Massima
Anche se non è possibile considerare la nullità parziale come istituto romanistico dai contorni precisamente definiti, i Romani palesano di concepirla – a contrario – quale effetto della stipula di negozi che essi considerano validi solo pro quota (e, dunque, “parzialmente”), massime sul crinale quantitativo, come nel caso dei legati e di talune donazioni; oltre che, più in generale, quale precipitato di condizioni risolutive (possibili, e tuttavia) illecitamente apposte ad un negozio.
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Per i Romani, fin dalla fase arcaica, il regime di invalidità degli atti – anche in forza del consistente formalismo che ne connota il sistema giuridico – è legato alla nullità; in sostanza, ogni atto con effetti giuridici si presente alternativamente valido ovvero nullo.
Anche dunque già da un punto di vista logico la nullità può quantitativamente atteggiarsi – laddove il singolo atto lo consenta – come integrale, travolgendo l’intero atto che in quanto nullo, “nullum producit effectum”; ovvero come parziale, circostanza nella quale si producono taluni effetti legati alla quota-parte valida dell’atto medesimo e, al contempo, non se ne producono altri a cagione della ridetta, “parziale” nullità che lo affetta.
Occorre poi tenere conto del singolo rapporto giuridico al quale l’atto è avvinto o che comunque esso ingenera; laddove tutelato dai c.d. iudicia bonae fidei – nel cui contesto il iudex ha il potere (discrezionale) di valutare liberamente l’intero comportamento delle parti, siccome presentatogli dalle parti medesime (a differenza delle fattispecie in cui campeggiano le più rigide actiones stricti iuris) – tale rapporto consente infatti tendenzialmente, ed a rigore, di fare affiorare nel processo la anche solo parziale nullità dell’atto medesimo.
Infine, va tenuto conto del principio (interpretativo) di conservazione del negozio, presente già presso i Romani ed alla cui stregua – in caso di parziale invalidità – è preferibile “salvare” il negozio medesimo privando di effetto le sole clausole “nulle”: è attribuito al giurista Giuliano il brocardo onde, «quoties…. ambigua oratio est…», va ad essa fornita una ermeneusi onde «res de qua agitur magis valeat quam pereat».
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Uno degli istituti più rappresentativi sul crinale della rilevanza romanistica della nullità parziale è certamente, anche già dal punto di vista strutturale, la donazione.
Con la Lex Cìncia de donis et munèribus, un Plebiscito proposto dal tribuno M. Cincio Alimento nel 204 a.C. al fine di contingentare gli sperperi privati, viene sancito il divieto di compiere atti di liberalità “ultra modus”, eccedenti dunque un certo ammontare (rimasto ignoto), ad eccezione di quelli aventi come beneficiari parenti ed affini; una misura chiaramente idonea, già per l’appunto in un’ottica “strutturale”, a lasciar configurare la “non validità”, e dunque la nullità “parziale”, della quota parte di donazione che superi quella consentita.
La Lex Cincia è tuttavia in origina una “imperfecta”, non prevedendo l’invalidità delle donazioni effettuate contro il prescritto divieto né, tampoco, sanzioni per i pertinenti trasgressori. Solo allorché – dopo la lex Aebutia (di incerta datazione, ma collocabile nella seconda metà del II secolo a.C., intorno al 130 a.C.) – interviene in materia il Pretore, appare nell’Editto una exceptio legis Cinciae, e dunque un mezzo di difesa in favore di quel donante (in dando o in obligando) che non abbia dato parziale esecuzione alla donazione, il quale se convenuto in giudizio dal donatario, può paralizzarne l’actio e dunque, in sostanza, far valere la nullità (parziale) del proprio atto liberale.
Vieppiù significativo affiora poi il regime della nullità parziale nelle fattispecie di violazione del divieto di donazioni tra coniugi. Stando a D.24.I.5.2 (Ulpiano, libro trentaduesimo A Sabino), “in generale, è da tenere per fermo che non vale quanto si faccia a causa di donazione fra loro, o fra quelli che a loro appartengono, o per persone interposte. Ma se con <tale> causa si intrecci quella di <rapporti relativi ad> altre cose o persone ad essa estranee, se non è possibile separare <quanto avvenuto in ragione della causa diversa dalla donazione>, neanche la donazione è impedita; se invece si può separare, tutto il resto è valido, mentre ciò che si è donato non è valido”.
Proprio da quest’ultimo passaggio si evince come donazioni vietate possano essere parzialmente valide e dunque, in via correlativa e giustapposta, parzialmente nulle.
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Anche su un piano più generale, ed afferente all’orbita negoziale, i Romani sembrano non sconoscere il concetto di nullità parziale.
Nelle fonti romane, il sintagma “lex rescindit” indica un modo di agire della legge che sancisce la nullità e i relativi effetti invalidanti; vi concorrono tuttavia, in modo più specifico, anche altre forme verbali quali “inutilem facere”, “revocare” e soprattutto, ratione materiae, “minuere”, che entra in gioco proprio quando si tratta di rappresentare plasticamente gli effetti (rectius, la “privazione di effetti”) tipica della nullità parziale di un negozio.
Si legge in D.35.2.25.1 che “…lex Falcidia … legatum minuerit” per rappresentare gli effetti prodotti appunto dalla Lex Falcidia, del 40 a.C. ed approvata su iniziativa del tribuno della plebe Publio Falcidio che – nel disciplinare le quote della successione legittima nel diritto ereditario romano – decreta come nessuno possa disporre liberamente di più di ¾ del proprio patrimonio attraverso legati, all’erede dovendo comunque rimanere disponibile almeno ¼ del patrimonio del de cuius e potendo questi, in caso di violazione della ridetta Lex, pretendere da ogni legatario una quota in modo tale da veder reintegrato il proprio “quarto” (la c.d. “Quarta Falcidia”).
Si è dunque al cospetto di un legato nullo laddove superiore al quantum consentito con possibilità, attraverso la lex Falcidia, di far valere – giusta minuere in essa inscritto – tale nullità parziale.
Infine, sulla base dell’opinione espressa dai giuristi Pomponio (Vat. Fr. 50.) e Papiniano (D. 8.1.4 pr. – Pap. 7 quaest.), parte della dottrina romanistica riconduce alla nullità parziale anche le fattispecie di apposizione contra ius, ad un negozio, di clausole risolutive: in una fattispecie di usufrutto, in particolare, l’espressione “sed tantum trasferri ipsum posse” (“ma quegli può trasferire solo tanto …”) fa pensare come la condizione risolutiva illecitamente apposta dalle parti non vizi l’intero negozio traslativo, limitandosi la nullità – “parzialmente” – alla sola clausola risolutiva medesima (vitiatur se non vitiat).
Collegamenti
Donazione – Legato – Condizione