Massima
Attraverso il procedimento la Pubblica Amministrazione persegue l’interesse pubblico attraverso una ponderazione “correlata” dei vari interessi “altri”, pubblici e privati, coinvolti dalla trama del pertinente agire; in particolare, l’interesse privato – tanto pretensivo ad un dare o ad un facere quanto pretensivo ad un “non facere” (c.d. interesse oppositivo) – sottende una pretesa che può trovare soddisfazione solo laddove l’Amministrazione procedente, attraverso il potere ad essa affidato dalla Legge, accerti la compatibilità del ridetto interesse privato con l’interesse pubblico (pro quota, imputabile allo stesso, ridetto interlocutore privato); si tratta di una operazione “doverosa” per l’Amministrazione, obbligata a procedere tutt’altro che ad libitum tenuta come essa è – già sul crinale diacronico – al rispetto di un dato termine procedimentale, la cui vana scadenza può impegnarne la responsabilità in termini di “inerzia” come in (connessi) termini di silenzioso “ritardo”.
Crono-articolo
1865
Il 25 giugno viene varata la legge n.2359 sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica, che forgia il primo procedimento amministrativo, espressione dello Stato liberale e della necessità di garantire la proprietà privata dei cittadini dai relativi poteri, fatta eccezione per i soli casi in cui l’ablazione sia per l’appunto giustificata da una “causa” di pubblica utilità e, dunque, dalla necessità di perseguire un interesse pubblico.
Importante in particolare l’art.13, alla stregua del cui comma 1, nell’atto che dichiara un’opera di pubblica utilità devono essere stabiliti i termini entro i quali “dovranno cominciarsi e compiersi le espropriazioni ed i lavori”; stando al successivo comma 2, l’Autorità che ha fissato i ridetti termini li può prorogare per casi di forza maggiore o per altre “cagioni” indipendenti dalla volontà dei concessionari, ma sempre con una determinata prefissione di tempo; infine, ai sensi del comma 3, trascorsi i ridetti termini la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace e non potrà procedersi alle espropriazioni se non in forza di una nuova dichiarazione ottenuta nelle forme prescritte dalla legge.
Si tratta di termini posti a presidio di quelli che – al cospetto di un’attività pubblica ablativa – verranno identificati come interessi c.d. “oppositivi” (meglio definibili come pretensivi ad un “non facere”) e, dunque, di termini il cui scadere avvantaggia il privato cittadino, a differenza di quanto accadrà per i c.d. interessi “pretensivi”, laddove la scadenza del termine finirà all’opposto per stimolare la reazione dell’amministrato (di volta in volta) frustrato nella pertinente aspettativa ad un dare o ad un facere, così aprendo le porte alla pertinente reazione avverso il ritardo ed il silenzio della PA.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.328 il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire 10.000.
Se il pubblico ufficiale è un giudice o un funzionario del pubblico ministero, vi è omissione, rifiuto o ritardo, quando concorrono le condizioni richieste dalla legge per esercitare contro di essi l’azione civile.
1940
Il 28 ottobre viene varato il R.D. n.1443, nuovo codice di procedura civile, secondo il cui art.155, nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l’ora iniziali (comma 1); per il computo dei termini a mesi o ad anni, si osserva il calendario comune (comma 2); i giorni festivi si computano nel termine (comma 3), e tuttavia, se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (comma 4).
Si tratta di norme che, assieme all’art.2963 del nuovo codice civile, verranno invocate anche con riguardo alla disciplina dei c.d. termini procedimentali.
Di rilievo anche l’art.152, comma 2, c.p.c., onde “I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, secondo l’art.11 delle cui disposizioni preliminari la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione.
Stando poi all’art.1218 il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Il ritardo implica dunque una responsabilità del debitore e si configura come autentico inadempimento “ratione temporis” della prestazione.
Stando al successivo art.1457 c.c., se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni (comma 1); in mancanza, il contratto si intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione (comma 2).
Di rilievo anche l’art.2963, in materia di computo dei termini di prescrizione, onde i termini di prescrizione contemplati dal codice e dalle altre leggi si computano secondo il calendario comune (comma 1); non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell’ultimo istante del giorno finale (comma 2); inoltre, se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo (comma 3).
La norma aggiunge che la prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale (comma 4) e che se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (comma 5).
Si tratta di regole che saranno assunte dalla giurisprudenza valevoli anche con riguardo ai c.d. termini procedimentali.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che prevede riserve di legge in tema, tra l’altro, di organizzazione dei pubblici uffici, in modo da assicurare l’imparzialità ed il buon andamento della Pubblica Amministrazione (art.97).
La PA dunque deve essere organizzata dalla legge, e deve organizzarsi sulla base della legge, in modo da garantire il proprio buon andamento nel perseguire la mission che ad essa affida la legge medesima, vale a dire il perseguimento dell’interesse pubblico, circostanza che (già in prima approssimazione logica e teorica) non può prescindere da un tempus massimo assegnato alle relative funzioni ed al pertinente esercizio della potestà pubblicistica che la connota.
1981
Il 24 novembre viene varata la nota legge n.689, modifiche al sistema penale, secondo il cui art.28 il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla legge medesima, di natura amministrativa, si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione (comma 1), l’interruzione della prescrizione essendo regolata dalle norme del codice civile (comma 2).
1990
Il 26 aprile viene varata la legge n.86, recante modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il cui art.16 modifica l’art.328, comma 1, del codice penale innalzando la pena per il rifiuto di atti di ufficio e prevedendo la reclusione da 6 mesi a due anni.
Viene modificato anche il comma 2 della disposizione, onde fuori dei casi previsti dal comma 1, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire 2 milioni, tale richiesta dovendo essere redatta dall’istante in forma scritta ed il termine ridetto di 30 giorni decorrendo dalla ricezione della richiesta stessa.
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Il 7 agosto viene varata la legge n.241, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi; si tratta della prima legge “generale” sul “procedimento amministrativo”, varata su impulso, tra gli altri, del Prof. Mario Nigro, che abbraccia una concezione “sostanziale” del procedimento medesimo, valorizzandone il vero e proprio cuore siccome identificabile nell’istruttoria (raccolta dei fatti) e nel dialogo partecipativo tra la PA che persegue l’interesse pubblico ed i soggetti privati potenzialmente incisi dall’azione pubblica.
Particolarmente rilevante ratione materiae l’art.2 della legge alla cui stregua, in primis, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la PA ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso (comma 1).
Sul crinale diacronico, ai sensi del comma 2 le Pubbliche Amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi, termine che decorre dall’inizio di ufficio del procedimento medesimo o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte.
Qualora le pubbliche amministrazioni non provvedano ai sensi del comma 2, il comma 3 fissa un termine suppletivo obbligatorio di 30 giorni; laddove invece provvedano a fissare il termine procedimentale, le pertinenti determinazioni sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli ordinamenti amministrativi (comma 4).
1997
Il 18 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.262 che ribadisce il carattere di norma di chiusura dell’art. 2, l. 241/1990, laddove fissa il termine di trenta giorni per la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, affermando che l’inutile spirare dello stesso non comporta decadenza dall’esercizio del potere, ma connota in termini di illegittimità il comportamento dell’amministrazione procedente.
Ciò legittima gli interessati ad insorgere a tutela della propria posizione soggettiva anche con lo strumento del risarcimento del danno (oltre che per la rimozione della inerzia).
Si tratta di pronuncia emessa al di fuori della materia del potere sanzionatorio della PA.
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2000
Il 27 luglio viene varata la legge n.212, c.d. statuto dei diritti del contribuente, secondo il cui art.12, comma 7, nel rispetto del principio di cooperazione tra Amministrazione fiscale e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli Uffici impositori.
L’avviso di accertamento, prosegue la norma, non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine di 60 giorni, salvo i casi di particolare e motivata urgenza.
Si tratta dunque di una fattispecie nella quale il procedimento (tributario), piuttosto che dover essere concluso “entro un determinato termine”, deve essere concluso “non prima dello spirare di un determinato termine”.
2001
Il 18 ottobre viene varata la legge costituzionale n.3, che riforma l’intero Titolo V della Costituzione sulle autonomie locali, scolpendo un nuovo assetto dei rapporti, in particolare, tra Stato e Regioni e ponendo – stante il difetto in proposito di riferimenti costituzionali espressi – il problema di una eventuale competenza legislativa (anche) regionale in tema di procedimento amministrativo, massime quando si tratti di procedimenti appannaggio di enti locali.
2002
*Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.355 che ribadisce il carattere di norma di chiusura dell’art. 2, l. 241/1990, laddove fissa il termine di trenta giorni per la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, affermando che l’inutile spirare dello stesso non comporta decadenza dall’esercizio del potere, ma connota in termini di illegittimità il comportamento dell’amministrazione procedente.
Ciò legittima gli interessati ad insorgere a tutela della propria posizione soggettiva anche con lo strumento del risarcimento del danno (oltre che per la rimozione della inerzia).
Si tratta di pronuncia emessa al di fuori della materia del potere sanzionatorio della PA.
2005
L’11 febbraio viene varata la legge n.15, recante modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa, che novella in modo significativo l’originario impianto della legge 241.90 spostandone il baricentro dal procedimento vero e proprio al provvedimento finale, come si evince chiaramente dai nuovi art.21 bis e seguenti della legge medesima.
In particolare, il relativo art.2 aggiunge un comma 4 bis all’art.2 della legge 241.90 alla cui stregua, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni – una volta scaduto dunque il termine procedimentale – può essere proposto anche senza necessità di diffida all’Amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3, facendosi salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
Importante anche, dal punto di vista simbolico, l’art.21 che appone le varie rubriche agli articoli e, in particolare, all’art.2, in termini di “conclusione del procedimento”.
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Il 14 marzo viene varato il decreto legge n.35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, il cui art.3, dedicato alla semplificazione amministrativa, modifica la legge 241.90.
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Il 14 maggio viene varata la legge n.80 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.35, recando seco modifiche specifiche all’art.2 della legge 241.90 sul c.d. termine procedimentale.
Secondo il nuovo comma 2, con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell’art.17, comma 1, della legge 400.88, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro della Funzione pubblica, sono stabiliti i termini entro i quali i procedimenti di competenza delle Amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti dalla legge. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. I termini ridetti devono poi essere modulati tenuto conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte.
Qualora non si provveda ai sensi del comma 2, il nuovo comma 3 prevede un termine “sussidiario” di 90 giorni.
Ancora, ai sensi del nuovo comma 4, nei casi in cui leggi o regolamenti prevedano per l’adozione di un provvedimento l’acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini di cui ai commi 2 e 3 sono sospesi fino all’acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo comunque non superiore a 90 giorni. I termini di cui ai comma 2 e 3 possono altresì essere sospesi, per una sola volta, per l’acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’Amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre Pubbliche Amministrazioni, applicandosi le disposizioni previste dall’art.14, comma 2, della legge in materia di conferenza di servizi.
Infine, il comma 4 bis viene sostituito da un nuovo comma 5 secondo il quale, “salvi i casi di silenzio assenso” (nei quali il silenzio è, per l’appunto, significativo in senso positivo per il privato istante), decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’Amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3; altra novità è che il GA “può conoscere della fondatezza dell’istanza”, facendosi sempre salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
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Il 21 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4937 onde, conformemente a consolidata giurisprudenza sul punto, in materia di procedimenti concorsuali per l’accesso al pubblico impiego va tendenzialmente assunto applicabile il principio tempus regit acum.
2006
Il 27 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.9591, che rammenta come – con il motivo appositamente addotto a sostegno del ricorso – la Direzione provinciale del lavoro di Ascoli Piceno lamenti che erroneamente il giudice a quo avrebbe ritenuto il termine stabilito dall’art. 2, comma 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, per la conclusione dei procedimenti amministrativi (30 giorni) applicabile anche all’emissione delle ordinanze ingiunzioni irrogative di sanzioni amministrative, con invalidità del pertinente provvedimento in caso di relativo mancato rispetto.
In materia, chiosa la Corte, nella giurisprudenza di legittimità, si è verificato un contrasto, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle sezioni unite.
In grande prevalenza la Corte si è orientata nel senso propugnato dalla ricorrente, sulla scorta soprattutto di dati di natura testuale, rivelatori dell’inconciliabilità della norma di cui si tratta con la disciplina delle sanzioni amministrative, contenuta nella l. 24 novembre 1981, n. 689: v., tra le più recenti, Cass. 16 aprile 2003, n. 6014, 11 giugno 2003, n. 9357, 17 giugno 2003, n. 9680, 11 luglio 2003, n. 10920, 22 novembre 2003, n. 17779, 22 dicembre 2003, n. 19617, 21 gennaio 2004, n. 874, 30 marzo 2004, n. 6337, 6 aprile 2004, n. 6762, 6 aprile 2004, n. 6769, 10 novembre 2004, n. 21406, 28 dicembre 2004, n. 24053, 26 agosto 2005, n. 17386.
Con alcune altre pronunce è stata però adottata la soluzione opposta, in considerazione del carattere generale della l. 7 agosto 1990, n. 241, che si riferisce indistintamente a tutti i procedimenti amministrativi: v. Cass. 15 giugno 1999, n. 5936, 21 marzo 2001, n. 4042, 4 settembre 2001, n. 11390, 23 luglio 2003, n. 11434, 6 marzo 2004, n. 4616.
Ritiene a questo punto il Collegio che debba essere seguito l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.
Non impedisce di pervenire a questa conclusione la “universalità” della legge citata, che per la prima volta ha regolamentato in maniera uniforme i procedimenti amministrativi. Per il principio di specialità, che prescinde dalla successione cronologica delle norme, quelle posteriori non comportano la caducazione delle precedenti, che disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare. E appunto in questo rapporto si pongono la l. 7 agosto 1990, n. 241 e la l. 24 novembre 1981, n. 689, riguardanti l’una i procedimenti amministrativi in genere, l’altra in ispecie quelli finalizzati all’irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare, che richiede una distinta disciplina.
D’altra parte, prosegue la Corte, le disposizioni della l. 24 novembre 1981, n. 689 costituiscono un sistema organico e compiuto, nel quale non occorrono inserimenti dall’esterno: necessità che infatti è stata costantemente esclusa, con riferimento ad altre norme della legge generale sul procedimento amministrativo, come quelle relative alla “partecipazione dell’interessato” (v., tra le altre, Cass. 27 novembre 2003, n. 18114) e al diritto di accesso ai documenti (v., per tutte, Cass. 15 dicembre 2005, n. 27681).
Un tale innesto – chiosa ancora il Collegio – non è comunque praticabile, in particolare, relativamente all’art. 2, comma 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, che stabilisce il termine entro il quale il procedimento amministrativo deve essere concluso, ove non ne sia fissato uno diverso per legge o regolamento. Sia quello di 90 giorni, ora previsto dalla norma come modificata da ultimo dall’art. 36-bis d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con l. 14 maggio 2005, n. 80, sia quello di trenta giorni, indicato nel testo originario, applicabile nella specie ratione temporis, sono infatti per il Collegio incompatibili con le disposizioni della l. 24 novembre 1981, n. 689, che delineano un procedimento di carattere sostanzialmente contenzioso, scandito in fasi i cui tempi sono regolati, nell’interesse dell’incolpato, in modo da non consentire il rispetto di termini tanto brevi da parte dell’amministrazione:
la contestazione, se non è stata effettuata immediatamente, può avvenire fino a novanta giorni dall’accertamento per i residenti in Italia e fino a trecentosessanta per i residenti all’estero (art. 14);
se ne viene fatta richiesta entro ulteriori quindici giorni, deve poi provvedersi alla revisione delle analisi eventualmente compiute (art. 15);
nei successivi sessanta giorni è ammesso il pagamento in misura ridotta (art. 16);
se questo non avviene, viene trasmesso il rapporto all’autorità competente (art. 17);
ad essa gli interessati possono far pervenire scritti difensivi e documenti, nonché prospettare argomenti, dei quali si deve tenere conto nel provvedere (art. 18).
Né l’ostacolo può essere superato, come si é opinato con la sentenza impugnata, applicando il termine in questione alle singole fasi in cui il procedimento è articolato, o comunque a quella conclusiva. In tal modo – chiosa ancora il Collegio – verrebbe operata un’arbitraria manipolazione della norma, la quale considera unitariamente il procedimento amministrativo e dispone che il termine per la sua conclusione decorre non dall’esaurimento di ognuno dei vari segmenti che eventualmente lo compongono, bensì «dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte».
Peraltro, nell’ambito in cui la disposizione è operante, l’inosservanza del termine da essa stabilito, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa (v. C.d.S., Sezione V, 3 giugno 1999, n. 621, Sezione V, 19 settembre 2000, n. 4844, Sezione VI, 13 maggio 2003, n. 2533, Sezione IV, 10 giugno 2004, n. 3741; contra: C.d.S., Sezione VI, 19 dicembre 1997, n. 1869), non è causa di invalidità del provvedimento che sia stato emesso tardivamente, poiché anche dopo la scadenza non viene meno il potere e dovere dell’Amministrazione di attivarsi comunque, per il soddisfacimento degli interessi pubblici affidati alla sua cura.
Resta naturalmente salva la necessità che la pretesa sanzionatoria venga fatta valere entro il termine di prescrizione di cinque anni dalla commissione della violazione, stabilito dall’art. 28 l. 24 novembre 1981, n. 689: termine che non ha tuttavia natura procedimentale, ma sostanziale, poiché il relativo inutile decorso comporta l’estinzione del diritto alla riscossione.
Rimane altresì fermo che invece, per le violazioni di norme sulla circolazione stradale, la validità dell’ordinanza ingiunzione è subordinata al rispetto dei termini stabiliti per la pertinente emissione dall’art. 204, comma 1, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285: termini che il successivo comma 1-bis, introdotto dall’art. 4 d.l. 27 giugno 2003, n. 151, convertito con l. 1° agosto 2003, n. 214, definisce espressamente come «perentori», disponendo altresì che il ricorso al Prefetto, in mancanza della tempestiva adozione del provvedimento sanzionatorio, deve intendersi accolto.
In questo senso rammenta di essersi costantemente pronunciata la Corte (v., tra le più recenti, Cass. 17 marzo 2005, n. 5813) anche con riferimento al testo originario della norma, in considerazione della natura a sua volta speciale che la caratterizza, rispetto a quelle dettate dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 per il generale ambito delle sanzioni amministrative.
Il ricorso deve essere pertanto per le SSUU accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata.
La causa, poiché gli attori avevano fatto valere anche altre ragioni di opposizione, che il Tribunale di Ascoli Piceno ha considerato assorbite, non può essere decisa nel merito in questa sede, sicché va rinviata ad altro giudice, che si designa nel Tribunale di Macerata, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la questione decisa dal Tribunale di Ascoli Piceno, si uniformerà al seguente principio di diritto: «Il termine stabilito dall’art. 2, comma 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, non è applicabile nei procedimenti di irrogazione di sanzioni amministrative».
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Il 21 novembre esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n.712, alla cui stregua le regole generali in materia di termini non sembrano trovare applicazione per il termine di pubblicazione di un atto amministrativo, e ciò in quanto – osserva il Collegio – la disposizione di cui all’art. 155 c.p.c. concerne solo i termini relativi al compimento di atti processuali, quali non sono quelli di pubblicazione all’albo pretorio degli atti amministrativi.
2007
Il 5 marzo esce la sentenza della I sezione del Tar Veneto n.628 alla cui stregua, con riferimento alla modalità di computo del termine procedimentale, deve assumersi applicabile la disciplina di calcolo generale dettata dall’art. 2963 c.c., onde i termini vanno calcolati secondo il calendario comune, non computando il giorno iniziale ma quello finale, fermo restando che se il giorno finale di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.
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L’11 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.2318 alla cui stregua la domanda del privato volta ad ottenere atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti dei terzi, con immediati vantaggi a favore dell’istante, ha valore non già di mero esposto, bensì di istanza suscettibile di far sorgere a carico della p.a. l’obbligo di provvedere, nella misura in cui il richiedente sia portatore di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la relativa posizione da quella di coloro facenti parte della collettività.
Il dovere di provvedere, chiosa il Collegio, può scaturire da norme che espressamente lo prevedono, ma può anche sorgere in concomitanza con l’esercizio di poteri assolutamente discrezionali, laddove la mancata adozione del provvedimento si concretizzi in una violazione delle regole di fondo dell’attività amministrativa.
2009
Il 3 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.1880 alla cui stregua va assunto non sussistente l’obbligo di provvedere nei casi di riesame dell’atto inoppugnabile per lo spirare del termine di decadenza; in simili circostanze, all’evidenza, la scadenza del termine procedimentale non produce dunque alcun significativo effetto.
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Il 18 giugno viene varata la legge n.69, recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile, il cui art.7 – rubricato “certezza dei tempi di conclusione del procedimento” – torna ad emendare l’art.2 della legge 241.90.
Stando alla nuova disposizione, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso (comma 1); nei casi poi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai successivi comma 3, 4 e 5 non prevedano un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle Amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi nel termine di 30 giorni (comma 2).
Stando al successivo comma 3, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati ai sensi dell’art.17, comma 3, della legge 400.88, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a 90 giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle Amministrazioni statali.; gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i proprio ordinamenti, i termini non superiori a 90 giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza.
Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a 90 giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle Amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 – ai sensi del comma 4 – sono adottati su proposta dei Ministri per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri; i termini ivi previsti non possono comunque superare il 180 giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione.
Ancora, ai sensi del comma 5, fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza.
In ogni caso, i termini di conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte (comma 6).
Fatto salvo quanto previsto dall’art.17, i termini di cui ai comma 2, 3, 4 e 5 del nuovo art.2 possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a 30 giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’Amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre Pubbliche Amministrazioni (comma 7), applicandosi le disposizioni dell’art.14, comma 2, in tema di conferenza di servizi.
Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione, ai sensi dell’art.21 bis della legge 1034.71, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’Amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai comma 2 o 3 dell’art.2; il GA può conoscere della fondatezza dell’istanza ed è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento laddove ne ricorrano i presupposti (comma 8).
Infine, ai sensi del comma 9 la mancata “emanazione” del provvedimento costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale.
L’art.10, concernente la tutela degli interessati nei procedimenti amministrativi di competenza delle Regioni e degli Enti locali, modifica poi l’art.29 della legge 241.90.
Secondo il nuovo comma 1, le disposizioni della legge 241.90 si applicano alle Amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali e si applicano, altresì, alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative. Le disposizioni degli articoli 2.bis, 11, 15 e 25, comma 5, 5 bis e 6, nonché quelle del capo IV bis si applicano poi a tutte le Amministrazioni pubbliche.
Dopo il comma 2 vengono poi introdotti alcuni nuovi comma, a partire al comma 2 bis secondo il quale, expressis verbis, attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art.117, comma 2, lettera m), della Costituzione le disposizioni della legge 241.90 concernenti gli obblighi per la PA di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne il responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti.
Ancora, stando al nuovo comma 2 ter attengono pure ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art.117, comma 2, lettera m), della Costituzione le disposizioni della legge 241.90 concernenti la dichiarazione di inizio attività (c.d. DIA) e il silenzio assenso, salva la possibilità di individuare, con intese in sede di Conferenza unificata di cui all’art.8 del decreto legislativo 281.97 e successive modificazioni, casi ulteriori in cui tali disposizioni non si applicano.
Ai sensi del successivo comma 2 quater, le Regioni e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui ai comma 2 bis e 2 ter, ma possono prevedere livelli ulteriori di tutela.
Infine, ai sensi del comma 2 quinquies, le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione alle disposizioni dell’art.29 della legge 241.90, secondo i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione.
Da rammentare come la stessa legge n.69 in rassegna inserisca nel corpo della legge 241.90 (con l’art.7, comma 1, lettera c) un nuovo articolo 2.bis rubricato “conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento”, alla cui stregua (comma 1) le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono (genericamente e in modo, almeno all’apparenza, onnicomprensivo) tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento e (comma 2) le pertinenti controversie sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con prescrizione del pertinente diritto al risarcimento del danno fissata in 5 anni.
La norma sembra prevedere la risarcibilità anche del danno da “mero ritardo”, prodottosi in conseguenza della mancata adozione nei termini di un provvedimento della PA quale che sia, e dunque anche sfavorevole per il privato quanto a concreta spettanza dell’anelato bene della vita, innescando un intenso dibattito del quale è dato conto nell’apposito CRONO-PERCORSO dedicato, per l’appunto, al danno da ritardo della PA.
2010
Il 3 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3487 onde, anche se avviato d’ufficio, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso, diretto ad indicare, in maniera trasparente, la decisione assunta, nell’ambito delle operazioni discrezionali consentite dal singolo caso di specie.
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Il 2 luglio viene varato il decreto legislativo n.104, recante attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, delega al governo per il riordino del processo amministrativo, che modifica l’art.2, comma 8, della legge 241.90 nel senso onde la tutela in materia di silenzio dell’amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo.
Il codice dispone dunque che la reazione ad uno degli effetti del mancato rispetto del termine procedimentale da parte della PA procedente, vale a dire il c.d. “silenzio inadempimento”, sia disciplinata appunto dal codice stesso (art.117: tutela contro l’inerzia della Pubblica Amministrazione).
2011
Il 10 maggio escono le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.7 e 8 alla cui stregua il principio tempus regit actum esplica la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento.
Per il Collegio, nondimeno, tale circostanza non si verifica laddove siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato.
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Il 20 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3015 che – scandagliando una fattispecie di procedimento sanzionatorio del MISE ai sensi dell’art.124 del RDL n.1933.38, afferma la massima onde “In materia di sanzioni amministrative, il termine fissato per l’adozione del provvedimento finale ha natura perentoria, a prescindere da una espressa qualificazione in tali termini nella legge o nel regolamento che lo preveda”.
Si tratta di un orientamento che troverà un consistente seguito anche con riguardo ai procedimenti sanzionatori di altre Autorità indipendenti.
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Il 30 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3894 alla cui stregua le valutazioni in ordine all’esistenza di un interesse storico-artistico su un immobile, tali da giustificare l’apposizione del relativo vincolo, costituiscono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica, sia momenti di propria discrezionalità amministrativa.
Tale valutazione – chiarisce il Collegio – è espressione di una prerogativa esclusiva dell’Amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere inattendibilità della valutazione tecnica-discrezionale compiuta.
Il superamento del (peculiare) termine legale di 120 giorni per l’adozione del provvedimento finale ex art. 12, comma 10, D. lgs. 42/2004, non comporta peraltro per il Tar consumazione del pertinente potere, non determinando perciò alcun effetto viziante sulla determinazione comunque adottata in ritardo.
2012
Il 10 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.34 alla cui stregua la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l’Amministrazione deve tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l’iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l’assetto cristallizzato una volta per tutte alla data dell’atto che vi ha dato avvio.
Conseguentemente, per il Collegio, la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento ad istanza di parte va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale e non a quello della presentazione dell’istanza.
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Il 9 febbraio viene varato il decreto legge n.5, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo, che torna a modificare ed integrare l’art.2 della legge 241.90.
In particolare, l’art.1 – rubricato “modifiche alla legge 7 agosto 1990, n.241, in materia di conclusione del procedimento e poteri sostitutivi” – sostituisce i comma 8 e 9 con i nuovi comma da 8 a 9 quinquies.
Stando al nuovo art.2, comma 8, la tutela in materia di silenzio dell’Amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo e le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento della PA sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei Conti (che è il giudice dell’”inadempimento” dei pubblici impiegati).
Ancora, ai sensi del successivo comma 9 la mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
Stando al nuovo comma 9 bis, l’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’Amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il ridetto potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o, in mancanza, al funzionario di più elevato livello presente nell’Amministrazione.
Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7 dell’art.2, ai sensi del nuovo comma 9 ter il privato può rivolgersi al responsabile di cui al comma 9 bis affinché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda (sostitutivamente) il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.
Ancora, il responsabile individuato ai sensi del comma 9 bis, entro il 30 gennaio di ogni anno, comunica all’organo di governo i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsto dalla legge o dai regolamenti; le Amministrazioni sono chiamate a provvedere all’attuazione di quanto previsto con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (nuovo comma 9 quater).
Nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte va poi espressamente indicato il termine previsto dalla legge o dai regolamenti di cui all’art.2, da un lato, e quello effettivamente impiegato, dall’altro (comma 9 quinquies).
Si tratta di nuove disposizioni che, nondimeno, il Legislatore dichiara espressamente non applicabili nei procedimenti tributari e in materia di giochi pubblici, per i quali restano ferme le particolari norme che li disciplinano.
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Il 4 aprile viene varata la legge n.35 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.5.
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Il 22 giugno viene varato il decreto legge n.83, recante misure urgenti per la crescita del Paese,
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Il 7 agosto viene varata la legge n.134 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.83, disponendo – con l’art.13, comma 01 – una novella all’art.2, comma 9 bis, della legge 241.90, al quale vengono aggiunti in calce degli ulteriori periodi.
Più in specie, viene previsto che per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell’Amministrazione (procedente) venga pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l’indicazione del soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo e a cui l’interessato può rivolgersi ai sensi e per gli effetti del precedente comma 9.ter; tale soggetto, in caso di ritardo, deve comunicare senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della valutazione di avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro e, in caso di mancata ottemperanza di tali disposizioni, assume la medesima responsabilità di quello, oltre alla propria.
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Il 6 novembre viene varata la legge n.190, disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione, il cui art.1, comma 38, modifica l’art.2, comma 1, della legge 241.90 aggiungendovi in calce un ulteriore periodo.
Secondo la nuova versione, le Pubbliche Amministrazioni, qualora ravvisino la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.
2013
Il 27 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1754 alla cui stregua la formazione del silenzio-rifiuto, o lo speciale procedimento giurisdizionale ormai disciplinato dall’art. 117 del c.p.a., non risulta compatibile con le pretese che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall’autorità giurisdizionale competente.
Ai sensi dell’art. 31 del c.p.a. – precisa il Collegio – è pertanto inammissibile il ricorso diretto all’accertamento dell’illegittimità del silenzio su un’istanza dell’interessato allorché il Giudice amministrativo sia privo di giurisdizione in ordine al rapporto giuridico sottostante ovvero si verta, comunque, nell’ambito di posizioni di diritto soggettivo, anche laddove sia riscontrabile un’ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Si tratta di una pronuncia che dunque dequota (in qualche modo, e processualmente parlando) la valenza dell’obbligo di rispettare il termine procedimentale ex parte publica allorché a dover essere tutelati siano diritti soggettivi, piuttosto che interessi legittimi, questi ultimi più strettamente avvinti alla logica procedimentale ed alle disposizioni che tale logica “di sequenza” presidiano, con conseguente possibilità solo per la pertinente tutela di attivare il c.d. giudizio sul silenzio.
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Il 21 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tar Lazio n.9045 alla cui stregua il principio tempus regit actum non si applica in presenza di procedure concorsuali in itinere, atteso che l’espletamento di un concorso, una volta bandita la procedura e ove non sia disposto diversamente dal bando, si risolve in una serie di mere attività che, in quanto tali, devono essere interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui esse hanno inizio.
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*Il 4 dicembre esce la sentenza della VII sezione del Tar Campania n.5545 alla cui stregua il principio tempus regit actum non si applica in presenza di procedure concorsuali in itinere, atteso che l’espletamento di un concorso, una volta bandita la procedura e ove non sia disposto diversamente dal bando, si risolve in una serie di mere attività che, in quanto tali, devono essere interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui esse hanno inizio.
2014
*Il 23 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3149 alla cui stregua la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l’Amministrazione deve tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l’iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l’assetto cristallizzato una volta per tutte alla data dell’atto che vi ha dato avvio.
Conseguentemente, per il Collegio, la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento ad istanza di parte va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale e non a quello della presentazione dell’istanza.
2015
*Il 9 gennaio esce la sentenza della I sezione del Tar Molise n.18 alla cui stregua, con riferimento alla modalità di computo del termine procedimentale, deve assumersi applicabile la disciplina di calcolo generale dettata dall’art. 2963 c.c., onde i termini vanno calcolati secondo il calendario comune, non computando il giorno iniziale ma quello finale, fermo restando che se il giorno finale di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.
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Il 2 febbraio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.468 alla cui stregua – conformemente ad un collaudato filone giurisprudenziale in tema di potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti (nel caso di specie, dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici) – in tema di provvedimenti sanzionatori emessi dall’Autorità va osservato come nessuna disposizione di legge stabilisca una perentorietà dei termini di conclusione del procedimento, di guisa che sarebbe arbitrario, in quanto sfornito di base di legge, sostenere che lo spirare del termine fissato nell’avvio del procedimento determinerebbe ipso iure l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato.
Si tratta di un trend pretorio orientato a qualificare il ridetto termine di cui ai procedimenti sanzionatori delle Autorità come ordinatorio, e non piuttosto come perentorio, giustapponendosi al diverso orientamento che invece vede il ridetto potere sanzionatorio soggetto piuttosto a decadenza, con connessa perentorietà del termine di conclusione del pertinente procedimento.
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*Il 12 marzo esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.1313 alla cui stregua la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l’Amministrazione deve tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l’iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l’assetto cristallizzato una volta per tutte alla data dell’atto che vi ha dato avvio.
Conseguentemente, per il Collegio, la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento ad istanza di parte va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale e non a quello della presentazione dell’istanza.
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Il 7 agosto viene varata la legge n.124, recante deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Il relativo art.3, rubricato “silenzio assenso tra Amministrazioni Pubbliche e tra Amministrazioni Pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici”, inserisce dopo l’art.17 della legge 241.90 un nuovo art.17 bis alla cui stregua, in primo luogo (comma 1), nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di Amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre Amministrazioni pubbliche, le Amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell’Amministrazione procedente.
Il termine è interrotto qualora l’Amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso (di 30 giorni). In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta va reso nei successivi 30 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento, non essendo ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Decorsi poi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito; in caso di mancato accordo tra le Amministrazioni statali coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento (comma 2).
Le disposizioni dei comma 1 e 2 vengono dichiarate (dal comma 3) applicabili anche ai casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di Amministrazioni pubbliche; in tali casi, ove le disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui all’art.2 della legge 241.90 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le Amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di 90 giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’Amministrazione procedente; decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Infine, tutte le disposizioni di questo nuovo art.17 bis vengono dichiarate non applicabili nei casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedano l’adozione di provvedimenti espressi (comma 4).
Di rilievo anche il successivo art.4, rubricato “norme per la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti amministrativi”, secondo il cui comma 1, con regolamento da emanare ai sensi dell’art.17, comma 2, della legge 400.88 e successive modificazioni, previa intesa in sede di conferenza unificata di cui all’art.8 del decreto legislativo 281.97, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, sono dettate norme di semplificazione e accelerazione dei procedimenti amministrativi, sulla base delle seguenti norme generali regolatrici della materia:
- individuazione dei tipi di procedimento amministrativo relativi a rilevanti insediamenti produttivi, a opere di interesse generale o all’avvio di attività imprenditoriali, ai quali possono essere applicate le misure di cui alle lettere c) e seguenti;
- individuazione in concreto da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, nell’ambito dei tipi di procedimento indicati alla lettera a), dei singoli interventi con positivi effetti sull’economia o sull’occupazione per i quali adottare le misure di cui alle lettere c) e seguenti;
- previsione, per ciascuno procedimento, dei relativi termini, ridotti in misura non superiore al 50% rispetto a quelli applicabili ai sensi dell’art.2 della legge 241.90 e successive modificazioni;
- per i procedimenti di cui alla lettera b), attribuzione, previa delibera dei Consiglio dei Ministri, di poteri sostitutivi al Presidente del Consiglio dei Ministri o a un suo delegato;
- previsione, per i procedimenti in cui siano coinvolte Amministrazioni delle Regioni e degli enti locali, di idonee forme di raccordo per la definizione dei poteri sostitutivi di cui alla lettera d);
- definizione dei criteri di individuazione di personali in servizio presso Amministrazioni pubbliche, in possesso di specifiche competenze tecniche e amministrative, di cui possono avvalersi i titolari dei poteri sostitutivi di cui alla lettera d) senza riconoscimento di trattamenti retributivi ulteriori rispetto a quelli in godimento e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
2016
Il 13 aprile esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1450 alla cui stregua la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che la Pubblica amministrazione deve considerare anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento, non potendo considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento avviato ad istanza di parte deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al in cui tempo è stato adottato il provvedimento finale, e non al tempo della presentazione della domanda da parte del privato.
Ogni atto del procedimento amministrativo deve infatti per il Collegio essere regolato dalla legge del tempo in cui è emanato in dipendenza della circostanza onde lo jus superveniens reca sempre una diversa valutazione degli interessi pubblici pertinenti ratione materiae.
2017
Il 25 gennaio esce la sentenza della sezione I del Tar Basilicata n.96 onde la gara pubblica, non diversamente da ogni altra procedura concorsuale, deve essere espletata sulla base della normativa e delle regole vigenti alla data di pubblicazione del bando, sulla base del principio tempus regit actum, in quanto il bando è atto normativo ed obbliga la p.a. alla pertinente puntuale applicazione.
Pertanto, chiarisce il Collegio, lo ius superveniens non ha un effetto diretto sul procedimento di gara, dovendosi valorizzare anche il principio di tutela dell’affidamento delle imprese partecipanti, essendo evidente che verrebbero sacrificati principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse e assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle p.a. di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente alla adozione del bando ridetto.
Le norme sopravvenute, conclude la Sezione, non possono incidere su una procedura già in corso né sulle singole fasi autonome di essa che si siano già chiuse, che restano interamente disciplinate dalla normativa vigente al momento del loro abbrivio.
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L’8 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.2099, onde l’obbligo della P.A. di provvedere sull’istanza di un privato, necessario ai fini della formazione di un silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale, non è stabilito in via generale, ma va ravvisato solo quando esso si possa desumere da una norma di legge puntuale, ovvero anche da una norma di principio, che sia però, all’evidenza, chiaramente interpretabile in tal senso.
Tale regola – chiosa il Collegio – è espressione dello stesso principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., poiché un obbligo generale come quello che si esclude costringerebbe, in ultima analisi, l’Amministrazione ad un impegno sproporzionato di risorse di fronte a qualsivoglia istanza, per assurdo anche manifestamente infondata o soltanto emulativa.
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Il 30 giugno esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3234, onde l’obbligo della P.A. di provvedere – ai sensi dell’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69 – sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l’adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione.
Il ricondurre l’obbligo di provvedere nel termine procedimentale ai doveri di correttezza e buona amministrazione richiama, seppure indirettamente, un vincolo che già lega la PA al privato, facendo intravedere la foggia di un rapporto obbligatorio dalla cui violazione non può che discendere inadempimento pubblico.
2018
Il 26 luglio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.4577 onde alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo – salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.
L’art. 2-bis della legge sul procedimento infatti, chiosa il Collegio, correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.
2019
Il 3 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.2874 onde la normativa di cui all’art. 2, comma 3 della Legge n. 241/1990 non è compatibile con procedimenti (sanzionatori) regolati dalla Legge n. 689/1981 la quale è composta da un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell’interesse dell’incolpato, il rispetto di un termine così breve.
2020
Il 16 luglio viene varato il decreto legge n.76, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, il cui art.12 torna a modificare l’art.2 della legge 241.90.
Più nel dettaglio, dopo il comma 4 viene inserito un nuovo comma 4 bis alla cui stregua le Pubbliche Amministrazioni misurano e rendono pubblici i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Con DPCM, su proposta del Ministro per la Pubblica Amministrazione, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’art.8 del decreto legislativo 281.97, sono definite le modalità e i criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti di cui sopra.
Anche dopo il comma 8 viene inserito un nuovo comma 8 bis alla cui stregua le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14 bis, comma 2, lettera c), 17 bis, comma 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’art.14 ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, si cui all’art.19, comma 3 e 6 bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’art.21 nonies (c.d. autotutela di annullamento), ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.
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L’11 settembre viene varata la legge n.120 che converte con modificazioni il decreto legge n.76; ne risultano modificati i neo introdotti comma 4 bis e 8 bis dell’art.2 della legge 241.90.
Più in dettaglio, si chiarisce che i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per cittadini ed imprese vanno pubblicati da ciascuna PA nel proprio sito internet istituzionale, sezione “Amministrazione trasparente”, dovendo il DPCM prevedere ulteriori modalità di pubblicazione (nuoco comma 4 bis); viene poi limitata l’inefficacia dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’art.19, comma 6 bis, a quelli soli previsti nel primo periodo di detta norma (SCIA in materia edilizia).
2021
Il 12 gennaio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.584 alla cui stregua va qualificato come perentorio il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio condotto dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e ambiente (ARERA) ai sensi dell’art. 45, commi 5 e 6, D.Lgs. n. 93 del 2011, nonché del Regolamento di cui alla Deliberazione del 14 giugno 2012, n. 243/2012/E/com, configurandosi come illegittimo il provvedimento sanzionatorio adottato oltre la scadenza del termine stesso.
Per il Collegio, è utile ricostruire il quadro normativo di riferimento desumibile dal testo dell’art. 45, comma 5 e 6, d.lgs. n. 93 del 2011, nonché dalla deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com e dalla deliberazione del 13 marzo 2014, n. 102/2014/S/GAS, attuativa dei citati precetti normativi.
Secondo l’art. 45, comma 5 e 6, d.lgs. n. 93 del 2011: “5. Ai procedimenti sanzionatori dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas non si applica l’articolo 26 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Per i procedimenti medesimi, il termine per la notifica degli estremi della violazione agli interessati residenti nel territorio della Repubblica, di cui all’articolo 14, comma 2, della legge 24 novembre 1981, n. 689, è di centottanta giorni.
- L‘Autorità per l’energia elettrica e il gas disciplina, con proprio regolamento, nel rispetto della legislazione vigente in materia, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i procedimenti sanzionatori di sua competenza, in modo da assicurare agli interessati la piena conoscenza degli atti istruttori, il contraddittorio in forma scritta e orale, la verbalizzazione e la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie. Il regolamento disciplina altresì le modalità procedurali per la valutazione degli impegni di cui al comma 3 del presente articolo, nonché, i casi in cui, con l’accordo dell’impresa destinataria dell’atto di avvio del procedimento sanzionatorio, possono essere adottate modalità procedurali semplificate di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie”.
L’Autorità – rammenta a questo punto il Collegio – ha adottato il detto regolamento con deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com. La disciplina in questione chiarisce, tra l’altro, che:
“…il decreto legislativo 93/11 prevede che l’Autorità disciplini il procedimento sanzionatorio in modo da assicurare agli interessati la piena conoscenza degli atti istruttori, il contraddittorio in forma scritta e orale, la verbalizzazione e la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie;
- la disciplina dei procedimenti sanzionatori ha carattere speciale rispetto alla disciplina generale dei procedimenti individuali dell’Autorità dettata dal d.P.R 244/2001, nonché alla disciplina generale in materia di sanzioni amministrative, di cui alla legge 689/81 e in materia di procedimento amministrativo, di cui alla legge 241/90;
- il decreto legislativo prevede che il termine per la notifica degli estremi della violazione agli interessati residenti nel territorio della Repubblica, di cui all’art. 14, comma 2, della legge 689/81, sia di 180 giorni…”.
In ragione di ciò la deliberazione generale, da un lato, prende atto che il termine per la notifica degli estremi della violazione agli interessati residenti nel territorio della Repubblica è fissato dal comma 5 dell’art. 45, del d.lgs. n. 93 del 2011, che come visto prevede il termine di 180 giorni; dall’altro ritiene non opportuno fissare in via generale nel presente regolamento il termine massimo di conclusione del procedimento.
Ciò in considerazione della eterogeneità delle violazioni, della diversità degli elementi di volta in volta raccolti in fase preistruttoria a fondamento delle contestazioni e della conseguente diversa complessità dei procedimenti sanzionatori volti ad accertare le violazioni; l’Autorità valuta, quindi, che la sede migliore per fissare il termine massimo di conclusione del procedimento sia la singola e specifica delibera di avvio, in quanto solo in essa è possibile rapportare la durata del procedimento alla sua complessità. Nella premessa della delibera generale l’Autorità considera come ordinatori i termini del procedimento sanzionatorio.
Accade, dunque, nella fattispecie che la deliberazione del 13 marzo 2014, n. 102/2014/S/GAS, fissi in 180 giorni dalla notifica della deliberazione in questione il termine di durata dell’istruttoria e in 90 giorni da quest’ultimo il termine per l’adozione del provvedimento finale.
Pertanto, chiosa ancora il Collegio, il caso in esame è regolato da tre termini: I) 180 giorni per la notifica degli estremi della violazione agli interessati residenti nel territorio della Repubblica in omaggio a quanto disposto dall’art. 45, comma 5, d.lgs. 93/2011; II) ulteriori 180 giorni per il completamento dell’istruttoria ai sensi della deliberazione del 13 marzo 2014, n. 102/2014/S/GAS; III) ulteriori 90 giorni per l’adozione del provvedimento sanzionatorio ai sensi della deliberazione del 13 marzo 2014, n. 102/2014/S/GAS.
Il procedimento sanzionatorio si articola, quindi, in un fase preistruttoria in cui viene acquisito ogni elemento necessario ai fini di un eventuale avvio di procedimento sanzionatorio, anche attraverso accessi e ispezioni, richieste di informazioni e documenti, indagini conoscitive, reclami, istanze e segnalazioni. Al termine di questa prima fase l’Autorità decide se dare avvio ad un procedimento vero e proprio, attraverso la notifica della delibera di avvio del procedimento indica gli elementi essenziali già acquisiti, il responsabile del procedimento, l’Ufficio presso il quale può prendersi visione degli atti del procedimento e i termini di conclusione dell’istruttoria e del procedimento (art. 4 della deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com).
La detta notifica deve intervenire nei 180 giorni dall’accertamento dei presupposti per l’avvio del procedimento.
È evidente che la sussistenza degli elementi necessari per ritenere configurabile una condotta illecita è rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, non potendosi prevedere una casistica che a fronte dell’eterogeneità e complessità delle diverse ipotesi sclerotizzi detta scelta. Sicché, fatto salvo un sindacato di eccesso di potere sulla relativa scelta, è l’Autorità a fissare il momento in cui ritiene compiuto il detto accertamento preliminare.
Il procedimento prosegue con lo svolgimento dell’istruttoria, il cui termine può essere motivatamente prorogato per una sola volta nel caso in cui gli sviluppi procedimentali impongano una simile soluzione. In questa fase i soggetti interessati possono interloquire con l’amministrazione. Il procedimento, si conclude, quindi, con l’adozione del provvedimento finale.
Così ricostruita la disciplina, pare evidente al Collegio che il termine di 180 giorni abbia ad oggetto lo svolgimento dell’istruttoria e non la comunicazione delle relative risultanze, adempimento quest’ultimo previsto dall’art. 15 della deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com, ma non accompagnato dalla previsione di un termine. Pertanto, il cuore della doglianza contenuta nel primo motivo dell’odierno gravame si appunta sulla violazione del termine di conclusione del procedimento, come fissato dalla stessa Autorità.
In fatto – riprende a questo punto la Sezione – non può che rilevarsi che l’amministrazione appellata ha adottato il provvedimento sanzionatorio ben al di là (oltre i millequattrocento giorni) del complessivo termine di 270 giorni, indicato dalla stessa Autorità appellata quale termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, risultando sufficiente rilevare che l’avvio del procedimento è rappresentato dalla deliberazione del 13 marzo 2014, n. 102/2014/S/GAS, notificata in data 21 marzo 2014, e il provvedimento sanzionatorio è contenuto nella delibera 12/2018/S/GAS del 18 gennaio 2018, notificata il 31 gennaio 2018.
Pertanto, dalla qualificazione della natura giuridica del termine, se perentorio oppure ordinatorio, per l’adozione del provvedimento sanzionatorio finale, dipende la fondatezza o meno della censura in esame.
Com’è noto – chiosa a questo punto il Collegio – il modello delle Autorità amministrative indipendenti sul piano oggettivo-funzionale si connota per la titolarità di una funzione giusdicente, che assomma in se il potere di regolare e quello di decidere e si articola più in dettaglio, anche in relazione all’Autorità appellata, in compiti normativi, regolatori, di vigilanza, di controllo e monitoraggio, di accertamento, di risoluzione dei conflitti e sanzionatorio.
La particolare delicatezza del ruolo svolto dalle Autorità impone – anche in ragione del deficit di legittimazione democratica che le connota – l’applicazione di regole rafforzate in termini di trasparenza e di partecipazione ai procedimenti di cui le stesse sono titolari. Quest’esigenza è particolarmente avvertita in relazione all’esercizio del potere sanzionatorio.
D’altra parte, la questione in generale è se la potestà sanzionatoria in tale materia sia sottoposta a decadenza o soltanto a prescrizione, essendo notoriamente diverso il fatto giuridico “tempo” nei due istituti.
Nella prescrizione il tempo è durata; l’inerzia che dura nel tempo funge da fatto tendenzialmente estintivo del diritto (rectius, sorge nella controparte il diritto potestativo di eccepirla).
Nella decadenza, per una ragione anche di interesse pubblico superiore, il tempo è distanza: il potere va esercitato a non eccessiva distanza dai fatti che ne costituiscono il fondamento (per esempio, nei procedimenti disciplinari).
E’ evidente, tuttavia, che, in senso contrario, il riferimento al termine lungo di prescrizione potrebbe essere inteso con riguardo al solo diritto di escutere la prestazione patrimoniale (e non alla potestà sanzionatoria in sé considerata), una volta che però essa già sia sorta sulla base dell’esercizio del potere sanzionatorio.
Il Collegio sul tema in questione – importante per la particolare afflittività della potestà sanzionatoria, essendo i procedimenti sanzionatori “micromodelli” di processi penali laddove l’ordinamento ritiene sufficiente restare all’interno dell’ordinamento amministrativo – ravvisa l’esistenza di orientamenti non univoci all’interno della giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Contrasto, però, che non merita di essere sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria, sia perché il contenzioso sui procedimenti sanzionatori dell’Autorità appellata è affidato per intero alla VI Sezione, sia perché il cambio di orientamento, che la presente pronuncia testimonia, allinea la giurisprudenza della Sezione a quella delle altre Sezioni in relazione al contenzioso sui procedimenti sanzionatori di altre Autorità.
Un esame dei precedenti giurisprudenziali – precisa il Collegio – consente di ravvisare la presenza di due orientamenti interpretativi di segno palesemente opposto.
Secondo una prima tesi, ad esempio Cons. Stato Sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 911: “In tema di provvedimenti sanzionatori emessi dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, va osservato come nessuna disposizione di legge stabilisca una perentorietà dei termini di conclusione del procedimento, di guisa che sarebbe arbitrario, in quanto sfornito di base di legge, sostenere che lo spirare del termine fissato da AEEG nell’avvio del procedimento determinerebbe ipso iure l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato” (in senso conforme Cons. St., Sez. VI, 9 novembre 2020, n. 6891; Id., 19 febbraio 2018, n. 1053; Id., 8 luglio 2015, n. 3401; analogamente in relazione al procedimento sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato Cons. St., Sez. VI, 29 maggio 2018, n. 3197; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 22 settembre 2015, n. 5253; analogamente sul procedimento sanzionatorio dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici cfr. Cons. St., Sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 468).
Pertanto, il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, ove non diversamente previsto dalla legge, non sarebbe perentorio, ma soltanto ordinatorio. Tale conclusione è fondata sul rilievo che la perentorietà di un termine procedimentale, incidendo direttamente sulle situazioni degli interessati, potrebbe inferirsi soltanto da un’esplicita previsione legislativa, che espressamente correli al superamento di un dato termine un effetto decadenziale, di guisa che sarebbe arbitrario, in quanto sfornito di base legislativa, sostenere che lo spirare del termine fissato nell’avvio del procedimento determinerebbe ipso iure l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato.
Secondo tale prospettiva, il mancato rispetto dei termini, come tali fissati da regolamenti o da delibere generali dell’Autorità indipendente, avrebbero valenza soltanto ordinatoria, potendosi in tale caso dare rilievo soltanto a una “lunghezza eccessiva” del tempo impiegato, secondo il caso concreto.
Pertanto, il provvedimento intervenuto all’indomani dello spirare del termine di conclusione del procedimento non sarebbe illegittimo, purché intervenuto nel termine prescrizionale di cinque anni previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981.
Questa tesi richiama un orientamento della Cassazione (cfr. ex plurimis, Cass. sez. lav., 17 giugno 2003 n. 9680) in tema di ordinanza-ingiunzione del prefetto ex art. 18, l. 690/1981, che faceva prevalere il termine prescrizionale su quello procedimentale previsto dall’art. 2, l. 241/1990, ritenendo quest’ultimo troppo breve per assicurare il rispetto delle garanzie derivanti dal procedimento contenzioso che porta alla adozione della ordinanza-ingiunzione.
La disciplina in questione, così interpretata, dovrebbe ritenersi, in via generale, conforme alla Costituzione (v. sentenze Corte cost. 17 luglio 2002, n. 355, e 18 luglio 1997, n. 262), perché, anche se la decadenza dal potere sanzionatorio non si verifica, il privato non rimarrebbe senza difesa e, in particolare, non sarebbe esposto senza limiti di tempo alla possibilità di essere sanzionato, potendo esso per un verso attivare i rimedi processuali contro il silenzio, ed essendo, per altro verso, a norma dell’art. 28, comma 1, l. n. 689/1981 il diritto dell’amministrazione a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative assoggettato al termine di prescrizione di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione (sicché, con riguardo a tale ultimo profilo, il privato sarebbe garantito anche se rimanga inerte).
Inoltre, il carattere vincolato del provvedimento sanzionatorio sterilizzerebbe qualsivoglia efficacia caducante della violazione, non influendo sul diritto di difesa anche ai sensi di quanto disposto dall’art. 21-octies, l. 241/1990 (cfr. Cass. civ., Sez. II, 3 gennaio 2019, n. 4, Id. 20 gennaio 2004, n. 1065; Cass. Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20935).
In senso opposto – prosegue il Collegio – si rinviene un filone giurisprudenziale, che esprime la seguente massima: “In materia di sanzioni amministrative, il termine fissato per l’adozione del provvedimento finale ha natura perentoria, a prescindere da una espressa qualificazione in tali termini nella legge o nel regolamento che lo preveda”.
Si tratta di un orientamento relativo in particolare al procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia (Cons. St., Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; Id., 6 agosto 2013 n. 4113; Id., 29 gennaio 2013 n. 542), al procedimento sanzionatorio del MISE ai sensi dell’art. 124 RDL n. 1933/1938 (Cons. St., Sez. VI, 20 maggio 2011, n. 3015); al procedimento sanzionatorio disciplinato dall’art. 8, 4° comma, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, inerente il termine di centottanta giorni per la conclusione del procedimento fissato dal regolamento unico dell’Avcp, oggi Anac, (cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289; Cons. St. Sez. V, 3 ottobre 2018, n. 5695; Id., 3 maggio 2019, n. 2874); al procedimento sanzionatorio dell’IVASS, disciplinato dall’art. 5 comma 1, D.Lgs. n. 209 del 2005 (Cons. St., Sez. VI, 21 febbraio 2019, n. 2042); al procedimento sanzionatorio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni disciplinato dalla delibera Agcom n. 136/06 (Cons. St., Sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153).
Questo orientamento conclude per la natura perentoria del termine de quo, a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che lo preveda, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa dell’incolpato, avente come è noto protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.), oltre che per la esigenza di certezza dei rapporti giuridici e delle posizioni soggettive.
Ciò anche in quanto l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, in base all’art. 28 della legge n.689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per l’adozione dell’atto, equivarrebbe ad esporre l’incolpato ad un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa.
Gli argomenti a sostegno della tesi in esame sono i seguenti:
- a) la giurisprudenza del giudice ordinario formatasi in tema di sanzioni irrogate ai sensi della legge n. 689 del 1981 si sarebbe orientata nel senso di ritenere perentorio il termine fissato dall’art. 18 all’autorità competente per l’adozione della ordinanza-ingiunzione, dopo che le sezioni unite della Corte di Cassazione (27 aprile 2006, n. 9591) hanno rilevato il carattere perentorio o comunque la natura decadenziale del termine fissato all’autorità amministrativa per l’adozione del provvedimento sanzionatorio conclusivo;
- b) la particolarità del procedimento sanzionatorio assumerebbe carattere decisivo rispetto al generale paradigma del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990 (in cui è pacifico, per contro, che lo spirare del termine per provvedere non determina conseguenze invalidanti sul provvedimento tardivamente adottato), sicché in ragione del criterio di specialità e del criterio cronologico di risoluzione delle antinomie la disciplina generale del procedimento avrebbe carattere recessivo;
- c) pur non essendo necessaria un’espressa previsione di perentorietà del termine per provvedere, resterebbe nondimeno necessario che la normativa che regola lo specifico procedimento sanzionatorio contenga una norma primaria che, prevedendo termini, la cui determinazione potrebbe essere specificata da atti regolamentari o puntuali, per l’avvio e la conduzione del procedimento, e per la sua conclusione in deroga alle previsioni generali della L. n. 689 del 1981, consenta la qualificazione dei termini come termini perentori;
- d) le sanzioni si distinguerebbero in sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto. Le prime avrebbero una finalità ripristinatoria, in forma specifica o per equivalente, dell’interesse pubblico leso dal comportamento antigiuridico; le seconde avrebbero una finalità afflittiva, essendo indirizzate a punire il responsabile dell’illecito allo scopo di assicurare obiettivi di prevenzione generale e speciale. Le principali tipologie di sanzioni in senso stretto sarebbero pecuniarie, quando consistono nel pagamento di una somma di denaro, ovvero interdittive, quando impedirebbero l’esercizio di diritti o facoltà da parte del soggetto inadempiente. La disciplina generale delle sanzioni pecuniarie, modellata alla luce dei principi di matrice penalistica, è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Particolare ragionamento va svolto sulla base dei formanti giurisprudenziali sovranazionali in relazione alle sanzioni aventi natura afflittiva: se la sanzione ha natura afflittiva, la stessa dovrebbe essere sostanzialmente equiparata, ai fini della disciplina applicabile, ad una vera e propria sanzione penale.
La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale (o quasi penale) o meno di un illecito e della relativa sanzione.
In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza “intrinsecamente penale” della misura; ii) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhin c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10; si veda, da ultimo, su questi tre criteri, Cons. Stato, sez. VI, sentenza 26 marzo 2015, n. 1596, spec. par. 14).
Sempre a sostegno della natura perentoria del termine si aggiunga che:
- e) non si registrerebbe alcun contrasto con la posizione assunta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 20929 del 30 settembre 2009, poiché nel caso deciso dalle Sezioni Unite si trattava dell’osservanza del termine endoprocedimentale di centottanta giorni previsto dal regolamento Consob n. 12697 del 2 agosto 2006 per la formulazione della proposta sanzionatoria da parte della Consob al Ministero dell’economia (secondo la disciplina all’epoca vigente);
- f) non sarebbe utile il richiamo all’art. 21-octies, l. 241/1990, trattandosi nella fattispecie di un’attività di carattere discrezionale e non vincolato. I provvedimenti sanzionatori, infatti, sarebbero dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura, sia in ordine all’accertamento dei fatti ed alla loro qualificazione giuridica (per i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine alla quantificazione della sanzione. Pertanto, non potrebbe operare la previsione contenuta nel comma 2 primo periodo del citato art. 21-octies.
Così ricostruiti gli orientamenti sul tema, sussistono per il Collegio ulteriori e decisivi argomenti a favore del secondo degli orientamenti esposti, il che convince il Collegio medesimo ad andare in controtendenza rispetto alle precedenti pronunce della VI Sezione.
La circostanza che nei “considerato” (pag. 5) della deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com, l’ARERA svolga la seguente considerazione: “al di là della natura pacificamente ordinatoria dei termini dei procedimenti sanzionatori”, non ha efficacia decisiva ai fini della soluzione della presente controversia.
Da un lato infatti, chiosa la Sezione, non si è in presenza di locuzione avente valore normativo. Dall’altro, anche nel caso in cui l’ARERA avesse operato un’autoqualificazione del termine di conclusione del procedimento come ordinatorio, ciò non sottrarrebbe la detta operazione al sindacato di legittimità dell’odierno giudicante, trattandosi dell’esercizio del potere di autoorganizzazione che deve anche esso necessariamente svolgersi nel rispetto dei parametri legislativi e costituzionali.
L’affermazione secondo la quale la natura perentoria del termine di conclusione del procedimento deve essere accompagnata da un’esplicita previsione legislativa in tal senso, nella relativa rigidità, da un lato, presuppone che il legislatore possa disporre in via esclusiva di valori di rilievo costituzionale o convenzionale al punto di rimetterla ad un’espressa previsione. Dall’altro, porterebbe a concludere che anche qualora il legislatore costruisca una disciplina che premia la necessità del rispetto del termine di conclusione del procedimento in termini di normazione sostanziale, la mancanza di una locuzione esplicita ponga nel nulla l’impianto complessivo della disciplina. Infine, vedrebbe sminuito il ruolo dell’interprete, avallando un approccio esegetico cieco rispetto all’ìmperante pluralismo normativo delle fonti nazionali e sovranazionali.
È noto, infatti, al contrario come la ricerca di un non semplice equilibrio tra le fonti multilivello in ogni campo dell’amministrazione ha accresciuto, e non diminuito, l’importanza del momento interpretativo.
In una parola, non è escluso che la esigenza di fissazione di termini perentori a pena di decadenza possa essere soddisfatta, nel rispetto del principio di legalità sostanziale, da atti normativi secondari o generali a ciò autorizzati o al limite anche in sede di avvio del procedimento, con una autolimitazione della successiva attività.
Né rileva in materia il dettato dell’art. 2, l. 241/1990, norma di chiusura che prevede al comma 2 un termine di carattere generale pari a 30 giorni per la conclusione del procedimento. E ciò anche in ragione di quanto disposto dal successivo comma 5, secondo il quale: “Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza”.
In conformità a quest’ultimo principio, infatti, il comma 6 dell’art. 45, d.lgs. 93/2011 demanda ad un regolamento dell’Autorità appellata la disciplina dei procedimenti sanzionatori di propria competenza. Ossia la deliberazione del 14 giugno 2012 n. 243/2012/E/com, che come spiegato sopra prevede che il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio sia fissato di volta in volta dall’Autorità stessa in ragione della complessità della fattispecie.
Del pari, risulta assente a livello sostanziale una norma di carattere generale quale quella contenuta nel comma 2 dell’art. 152 c.p.c., secondo il quale: “I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”. Quest’ultimo precetto non può, infatti, che trovare applicazione in ambito processuale.
Il riferimento all’art. 28 della l. 689/1981 – prosegue ancora il Collegio – non convince, dal momento che sovrappone archetipi normativi affatto dissimili, ossia quello della legge generale sulle sanzioni amministrative con quello della disciplina sul procedimento sanzionatorio dell’ARERA, che riguarda l’esercizio di un potere di natura discrezionale.
Le differenze tra i due modelli, a ben vedere, sono plurime: a) la natura del potere esercitato; b) la tipologia di accertamento della violazione, che nel paradigma di riferimento per la l. 689/1981 ha carattere di immediatezza, quindi, di regola non prevede un accertamento a contraddittorio differito, ma un accertamento immediato ed in via eccezionale una contestazione se non contestuale, differita; c) il termine prescrizionale quinquennale di cui al citato art. 28, ben può essere recuperato anche con riferimento alla disciplina sul procedimento sanzionatorio dell’ARERA, potendosi distinguere tra termine decadenziale di conclusione del procedimento sanzionatorio entro il quale emettere il provvedimento sanzionatorio e determinare la sanzione pecuniaria e termine prescrizionale, quello appunto di cui all’art. 28, entro il quale riscuotere le dette somme.
Del resto merita di essere rammentato quanto dispone l’art. 2964 c.c., che distingue il regime giuridico della decadenza e della prescrizione, chiarendo che le norme relative all’interruzione e alla sospensione della prescrizione non si applicano all’istituto della decadenza, rimettendo, però, alle singole discipline l’individuazione dei casi di prescrizione e di decadenza.
Il riferimento alle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. 17 luglio 2002, n. 355, e 18 luglio 1997, n. 262) – prosegue ancora il Collegio – è impreciso e fonda su di una premessa erronea. Le sentenze in questione, infatti, ribadiscono il carattere di norma di chiusura dell’art. 2, l. 241/1990, che fissa il termine di trenta giorni per la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, affermando che l’inutile spirare dello stesso non comporta decadenza dall’esercizio del potere, ma connota in termini di illegittimità il comportamento dell’amministrazione.
Ciò legittima gli interessati ad insorgere a tutela della propria posizione soggettiva anche con lo strumento del risarcimento del danno (oltre che per la rimozione della inerzia).
Com’è chiaro le sentenze in questione anche per le fattispecie in concreto trattate (mancata adozione di un piano territoriale; approvazione definitiva degli elenchi dei beni sottoposti a vincolo paesistico, in presenza di una compilazione provvisoria, che com’è noto ha natura ricognitiva delle qualità del bene) non riguardano in alcun modo l’esercizio della potestà sanzionatoria.
La premessa erronea su cui tale tesi si fonda è il ritenere che il tempo dell’azione amministrativa sia uniforme rispetto a tutti i sistemi di relazione tra amministrazione e amministrato.
Questa conclusione non merita per il Collegio di essere condivisa, atteso che il tempo dell’agire amministrativo nel relativo valore intrinseco va declinato non in termini assoluti ma in termini relativi, mentre deve essere declinato in termini assoluti solo quando si rifletta sul suo valore estrinseco, ossia sulla pertinente rilevanza effettuale.
Il tempo dell’azione amministrativa, infatti, rappresenta una parentesi all’interno della quale la potestà amministrativa spiega efficacia attrattiva sulla sfera giuridica dell’amministrato.
La relazione che può generarsi è chiaramente poliforme e dipende dalla trama normativa di riferimento, nonché dagli interessi sostanziali in gioco. Pertanto, sia la potestà amministrativa che la posizione giuridica soggettiva dell’amministrato possono comporsi in modo differente.
Ciò ha condotto a elencare all’interno della stessa nozione di interesse legittimo, distinte classificazioni, così enucleate: a) interessi legittimi oppositivi (in senso stretto), spettanti ai diretti destinatari di un potere ablatorio; b) interessi legittimi pretensivi (in senso stretto), spettanti ai diretti destinatari di un potere ampliativo; c) interessi legittimi rivali, in capo ai partecipanti ad una procedura selettiva di natura concorsuale o competitiva; d) interessi legittimi ostili, configurabili in capo a coloro che sono terzi rispetto all’esercizio (pregiudizievole nei loro confronti) di un potere ampliativo; e) interessi legittimi alla legalità, da riconoscere in capo ai terzi pregiudicati dall’esercizio di un potere ad efficacia plurisoggettiva (o, se si preferisce, plurioffensiva); f) interessi legittimi dipendenti, intestati in capo a chi si trova in un rapporto di « dipendenza » con il titolare di uno dei precedenti tipi di interessi legittimi.
La esemplificazione di una pluralità di figure di interesse legittimo evidenzia la presenza di un diverso atteggiarsi della potestà pubblica, che a propria volta impone la presenza di regole sostanziali differenti nel delineare facoltà e obblighi dell’amministrazione e dell’amministrato.
Accettando questa visione, prosegue il Collegio, risulta insostenibile affermare il carattere assoluto nel relativo valore intrinseco del tempo dell’agire amministrativo.
Così nell’ipotesi in esame la previsione di un tempo procedimentale, la cui determinazione è rimessa all’amministrazione in ragione del singolo caso concreto, è difficile ritenere non debba garantire che il tempo dell’accertamento della violazione sia ravvicinato rispetto a quello della sua punizione.
A quanto appena sopra osservato, deve aggiungersi per la Sezione che il processo sanzionatorio (quasi penale) è di per sé una pena, e per cittadini e imprese i tempi moderni esigono certezze dei rapporti giuridici, per ulteriori plurime ragioni: a) la possibilità dell’amministrazione di provare la sussistenza della violazione si deteriora con il decorso del tempo; b) la possibilità per l’amministrato di offrire la prova contraria soffre la stessa sorte; c) l’effetto dissuasivo di prevenzione speciale è assicurato dall’esistenza di un lasso temporale ristretto tra contestazione della violazione e adozione del provvedimento sanzionatorio; d) lo stesso dicasi per l’effetto dissuasivo di prevenzione generale; e) in generale, il tempo ha la propria rilevanza come fatto giuridico e, in materia sanzionatoria, alla lunga, esso cancella ogni cosa.
Il tempo dell’agire amministrativo sostiene nell’ipotesi del potere sanzionatorio dell’ARERA il soddisfacimento di interessi che sono ulteriori rispetto al mero rilievo dell’avvenuta infrazione.
Ciò si coglie in modo chiaro anche dal considerando 34 della direttiva n. 2009/73/CE attuata dal d.lgs. 93/2011, secondo il quale: “Qualsiasi armonizzazione dei poteri delle autorità nazionali di regolamentazione dovrebbe comprendere i poteri di fornire incentivi alle imprese di gas naturale e di imporre sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive a tali imprese…”.
È evidente che il carattere effettivo e dissuasivo della sanzione è fortemente condizionato dal rispetto della tempistica procedimentale, poiché se l’irrogazione della sanzione avvenisse a distanza di tempo dalla relativa commissione e dal pertinente accertamento potrebbe fallire il suo obiettivo.
Risulta ragionevole, pertanto, affermare che in questo caso l’inutile decorso tempo dell’agire amministrativo ridonda in illegittimità del provvedimento sanzionatorio.
Una simile conclusione – prosegue il Collegio – è avvalorata anche se si considera il tempo dell’agire dell’amministrazione per la relativa valenza estrinseca e le implicazioni che ne derivano a livello processuale.
Il tempo dell’agire dell’amministrazione per la relativa valenza estrinseca ha carattere assoluto, come il tempo dell’agire umano, sottratto alle leggi della fisica quantistica, e scorre in una sola direzione.
Il processo amministrativo da sempre utilizza delle finzioni giuridiche per contrastare questa verità. Così la pronuncia costitutiva di annullamento del provvedimento compressivo della sfera giuridica del privato comporta, attraverso una qualificazione giuridica negativa, la rimozione ex tunc degli effetti del provvedimento stesso.
Ma una simile fictio non può spingersi sino al punto da restituire all’amministrato il tempo trascorso del procedimento, ossia “quel tempo” sprecato dall’amministrazione. Come l’annullamento del provvedimento di diniego può assegnare all’amministrato un “altro tempo” utile per vedere soddisfatto il suo interesse, così l’annullamento di un provvedimento sanzionatorio non può riportare indietro le lancette dell’orologio, restituendo all’amministrato “quel tempo” male utilizzato dall’amministrazione. In definitiva, il tempo dell’amministrazione è nel relativo valore intrinseco relativo e nel suo valore estrinseco assoluto.
Quanto ai mezzi di tutela giurisdizionale a valle del decorso del termine del procedimento, è piuttosto dubbio per il Collegio che l’esercizio dell’azione ai sensi dell’art. 31 c.p.a. sia sorretto da un valido interesse del ricorrente.
Nel procedimento sanzionatorio l’interesse dell’amministrato è quello di non essere sanzionato, ovvero è quello che il procedimento si concluda tempestivamente con un provvedimento a lui favorevole.
Pertanto, il predicare che il soggetto sottoposto a procedimento sanzionatorio abbia interesse a veder concluso il procedimento in qualsivoglia modo una volta sia decorso il termine ultimo per provvedere, sembra evocare una nozione di interesse legittimo inteso come interesse alla legittimità formale dell’azione amministrativa rispetto alla quale l’interesse del privato è solo occasionalmente protetto.
Al contrario, una visione contemporanea della nozione di interesse legittimo aprirebbe al più la strada ad un’azione atipica di accertamento dell’inutile decorso del termine per adottare il provvedimento sanzionatorio con ciò che ne consegue, ad esempio, in termini di venir meno delle misure cautelari medio tempore adottate dall’amministrazione procedente e di azione risarcitoria spiegata per i danni derivati dalla sottoposizione a procedimento per il rischio di subire un provvedimento sanzionatorio (si pensi al danno reputazionale societario).
Altra riflessione va svolta in relazione al binomio: regole di validità e regole di comportamento (sulla cui distinzione Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26725), per comprendere se la regola che stabilisce il termine entro il quale deve essere adottato il provvedimento sanzionatorio vada ricondotta nel primo o nel secondo gruppo.
La distinzione tra regole di validità e regole di comportamento si sviluppa nel diritto civile in relazione all’interpretazione dell’art. 1337 c.c. e dell’oscillazione tra il rimedio risarcitorio di cui al successivo art. 1338 c.c. e il rimedio invalidante sub specie di annullamento per vizio del consenso. Già all’interno della riflessione civilistica la relazione tra le dette regole è stata apprezzata non in termini di alternatività in astratto ovvero di non interferenza, quanto di verifica in concreto della portata della violazione del precetto di buona fede, ritenendosi che quest’ultima potesse essere limitata al fatto ovvero avere forza penetrante tale da colorare di antigiuridicità il regolamento contrattuale con ciò che ne consegue in termini di accesso alla tutela rimediale di annullamento nei casi previsti dalla legge o di nullità.
La trasposizione delle nozioni in questione nell’ambito del diritto amministrativo comporta una minore difficoltà, atteso che il legislatore ha da sempre ammesso il rimedio generale dell’annullamento per violazione di legge ed eccesso di potere, figure all’interno delle quali può essere pacificamente ricondotta la violazione di quelle regole comportamentali, che scandiscono l’agire dell’amministrazione.
Il ragionamento nel diritto amministrativo è, se vogliamo, rovesciato, nel senso che un atto amministrativo si presenta in genere come illegittimo e meritevole di annullamento per violazione delle regole di condotta dell’amministrazione, ossia dei principi generali che ne ispirano l’operare, ivi incluso il principio di buona fede.
Quest’ultimo del resto ai sensi del comma 2-bis dell’art. 1, l. 241/1990, introdotto dal d.l. 76/2020, deve improntare i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, unitamente al dovere di collaborazione. In via residuale il provvedimento amministrativo può essere legittimo, nonostante l’amministrazione abbia violato delle regole di comportamento e ciò, però, può generare un danno illecito che deve essere rimediato per equivalente.
L’ipotesi tipica è quella del danno da ritardo per provvedimento amministrativo favorevole.
Si tratta sempre di un esercizio illegittimo della discrezionalità amministrativa, ma che non prevede per il relativo destinatario una tutela giurisdizionale che passa per la caducazione del provvedimento.
Questa conclusione potrebbe portare anche ad un ripensamento di quanto statuito dall’Adunanza Plenaria n. 2/2018, secondo la quale la buona fede sarebbe una regola di diritto privato, che ha ad oggetto il comportamento e genera sempre soltanto una responsabilità per la condotta tenuta.
Il legislatore con la novella del 2020 ha, infatti, inteso colmare espressamente l’assenza del riferimento alla buona fede nella disciplina generale sul procedimento, sicché l’agire pubblicistico dell’amministrazione risulta interamente normato da regole di diritto pubblico, che scandiscono a tutto tondo la relazione tra potestà e interesse legittimo.
Cade, quindi, per la relazione pubblicistica tra amministrazione e amministrato, la necessaria qualificazione: regole di condotta di diritto privato e regole di validità di diritto pubblico, il che dovrebbe condurre anche ad un ripensamento sulla correttezza dell’orientamento della Suprema Corte in tema di giurisdizione sulle controversie in tema di responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle” 23 maggio 2011, nn. 6594, 6595, 6596; Cass. civ., sez. un., 22 gennaio 2015, n. 1162 e Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2015, n. 17586).
Non a caso dunque la violazione del termine di conclusione del procedimento e dell’affidamento ingenerato nel privato viene indicata quale una ipotesi tipica di violazione di una regola di comportamento piuttosto che di una violazione di una regola di validità.
Sennonché, specie nel diritto amministrativo non risulta corretta l’individuazione a priori di regole di validità e regole di comportamento all’interno della relazione tra potestà dell’amministrazione e interesse legittimo dell’amministrato, giacché il mancato rispetto della regola non è in grado di descrivere in se la lesione generata ed il rimedio appropriato per fronteggiarla. Emblematica è l’ipotesi della violazione della regola che fissa il termine finale per adottare il provvedimento sanzionatorio pecuniario. In questo caso – chiosa il Collegio – per le ragioni sopra esposte, la regola si presenta come regola di validità e la lesione è rimediabile solo attraverso la caducazione dell’atto.
Del resto anche sotto il profilo rimediale non avrebbe alcun senso ritenere che l’amministrato possa invocare la sola tutela risarcitoria, riducendo la relazione giuridica con l’Autorità ad un rapporto reciproco di dare/avere, ossia di sanzione pecuniaria versus risarcimento del danno.
L’impostazione chiovendiana del processo, che ha oramai permeato il giudizio amministrativo, impone, infatti, di assicurare al ricorrente la tutela effettiva che può in concreto ottenere in termini di eliminazione della lesione subita piuttosto che in termini di pallida vittoria, che da un lato non ripristina la sfera giuridica del ricorrente; dall’altro non consente di orientare efficacemente per il futuro l’agire dell’amministrazione.
Un’ultima riflessione – conclude il Collegio – deve essere riservata al ruolo svolto dall’art. 6 CEDU in relazione al procedimento sanzionatorio delle Autorità indipendenti all’indomani della pronuncia della Corte europea diritti dell’uomo Sez. II, 04 marzo 2014, n. 18640 (caso Grande Stevens contro Italia).
La riflessione si rende necessaria – precisa la Sezione – dal momento che la sanzione oggetto del presente giudizio risulta soddisfare i cd. criteri Engel (Corte europea diritti dell’uomo, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherlands), trattandosi di un provvedimento che ha natura afflittivo-deterrente, come spiegato sopra, e che può colpire la generalità dei soggetti sottoposti al potere sanzionatorio dell’Autorità e che si caratterizza per la sua severità.
La sanzione pecuniaria, infatti, ai sensi dell’art. 31 Del. 243 del 14.6.2012 recante “Regolamento per la disciplina del procedimento sanzionatori e delle modalità procedurali per la valutazione degli impegni” trova il parametro di quantificazione della sanzione “nell’ultimo esercizio chiuso prima dell’avvio del procedimento sanzionatorio”.
Quanto all’operatività delle garanzie previste dall’art. 6 CEDU con riferimento ai procedimenti sanzionatori delle Autorità indipendenti deve segnalarsi l’orientamento della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. II, 3 gennaio 2019, n. 4; Id. n. 4725/2016), secondo il quale: “in materia di irrogazione di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua dei criteri della Corte EDU, natura sostanzialmente penale – gli Stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione EDU già nella fase amministrativa (nel qual caso, nella logica di tale Convenzione, una fase giurisdizionale non sarebbe nemmeno necessaria) o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie) ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della Convenzione. Nel secondo caso, non può ritenersi che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 della Convenzione, e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità, al contrario, il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. della Convenzione, risulta ab origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perché è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo”.
La tesi della Cassazione che esclude la presenza di un contrasto tra la norma convenzionale e il procedimento amministrativo sanzionatorio viene in rilievo nella fattispecie in relazione alla verifica del rispetto del principio convenzionale che impone che la decisione pervenga entro un termine ragionevole.
Tanto premesso il ragionamento della Cassazione non convince, atteso che la circostanza che il successivo processo amministrativo si svolga secondo un modello pienamente aderente ai dettami dell’art. 6 CEDU non consente di recuperare il tempo del procedimento sanzionatorio inutilmente decorso, sicché risulta difficile sostenere che il termine ragionevole non rispettato all’interno di quest’ultimo possa essere sanato da quello ragionevole entro il quale può svolgersi il giudizio amministrativo.
Ciò porta, quindi, ad interrogarsi sulle conseguenze del fatto che l’appellante sia rimasto a lungo, ben al di là del termine fissato dalla stessa ARERA, sottoposto a procedimento sanzionatorio.
In ragione di ciò non sembra utile invocare il carattere complesso della vicenda, anche se va rilevato che il meccanismo normativo prevede che sia la stessa Autorità a stabilire di quanto tempo abbia bisogno per pervenire ad una decisione definitiva, potendosi altresì prevedere anche normativamente esigenze di prolungamento giustificato della istruttoria.
In definitiva, se la questione della natura perentoria o meno dei termini per la conclusione dei procedimenti sanzionatori si può ritenere relativamente di semplice definizione, ciò che va anche considerato è che è inaccettabile la oscillazione di comportamenti, in un campo così delicato per operatori economici, imprese e cittadini e in presenza della sempre più pressante domanda del bene giuridico della certezza del diritto.
Tanto premesso, deve ritenersi per il Collegio che il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio promosso dall’Autorità appellata abbia natura perentoria, sicché il pertinente superamento inficia il provvedimento sanzionatorio impugnato, con ciò che ne consegue in termini di illegittimità dello stesso.
* * *
Il 31 maggio viene varato il decreto legge n.77, recante Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure, il cui art.61 torna ad incidere sull’art.2 della legge 241.90.
Più in specie, viene sostituito il primo periodo del comma 9 bis, onde – secondo il nuovo testo – l’organo di governo individua un soggetto nell’ambito delle figure apicali dell’Amministrazione o una unità organizzativa cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia; al soggetto viene dunque affiancata, in ottica di potere sostitutivo, anche la c.d. unità organizzativa.
Viene modificato anche il comma 9 ter onde, alla stregua del nuovo testo, decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7, il responsabile o l’unità organizzativa di cui al comma 9 bis, d’ufficio o su richiesta dell’interessato, esercita il potere sostitutivo e, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.
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Il 15 giugno esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.16936, che si occupa di una fattispecie di ritardo nella prestazione di una struttura sanitaria.
La Corte rileva in primis come sia la stessa Azienda a ritenere che il rapporto con il paziente sia, nel caso di specie, di natura contrattuale, ed anzi, nell’esporre il primo motivo, proprio l’Azienda richiama la copiosa giurisprudenza a sostegno di tale qualificazione; il che significa che l’onere della prova della natura della responsabilità, o meglio della fonte di tale responsabilità è stato assolto dal paziente; o perlomeno che era pacifico che la fonte del rapporto stava in un contratto e che dunque la responsabilità attribuita alla Azienda era di tipo contrattuale, con conseguente riflesso sull’onere della prova.
Senza tacere – prosegue la Corte – del fatto che il giudice di merito non ha affatto disatteso il significato dell’art. 2697 c.c., in quanto, data per ammessa la natura contrattuale del rapporto, ed accertato l’inadempimento, che la corte ha ritenuto provato dal paziente – in quanto ha ritenuto che l’intervento era urgente, se non per salvare la vita, per evitare danni irreparabili – ha conseguentemente e correttamente ritenuto che gravasse sull’Azienda la prova liberatoria, ossia la prova che il ritardo della prestazione non fosse imputabile, conformemente alla regola probatoria in tema di responsabilità contrattuale.
Precisato dunque che l’onere della prova è stato correttamente ripartito, è infondato per la Corte il primo motivo, o meglio inammissibile, in quanto mira a contestare l’accertamento in fatto circa l’inadempimento della prestazione.
Il giudice territoriale ha, con motivazione adeguata, ritenuto che l’intervento fosse urgente e che il relativo differimento fosse ingiustificato, ossia che l’Azienda non ha dimostrato che era inevitabile differirlo; questo accertamento in fatto non può essere qui messo in discussione, essendo peraltro adeguatamente motivato dalla corte di merito, che indica le circostanze fattuali ed anche documentali (cartella clinica ed altro) da cui ha ricavato questa convinzione.
Posto allora che si deve ritenere per accertato il ritardo ingiustificato nell’intervento, viene meno anche il secondo motivo, che è connesso altresì con un argomento di censura contenuto nel primo, ossia la responsabilità addebitabile al paziente nella mancata esecuzione della prestazione: ritiene l’Azienda che, innanzitutto, la decisione di portare via il paziente sia da ritenersi contraria a correttezza, nel senso che la controparte non ha cooperato al fine di consentire l’adempimento della prestazione e, per altro verso, vada letta come causa di una impossibilità sopravvenuta di quella stessa prestazione, resa cioè impossibile proprio da detto trasferimento del paziente, causa imputabile ai suoi congiunti.
Questa lettura – chiosa tuttavia la Corte – cade se cade la premessa, ossia che l’adempimento fosse ancora possibile, non vi fosse cioè ritardo, e che conseguentemente a renderlo impossibile sia stata la controparte.
Se questa premessa viene meno, e si accede alla ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, secondo cui, invece, il ritardo era ingiustificato non avendo l’Azienda dimostrato che non aveva modo di intervenire sul paziente a causa delle sopravvenienze più gravi; se questa ricostruzione in fatto è tenuta ferma, e come si è detto, non può essere messa qui in discussione, né per certi versi lo è stata adeguatamente (ossia sotto gli unici profili possibili, di difetto di motivazione o errore percettivo), allora ovviamente ne deriva che la condotta del paziente, meglio dei relativi congiunti, non è né in violazione del dovere di correttezza né costituisce causa di una – colpevole dunque- impossibilità sopravvenuta: si tratta invece della condotta conseguente all’inadempimento altrui, volta ad evitare un danno maggiore.
In altri termini, l’accertamento in fatto che ad essere inadempiente è stata l’Azienda, esclude, per logica conseguenza, che possa invece la mancata soddisfazione dell’interesse del creditore essere imputata a condotta colpevole di quest’ultimo, esclude cioè l’inadempimento della controparte; né è mai stata prospettata, neanche nei gradi precedenti, una qualche ipotesi di inadempimento reciproco.
* * *
Il 12 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.151 che – pur con un monito al Legislatore – dichiara (al momento) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Venezia, in composizione monocratica, con le ordinanze in epigrafe.
Quanto alle eccezioni di inammissibilità delle questioni, è in primo luogo fondata per la Corte quella dedotta dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione all’art. 117, primo comma, Cost., per essere stato detto parametro evocato genericamente con riferimento alla intervenuta applicazione del principio del legittimo affidamento da parte della Corte di giustizia.
Infatti, mancano nelle ordinanze di rimessione l’indicazione delle norme interposte e un sia pur minimo percorso argomentativo a supporto della denunciata illegittimità costituzionale. Inoltre, il giudice a quo non svolge alcuna puntuale considerazione sulle specifiche ragioni di contrasto tra il diritto nazionale ed i parametri interposti, dei quali non e` illustrata, neppure in termini sommari, la concreta portata precettiva.
Le evidenziate carenze, impedendo di identificare il denunciato vulnus costituzionale, conducono inevitabilmente alla declaratoria di inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 311 del 2013).
Ancora, con riferimento agli altri parametri, è fondata ed assorbente per la Corte l’eccezione di inammissibilità con la quale tanto il Comune di Venezia, quanto il Presidente del Consiglio dei ministri sottolineano come la reductio ad legitimitatem auspicata dal rimettente postuli un’addizione non obbligata, la cui scelta è prioritariamente affidata alla discrezionalità del legislatore.
L’esame della eccezione richiede – premette il Collegio – una sintetica ricostruzione del contesto normativo in cui si colloca la disposizione censurata.
Il procedimento sanzionatorio regolato dalla richiamata legge n. 689 del 1981, recante la disciplina generale sulle violazioni amministrative, si articola in due fasi distinte, la prima delle quali, affidata agli organi di vigilanza, è deputata all’acquisizione di elementi istruttori, e la seconda, avente natura lato sensu contenziosa e decisoria, è preordinata all’adozione, da parte dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, di un atto complesso, l’ordinanza-ingiunzione, di applicazione della sanzione pecuniaria e di ingiunzione del relativo pagamento, ovvero dell’ordinanza di archiviazione.
L’elemento di raccordo tra gli indicati snodi procedimentali è costituito dalla contestazione dell’illecito, la quale, a norma dell’art. 14 della legge n. 689 del 1981, se non è effettuata nell’immediatezza dell’accertamento, deve essere notificata «agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all’estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall’accertamento». Il superamento di tale termine – che decorre dal momento in cui si è compiuta o si sarebbe dovuta compiere l’attività amministrativa necessaria a verificare l’esistenza dell’infrazione – è espressamente sanzionato con l’estinzione dell’obbligazione pecuniaria.
Analogo termine – prosegue la Corte – non è, invece, contemplato per la conclusione della fase decisoria, in quanto il censurato art. 18, al primo comma, dispone che, «[e]ntro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono far pervenire all’autorità competente a ricevere il rapporto a norma dell’art. 17 scritti difensivi e documenti e possono chiedere di essere sentiti dalla medesima autorità», e al secondo comma che «[l]’autorità competente, sentiti gli interessati, ove questi ne abbiano fatto richiesta, ed esaminati i documenti inviati e gli argomenti esposti negli scritti difensivi, se ritiene fondato l’accertamento, determina, con ordinanza motivata, la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese, all’autore della violazione ed alle persone che vi sono obbligate solidalmente; altrimenti emette ordinanza motivata di archiviazione degli atti comunicandola integralmente all’organo che ha redatto il rapporto».
L’unico termine assegnato all’autorità decidente è, dunque, quello di prescrizione quinquennale del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 della citata legge n. 689 del 1981.
Deve essere, tuttavia, rammentato per il Collegio che, a differenza di quanto previsto dalla legge generale sulle sanzioni amministrative, per alcuni trattamenti sanzionatori regolati da fonti normative settoriali, come il decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), il legislatore ha previsto sia un termine prescrizionale, sia uno, di natura decadenziale, entro il quale deve essere emesso il provvedimento sanzionatorio.
Talora il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio è stabilito dalla stessa autorità competente in via regolamentare, oppure, di volta in volta, in sede di avvio dell’iter procedimentale. Emblematica, al riguardo, è l’esperienza delle autorità amministrative indipendenti, il cui potere sanzionatorio, pur inserendosi nella più complessa funzione di vigilanza e di controllo, è comunque soggetto alla legge n. 689 del 1981 (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 8 luglio 2015, n. 3401).
Per il Collegio nel procedimento sanzionatorio, riconducibile nel paradigma dell’agere della pubblica amministrazione, ma con profili di specialità rispetto al procedimento amministrativo generale, rappresentando la potestà sanzionatoria – che vede l’amministrazione direttamente contrapposta all’amministrato – la reazione autoritativa alla violazione di un precetto con finalità di prevenzione, speciale e generale, e non lo svolgimento, da parte dell’autorità amministrativa, di un servizio pubblico (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 15 luglio 2014, n. 15825), l’esigenza di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, da parte dei consociati, delle conseguenze derivanti dall’esercizio dei pubblici poteri, assume una rilevanza del tutto peculiare, proprio perché tale esercizio si sostanzia nella inflizione al trasgressore di svantaggi non immediatamente correlati alla soddisfazione dell’interesse pubblico pregiudicato dalla infrazione.
Infatti, in materia di sanzioni amministrative, il principio di legalità non solo, come evidenziato dalla stessa Corte, impone la predeterminazione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere, della configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, della tipologia e della misura della sanzione stessa e della struttura di eventuali cause esimenti (sentenza n. 5 del 2021), ma deve necessariamente modellare anche la formazione procedimentale del provvedimento afflittivo con specifico riguardo alla scansione cronologica dell’esercizio del potere.
Ciò in quanto la previsione di un preciso limite temporale per la irrogazione della sanzione costituisce un presupposto essenziale per il soddisfacimento dell’esigenza di certezza giuridica, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla tempestiva definizione della propria situazione giuridica di fronte alla potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, nonché di prevenzione generale e speciale.
Inoltre, la fissazione di un termine per la conclusione del procedimento non particolarmente distante dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito, consentendo all’incolpato di opporsi efficacemente al provvedimento sanzionatorio, garantisce un esercizio effettivo del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. ed è coerente con il principio di buon andamento ed imparzialità della PA di cui all’art. 97 Cost.
Alla peculiare finalità del termine per la formazione del provvedimento nel modello procedimentale sanzionatorio corrisponde – prosegue la Corte – una particolare connotazione funzionale del termine stesso.
Mentre nel procedimento amministrativo il superamento del limite cronologico prefissato dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio da parte della pubblica amministrazione delle proprie attribuzioni non incide ex se, in difetto di espressa previsione, sul potere (sentenze n. 176 del 2004, n. 262 del 1997), in quanto il fine della cura degli interessi pubblici perdura nonostante il decorso del termine, la predefinizione legislativa di un limite temporale per la emissione della ordinanza-ingiunzione il cui inutile decorso produca la consumazione del potere stesso risulta coessenziale ad un sistema sanzionatorio coerente con i parametri costituzionali sopra richiamati.
A fronte della specifica esigenza di contenere nel tempo lo stato di incertezza inevitabilmente connesso alla esplicazione di una speciale prerogativa pubblicistica, quale è quella sanzionatoria, capace di incidere unilateralmente e significativamente sulla situazione giuridica soggettiva dell’incolpato, non risulta adeguata la sola previsione del termine di prescrizione del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981.
Esso, al di là della varietà delle ipotesi ricostruttive cui la natura “ibrida” della nozione legislativa ha dato adito – che ne individuano l’oggetto ora nel diritto di credito dell’autorità competente, ora nell’illecito, ora nello stesso potere sanzionatorio – identifica il margine temporale massimo dell’inerzia dell’amministrazione, superato il quale l’ordinamento presume il venir meno dell’interesse pubblico a dare attuazione alla pretesa punitiva.
L’ampiezza di detto termine, di durata quinquennale e suscettibile di interruzione, lo rende inidoneo a garantire, di per sé solo, la certezza giuridica della posizione dell’incolpato e l’effettività del suo diritto di difesa, che richiedono contiguità temporale tra l’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione.
Ciò posto, deve, tuttavia, rilevarsi per il Collegio che la omissione legislativa denunciata dal rimettente non può essere sanata dalla Corte, essendo rimessa alla valutazione del legislatore l’individuazione di termini che siano idonei ad assicurare un’adeguata protezione agli evocati principi costituzionali, se del caso prevedendo meccanismi che consentano di modularne l’ampiezza in relazione agli specifici interessi di volta in volta incisi.
Nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni in esame – in ragione del doveroso rispetto della prioritaria valutazione del legislatore in ordine alla individuazione dei mezzi più idonei al conseguimento di un fine costituzionalmente necessario (sentenza n. 23 del 2013) – la Corte assume tuttavia di non potersi esimere dal sottolineare che il protrarsi della segnalata lacuna normativa rende ineludibile, per le ragioni dianzi poste in evidenza, un tempestivo intervento legislativo.
Tale lacuna, infatti, colloca l’autorità titolare della potestà punitiva in una posizione ingiustificatamente privilegiata che, nell’attuale contesto ordinamentale, si configura come un anacronistico retaggio della supremazia speciale della pubblica amministrazione.
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Il 31 agosto esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.6119 alla cui stregua, per quanto di interesse ratione materiae, la potestà sanzionatoria dell’ANAC non può essere espressa sine die, ostando a ciò elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei comportamenti dei soggetti attivi cui la sanzione si indirizza.
Va sottolineata per il Collegio la necessità di evitare che i tempi dilatati del procedimento divengano ragione di insicurezza giuridica per gli interessi degli operatori economici coinvolti dal procedimento sanzionatorio, sia nella fase iniziale, quando la vicinanza della contestazione al momento di commissione del fatto addebitato è indispensabile per consentire di apprestare al meglio la difesa, sia in riferimento alla durata complessiva del procedimento.
Per il Collegio gli stessi tempi di avvio del procedimento sanzionatori dell’ANAC rivestono carattere perentorio e rispondono all’esigenza di evitare che l’impresa possa essere esposta a tempo indefinito all’applicazione delle pertinenti sanzioni.
Più nel dettaglio, in materia di tempi dei procedimenti sanzionatori affidati all’Anac, il Consiglio di Stato rammenta di aver già avuto modo di considerare che l’esercizio di siffatta potestà non può restare esposta sine die, ciò ostando a elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei comportamenti e di sottolineare la necessità di evitare che i tempi dilatati del procedimento divengano ragione di insicurezza giuridica per gli interessi degli operatori economici coinvolti, sia nella fase iniziale, “quando la vicinanza della contestazione al momento di commissione del fatto addebitato è indispensabile per consentire di apprestare al meglio la difesa”, sia in riferimento alla durata complessiva del procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 ottobre 2018 n. 5695).
Con particolare riferimento ai tempi di avvio del procedimento di cui trattasi, il Consiglio ha già posto in risalto come il loro carattere perentorio discenda dalla natura afflittiva delle sanzioni applicate al suo esito, e risponda all’esigenza di evitare che l’impresa possa essere esposta a tempo indefinito all’applicazione delle sanzioni stesse (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13 dicembre 2019 n. 8481; Sez. VI, 8 aprile 2019 n. 2289 e 11 giugno 2019 n. 3919).
Del resto, il Regolamento unico di cui trattasi nel caso di specie costituisce promanazione della norma primaria di cui all’art. 8, comma 4, d.lgs. 163/2006, che stabilisce che “Il regolamento dell’Autorità disciplina l’esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità nel rispetto dei principi della tempestiva comunicazione dell’apertura dell’istruttoria, della contestazione degli addebiti, del termine a difesa, del contraddittorio, della motivazione, proporzionalità e adeguatezza della sanzione, della comunicazione tempestiva con forme idonee ad assicurare la data certa della piena conoscenza del provvedimento, del rispetto degli obblighi di riservatezza previsti dalle norme vigenti”.
Ciò posto, l’art. 40, comma 2, del Regolamento fa emergere che, ai fini del rispetto del termine perentorio di sessanta giorni di cui al primo periodo, occorre avere riguardo, da un lato, alla “acquisizione della documentazione e/o delle informazioni utili alla formulazione di una contestazione di addebiti” (dies a quo), dall’altro, “all’invio della comunicazione di avvio del procedimento in Consiglio per la necessaria approvazione” (dies ad quem); nel secondo periodo la norma stabilisce poi che, in caso di approvazione, la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio va effettuata entro 30 giorni dal relativo deliberato.
La tempistica dell’articolato andamento procedimentale così come complessivamente delineato, nel soddisfare le esigenze “esterne” menzionate al capo che precede, riflette anche, segnatamente con il termine perentorio del primo periodo, una evidente esigenza “pura” di garanzia dell’efficienza dell’azione amministrativa.
Tanto chiarito, si osserva da parte del Collegio che, alla luce della puntuale formulazione della previsione sopra riprodotta, ciò che deve intervenire ai fini del suo rispetto è l’inoltro da parte della competente U.O.R. della proposta di avvio del procedimento al Consiglio dell’Autorità per acquisirne l’approvazione.
Non rileva, invece, la data dell’approvazione della proposta da parte dell’organo deliberante, nonché quella, ulteriore, della comunicazione all’interessata.
Tale adempimento, nel caso di specie, è stato effettuato dagli uffici in data 19 febbraio 2018 (con nota 15554), tenendo conto che fino ad ottobre del 2017 l’impresa ha potuto produrre memorie difensive ed essere ascoltata (l’audizione è del 24 ottobre 2017), producendo ulteriori memorie in data 23 febbraio 2018, mentre il provvedimento del Consiglio dell’Autorità è del (di poco successivo) 28 marzo 2018 (delibera n. 311).
Deriva da tutto quanto sopra – conclude la Sezione – che la tardività riscontrata dal primo giudice con riferimento al procedimento sanzionatorio in esame non pare essere confermata dalle risultanze documentali.
Questioni intriganti
Che cosa si intende per “procedimento amministrativo”?
- occorre muovere in proposito dalla nozione di interesse pubblico, quale interesse dello Stato Comunità che le Pubbliche Amministrazioni, quali parti dello Stato Apparato, sono chiamate a perseguire nella pertinente veste di interesse ad esse alieno;
- proprio l’interesse pubblico identifica la “causa” del potere pubblico che la legge affida all’Amministrazione funzionalizzandolo al perseguimento del ridetto interesse;
- l’azione della PA deve connotarsi per imparzialità ed efficacia ex art.97 Cost., e proprio questo impone che tale azione sia presidiata da regole che garantiscano tale specifica foggia;
- proprio per questo, l’operatività delle Pubbliche Amministrazioni si dipana attraverso, di norma, sequenze di atti tra loro connessi dette “procedimenti amministrativi”;
- è proprio il bacino procedimentale a far affiorare infatti quella congerie di interessi pubblici e privati attinenti alla singola fattispecie amministrativa che sono rimessi alla ponderazione dell’Amministrazione nell’ottica di un imparziale ed efficace perseguimento dell’interesse pubblico;
- il procedimento è stato storicamente letto: f.1) in modo più formale e “strumentale”: esso si risolve in un avvicendarsi plurifasico di atti ed operazioni, talvolta anche tra loro eterogenei, orientato all’adozione di un provvedimento amministrativo, che ne costituisce il solo e più autentico protagonista; f.2) in modo più sostanziale e “funzionale”; esso compendia la “forma della funzione amministrativa” e si atteggia a bacino di ponderazione dei diversi interessi, pubblici e privati, che quella funzione amministrativa coinvolge; in questa diversa prospettiva, è il procedimento che dà foggia all’esercizio del potere amministrativo, costituendo il fulcro del pertinente dipanarsi in funzione di un provvedimento finale che non può che costituirne il risultato ultimo;
- proprio muovendo dalla concezione “sostanziale” del procedimento amministrativo – sul prototipo partecipativo statunitense riassumibile nella formula dell’”interest representation model” – si è stratificato il fondamento dogmatico dal quale è alfine affiorata la legge 241.90, in un’ottica garantistica orientata a consentire al privato coinvolto nella funzione amministrativa (e nell’esercizio del pertinente potere, funzionalizzato al perseguimento di un dato interesse pubblico) di dialogare con la PA “procedente” in ottica rappresentativa dei propri interessi, per l’appunto, privati, potenzialmente conculcabili dal potere dell’Amministrazione, con valorizzazione in specie dei principi di proporzionalità e di affidamento di scaturigine europea.
Cosa occorre rammentare in generale della legge 241.90 sul c.d. “procedimento amministrativo” e delle relative fasi?
- si tratta di una legge che cerca di colmare una grave lacuna della nostro sistema normativo anteriore, vale a dire la mancanza – per l’appunto – di una legge generale sul procedimento amministrativo;
- ciò, sul crinale pubblico, implicava una amplissima discrezionalità dell’Amministrazione nella gestione complessiva del potere e nella conduzione della sequenza di atti che conducevano al provvedimento finale;
- sul versante privato, si assisteva invece al difetto di qualsivoglia coinvolgimento del destinatario del provvedimento finale nel “farsi” dell’azione pubblica, al ridetto provvedimento immediatamente antecedente, in termini di partecipazione ed apporto di fatti ed evenienze utili alla miglior decisione nello stesso interesse pubblico;
- tra le novità più importanti introdotte nel sistema dalla legge 241.90 vi è proprio la garantita partecipazione del privato al “farsi” della scelta pubblica nel contesto del singolo rapporto amministrativo, con progressivo superamento della unilateralità tipica della fase precedente: il “diritto” riconosciuto ex lege al privato di partecipare all’azione della PA “procedente” gli consente infatti di “replicare” rispetto a determinate scelte della PA medesima prima che esse vengano consacrate in un provvedimento finale (comunque poi rimovibile in sede di autotutela o impugnabile in sede giurisdizionale); solo nel caso dei procedimenti che debbano concludersi con provvedimenti di carattere generale, come nel caso degli atti normativi (massime, dei regolamenti), degli atti amministrativi generali (come nel caso dei bandi di gara o di concorso) ovvero degli atti di pianificazione e programmazione (si pensi, esemplificativamente, al PRG, Piano Regolatore Generale), la partecipazione risulta fortemente ridimensionata e, anzi, esclusa tout court, ai sensi dell’art.13 della legge 241.90 (salvo il caso in cui a “procedere” siano Autorità indipendenti, connotate da deficit democratico);
- accanto al canone della partecipazione e dunque, in sostanza, della “trasparenza” dell’azione pubblica (affiorante anche dalla disciplina del c.d. accesso agli atti amministrativi), si staglia l’altro principio cardine introdotto dalla legge ridetta, quello della c.d. efficienza: dovendo la PA raggiungere gli obiettivi che la legge le prefigge e, nella sostanza, soddisfare l’interesse pubblico ad essa demandato dal Legislatore (secondo la “causa del potere” del quale è attributaria), si impone una gestione simil-manageriale dell’azione amministrativa che garantisca nel modo più certo e garantito possibile il raggiungimento di tale risultato, non potendosi – a livello esemplificativo – aggravare il procedimento laddove ciò sia ultroneo rispetto al perseguimento del pubblico interesse ridetto (art.1, comma 2, della legge); si è dunque al cospetto di un archetipo operativo di tipo imprenditoriale ed aziendalistico che, già presente nell’impianto originario della legge 241.90, finisce con l’essere vieppiù implementato con le novelle del 2005 (legge n.15 e legge n.80, di conversione del decreto legge n.35), stante in particolare l’innesto del comma 1bis nell’art.1 della legge 241, onde – nell’adozione di atti di natura non autoritativa – le Pubbliche Amministrazioni possono utilizzare l’armamentario privatistico (salvo tuttavia, con chiosa emblematica, che la legge “disponga altrimenti”);
- i procedimenti amministrativi sono molti e diversi tra loro, onde la dottrina ha segnalato la difficoltà di ricostruire in guisa unitaria quelli che ne sono gli aspetti strutturali e funzionali di fondo;
- ciò non ha impedito di isolare 4 fasi del “procedimento amministrativo” prototipicamente inteso, che si compendiano per come segue:
- fase di avvio o di iniziativa: si tratta della fase propulsiva in cui il procedimento prende avvio: h.1) per impulso della stessa Amministrazione procedente (procedimenti ad iniziativa d’ufficio); si distingue peraltro in dottrina la fattispecie “autonoma”, allorché l’organo che dà il via al procedimento è lo stesso competente ad adottare il provvedimento finale, dalla fattispecie “eteronoma”, laddove all’opposto l’organo competente ad adottare il provvedimento finale è diverso da quella che dà impulso alla liturgia procedimentale, impulso che in questo secondo caso può compendiare una “richiesta”, quale manifestazione di volontà, che esplicita semplicemente volersi procedere, ovvero una “proposta”, manifestazione di giudizio, che indica anche il contenuto del futuro provvedimento e che – similmente a quanto accade ai pareri – può essere facoltativa (e dunque non necessaria per avviare il procedimento), obbligatoria (come tale, all’opposto, necessaria per avviare la sequenza procedimentale), ovvero conforme (l’organo che la riceve può liberamente valutare se provvedere o meno, ma se sceglie di farlo il contenuto determinativo del provvedimento non può discostarsi dalla proposta); h.2) per impulso del privato, che sollecita l’abbrivio sequenziale pubblico (procedimenti ad iniziativa di parte), circostanza quest’ultima nella quale trovano applicazioni particolari disposizioni “proprie” e peculiari, come emblematicamente accade per la comunicazione del preavviso di rigetto ex art.10 bis della legge 241.90; l’istanza del privato può essere rivolta ad ottenere un provvedimento (finale) favorevole; nel caso in cui quest’ultimo si compendi nella revisione di un precedente atto amministrativo assunto lesivo di diritti soggettivi o di interessi legittimi, l’istanza prende normalmente il nome di ricorso;
- fase istruttoria; si tratta dello stadio in cui, partito il procedimento, la PA acquisisce i fatti che rilevano al fine di individuare quali interessi “altri”, pubblici o privati, siano coinvolti nell’azione di perseguimento del singolo interesse pubblico del quale essa è attributaria, onde addivenire ad una ponderazione complessiva finalizzata al provvedimento finale; dirige questa fase il “responsabile del procedimento”, che scandaglia le condizioni di ammissibilità della stessa sequenza procedimentale e verifica i presupposti che rilevano al fine di adottare il provvedimento finale, in vista del quale fa luogo a tutte le operazioni all’uopo necessarie, con particolare riguardo all’accertamento (d’ufficio) dei fatti significativi; la dottrina ha isolato taluni canoni che reggono questa fase della sequenza procedimentale, e segnatamente: i.1) il principio del c.d. “giusto procedimento”; i.2) il principio della completezza istruttoria, c.d. di “massima acquisizione”; i.3) il principio di “non aggravamento” della procedura, estrinsecantesi nei sotto-canoni della logicità e della congruità procedimentale; i.4) il principio c.d. “inquisitorio”, potendo il responsabile del procedimento, come visto e giusta l’autorizzazione di cui all’art.6 della legge 241.90, agire d’ufficio per tutto quanto occorra all’acquisizione dei fatti rilevanti; i.5) il basilare principio della partecipazione procedimentale c.d. “diretta”, una delle più importanti acquisizioni cristallizzate nella legge 241.90 ed intesa a garantire un costante dialogo di tipo collaborativo ed integrativo tra i privati coinvolti dall’agere pubblico e l’Amministrazione procedente; in sostanza, il dispiegarsi del potere per mano della PA procedente in vista della soddisfazione dell’interesse pubblico del quale essa è ex lege attributaria (e che di quel potere costituisce la “causa concreta”) impone determinate modalità operative di tipo partecipativo, nel prisma dell’accertamento dei fatti rilevanti e della ponderazione di tutti gli interessi significativi in ottica finale-provvedimentale; proprio il canone della massima partecipazione procedimentale ha facoltizzato all’intervento nel procedimento non già solo qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati coinvolti nel dispiegarsi del potere pubblico, ma anche i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, con ciò aprendo (di massima) anche la strada, proprio attraverso la legittimazione c.d. “procedimentale”, anche alla successiva legittimazione “processuale”; il rischio che la partecipazione procedimentale ridetta si risolvesse in qualcosa di meramente “formale” ha sospinto già il legislatore del 1990, in ottica “sostanziale”, a prevedere la possibilità per chi partecipa al procedimento di prendere visione dei pertinenti atti (c.d. accesso procedimentale), di presentare memorie scritte alla PA procedente e di produrre documenti, in un compendio di facoltà che il legislatore del 2005, in sede di rubrica della norma pertinente (art.10 della legge 241.90) ha emblematicamente definito “diritti dei partecipanti al procedimento”; la PA ha anche peraltro l’obbligo espresso di valutare gli apporti istruttori dei privati che partecipano alla sequenza procedimentale, con la conseguenza onde lo scandaglio pubblico in vista della decisione finale deve basarsi non già solo sui fatti acquisiti d’ufficio dal responsabile del procedimento, ma anche su quelli oggetto di apporto da parte dei privati che “sostanzialmente” vi partecipano, secondo una gamma – calibrata sull’intensità della partecipazione garantita ai privati – che va dalla “regola” dell’istruttoria “aperta” all’eccezione dell’istruttoria “segreta”, passando attraverso le sfumature dell’istruttoria “in contraddittorio” e dell’istruttoria “chiusa”. Una volta acquisiti i fatti e lasciati affiorare gli interessi rilevanti in ottica decisoria, la sotto-fase finale dell’istruttoria è di tipo eminentemente valutativo, con scandaglio della PA competente avente ad oggetto, per l’appunto, il materiale acquisito; si tratta di una attività che talvolta si colora di fogge tecniche, imponendo come tale di essere demandata – nel contesto di un apposito sub procedimento – ad organi o uffici, per l’appunto, tecnicamente qualificati (per preparazione e competenza), quantunque diversi dall’organo che adotterà il provvedimento finale, i quali sono di regola chiamati a rilasciare all’organo competente per la determinazione finale un parere (art.16 della legge 241.90);
- fase decisoria; si tratta dell’epilogo procedimentale, allorché la PA procedente delibera il contenuto del provvedimento finale, provvedendo poi a confezionarlo e ad emanarlo, previa nuova e finale valutazione dei presupposti e degli elementi fattuali da porre a fondamento del provvedimento medesimo; con il provvedimento finale, la PA scioglie infatti la riserva in ordine alla compatibilità della “pretesa” del privato amministrato con l’interesse pubblico, accertando il realizzarsi (o il non realizzarsi) dell’evento condizionante rispetto alla pretesa di quegli che, come parte dello Stato Comunità, non può che veder realizzato il proprio interesse solo laddove compatibile con l’interesse “pubblico” (e dunque, pro quota, anche suo); parte della dottrina tende peraltro a negare autonomia alla fase decisoria, considerandola come l’epilogo della fase istruttoria, assunta “centrale” in ottica sequenziale pubblica; essa tuttavia pare presentare una certa autonomia, sol che si consideri come – ai sensi dell’art.6, comma 1, lettera e) della legge 241.90 – il dirigente dell’unità organizzativa (competente in via esclusiva, ai sensi del decreto legislativo 29.93 e poi del decreto legislativo 165.01, laddove tali provvedimenti normativi hanno nettamente separato l’attività di indirizzo politico-amministrativo, tipica degli organi di governo, da quella più propriamente gestoria, appannaggio appunto dei dirigenti) possa motivatamente discostarsi dalla risultanze istruttorie, facendo luogo dunque ad una deliberazione finale (ed adottando un provvedimento) che non ne costituiscono il più “atteso” precipitato; sul crinale strutturale poi la fase decisoria può dar scaturigine ad un classico provvedimento unilaterale, ovvero ad un accordo, ovvero ancora ad un fatto “silenzioso” significativo, con esito dunque a foggia plurima;
- fase integrativa dell’efficacia; se di norma un provvedimento “perfetto”, ovvero completo di tutti gli elementi necessari alla propria consistenza giuridica, è anche efficace, non mancano casi in cui la perfezione non corrisponde ad una coeva producibilità di effetti da parte del provvedimento medesimo; si configura in questi casi la necessità, legalmente imposta, di una ulteriore (ed eventuale) fase procedimentale, detta “integrativa dell’efficacia”, laddove quest’ultima viene subordinata all’adozione di altri atti, al compimento di dati fatti o, in qualche caso, al compimento di talune operazioni tecnicamente o scientificamente qualificate; non mancano poi, più nel dettaglio, sequenze procedimentali al cospetto delle quali il provvedimento – detto recettizio – può produrre effetti solo subordinatamente ad uno specifico fatto, vale a dire la pertinente presa di conoscenza da parte del destinatario, a valle di una ulteriore tipologia di atto additabile come comunicazione o come pubblicazione che, lungi dal dispiegare una mera funzione “partecipativa”, finisce con l’integrare appunto una condizione integrativa dell’efficacia dell’atto “comunicato” o “pubblicato”, finendo col compendiarne – sul crinale della concreta efficacia – in qualche modo un vero e proprio elemento costitutivo.
Cosa occorre rammentare in particolare del c.d. termine procedimentale sul crinale fisiologico?
- occorre fare riferimento all’art.2 della legge 241.90, secondo il cui comma 1, in primis, laddove il procedimento consegua “obbligatoriamente” ad un’istanza, o “debba” essere iniziato d’ufficio, la PA procedente ha il “dovere” di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
- la norma si esprime nel senso della doverosità, con evidente riferimento all’incertezza dei destinatari del dovere, tenuto conto che si tratta della legge generale sul procedimento che, come tale, disciplina tutti i possibili procedimenti nei confronti di tutti i possibili amministrati; non è un caso se l’avverbio “obbligatoriamente”, riferito all’”obbligo”, sia avvinto proprio all’ipotesi dell’istanza di parte, allorché l’amministrato è già in senso generico “predefinito ex ante” come colui che chiede una prestazione (normalmente, di dare o facere) alla PA;
- muova dunque il procedimento da un’istanza di parte o faccia seguito ad una iniziativa d’ufficio, la PA è comunque tenuta a concluderlo con un provvedimento espresso: si tratta del c.d. clare loqui, onde la regola è il provvedere esplicito mentre il provvedimento implicito rappresenta una eccezione;
- il provvedimento espresso poi, sul crinale diacronico, non può intervenire in ogni tempo, dovendo piuttosto rispettare un preciso termine, siccome scolpito all’art.2 della legge 241.90; quest’ultima disposizione, se in origine ha lasciato la libertà a ciascuna Amministrazione – anche statale – di fissare i propri termini procedimentali, è stata poi novellata nel 2005 con nuova previsione onde i ridetti termini, se riferiti ad Amministrazioni statali e laddove non previsti direttamente per legge, vanno stabiliti con regolamento adottato ai sensi dell’art.17 della legge 400.88, su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro della Funzione Pubblica; all’opposto, gli enti pubblici nazionali non statali possono stabilire autonomamente, secondo i propri ordinamenti interni, i termini entro i quali i procedimenti di propria competenza devono concludersi;
- con specifico riguardo alle Amministrazioni statali, il rinvio al regolamento operato dalla fonte primaria non è tuttavia “in bianco”, indicando il Legislatore criteri dettagliati per la fissazione dei pertinenti termini procedimentali, con previsione espressa di necessaria modulabilità tenendo conto della relativa sostenibilità sotto il profilo dell’organizzazione e della natura degli interessi pubblici tutelati da ciascuna Amministrazione coinvolta; la dottrina più accorta ne ha dedotto che i regolamenti non possono prevedere termini talmente ampi da porre nel nulla quelle che sono le stesse finalità della legge 241.90, con particolare riguardo ai canoni di trasparenza e di semplificazione che ad essa fanno da sfondo; laddove peraltro non venga emanato il regolamento, vige sussidiariamente un termine che, a partire dal 2005, è pari a 90 giorni; si configurano inoltre ipotesi, di natura tassativa, che consentono di sospendere il termine entro il quale il procedimento va concluso, come nel caso in cui leggi o regolamenti prevedano – in vista dell’adozione del provvedimento finale – l’acquisizione di valutazioni tecniche da parte di altri organi od enti, circostanza al cospetto della quale può intervenire una sospensione non superiore a 90 giorni (fatto salvo, sul crinale del “merito”, il coordinamento con l’art.17 della legge 241.90, laddove disciplina proprio le valutazioni tecniche); o nel diverso caso in cui l’esigenza parentetica rispetto al fisiologico fluire procedimentale scaturisca dalla necessità di acquisire informazioni o certificazioni afferenti a fatti, stati o qualità attestati in documenti che non siano già in possesso dell’Amministrazione procedente, o comunque non siano direttamente acquisibili presso altre Amministrazioni, circostanza al cospetto della quale la sospensione del procedimento può avvenire per una sola volta, ma senza un limite massimo di tempo;
- particolare il regime previsto dall’art.4 della legge 124.15, c.d. di fast track, alla cui stregua è possibile per Regioni ed enti locali individuare annualmente investimenti a carattere strategico – per la rilevanza finanziaria o per l’impatto occupazionale che recano seco – in relazione ai quali chiedere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri una accelerazione procedurale (proponibile peraltro dalla stessa Presidenza); si tratta, nella sostanza, di una forma di accelerazione e semplificazione dei pertinenti procedimenti, il cui termine di conclusione può essere ridotto fino al 50% ed in relazione ai quali vengono previsti rilevanti poteri sostitutivi per il caso di inerzia degli organi competenti a condurli a termine.
Come si intersecano il tempus del procedimento da un lato e lo ius superveniens dall’altro?
- il fattore tempo gioca, in ambito procedimentale, un ruolo assai importante anche su di un diverso crinale;
- si tratta dell’ipotesi del c.d. ius superveniens, e dunque della fattispecie in cui, mentre il procedimento è ancora in corso, subentri una nuova normativa di pertinenza;
- se la novella reca seco una espressa disciplina transitoria o comunque intertemporale, essa trova ovviamente applicazione;
- in difetto di tale specifica disciplina intertemporale, vige il canone del c.d. “tempus regit actum”, onde lo ius superveniens: d.1) si applica ai procedimenti ancora in corso; d.2) non si applica invece ai procedimenti già conclusi, a meno di una espressa previsione di retroattività;
- se dunque il procedimento amministrativo si spinge oltre il termine per esso previsto, l’eventuale ius superveniens può finire col trovare una applicazione che non avrebbe avuto laddove esso si fosse concluso nei termini, con possibili effetti (positivi o negativi) per l’interlocutore privato dell’Amministrazione procedente;
- vanno prese le mosse dal concetto di “sequenza” o serie procedimentale, i cui atti vengono disciplinati dalla disciplina che vige al momento della pertinente adozione, onde in caso di – ius superveniens – la nuova normativa regolerà tutti gli atti successivi (ma non anche quelli anteriori), sulla scorta del principio generale cristallizzato all’art.11 delle disposizioni preliminari al codice civile;
- il canone tempus regit actum si applica non soltanto al provvedimento che conclude il procedimento amministrativo, e che dunque chiude la pertinente serie procedimentale, ma anche agli altri atti (anteriori) che definiscano singole fasi del procedimento medesimo, tanto che siano suscettibili di produrre effetti esterni quanto che siano idonee a costituire i presupposti per ulteriori, successivi atti;
- del tutto peculiare l’applicazione del principio tempus regit actum a gare e concorsi, laddove l’affidamento dei partecipanti impone – per giurisprudenza ormai costante – che si applichi sempre e comunque la disciplina in vigore al momento in cui tali peculiari procedure hanno preso avvio, e dunque al momento del bando;
- laddove manchino disposizioni speciali od orientamenti pretori che dispongano l’opposto (come appunto accade in materia di gare e di concorsi), ogni atto della serie procedimentale di volta in volta considerata viene disciplinato dalle regole che vigono al tempo in cui viene adottato; si pensi, esemplificativamente, alle regole che ne disciplinano la competenza alla pertinente adozione o quelle che prevedono controlli sull’atto ridetto;
- più nel dettaglio, parte della dottrina ha rappresentato la differenza dei possibili effetti dello ius superveniens – proprio in forza del canone tempus regit actum – a seconda delle diverse fasi in cui la sequenza procedimentale può trovarsi quando interviene la novatio normativa:
- fase preparatoria: qui si determina la situazione giuridica necessaria a dare la stura proprio alla sequenza procedimentale che conduce al provvedimento conclusivo; occorre a questo punto ulteriormente distinguere: k.1) lo ius superveniens modifica il regime dei caratteri strutturali e dei requisiti di atti preparatori già adottati: in questo caso essi conservano la pertinente validità ed efficacia nonostante l’intervento (successivo) della novella normativa; k.2) lo ius superveniens incide – più in radice – sulla stessa necessità dell’atto preparatorio: poiché il momento in cui viene adottato il provvedimento finale è quello nel quale devono sussistere tutte le condizioni che lo presuppongono e che lo rendono legittimo, è proprio a questo momento di adozione del provvedimento finale (in funzione del quale viene varato l’atto preparatorio di volta in volta considerato) che occorre guardare per verificare gli effetti di uno ius superveniens necessitante rispetto all’atto preparatorio; può così accadere che la nuova legge richieda un atto preparatorio prima non necessario, ovvero diverso da quello precedentemente previsto, con necessità che subentri giocoforza – prima dell’adozione di un legittimo provvedimento finale – il nuovo o diverso atto preparatorio ormai previsto; può accadere, all’opposto, che la nuova legge escluda la necessità di un atto preparatorio prima richiesto, con piena legittimità del provvedimento finale adottato (che sarebbe stato illegittimo nella vigenza del precedente regime), e ciò anche nel caso in cui l’atto preparatorio prima richiesto e ormai non più richiesto sia stato viziato, l’invalidità derivata dovendosi assumere paralizzata proprio dalla sopravvenuta non necessità dell’atto preparatorio ridetto;
- fase istruttoria e fase costitutiva: il procedimento si è dipanato in una serie di atti e, trovandosi ormai nell’imminenza dell’adozione del provvedimento finale, vede entrare in vigore una nuova normativa che disciplina diversamente gli atti prodromici precedenti, ormai già posti in essere; muovendo dal presupposto onde il provvedimento finale deve intendersi perfezionato solo quando se ne esaurisce proprio la pertinente fase costitutiva, e dunque quando tutti i relativi elementi costitutivi sono intervenuti, laddove una legge sopravvenuta modifichi gli elementi necessari per la legittima adozione del ridetto provvedimento finale, essa andrà applicata, dovendosi dunque tenere conto dello ius superveniens;
- fase integrativa dell’efficacia; si deve in questa peculiare fattispecie distinguere: m.1) lo ius superveniens modifica gli elementi costitutivi della fattispecie: esso non produce alcun effetto, proprio perché la fase costitutiva è già approdata al termine, non potendo dunque assumersi incisa da “nuovi” elementi costitutivi subentrati ex lege ex post; m.2) lo ius superveniens, non lambendo gli elementi costitutivi della fattispecie procedimentale, disciplina piuttosto proprio l’efficacia del provvedimento già perfezionato: esso trova applicazione, tanto nel caso in cui non sia più richiesto un elemento di efficacia prima ritenuto necessario, tanto nel caso opposto in cui esso richieda un elemento di efficacia in passato assunto non necessario, in quest’ultimo caso dovendo intervenire la nuova condizione di efficacia perché il provvedimento, già perfetto, spieghi in concreto i propri effetti;
- questa pluralità di possibili opzioni intercetta, all’evidenza, la disciplina del termine procedimentale, dovendo ciascuna di esse venir calibrata a seconda del pieno rispetto di tale termine da parte dell’Amministrazione procedente ovvero, al contrario, del mancato rispetto del termine stesso, massime laddove l’inerzia o il ritardo pubblici finiscano con il conculcare situazioni giuridiche “procedimentali” o “finali” di volta in volta vantate dall’interlocutore privato.
Cosa occorre rammentare in particolare del c.d. termine procedimentale sul crinale patologico?
- la PA deve spendere il proprio potere per accertare se la pretesa del privato e l’interesse ad essa sotteso, quand’anche avente ad oggetto un “non facere” pubblico (come nel caso degli espropri, dell’imposizione fiscale o delle sanzioni amministrative), sia o meno compatibile con l’interesse pubblico;
- il mancato rispetto del termine procedimentale ridonda dunque già in “inadempimento” all’obbligo di procedere alla ridetta verifica di compatibilità in un tempus prestabilito dalla legge, in disparte come poi detta verifica concretamente esiti (compatibilità dell’interesse privato con l’interesse pubblico, con conseguente dare, facere o non facere; incompatibilità dell’interesse privato con l’interesse pubblico, con conseguente non dare, non facere o facere);
- al mancato rispetto del termine procedimentale, ed all’inadempimento che vi è logicamente connesso, sono avvinti gli istituti del silenzio inadempimento e del c.d. danno da ritardo, che meritano CRONO PERCORSI appositi;
- va da sé che, in particolare laddove l’interesse del privato abbia natura “oppositiva”, e sia dunque legato alla pretesa ad un “non facere” pubblico, il termine procedimentale palesa una natura particolarmente significativa, il pertinente spirare “bloccando” il potere pubblico; proprio per questo motivo, tanto in materia fiscale, quanto in materia espropriativa o di sanzioni amministrative, tale termine viene generalmente (e sempre più) considerato di natura perentoria, e non già meramente ordinatoria; ciò, nonostante la legge 81 in tema di sanzioni amministrative preveda, per la conclusione del procedimento e l’inflizione della pertinente sanzione, ancora soltanto un termine di prescrizione quinquennale, peraltro di recente assunto dalla Corte costituzionale eccessivamente dilatato in ottica di necessaria garanzia di tempi certi all’incolpato.