JDjF4Cp5BG_1ukx_A0Ib_1ukx_A0RhIdRfCWRg_1ukx_A0UM1Nw_Br_gsQ25HGxHw_QnT_aqR_g1TrFw_QnHBCwTs_L_GXNY_0c_vCyIAG35B9_rF_Je_v50Xx.BBKu_Li1Y_WxS3G_AM4LuC_1ukx_B8VCP_HwU2FwR390_PZwh_ZEOBK_v9vG4G_0ybt_KBnGsGu_Li1Y_VNS3G_u9vJsGpH_0y9j5sbt_KBM9Y%26B%3d%26rM%3dLaHXL">Il 27 marzo esce la sentenza n. 8461 della Corte di Cassazione, sez. III Civile, che si pronuncia sul nesso di causalità tra il comportamento negligente del medico, per l’ipotesi di mancata e ritardata diagnosi, e l’evento mortale, che si sia verificato sulla persona del paziente. Sostiene la Cassazione che, ai fini del risarcimento dei danni, è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi, intendendosi per danno non solo l’evento morte ma anche tutte le conseguenze negative scaturite. </a> Laddove il danno dedotto sia costituito anche dall'evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite. È questo il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte nella sentenza in questione, che ha accolto il ricorso promosso dai figli di una signora deceduta in corso di causa a seguito di tumore maligno diagnosticato tardivamente. La Suprema Corte, pertanto, nell’accogliere il ricorso, ha osservato che il giudice dell’appello effettivamente, pur richiamando il principio del "più probabile che non", non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha statuito che la morte della donna non sarebbe stata evitata dalla diagnosi tempestiva del medico, la quale avrebbe consentito soltanto una sopravvivenza più lunga di due anni, ed ha applicato il principio di causalità esclusivamente in relazione al lasso temporale di vita non vissuta. La decisione impugnata, pertanto, si è focalizzata non sull'evento morte ma sul probabile tempo di sopravvivenza, configurando il vizio di violazione di legge denunciato dai ricorrenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 aprile esce la sentenza n. 16216 della Corte di Cassazione, sez. IV Penale che si pronuncia sulla possibilità per il giudice di dichiarare l’interruzione del nesso di causalità, tra la condotta omissiva del datore di lavoro, che non abbia adottato le necessarie precauzioni, e l’evento lesivo occorso al lavoratore, in caso di comportamento abnorme posto in essere dallo stesso lavoratore. Sostiene la Corte che la nozione di abnormità va ricondotta al comportamento imprudente del lavoratore posto in essere in modo autonomo e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro. Oppure, in un comportamento che, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle ipotizzabili ed imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro. Pertanto, quando tali caratteristiche non siano ravvisabili, nel caso concreto, non potrà dirsi avvenuto alcun fattore interruttivo nel nesso di causalità tra il comportamento ascrivibile al datore di lavoro e l’evento lesivo occorso al lavoratore (con esclusione dell’ipotesi contemplata dall’art. 41 c.p., II comma).</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 aprile esce la sentenza n. 16229 della Corte di Cassazione Penale, sez. IV, che si pronuncia dichiarando l’obbligo per il giudice, nell’accertamento del nesso di causalità tra un fatto illecito, ascrivibile ad un terzo, e l’evento dannoso, di considerare il concorso di colpa della medesima persona offesa. Nel caso di specie, la sentenza di secondo grado, oggetto di impugnazione, aveva pure analizzato la questione concernente la condotta concorrente e imprudente, tenuta dal danneggiato sulla base degli accertamenti tecnici compiuti in istruttoria, i rilievi tecnici planimetrici e anche fotografici, da cui era emerso che questi si fosse immesso sulla via, luogo dell’incidente, senza dare la precedenza al veicolo proveniente dalla sua destra avendo quasi impegnato parte dell’incrocio, fino a immettersi nella corsia opposta; ciononostante, con una motivazione logica e coerente, aveva ritenuto sussistente la responsabilità dell’imputato, in quanto pur avendo avvistato l’ostacolo non riuscì a frenare a causa dell’elevata velocità superiore ai limiti e non adeguata alle circostanze, trattandosi di strada fiancheggiata da case. La Corte distrettuale aveva, perciò, fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità sono sia quelle che innescano un processo causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dalla condotta dell’agente, sia quelle che, pur inserite nel processo causale ricollegato a tale condotta, si connotino per l’assoluta anomalia ed eccezionalità, collocandosi al di fuori della normale, ragionevole probabilità. La Cassazione ribadisce, a tal riguardo, che la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che in tema di reati colposi inerenti alla circolazione stradale, il giudice del merito ha il dovere di quantificare l’apporto causale alla verificazione dell’evento attribuibile alla persona offesa e quello addebitabile al prevenuto.Ciò sia ai fini della determinazione della giusta (al caso di specie adeguata) pena, dato che, ai sensi di quanto dispone l’art. 133 c.p., nn. 2 e 3, nell’esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice hanno influenza la gravità del danno cagionato e il grado della colpa; sia al fine di soddisfare le legittime aspettative della parte civile, se presente, la quale ha diritto di sentire quantificare, ancorché sotto il solo profilo dell’<em>an debeatur</em>, la misura del risarcimento del danno ad essa spettante. In termini sostanzialmente coincidenti, è stato anche affermato che esiste sempre l’obbligo del giudice di accertare la colpa concorrente della persona offesa o del terzo, in quanto sussiste sempre l’interesse dell’imputato all’accertamento dell’eventuale concorso alla produzione dell’evento, considerati i riflessi negativi che il mancato accertamento potrebbe avere sia sotto l’aspetto dell’entità del risarcimento sia sotto quello della misura della pena da irrogare in relazione ai principi fissati dall’art. 133 c.p. Ebbene, nel caso in esame, entrambi i giudici di merito avevano implicitamente affermato il concorso di colpa della persona offesa nella causazione del sinistro, ma non ne avevano esplicitato, come pur avrebbero dovuto, il percorso logico e motivazionale nella determinazione del trattamento sanzionatorio. Ed invero, in tema di omicidio e lesioni stradali, il giudice di merito, una volta riconosciuto il concorso di colpa della persona offesa (come per l’appunto è implicitamente avvenuto nel caso di specie), è tenuto ad adempie il dovere di motivazione in ordine alla graduazione delle colpe concorrenti, di cui è impossibile determinare con certezza le diverse percentuali, dando atto di aver preso in considerazione le modalità del sinistro e di aver raffrontato le condotte dei soggetti coinvolti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III civile, n. 10812/2019, che si pronuncia sulla responsabilità del medico e sull’interruzione del nesso di causalità. La Corte esclude che il fattore naturale possa avere rilevanza o efficacia interruttiva sul nesso di causalità. Al fattore naturale non imputabile, privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo a una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente a una delimitazione del quantum del risarcimento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 aprile esce la sentenza n. 17213 della Corte di Cassazione Penale, sez. IV, che riconosce, in caso di infortunio mortale di un lavoratore, la responsabilità del coordinatore per l'esecuzione dei lavori solo in caso di macroscopiche carenze organizzative o gravissime inosservanze della normativa antinfortunistica. Sostiene la Corte, infatti, che <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=A%3dCbDZG%26I%3d8g%26z%3dZ9bCZ%26v%3dYCb0cJ%26R%3doR6M_yyew_09_4xZx_DC_yyew_9D9T4.BuOpR6LlEuRzRuWp9.uQ_yyew_9DzB4Q_4xZx_DC8c_4xZx_DCGhLgGgEeBc_4xZx_DCPLrLyR7KpM_yLyRmIl_Gz_Ru_AmK1GqOl_PuPwMzAl_9z0oC_uI_jM1OkGz81M4B_wC4_I_lQq02XuLuC_pBp_JmSvPu.E1Kx_OX1b_ZmS6J_zM7OjC_4xZx_EAKCS_KlU5IlR6By_PczW_ZHR1K_yBkG7J_yyew_0BqJhGx_OX1b_YCS6J9m8h_j9yMhGsK_yyew_0BPBN%26B%3d%26uP%3dAbEg9">nell’ambito del lavoro nei cantieri temporanei o mobili, il coordinatore per l’esecuzione ha un’autonoma funzione di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni che comportano rischio interferenziale e non anche il puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, attività demandata ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto), assumendo una funzione più generale di garante solo in caso di macroscopica carenza organizzativa o macroscopica inosservanza della normativa antinfortunistica, cosa che determinerebbe l’obbligo per lo stesso di sospendere le singole lavorazioni fino alla verifica degli opportuni adeguamenti da parte delle imprese interessate.</a></p> <p style="text-align: justify;">L’8 maggio 2019 esce la sentenza della Cassazione penale, sez. III, n. 19646, che si pronuncia sulla responsabilità del direttore dei lavori per l’ipotesi di infortunio, occorso al lavoratore nell’espletamento delle proprie funzioni. La corte conferma la sentenza d’appello, che aveva ritenuto responsabile per il reato de quo, a titolo omissivo, il direttore dei lavori, per non aver adoperato le misure di prevenzione, imposte dall’art. 118, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2008. A fondamento della propria decisione, sostiene la corte che va ribadito che “il direttore dei lavori nominato dal committente è responsabile dell'infortunio sul lavoro quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all'esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando per fatti concludenti risulti che egli si sia in concreto ingerito nell'organizzazione del lavoro (Sez. 4, n. 49462 del 26/03/2003 - dep. 31/12/2003, Viscovo, Rv. 227070; Sez. 4, n. 1559 del 26/11/1993 - dep. 08/02/1994, Disca, Rv. 197086). Invero, premesso che l'infortunio ebbe a verificarsi per l'omessa adozione delle misure antinfortunistiche previste dall'art. 12 d.P.R. n. 164 del 1956, non può sostenersi che il Gregorio, quale direttore dei lavori del cantiere, non assumesse una posizione di garanzia rispetto alla sicurezza del luogo di lavoro e non fosse destinatario al pari dell'appaltatore e del subappaltatore, delle norme antinfortunistiche e, in particolare, di quella appena indicata. Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, egli è fra i soggetti penalmente responsabili della mancata attuazione delle misure antinfortunistiche e ciò ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 164 del 1956 che richiama gli artt. 4, 5 e 6 del d.P.R. n. 547 del 1955. Peraltro, come ammesso dalle stesso ricorrente, egli era stato nominato direttore del cantiere (Si veda anche la produzione fotografica in atti effigiante la fotografia dei dati relativi all'appalto, in cui, appunto il "direttore di cantiere" è indicato nel "geom. Ennio G. Gregorio") e, in ogni caso, vale il principio dell'effettività delle mansioni e, a dimostrazione che l'incarico svolto dal Gregorio non fosse né saltuario, né occasionale, depone il fatto che egli, come accertato nella sentenza della Corte d'appello di Salerno del 3 ottobre 2011, accorse immediatamente sul luogo dell'infortunio, a riprova che alla qualifica formale corrispondevano i poteri ad essa connessi”.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della Corte di Cassazione a Sez. Unite Civili, n. 13246, che rende un chiarimento sulla possibilità di estendere allo stato la responsabilità per i danni arrecati dai propri funzionari che abbiamo commesso un illecito, nell’espletamento delle proprie funzioni. La Corte chiarisce in specie la c.d. “occasionalità necessaria”. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della <em>condicio sine qua non).</em> Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano <em>ex ante </em>idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che - secondo <em>l'id quod plerumque accidit </em>e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile <em>ex ante - </em>integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell'evento. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione <em>ex ante, </em>diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e 2482)…omissis.. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o - a maggior ragione - contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018)”. La questione sottoposta alle Sezioni Unite dall'ordinanza interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di diritto: «lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo».</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce l’ordinanza n. 15561 della Cassazione, sez. Lavoro, la quale si pronuncia in un caso di morte per esposizione ad amianto del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro che non abbia adottato le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute del dipendente. La corte afferma che se viene accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute del dipendente. Tutto ciò secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia: non ha importanza, infatti, che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV penale, n. 26085, che si pronuncia in un caso di incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione stradale e responsabilità penale colposa per morte o lesioni del soggetto incaricato del relativo servizio. La vicenda attiene all'incidente occorso ad un ciclista, mentre percorreva la strada panoramica di Milazzo con direzione Capo Milazzo - Vaccarella; giunto all'altezza del civico n. 40, all'uscita di una curva il ciclista si imbatteva in alcune transenne (non segnalate) allocate sul margine destro della carreggiata, a causa delle quali cadeva a terra, riportando gravi lesioni al viso. A giudizio del Tribunale, il sinistro costituisce l'esito dell'inveramento di una situazione di pericolo dovuta alla mancata apposizione di segnaletica adeguata ad evidenziare il restringimento della carreggiata. Sotto questo profilo, ha ritenuto la responsabilità dell’esecutore stradale, del quale collaboratore professionale stradale, dell’Istruttore Direttivo Tecnico, nella loro qualità di addetti al Servizio di Polizia Stradale della Provincia di Messina, per non avere evidenziato la specifica situazione di pericolo per la circolazione e comunque per l'omessa apposizione della segnaletica adeguata nel tratto stradale oggetto del sinistro, atteso che la segnaletica, quand'anche inizialmente apposta, sarebbe stata del tutto inidonea a preservare la sicurezza della circolazione in corrispondenza delle transenne in questione. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i predetti imputati, a mezzo dei rispettivi difensori. Nel caso in disamina il Tribunale ha congruamente e logicamente motivato la conferma dell'affermazione di responsabilità dei prevenuti, fondandosi sulle chiare dichiarazioni delle persone presenti ai fatti e degli operatori di polizia giudiziaria intervenuti, sulla documentazione acquisita e sui risultati della perizia espletata dall'ing. Mangano in sede di appello. Da tali elementi il giudice di merito ha desunto la ragionevole convinzione, congruamente e logicamente argomentata, che l'incidente si sia verificato proprio in corrispondenza delle transenne, in un tratto caratterizzato da un restringimento della carreggiata, e che ciò abbia avuto una efficienza causale decisiva nel verificarsi dell'incidente, atteso che tali transenne non furono avvistate dal ciclista. La ragione di tale mancato avvistamento è stata razionalmente desunta (anche) dalla situazione di pericolo costituita dalla mancata apposizione di segnaletica adeguata ad evidenziare il restringimento della carreggiata, non potendo bastare, allo scopo, la segnaletica rappresentata dalla mera apposizione di un segnale di limite di velocità di 30 Km/h in prossimità delle transenne, ovvero di un segnale di pericolo generico sito a ben 320 metri o di un cartello "lavori" a circa un chilometro, come congruamente osservato dal Tribunale. E' stata, quindi, motivatamente esclusa l'esclusiva responsabilità dell’esecutore stradale nell'evento in questione, avendo il giudicante correttamente riscontrato la colpa specifica dei prevenuti (per avere omesso di segnalare adeguatamente le transenne nel tratto di strada in questione) e la sussistenza del nesso di causa, nel caso da considerarsi diretto, visto che furono proprio le transenne a determinare il sinistro, mentre gli aspetti omissivi addebitati ai ricorrenti attengono essenzialmente alla condotta colposa loro ascritta. Trattandosi di omessa predisposizione di segnaletica adeguata a tutela della sicurezza della circolazione stradale, nel caso non vale l'argomento dell'insidia prospettato dai ricorrenti, posto che, per giurisprudenza costante, l'incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte.</p> <p style="text-align: justify;"> Il 20 giugno esce la sentenza n. 27539 della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, con cui viene condannata per omicidio colposo l'ostetrica negligente che provoca la morte del feto durante il travaglio. Nel caso specifico, la ricorrente aveva impugnato la sentenza di appello, contestando tra l’altro l'efficienza causale della sua condotta nel determinismo dell'evento letale alla luce degli specifici compiti materialmente espletati da parte dei soggetti presenti in sala parto. La Corte di legittimità, respingendo il ricorso, afferma che la Corte territoriale ha indicato quale dato acclarato da tutti i consulenti che il feto era nato morto in utero e che la morte era dovuta a sofferenza fetale ipossica sopravvenuta, che conduceva il piccolo all'asfissia perinatale o intra partum, escludendo ogni ipotesi alternativa del decorso causale; ha evidenziato che si trattava di una situazione di sofferenza sopraggiunta nel corso del travaglio, protrattasi per non meno di trenta minuti. La Corte di merito, mediante argomentazioni logiche e immuni da censure, ha poi configurato la responsabilità dell’ostetrica sulla base delle seguenti considerazioni: a) l'assenza di una tempestiva rilevazione della sofferenza asfittica, circostanza che avrebbe imposto di accelerare al massimo la fase espulsiva e l'estrazione del feto; b) il mancato espletamento dei necessari monitoraggi cardiotocografici, soprattutto in corrispondenza delle maggiori contrazioni provocate dalla somministrazione dell'ossitocina, quantomeno, a partire dalle ore 18.20; c) la scorretta esecuzione del secondo e del terzo tracciato (errore tecnico nel posizionamento delle fasce del tocodinamometro); d) il rilievo per cui la mancata o scorretta esecuzione dei tracciati non consentiva la rilevazione del battito cardiaco nel periodo in cui il feto stava mettendo in atto i meccanismi di compenso, precludendo così la possibilità di intervenire scongiurando la morte del feto mediante un taglio cesareo o la ventosa ostetrica (qualora la testa del bambino fosse già profondamente impegnata nel bacino materno); e) le erronee rassicurazioni formulate al ginecologo dr. Vuolo sul regolare andamento del travaglio da parte dell'imputata nonostante la prosecuzione della sofferenza fetale per non meno di 30 minuti; f) l'impossibilità di riversare le responsabilità a carico di altri soggetti presenti in sala parto. Nella sentenza impugnata, in base a quanto emerso dalla documentazione sanitaria e dalle indicazioni della medesima paziente, è stata rimarcata - mediante rilievi lineari e coerenti - la natura congetturale delle tesi difensive della nascita di problematiche risalenti a trenta minuti prima dell'espulsione del feto, dell'esecuzione di manovre impeditive dei controlli cardiotocografici o di un'ipossia verificatasi negli ultimi quattro minuti antecedenti all'estrazione del feto nato morto. A tale riguardo, la Corte territoriale ha sottolineato la posizione di garanzia ricoperta dalla ostetrica, alla quale sono specificamente devolute le suindicate attribu- zioni, le quali non sono delegabili all'anestesista o alla sua assistente. Né poteva sostenersi che il dr. Vuolo dovesse eseguire o controllare di persona tali risultanze, essendo acclarato che non presenziava continuativamente in sala parto a causa dei suoi contestuali impegni presso il proprio reparto ospedaliero. La non delegabilità delle funzioni tipiche dell'ostetrica in sala parto da parte costituisce un ulteriore elemento di conferma della superfluità della rinnovazione istruttoria richiesta dalla difesa della ricorrente (vedi supra par. 2.1.). La Corte di merito ha escluso la possibilità dell'ostetrica di far valere il principio dell'affidamento, correttamente richiamando la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di responsabilità medica, l'obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell'equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l'ausilio delle comuni conoscenze del pro- fessionista medio (Sez. 4, n. 53315 del 18/10/2016, Paita, Rv. 269678 - fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo nei confronti, oltre che del ginecologo, anche delle ostetriche, ritenendo che l'errore commesso dal ginecologo nel trascurare i segnali di sofferenza fetale non esonerava le ostetriche dal dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardioto- cografico, in quanto tale attività rientrava nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe). Tale principio è stato successivamente confermato da numerose sentenze, anche in tema di responsabilità medica in caso di parto (Sez. 4, n. 53453 del 15/11/2018, Di Marco, non massimata sul punto; Sez. 4, n. 47801 del 05/10/2018, Trupo, non massimata sul punto). La posizione di garanzia rivestita dall'ostetrica, d'altronde, è ricavabile dallo statuto regolamentare della sua figura professionale (vedi la direttiva 80/155/CE del 21 gennaio 1980; il D. Igs. n. 2016 del 2007; il Regolamento per l'esercizio professionale della professione di ostetrica approvato dal Consiglio Superiore di Sanità il 10 febbraio 2000; il D.M. Sanità n. 740 del 1994). In base a tale coacervo normativo, l'ostetrica, tra i vari compiti, deve: a) accertare la gravidanza e in seguito sor- vegliare la gravidanza normale; b) effettuare gli esami necessari al controllo dell'evoluzione della gravidanza normale; c) attenersi ai protocolli previsti per il monito- raggio della gravidanza fisiologica; d) individuare le situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico, adottando, ove occorrono, le eventuali misure di emergenza indifferibile; e) valutare eventuali anomalie dei tracciati e darne comunicazione ai sanitario. Nel caso di specie, la sentenza impugnata, con congruo ed esauriente apparato argomentativo, ha quindi evidenziato che l'ostetrica, in conseguenza degli errori e delle omissioni precedenti commessi in violazione dei propri doveri istituzionali, non aveva sollecitato l'attenzione del dr., il quale, se avesse conosciuto tempestivamente la situazione di sofferenza fetale, sarebbe potuto intervenire tempestivamente, scongiurando il verificarsi dell'evento letale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In quali settori dell’ordinamento si pone il problema della causalità?</strong></p> <p style="text-align: justify;">La causalità interessa in modo <strong>trasversale</strong> tutti e <strong>tre</strong> i pilastri dell’ordinamento, vale a dire:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il diritto <strong>civile</strong> (inadempimento puro di obbligo precostituito ex art.1218 c.c.; inadempimento di obbligo che è concretizzazione del dovere di <em>neminem laedere</em>, o fatto illecito ex art.2043 e seguenti); l’obiettivo è quello di garantire al danneggiato <strong>il risarcimento del danno</strong>, se del caso anche sulla scorta della <strong>responsabilità obiettiva</strong>, e dunque proprio del solo nesso causale; del resto, occorre rispondere alla domanda: <strong>è giusto che il danneggiato sia ristorato dal danneggiante, e dunque che il danneggiante paghi?</strong></li> <li>il diritto <strong>penale</strong> (inadempimento-reato); l’obiettivo è quello (diverso da quello perseguito dal diritto civile) di <strong>sanzionare un comportamento colpevole</strong>, con applicazione delle garanzie previste dagli articoli 25 e 27 Cost.; il comportamento deve essere necessariamente colpevole per poter essere punito, dovendosi <strong>escludere</strong> ipotesi di <strong>responsabilità oggettiva</strong>: tale rimproverabilità necessaria si riverbera anche, illuminandolo in modo tutt’affatto peculiare, sul <strong>nesso causale</strong>; qui la domanda cui occorre rispondere è: <strong>è giusto che il soggetto attivo del fatto sia punito?</strong></li> <li>il diritto <strong>amministrativo</strong>, almeno da quando è ammissibile il risarcimento del <strong>danno da lesione di c.d. interesse legittimo</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nel diritto civile, come si atteggia il nesso causale?</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esso si atteggia <strong>in duplice modo</strong>, sempre oggetto di <strong>prova</strong> da parte del soggetto che invoca il risarcimento del danno;</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il nesso causale tra <strong>condotta pregiudizievole</strong> ed <strong>evento lesivo</strong>: si tratta della <strong>d. causalità materiale</strong>, scolpita all’art.2043 c.c. dove si parla di danno (ingiusto) “<strong><em>cagionato</em></strong>” dal danneggiante. E’ discusso in giurisprudenza quale sia <strong>il criterio più utile</strong> ad accertare la c.d. causalità materiale civile, talvolta assumendosi la utilizzabilità del medesimo criterio utile ad accertare la <strong>causalità penale </strong>(articoli 40 e 41 c.p.), e talaltra richiedendosi invece un canone di accertamento di tipo diverso;</li> <li>il nesso causale tra <strong>evento lesivo</strong> e <strong>concrete conseguenze pregiudizievoli</strong>: si tratta della <strong>d. causalità giuridica</strong>, alla stregua della quale il danneggiante deve al danneggiato i <strong>danni conseguenza</strong>, ovvero perdita subita e mancato guadagno (articolo 1223 c.c. richiamato, per il fatto illecito, dall’art.2056 c.c.). La causalità giuridica si accerta giusta criterio della <strong>c.d. regolarità causale</strong>, potendo essere risarciti i soli danni che sono <strong>conseguenza immediata e diretta</strong> del fatto dannoso. Si parla in proposito di danni che sono <strong>normale conseguenza</strong> dell’evento lesivo, secondo la comune esperienza o il c.d. “<strong><em>id quod plerumque accidit</em></strong>”.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In generale, come si configura il nesso causale nel sistema civile e in quello penale?</strong></p> <p style="text-align: justify;">Sulla scorta della giurisprudenza civile e di quella penale è stata isolata <strong>una scala discendente di valori</strong> che presidiano l’accertamento del nesso causale, secondo l’ordine che segue:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>sistema <strong>penale</strong>: criterio basato sull’espressione “<strong><em>oltre ogni ragionevole dubbio</em></strong>”, nel quale campeggia una <strong>elevata credibilità razionale</strong> ed un <strong>alta probabilità di ordine logico</strong>. Per punire occorre essere <strong>(pressoché) certi</strong> della responsabilità penale del soggetto agente: alla <strong>probabilità scientifica di tipo statistico</strong> va associata una <strong>probabilità logica ritratta dall’evidenza</strong> del singolo processo, fino a giungere ad una declaratoria di responsabilità, per l’appunto, <strong>oltre ogni ragionevole dubbio</strong>. Occorre la <strong>quasi certezza</strong>;</li> <li>sistema <strong>civile</strong>: b.1) criterio generale basato sull’espressione <strong>“<em>più probabile che non</em>”</strong>, nel quale campeggia una <strong>consistente credibilità razionale</strong> ed una del pari <strong>consistente probabilità di ordine logico</strong>, <strong>meno elevate</strong> tuttavia di quelle richieste in sede penale, essendo sufficiente raggiungere una <strong>più bassa soglia di probabilità</strong>. Per condannare al risarcimento del danno occorre essere <strong>(per quanto possibile) certi</strong> della responsabilità del soggetto cui la condotta viene imputata, sicché alla <strong>probabilità scientifica</strong> di tipo statistico va anche qui associata una <strong>probabilità logica</strong> ritratta dall’evidenza del <strong>singolo processo</strong>, fino a giungere ad una declaratoria di responsabilità, per l’appunto, <strong>più probabile che non</strong>. Occorre la <strong>probabilità relativa</strong>; b.2) criterio specifico previsto per la <strong>d. perdida di chance</strong>, ed operativo in particolare nel settore della <strong>responsabilità medica</strong>: mentre per quanto riguarda il <strong>diritto alla salute puro</strong>, il nesso causale che presiede alla responsabilità omissiva medica è quello generale di cui al punto b.1), occorrendo acclarare che il <strong>comportamento alternativo lecito omesso</strong> avrebbe <strong>positivamente inciso</strong>, in modo <strong>più probabile che non</strong>, sulla salute del paziente, per quanto invece concerne <strong>l’autonomo diritto</strong> avente ad oggetto le <strong>mere possibilità di un miglioramento terapeutico,</strong> il nesso causale avvince la condotta del medico al <strong>danno emergente</strong> costituito dalla perdita di tali possibilità di guarire (o comunque di migliorare): qui rileva la <strong>mera possibilità</strong> (e non già la probabilità) di un <strong>diverso risultato terapeutico</strong>, onde viene lesa la <strong>perdita di tale possibilità di giungere al risultato</strong> migliorativo (come danno emergente da perdita di chance) e non il <strong>mancato conseguimento del risultato</strong> medesimo (lucro cessante da mancata guarigione). E’ sufficiente la <strong>(mera) possibilità</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>E’ configurabile una causalità c.d. psichica?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>no</strong>: la causalità può essere <strong>solo di tipo naturalistico</strong>, quindi coinvolgere solo fenomeni naturali, non anche fenomeni psichici che ne sono <strong>del tutto eterogenei</strong>; i fenomeni fisici sono governati da <strong>leggi scientifiche</strong> e si succedono con <strong>successioni costanti e prevedibili</strong>; i fenomeni psichici sono in larga parte <strong>insondabili</strong> appartenendo al <strong>foro interno</strong> del soggetto cui sono pertinenti, sicché è impossibile <strong>elaborare leggi scientifiche</strong> dotate di una <strong>qualche attendibilità</strong>;</li> <li><strong>si</strong>: la causalità è psichica allorché tra due soggetti <strong>uno determini l’altro a tenere un comportamento</strong> che abbia una rilevanza sul piano penale (<strong>interazione morale</strong> tra gli individui), ditalché eliminando <strong>l’<em>agere</em> del primo</strong> non si avrebbe il <strong>comportamento penalmente rilevante</strong> del secondo, come accade nell’ipotesi della <strong>provocazione</strong> di cui all’art.62 del codice penale.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i casi più noti di causalità psichica?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la <strong>provocazione</strong> come circostanza attenuante ex art.62 c.p.;</li> <li>il <strong>concorso morale</strong> nel reato altrui ex art.110 c.p., cui è assimilabile, come <em>species</em>, l’ipotesi dell’<strong>induzione di altri mediante inganno</strong> a commettere un reato ex art.48 c.p. e, come ulteriore <em>species</em>, l’ipotesi del <strong>concorso morale</strong> atteggiantesi a <strong>concorso esterno nel reato associativo</strong> strutturalmente realizzato da altri;</li> <li>altri casi elaborati dalla giurisprudenza come nell’ipotesi della <strong>indebita rassicurazione da parte di autorità civili</strong> prima di un terremoto, esitate in omicidio colposo plurimo; della <strong>morte a valle delle pressioni vessatorie dell’usuraio</strong> ex art.586 c.p.; della morte di un malato di cancro a valle della degenerazione della propria malattia causata dall’<strong>azione di un naturopata</strong> che ha indotto la vittima a <strong>rifiutare la medicina convenzionale</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia la natura della c.d. omissione penalmente rilevante rispetto all’evento?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>concezione naturalistica</strong>: nel processo che determina l’evento, si tratta di una <strong>condizione fisica e statica</strong> e dunque di una vera e propria <strong>condizione naturalisticamente intesa</strong>, dal momento che senza l’omissione l’evento non si verifica; in sostanza l’omissione <strong>viene assimilata all’azione</strong>, e anche dal punto di vista strutturale l’omissione è uguale all’azione; in entrambi i casi il giudice accerta <strong>la rilevanza causale</strong> (tanto dell’omissione, quanto dell’azione) attraverso <strong>un giudizio controfattuale</strong>; l’evento viene imputato alla stregua di un <strong>criterio di causalità materiale</strong> cui corrisponde un <strong>accertamento giudiziale qualitativamente identico</strong>, poiché in entrambi i casi occorre una <strong>probabilità-certezza che l’omissione</strong>, come l’azione, lo abbia cagionato;</li> <li><strong>concezione normativa</strong>: in caso di omissione, la causalità non può essere assunta in senso <strong>propriamente fisico o naturalistico</strong>; si può parlare di causalità <strong>in senso meramente normativo</strong>, in quanto sono <strong>le norme</strong> a ricondurre ad una certa omissione un certo evento, sulla base di un <strong>giudizio prognostico ed ipotetico</strong> alla stregua del quale, se l’omissione non vi fosse stata, l’evento <strong>non si sarebbe del pari verificato</strong>; la causalità omissiva è dunque <strong>normativamente equivalente</strong>, ma <strong>non fisicamente sovrapponibile</strong>, alla causalità attiva, e sono le precipue esigenze della responsabilità penale a spiegare come e perché un determinato evento <strong>viene normativamente imputato</strong> ad una certa <strong>condotta omissiva</strong>. Sono le <strong>leggi scientifiche </strong>a consentire di affermare che ad una determinata omissione consegue uno <strong>specifico evento</strong>, e tuttavia <strong>l’incertezza</strong> campeggia assai più che nel caso dell’azione, ed essendo una incertezza <strong>non eliminabile</strong>, in sede di accertamento il giudice può accontentarsi – sulla scorta di un <strong>giudizio prognostico</strong> – di un <strong>rapporto di probabilità vicino alla certezza</strong> tra l’<strong>azione doverosa</strong> e l’<strong>evento non impedito</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si compendia il nesso di causalità nei reati colposi?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il perno va rinvenuto nel concetto di <strong>norma cautelare</strong>, di <strong>azione doverosa</strong> e di <strong>azione antidoverosa violativa della norma cautelare</strong>;</li> <li>l’evento lesivo <strong>è prevedibile</strong>: lo si previene con la <strong>condotta doverosa</strong>, che osserva la <strong>norma cautelare</strong>; non lo si perviene con la <strong>condotta antidoverosa</strong>, che <strong>viola la norma cautelare</strong>;</li> <li>il nesso causale avvince la <strong>condotta antidoverosa</strong>, violativa della regola cautelare e come tale colposa, all’<strong>evento</strong>;</li> <li>non è dunque <strong>la condotta in sé</strong> ad essere <strong>legata all’evento</strong> dal nesso di causalità, quanto piuttosto la <strong>condotta antidoverosa colposa perché violativa della regola cautelare</strong>; il nesso di causalità avvince <strong>la colpa</strong> (condotta colposa) <strong>all’evento</strong>;</li> <li>la “<strong><em>causa</em></strong>” dell’evento è allora <strong>la colpa</strong>, ovvero una condotta <strong>non quale che sia</strong> o comunque <strong>assunta nella relativa naturalità pura e semplice</strong>, ma in quanto connotata <strong>da imprudenza, da negligenza o da imperizia</strong> (colpa generica), ovvero da <strong>violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline</strong> (colpa specifica), ai sensi dell’art.43 c.p.;</li> <li>l’evento viene imputato all’agente a titolo di colpa quando – dal punto di vista “<strong><em>normativo</em></strong>” – una data <strong>condotta naturalisticamente intesa</strong> viene assunta dal sistema <strong>antidoverosa</strong> perché <strong>contrastante con una regola cautelare</strong> che andava osservata;</li> <li>tale regola cautelare ha un proprio “<strong><em>scopo di protezione</em></strong>”, in quanto è intesa a prevenire <strong>il rischio di un determinato evento</strong>: la violazione della regola cautelare deve comportare proprio <strong>la concretizzazione del rischio di quell’evento</strong> che essa mirava a scongiurare; solo in questo caso, ovvero quando l’evento è <strong>tra quelli che la regola cautelare violata mirava a scongiurare</strong>, esso può essere attribuito all’autore della condotta naturalistica violativa della regola cautelare medesima;</li> <li>la regola di condotta ha un <strong>duplice scopo</strong>: h.1) scolpire i <strong>comportamenti necessari ad impedire</strong> che un determinato <strong>bene giuridico</strong> possa <strong>rischiare di essere compromesso</strong>; h.2) in tal modo, puntare ad <strong>evitare il pregiudizio al detto bene giuridico</strong>; accertare il nesso di causalità significa allora accertare che l’evento è la <strong>realizzazione propagativa della colpa</strong>, quale <strong>contegno antidoveroso</strong> rispetto alla <strong>norma cautelare orientata a prevenire proprio quell’evento</strong> (c.d. <strong>concretizzazione del rischio tipico</strong> di cui alla regola cautelare violata);</li> <li>quando <strong>la colposità è omissiva</strong>, va tenuto <strong>scisso</strong> – sul piano teorico – il momento accertativo della <strong>colpa</strong> da quello accertativo dell’<strong>omissione penalmente rilevante</strong>: in sostanza, si configura una <strong>omissione</strong> che si pone come <strong>violativa della regola cautelare</strong> (che imponeva di attivarsi), e che – in quanto <strong>colposa</strong> in tal senso – finisce con il produrre un <strong>evento che è concretizzazione del rischio</strong> che la norma cautelare violata mirava a prevenire: si assiste ad un <strong>duplice giudizio di natura “<em>normativa</em>”</strong> (almeno per chi ritiene che la causalità omissiva sia <strong>normativa e non fisica</strong>), dal momento che è <strong>normativa la valutazione colposa</strong> della condotta (violativa della regola cautelare) ed è del pari <strong>normativa la</strong> <strong>valutazione del nesso causale</strong> tra omissione (colposa) ed evento che la norma cautelare mirava a prevenire.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa consiste la teoria dottrinale della distinzione tra causalità della condotta e causalità della colpa, e quali critiche le vengono mosse?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>riguarda i soli <strong>reati commissivi colposi</strong>, e <strong>non</strong> si applica ai <strong>reati omissivi impropri colposi</strong>; si intende dire che solo nei reati commissivi colposi è possibile distinguere una <strong>causalità della condotta</strong> da una <strong>causalità della colpa</strong>, mentre nei reati omissivi colposi la causalità <strong>è solo e direttamente della colpa</strong>, nel senso onde è la colpa ad essere legata all’evento dal nesso di causalità, senza inserirsi in una <strong>condotta attiva</strong>;</li> <li>quando si tratta di valutare la <strong>causalità della condotta</strong> (art.40 c.p.), vige la regola della <strong>probabilità confinante con la certezza</strong> (alta credibilità razionale), onde senza la condotta storica <strong>è più o meno certo</strong> (o comunque altamente credibile sul piano razionale) che l’evento <strong>non vi sarebbe stato nei modi</strong> (anche solo <strong>peggiorativi</strong>) e con le coordinate nelle quali esso <strong>si è concretamente realizzato</strong>;</li> <li>quando tuttavia il reato <strong>è colposo</strong>, la <strong>causalità</strong> va ricondotta alla <strong>colpa</strong> (art.43) assai più che alla condotta: si muove dal <strong>comportamento alternativo lecito</strong> (quello che sarebbe occorso <strong>al fine di rispettare la regola cautelare </strong>che non è stata rispettata), ed il <strong>giudizio ipotetico e controfattuale</strong> - proprio perché si tratta di reato colposo, come tale connotato già dalla violazione di una regola cautelare – deve assumersi assistito da un <strong>minor grado di credibilità razionale</strong>. In altri termini, non è richiesto che <strong>in caso di comportamento alternativo lecito</strong> l’evento <strong>non si sarebbe verificato quasi certamente e con alta credibilità razionale</strong> (come nel caso della causalità della condotta), palesandosi sufficienti per il ridetto comportamento alternativo lecito – a fini di punizione - <strong>anche solo poche possibilità di scongiurare</strong> l’evento che è concretizzazione del rischio connesso alla regola cautelare violata; basta che la condotta (violativa della regola cautelare) <strong>abbia meramente aumentato il rischio</strong> della lesione per configurare <strong>nesso di causalità</strong> tra <strong>colpa</strong> ed <strong>evento</strong>. In sostanza, in queste ipotesi si ha una condotta certamente legata all’evento, ma in esse si ravvisa <strong>la mediazione</strong> (tra condotta ed evento) <strong>della violazione della regola cautelare</strong> (condotta-colpa-evento), e della produzione di <strong>un evento del tipo di quelli che detta regola mirava a scongiurare</strong>, con la conseguente possibilità per il giudice di <strong>accontentarsi di un giudizio controfattuale assai più probabilistico</strong> di quello richiesto in caso di classico nesso causale condotta-evento (dal momento che la violazione “<strong><em>attiva</em></strong>” della regola cautelare implica già di suo <strong>concretizzazione del rischio</strong> dell’<strong>evento</strong> poi prodottosi e, dunque, <strong><em>ex se</em></strong> una <strong>elevata possibilità logica</strong> <strong>e credibilità razionale</strong> del nesso causale);</li> <li>tutto questo è predicabile allorché il soggetto attivo <strong>faccia luogo ad una condotta “<em>commissiva</em>” colposa</strong>: se avesse fatto luogo al <strong>comportamento alternativo lecito </strong>(magari omissivo)<strong> diverso</strong> da quello (<strong>attivo</strong>) concretamente posto in essere, <strong>con elevata probabilità</strong> avrebbe scongiurato l’evento che la regola cautelare mirava a prevenire ed evitare. Nei <strong>reati omissivi impropri colposi</strong> non è invece isolabile un “<strong><em>fatto proprio</em></strong>” <strong>violativo</strong> della regola cautelare, quanto piuttosto una omissione e, dunque, un “<strong><em>non fatto</em></strong>” <strong>violativo della regola cautelare</strong>: in queste ipotesi, è il <strong>comportamento alternativo lecito (omesso)</strong> che avrebbe rispettato la regola cautelare, sicché <strong>non è possibile sceverare la causalità vera e propria</strong> (che presuppone una condotta naturalistica commissiva) <strong>dalla colpa</strong>. Nei reati omissivi impropri la causalità – che pure teoricamente è legata a <strong>due obblighi</strong>, quello di <strong>garanzia</strong> (oggettivo) e quello di <strong>diligenza</strong> (soggettivo), con <strong>duplice imputazione “<em>normativa</em>”</strong>, e non naturalistica, dell’evento al soggetto agente – finisce dunque col legare sempre <strong>la colpa</strong> (e non la condotta) <strong>all’evento-inadempimento</strong>, e come tale è sempre assistita da un <strong>tasso di probabilità più basso</strong> ai fini della imputazione di responsabilità penale, che va predicata sempre allorché il <strong>comportamento alternativo lecito</strong> <strong>omesso</strong> abbia avuto <strong>anche solo significative probabilità </strong>(e non la <strong>certezza</strong>)<strong> di scongiurare l’evento inadempimento medesimo</strong>;</li> <li>si tratta di una <strong>teoria criticata</strong> sotto vari profili: e.1) muovendo dalla stessa struttura del reato colposo, con riguardo al quale è spesso <strong>difficoltoso distinguere i profili commissivi da quelli omissivi</strong>; e.2) muovendo dalla possibile <strong>iniquità dei risultati applicativi raggiunti</strong>, poiché a rigore nei reati commissivi colposi (“<strong><em>fatto proprio</em></strong>”) per punire occorre una <strong>alta probabilità</strong>, <strong>confinante con la certezza</strong>, che senza l’azione l’evento-inadempimento (siccome in concreto verificatosi) <strong>non avrebbe avuto luogo</strong>, mentre nei <strong>reati omissivi colposi</strong> (“<strong><em>non-fatto proprio</em></strong>”) per punire sarebbe sufficiente dimostrare che il <strong>comportamento alternativo lecito</strong> avrebbe avuto <strong>anche solo apprezzabili chance di successo</strong> in termini di evitabilità dell’evento-inadempimento medesimo, quale concretizzazione del rischio di cui alla norma cautelare violata con l’omissione; senonché, nei fatti (e per una sorta di eterogenesi dei fini), muovendosi sul solo crinale della colpa (violazione del <strong>dovere di diligenza</strong>) e trascurando quello della causalità (violazione dell’obbligo connesso alla <strong>posizione di garanzia</strong>), con <strong>assorbimento della causalità nella colpa</strong>, può essere <strong>molto più facile provare</strong> che il comportamento alternativo lecito (rispetto all’<strong>omissione</strong> come “<strong><em>non–fatto proprio</em></strong>”) <strong>non avrebbe comunque scongiurato</strong> l’evento piuttosto che provare che, <strong>senza l’azione</strong> (“<strong><em>fatto proprio</em></strong>”), l’evento-inadempimento reato <strong>si sarebbe comunque prodotto</strong>, e questo può alla fine favorire chi (ad esempio il medico) <strong>ha omesso di intervenire</strong> rispetto a chi <strong>ha agito nel tentativo di salvare</strong>, palesando <strong>minor disinteresse</strong> per i <strong>valori della vita e della solidarietà sociale</strong> in genere; e.3) muovendo da un <strong>dato cronologico</strong> riferibile alle coordinate del <strong>giudizio</strong> e del conseguente accertamento giudiziale, in quanto <strong>appiattire la causalità sulla colpa</strong> ed <strong>assorbirla nella colpa stessa</strong> significa non tener conto che il <strong>giudizio contro-fattuale (causalità)</strong> è presidiato da <strong>regole (scientifiche)</strong> che devono assumersi note <strong>nel momento in cui il giudice accerta la responsabilità</strong>, mentre il giudizio (del pari “<strong><em>normativo</em></strong>”) sulla <strong>colpa</strong> fa riferimento ad una <strong>base nomologica diversa</strong>, dovendosi rimproverare all’agente la violazione di <strong>regole cautelari</strong> <strong>vigenti</strong> <strong>al momento (anteriore) della condotta</strong> e da lui considerate <strong>conosciute o comunque conoscibili:</strong> vi è dunque il rischio di possibili <strong>applicazioni retroattive <em>in malam partem</em></strong> laddove si applichino <strong>al momento del giudizio</strong> regole cautelari che non potevano dirsi conosciute o conoscibili <strong>all’epoca della condotta</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare con riguardo alla fattispecie della responsabilità penale per esposizione dei lavoratori a sostanze tossiche e conseguente morte per malattie tumorali?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si è trattato soprattutto di fattispecie di <strong>mesotelioma pleurico</strong> per <strong>inalazione di polveri di amianto</strong> (c.d. eternit);</li> <li>normalmente il <strong>periodo di latenza</strong> della malattia è <strong>consistentemente lungo</strong>, onde essa si palesa anche a distanza di molti anni (decine) da quando le inalazioni sono avvenute;</li> <li>si pone il problema del <strong>nesso causale</strong> tra <strong>inalazione</strong> di sostanza tossica ed <strong>insorgenza della malattia</strong>;</li> <li>si pone, altresì, il problema del ruolo che potrebbero rivestire <strong>cause concorrenti</strong>, come ad esempio il fatto che la vittima <strong>sia un fumatore</strong>;</li> <li>l’esposizione alla sostanza nociva e la conseguente inalazione possono essere avvenute in un <strong>arco temporale molto lungo</strong>, nel contesto diacronico del quale possono essersi <strong>succeduti alla guida dell’azienda pericolosa diversi manager</strong>, con conseguente necessità di verificare il nesso causale con riguardo al <strong>ruolo agente od omittente di ciascuno di essi</strong>;</li> <li>la giurisprudenza di merito e quella di legittimità hanno mutuato in queste fattispecie molte delle acquisizioni raggiunte dalla giurisprudenza della Cassazione sul tema della <strong>responsabilità medica omissiva colposa</strong>, con particolare riguardo all’arresto Franzese del 2002.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>