Massima
E’ certamente la locatio-conductio rei, e dunque la locazione di cose – specie se immobili – a compendiare il terreno di elezione delle sopravvenienze rilevanti in ambito giuridico romanistico, nel prisma di una progressiva (quantunque dapprincipio inconsapevole) contrapposizione tra la necessità “conservativa” di rispettare i patti (“pacta sunt servanda”) e quella, “equitativa”, di dare giusto rilievo all’imprevedibile che aggredisce l’iniziale status quo (“rebus sic stantibus”).
Articolo
Se è vero che l’ordinamento giuridico romanistico, massime nelle relative, più remote declinazioni, conosce le sole due figure del negozio valido e, alternativamente, del negozio nullo, è parimenti vero che è possibile rintracciare nel pertinente sistema precisi riferimenti anche alle sopravvenienze capaci di incidere sull’equilibrio contrattuale, con i pertinenti “correttivi” escogitati dai giureconsulti.
Si tratta di quello che in ambito medioevale ed oltre diventerà il raggio di azione della (verosimilmente non romanistica) c.d. clausola rebus sic stanti bus, orientata come tale proprio a riequilibrare il rapporto sinallagmatico tra prestazioni negoziali che abbiano vissuto – a cagione di sopravvenienze – uno squilibrio reciproco; clausola, nel relativo dinamismo operazionale, già ontologicamente giustapposta a quella onde “pacta sunt servanda”, gli accordi dovendo essere (tendenzialmente, sempre) rispettati dalle parti quand’anche sopravvenga qualcosa che ne mini l’equilibrio prestazionale, in ottica di soddisfazione dei reciproci interessi delle parti.
Nel diritto romano classico, nondimeno, è solo l’impossibilità della prestazione – originaria o sopravvenuta – a liberare il debitore, sulla scorta del noto principio “ad impossibilia nemo tenetur”, non essendo all’opposto sufficiente una mera sopravvenuta difficoltà od eccessiva onerosità della prestazione ridetta, massime se afferente ad un “genus” (genere), stante il del pari celebre canone onde “genus numquam perit”.
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Con peculiare riguardo ai contratti c.d. “a lungo termine”, o comunque tali da imporre alle parti prestazioni periodiche diacronicamente diluite, i Romani si sono tuttavia in qualche modo posti il problema di come rintracciare un nuovo equilibrio in ipotesi di intervenuto (ex post) sbilanciamento tra le prestazioni dovute da ciascuna delle ridette parti.
Ciò con particolare riguardo alla c.d. locatio rei (locazione di cose, in specie di beni immobili ad uso abitativo), ed alla casistica che ha interessato questa peculiare declinazione del più generico contratto di locatio-conductio; il riferimento è in particolare alla fattispecie in cui sia stato concesso dal locatore al conduttore di abitare l’immobile locato per più anni “a partire dalle Calende di luglio” e, a propria volta, di sublocarlo a terzi, allorché il ridetto immobile venga a trovarsi nelle “puntellationes” e dunque in condizioni tali da non poter essere abitato, né mostrato a terzi potenziali sub-conduttori (D. 19,2, 60 pr., Lab., 5 post. a Iav. Epit.).
In questo caso il conduttore va assunto non tenuto alla “mercede”, e dunque al canone, nei confronti del locatore, né può essere obbligato ad abitare la casa locata restaurata “a partire dalle Calende di Luglio” quando il locatore non si sia dichiarato pronto a fornirgli un’altra comoda abitazione. In sostanza dunque, se affiora una rilevante ed eccezionale menomazione della facoltà di fruire dell’immoble locato (c.d. uti frui: Alf., D.19, 2, 27 pr.-1), il conduttore è esonerato dall’obbligo di versare al locatore il canone con cessazione del rapporto contrattuale in corso.
Altre fattispecie di potenziale rilievo delle sopravvenienze sono quelle afferenti alla possibile revoca delle donazioni (tra coniugi, in caso di divorzio; tra soggetti “estranei”, in caso di sopravvenienza di figli al donante), nonché al possibile recupero di un bene in precedenza locato a cagione di nuovi bisogni imprevisti in capo al proprietario-locatore “recuperante”.
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Sempre al contratto di locazione ed al relativo dipanarsi nel tempo si riferisce – ormai in età postclassica – una Costituzione imperiale dell’Imperatore Caracalla (C.4, 65, 3) alla cui stregua il ridetto contratto può essere risolto qualora chi loca intenda ristrutturare il proprio immobile (corrigere domum maluerit), ovvero dia prova di doverlo usare per sé stesso (propriis usibus esse necessariam probaverit).
E’ dipoi Bartolo da Sassoferrato, in epoca medioevale a tentare di ricondurre all’esperienza giuridica romana la ridetta clausola rebus sic stantibus, con riguardo ad una fattispecie di “stipulatio”, e dunque di obbligazione contratta “verbis” (con parole solenni: “sib aut Titio dari stipulatus sit”), laddove – in un passo del Digesto attribuito ad Africano (D. 46, 3, 38) – si rinviene un riferimento al tacito accordo (“conventio tacita”) che l’obbligazione pertinente deve essere adempiuta dal debitore purché tutto rimanga com’è all’atto della stipula (“si in eadem causa maneat”) e che dunque nulla cambi in seguito per circostanze sopravvenute.
E’ il tronco dal quale gemmano gli istituti della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, da un lato, e della “presupposizione”, dall’altro.
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Un discorso a parte merita quanto affiora dalla letteratura e dalla filosofia romane, laddove si fa strada la giustificazione (anche morale) che sorregge il non mantenimento di una promessa laddove mutino le circostanze che l’hanno ab ovo fondata.
Per Cicerone ad esempio (De officiis), l’avvocato che abbia promesso assistenza legale in una causa può legittimamente sottrarsi all’impegno assunto laddove medio tempore il relativo figlio si ammali; ancora, per Seneca (De beneficiis) chi ha promesso assistenza legale può sciogliersi dal vincolo pertinente quando scopra che l’azione che dovrebbe sostenere è intentata contro il proprio padre.
Si tratta di spunti in qualche modo avvinti al mondo giuridico che trovano anch’essi una eco nel medioevo quando – sulla scorta di Aristotele e dell’opera di San Tommaso – i canonisti propugnano nuove concezioni di giustizia commutativa, di giusto prezzo nella vendita e, più in generale, di giusto equilibrio tra le prestazioni: esse, col mettere al bando lo stesso concetto di “profitto”, finiscono con l’alimentare il progressivo affermarsi del canone “rebus sic stantibus” onde scongiurare l’effetto “squilibrante” di talune sopravvenienze contrattuali.
Collegamenti
Locazione – Presupposizione – Famiglia – Donazione