<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il principio di legalità tende a lasciare alla legge il monopolio della selezione dei fatti penalmente rilevanti, che devono essere descritti in modo preciso e tassativo, consentendo al cittadino di sapere sempre quale è il comportamento punito e al giudice di poter sussumere un dato contegno concreto del soggetto attivo, assunto punibile, nella astratta, corrispondente fattispecie penale (c.d. inadempimento-reato).</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Il principio <strong><em>nullum crimen sine lege, nulla poene sine lege</em></strong>, non trae origine dal diritto romano, ma è di origine <strong>illuministica</strong>, essendo il diritto romano maggiormente legato alla c.d. <strong>legalità sostanziale</strong>. In particolare, il diritto romano di età prerepubblicana e repubblicana, fondandosi sulla <strong>casistica</strong>, rifiuta la codificazione ed ammette il ricorso all’<strong>analogia</strong>, seppure formalmente non riconoscendola come tale, sia per i <strong><em>crimina</em></strong> (gli odierni reati) che per le pene giusta punizione c.d. “<strong><em>ad exemplum legis</em></strong>”, disconoscendo così il <strong>principio di legalità</strong> formale (in ottica garantista) per come lo intendiamo oggi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “<em>espressamente</em>” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno può essere punito per un fatto che non sia “<em>espressamente</em>” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Prevede poi tutta una serie di disposizioni nelle quali appare più o meno inafferrabile il comportamento punibile, come accade – paradigmaticamente – nella fattispecie di “<em>plagio</em>” di cui all’art.603 onde è punito gravemente (con la reclusione da 5 a 15 anni) chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">La Costituzione ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, rischia di punire o non punire a propria completa ed arbitraria discrezione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 15 che, in tema di grida, manifestazioni e radunate sediziose (articoli 654 e 655 c.p.) emette una sentenza interpretativa di rigetto, così salvando le norme, orientando il giudice al singolo caso e, in qualche modo, sostituendolo al legislatore nell’opera di delineare con sufficiente precisione il comportamento punibile. Ciò attraverso una interpretazione del termine “<em>sedizione</em>”, che tradizionalmente implica ribellione, ostilità ed eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni, compendiandosi in un comportamento concretamente idoneo a produrre un evento pericoloso per l’ordine pubblico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 188 che – giudicando in tema di offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone (art.403 c.p.) – salva la disposizione ritenendo che l’esigenza di una previsione “<em>tipica</em>” del fatto costituente reato può essere operata anche con una descrizione sommaria o con l’uso di espressioni meramente indicative.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1980</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 177 che inaugura un atteggiamento di svolta garantista in termini di determinatezza e tassatività della fattispecie penale: viene dichiarato incostituzionale l’art. 1, n.3, della legge 1423.56 in tema di misure di prevenzione, laddove ritiene applicabile una tal misura al non meglio specificato soggetto “<em>proclive a delinquere</em>”, sulla base di generiche manifestazioni di questa inclinazione delinquenziale non collegate a circostanze di fatto chiare dalle quali dedurre la pericolosità del prevenuto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno esce la nota sentenza della Corte costituzionale n.96 sul plagio, con la quale viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 603 del c.p.: il fatto penalmente sanzionato, per la Corte, appare non verificabile tanto nella relativa concreta effettuazione che nel relativo risultato. La parola plagio in astratto ha un significato, ma – per come è formulata la norma (riduzione di una persona in totale stato di soggezione psichica) - nessun fatto concreto accertabile dal giudice penale corrisponde in realtà a quel significato. Il legislatore deve descrivere fatti che, sulla base dello stato attuale delle conoscenze, appaiono verificabili: solo in questo modo viene consentito al giudice penale di sussumere il fatto concretamente accertato (e verificabile) nella fattispecie astratta descritta dal legislatore, dovendo quest’ultima essere descritta in modo intellegibile (quand’anche attraverso l’impiego di espressioni indicative o di valore).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1988</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.475 in tema di rumorosità ed igiene acustica negli ambienti di lavoro che, richiamando taluni precedenti (sentenze 27 del 1961 e 49 del 1980) , salva le norme impugnate sul presupposto onde il principio di legalità non sarebbe attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto: spesso infatti le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria e all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato. Secondo la Corte la necessaria integrazione della norma operata dal prudente, concreto apprezzamento del giudice che utilizza nozioni e concetti di comune esperienza o le indicazioni della tecnica, non comporta certo invasione dei poteri riservati al legislatore, trattandosi anzi di attività propria del processo interpretativo, che del magistero giudiziario é fondamentale espressione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.11 in tema di armi giocattolo, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 4 e 6, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi): secondo la Corte il deficit di determinatezza della fattispecie penale può aprire le porte al giudizio di costituzionalità solo laddove non esista un diritto vivente (nel caso di specie, si registra invece un consolidato orientamento della Cassazione) che provveda ad inverare la sufficiente determinatezza del fatto penalmente sanzionato. Nella fattispecie, si tratta di individuare quale sia il comportamento punibile in capo a soggetti diversi dai fabbricanti di armi giocattolo (per i quali ultimi invece il comportamento punibile risulta pianamente definito), e la Corte assume il “<em>diritto vivente</em>” capace di surrogare il deficit di tassatività della fattispecie legislativa, con orientamento tuttavia criticato dalla dottrina più garantista.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 ottobre vede la luce il D.P.R. n. 309 in materia di stupefacenti che, all’art.80, prevede una fattispecie aggravata specifica se il fatto riguarda “<em>quantità ingenti</em>” di sostanze stupefacenti o psicotrope: una dicitura generica in potenziale frizione con il principio di tassatività della fattispecie penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 370 che, in tema di possesso ingiustificato di oggetti e valori (art. 708 c.p.), dichiara la norma incostituzionale per deficit di determinatezza laddove prevede che sia punibile il possesso, oltre che di denaro ed oggetti di valore, di non meglio specificate “<em>altre cose</em>”. La sentenza appare tuttavia più incentrata sulla irragionevole discriminazione (art.3 Cost.) tra chi ha già subito una condanna per reati contro il patrimonio e chi è invece incensurato.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10311 in tema di riduzione in schiavitù ex art. 600 c.p., che ritiene manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, salvando dunque la norma: la questione riguarda la riduzione di taluno “<em>in condizione analoga alla schiavitù</em>”, ed il contrasto con gli articoli 3 e 25 della Costituzione (presunto deficit di tassatività della fattispecie) viene escluso attraverso un richiamo alla Convenzione di Ginevra del 1956 (ratificata dall’Italia con legge 1304.57), che prevede un elenco di ipotesi a riguardo. Peraltro, a differenza del plagio (che richiama una conculcazione dell’intimo volere difficilmente verificabile), la condizione analoga alla schiavitù si compendia nel costringere una persona al proprio esclusivo servizio avvalendosi di prassi, tradizioni, circostanze ambientali e simili, attraverso un comportamento concretamente verificabile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.5 che vaglia la legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo n.286.98 in tema di immigrazione, laddove lo straniero – a seguito dell’ordine espulsivo impartito dal Questore – si trattiene sul territorio dello Stato “<em>senza giustificato motivo</em>”. La Corte salva la norma ritenendola compatibile con il principio di tassatività, partendo dal fatto che nel sistema penale sovente il legislatore utilizza delle valvole di sicurezza, delle clausole generali sintetizzate in espressioni come “<em>senza giusta causa</em>”, “<em>arbitrariamente</em>”, “<em>senza giustificato motivo</em>” ed altre ancora: in questi casi non si è al cospetto di cause di giustificazione, ma in ogni caso di elementi che rendono inesigibile una determinata condotta penalmente sanzionata (e quindi, nel caso di specie, rendono inesigibile il “<em>non trattenersi</em>” sul territorio dello Stato, e quindi l’uscire dal territorio stesso): se tali clausole generali non fossero inserite dal legislatore, le contingenze della vita potrebbero creare lacune che andrebbero a svantaggio dello stesso reo il quale - per situazioni ostative a carattere oggettivo o soggettivo, per la presenza di obblighi di segno contrario rispetto al comportamento imposto dalla norma penale, ovvero per la necessità di bilanciare in valori in gioco con riguardo ad interessi di rango almeno pari a quello tutelato dalla norma incriminatrice – deve assumersi giustificato per l’inosservanza nel caso concreto del precetto penale. Si tratta di clausole che tuttavia, ove rimettenti all’arbitrio del giudice la definizione dei casi di relativa, concreta applicabilità (nel caso di specie, il giustificato motivo che autorizza il trattenimento sul territorio dello Stato), possono finire col ridondare a svantaggio del reo; la patente di legittimazione costituzionale di dette clausole passa allora proprio dal vaglio in ordine alla tassatività della fattispecie che esse dipingono. Da questo punto di vista, la clausola elastica o l’espressione sommaria non va valutata isolatamente, ma insieme agli elementi costitutivi della fattispecie penale ed alla disciplina complessiva in cui essa si inserisce: occorre partire, secondo la Corte, dalle finalità della singola fattispecie e dal quadro normativo complessivo in cui essa si colloca, al fine di verificare se la descrizione del fatto incriminato sia tale da consentire:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>a) al giudice, di ricondurre una fattispecie concreta alla fattispecie astratta;</li> <li>b) al destinatario della norma, di percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il valore precettivo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;">Distinguendo allora i migranti economici da quelli che chiedono asilo, nel quadro dei molteplici interessi pubblici connessi al fenomeno migratorio, mentre per chi rischia persecuzioni fuori dall’Italia e conseguente lesione dei relativi diritti inviolabili il “<em>giustificato motivo</em>” di trattenimento si atteggia in un certo modo, diversa è la situazione per i migranti economici che non rischiano di veder conculcati i loro diritti fondamentali. Anche se non si è in presenza di scriminanti a tutti gli effetti, che opererebbero in modo oggettivo, per la Corte nel caso del richiedente asilo possono configurarsi situazioni ostative di peculiare pregnanza che rendono impossibile sul piano oggettivo o soggettivo adempiere alla singola intimazione penale: rispettare il precetto si configura come impossibile ovvero rischioso o difficoltoso, e dunque il contegno diventa inesigibile sul piano penale. La giurisprudenza successiva alla sentenza della Corte chiarirà poi i limiti di configurabilità del giustificato motivo di trattenimento dello straniero con peculiare riguardo alle ipotesi di difficile condizione economica dello straniero (in relazione all’acquisto del titolo di viaggio per l’uscita dal territorio dello Stato), distinguendo nella sostanza i casi di mera difficoltà (inidonei all’uopo) da quelli di grave e assoluta impossidenza (capaci invece di rendere il trattenimento giustificato), alla costante ricerca di un punto di equilibrio tra i diversi valori in campo (sicurezza pubblica da un lato e diritti fondamentali dell’individuo dall’altro).</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 febbraio viene varata la legge n.40 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita, secondo il cui art.12, comma 6, chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità e' punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. La dottrina più avvertita farà rilevare come con l’espressione “<em>surrogazione di maternità</em>” possano in realtà indicarsi fenomeni variegati, come tali destinati ad una rilevanza giuridica non solo differenziata, ma sovente anche problematica, con conseguente deficit di tassatività, come accade proprio nella fattispecie incriminatrice in rassegna. Un inquadramento – sul crinale penalistico – vieppiù complesso laddove ci si trovi dinanzi ad un caso (tutt’altro che infrequente) di “<em>turismo procreativo</em>”, ovvero finalizzato ad usufruire di una “<em>gestazione per altri</em>” in luoghi ove la ridetta pratica è legittima e disciplinata, affiorandovi ulteriori questioni di diritto penale transnazionale, anch’esse condizionate, per tale dottrina, dalle difficoltà nella definizione del fatto tipico e, con esso, del <em>locus commissi delicti</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4675 (caso Porto Marghera) che assume ricadente nell’ambito della fattispecie di disastro “<em>innominato</em>” di cui all’art.434 c.p. (un “<em>altro disastro</em>”) il c.d. disastro ambientale (progressiva ed imponente contaminazione dei suoli, dell’acqua e dell’aria con sostanze pericolose per la pubblica incolumità, tramite condotte reiterate e diluite nel tempo), anche se esso non ha caratteristiche di (devastante) immediatezza e può realizzarsi in un arco di tempo molto ampio e prolungato; in sostanza, l’evento disastroso può anche non essere immediatamente percepibile (come è normalmente il caso di una frana o di una valanga) ma è comunque “<em>altro disastro</em>” in quanto ad essere compromessi sono quei contesti di sicurezza per la salute e per altri valori della persona e della collettività che consentono di predicare la configurabilità di una ipotesi, per l’appunto, di reato contro la pubblica incolumità. In sostanza, anche se non si tratta di un evento di immediata eccezionalità, si è comunque al cospetto di un macroevento punibile ai sensi dell’art.434 c.p., la cui fattispecie “<em>elastica</em>” (non tassativa) è idonea a ricomprenderlo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione - hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 agosto esce la sentenza della Corte costituzionale n. 327 che – pronunciandosi sul c.d. disastro innominato di cui all’art.434 c.p. – torna sugli elementi descrittivi elastici della fattispecie: il problema si pone da quella parte della norma che richiama genericamente, punendolo, un “<em>altro disastro</em>”. La Corte salva anche in questo caso la norma, interpretandola in modo costituzionalmente orientato e ribadendo che l’elemento descrittivo della fattispecie tacciato di frizione con il principio di determinatezza non va letto in modo isolato, ma nel contesto complessivo della figura criminosa siccome disegnata dal legislatore e dei fini che essa si propone in termini di tutela di specifici interessi. Quello che conta è che:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>a) il giudice possa ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta attraverso una operazione interpretativa controllabile: il giudice penale non crea la norma, ma la applica;</li> <li>b) il destinatario della norma possa percepire il precetto penale in modo chiaro ed immediato, venendo così messo nelle condizioni di non comportarsi in modo da soggiacere a pena.</li> </ol> <p style="text-align: justify;">Il disastro “<em>innominato</em>”, secondo la Corte, persegue un determinato fine ed è collocato nel novero dei delitti contro la pubblica incolumità, ed è in questo complessivo quadro sistematico che la norma penale va letta, interpretata ed applicata ai casi concreti. Si tratterà pure di un disastro “<em>innominato</em>”, ma esso non potrà – strutturalmente – che compendiarsi in un evento omogeneo ai disastri nominati: sul crinale dimensionale, non potrà che essere (come lo è una frana, una inondazione, una valanga, un disastro aviatorio) un evento distruttivo straordinario idoneo a produrre effetti di danno gravi, estesi e complessi; poiché poi la fattispecie è inserita tra quelle contro la “<em>pubblica incolumità</em>”, detto evento dovrà anche palesare una proiezione offensiva di tipo diffusivo (pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, quand’anche nessun soggetto in concreto muoia o venga leso). Nella stessa pronuncia la Corte solleva dubbi in ordine alla riconducibilità del disastro ambientale (proprio in ottica di omogeneità rispetto ai disastri nominati, secondo le critiche della più avvertita dottrina) tra i disastri innominati costituzionalmente legittimi, e ciò a cagione della eccessiva dilatazione della portata applicativa dell’art.434, con conseguente deficit di tassatività della fattispecie: viene allora invitato il legislatore a disciplinare <em>ex professo</em> il disastro ambientale, in modo da scongiurarne la punizione giusta applicazione “<em>a maglie larghe</em>” dell’art.434 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 9927 che, in tema di aggravante della ingente quantità di stupefacenti, ritiene la norma (art. 80 del D.P.R.309/90) costituzionalmente legittima (questione manifestamente infondata) seguendo i parametri di cui alla sentenza della Corte costituzionale n.327.08: il destinatario della norma può percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il precetto sanzionato, mentre il giudice ha dinanzi una fattispecie resa sufficientemente concreta dalla giurisprudenza che si è via via formata sul punto (quantitativo oggettivamente eccezionale sotto il profilo ponderale; grave pericolo per la salute pubblica; dosi ricavabili elevatissime e conseguente, elevatissimo numero di consumatori potenzialmente soddisfacibili), sì da potersi assumere scongiurato il pericolo di interpretazioni arbitrarie basata su una formulazione generica del precetto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Esce il 20 settembre la sentenza delle SSUU n. 36258 in tema di aggravante della ingente quantità di stupefacenti, che si occupa anche del profilo della tassatività della fattispecie: secondo la Corte, occorre valorizzare il “<em>diritto vivente</em>” quando ci si trovi dinanzi a previsioni legislative (oltre che astratte, anche) indeterminate che vanno rese concrete proprio in ossequio al principio di tassatività della fattispecie penale. Muovendo da questo presupposto, poiché il legislatore del 1990 ha inteso discriminare, giusta criterio tabellare (e, dunque, quantitativo) l’uso personale da quello, penalmente represso, che va oltre gli stretti bisogni dell’individuo, anche ai fini dell’aggravamento di pena di cui alla ingente quantità occorre giocoforza fare riferimento ad un parametro di tipo numerico: la punibilità è prevista, <em>ex lege</em>, attraverso un limite quantitativo “<em>verso il basso</em>” (e cioè al di sotto del quale la condotta non è punibile), ed è compito della giurisprudenza individuare in limite quantitativo “<em>verso l’alto</em>” (e cioè al di sopra del quale la punizione non solo è prevista, ma è addirittura aggravata): prendendo a parametro la giurisprudenza più accreditata, le SSUU finiscono col dire che solo quando, rispetto al valore tabellare espresso in milligrammi, la quantità detenuta supera di 2000 volte il valore soglia (e non al di sotto di questo limite) potrà parlarsi, se il giudice di merito lo accerti in concreto, di una rilevante quantità di sostanza stupefacente. Si assiste dunque ad una tendenza alla concretizzazione numerica delle fattispecie indeterminate, al fine di garantire al massimo grado proprio il principio di tassatività della fattispecie penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 172 che, in tema di <em>stalking</em> ex art. 612.bis c.p., salva la norma dandone una interpretazione costituzionalmente orientata sì da renderla conforme all’art. 25, comma 2, Cost. Ancora una volta la Corte – a differenza del giudice remittente, che palesa un approccio atomistico alla fattispecie – si accosta alla fattispecie medesima in modo integrato e sistemico, evitando l’isolamento dei singoli elementi descrittivi maggiormente sospetti e, piuttosto, leggendoli in collegamento con gli altri elementi costitutivi del fatto tipico e con l’integrale disciplina della figura. Da questo punto di vista, il fatto tipico è verificabile in termini di sussunzione ad esso della fattispecie concreta <em>ope iudicis</em>; il destinatario della norma, per parte sua, può adeguatamente percepire il senso del precetto ed astenersi da comportamenti penalmente sanzionati. Se per definire i concetti di “<em>minaccia</em>” e “<em>molestia</em>” è sufficiente fare riferimento, per la Corte, alla giurisprudenza formatasi – rispettivamente - sugli articoli 612 e 660 c.p., la “<em>reiterazione</em>” implica un disvalore aggravato rispetto alle singole minaccia o molestia, sicché occorrono per compendiarla almeno due condotte (di minaccia o molestia) in successione tra loro; per quanto poi concerne i tre eventi alternativi (perdurante e grave stato di ansia e di paura; fondato timore per l’incolumità propria o altrui; alterazione delle abitudini di vita), il coefficiente emotivo e psicologico che li connota (specie i primi due) impone la verifica del grado di destabilizzazione che la vittima ha subito giusta il comportamento del molestatore.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 luglio viene pubblicata la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 32170 che, in un caso di dispersione incontrollata di polveri di amianto, assume configurarsi un disastro innominato ex art. 434 c.p. anche al cospetto non di un macroevento immediato, singolo, unico, dirompente, ma di singoli episodi di inquinamento dell’ecosistema prolungati nel tempo, purché la loro complessiva valutazione possa farli considerare di eccezionale gravità (disastro ambientale) per essere essi capaci di produrre un concreto pericolo per la vita o la salute di un numero indeterminato di persone.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7941 (caso <em>Eternit</em>), che conferma la giurisprudenza intesa ad assumere configurabile un “<em>disastro innominato</em>” ex art.434 c.p. non solo dinanzi a macroeventi dalla portata distruttiva immediata e devastante (arco di tempo ristretto), ma anche dinanzi ad eventi che in un periodo di tempo prolungato e senza immediata percezione visiva siano comunque idonei, alla lunga, a compromettere il bene sicurezza per la salute (e per altri interessi della persona costituzionalmente tutelati), sì da far luogo ad un reato contro la “<em>pubblica incolumità</em>” attraverso imponenti processi di deterioramento dell’habitat umano attraverso un torno temporale anche di lunga o lunghissima durata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 maggio esce la legge n. 68 che, raccogliendo l’invito della Corte costituzionale del 2008, disciplina la figura di reato del disastro ambientale, collocandola all’art. 452.quater c.p. e prevedendo la punibilità, a titolo alternativo, del macroevento (di dimensioni consistenti), ovvero dell’evento non macroscopico ma comunque in grado di essere offensivo del bene giuridico dell’ambiente (che, pur se contermine a quello della pubblica incolumità, non si sovrappone integralmente ad esso, sicché l’ambiente, a differenza della pubblica incolumità, sarebbe potenzialmente aggredibile anche da eventi di tipologia non macro, magari diluiti nel tempo).</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, C-105/14, caso <em>Taricco</em> con la quale la Corte – muovendo dall’art.325 del TFUE in tema di tutela degli interessi finanziari dell’Unione – dichiara l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p. in tema di prescrizione quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini prescrizionali più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledano interessi finanziari dell’Unione. Si tratta di un caso di disapplicazione in <em>malam partem</em> imposta a livello europeo che incide sui diritti dei singoli imputati nei processi penali pertinenti. E’ dubbio altresì, secondo la dottrina, quando una frode possa assumersi “<em>grave</em>” ai fini dell’applicazione di questa sentenza, ed è altresì dubbio il “<em>numero considerevole di casi</em>” in cui il limite prescrizionale è da considerarsi tale da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari della UE, con ovvi riflessi anche su tassatività e principio di legalità penalistico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 46170 che, nel rendere una prima interpretazione dell’art. 452 bis c.p., fornisce chiarimenti per definire l’esatta portata di alcuni elementi della fattispecie. L’avverbio “<em>abusivamente</em>” (“<em>chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi</em>”), secondo la Corte, deve essere inteso in un’accezione ampia, comprendente la violazione tanto di leggi (statali o regionali) quanto di prescrizioni amministrative. Con riferimento, invece, ai concetti di “<em>compromissione</em>” e “<em>deterioramento</em>”, entrambi indicano una modifica del bene ambiente, ma secondo una scala di gravità crescente essendo caratterizzati il primo da un condizione di squilibrio funzionale, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema e il secondo in uno squilibrio strutturale, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di quest’ultimi. Infine, la “<em>significatività</em>” (intesa come incidenza e rilevanza) e la “<em>misurabilità</em>” (intesa come apprezzabilità quantitativa oggettivamente rilevante) della compromissione o del deterioramento della matrice ambientale o dell’ecosistema possono essere valutate liberamente dal giudice, non essendo egli vincolato per la Corte a parametri imposti dalla disciplina di settore, pur potendo tuttavia trarre dai medesimi elementi di giudizio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 che rinvia nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE al fine di ottenere la corretta interpretazione della sentenza resa sul caso <em>Taricco</em> in materia di prescrizione dei reati connessi a frodi finanziarie gravi e tali da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari dell’UE. In particolare la Corte sottopone alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: a) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; b) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale ed è soggetta al principio di legalità; c) se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, <em>Taricco</em>, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro (c.d. controlimiti).</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27458 onde, in ossequio ai principi di tassatività e di legalità in materia penale, non è consentito sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un'interpretazione di tipo analogico <em>in malam partem</em>, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria e dovendosi quindi rigettare quegli orientamenti interpretativi che, pur se ispirati all'ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe a tutela di situazioni di maggiore vulnerabilità per le persone, conducano ad un’estensione delle aggravanti previste per fattispecie analoghe. In particolare, un’aggravante che fa riferimento a “<em>scuole di ogni ordine e grado</em>” quale luogo protetto in ragione dell’età dei soggetti frequentanti, non può essere applicata anche alle università stanti le diversità di sistemi e di principi applicabili alle due diverse realtà; tuttavia, il contesto universitario può far scattare l’aggravante in questione poiché rientrante nella diversa espressione “<em>comunità giovanile</em>” senza, in tal caso, ricorrere al ragionamento analogico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 luglio viene varata la legge n.110, con la quale viene introdotto nel sistema penale italiano il reato di tortura, come reato di natura abituale. Più in specie, con l’art.1 viene innestato nel codice penale l’art.613.bis, secondo il cui comma 1 chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona: si tratta di una norma incriminatrice che viene tacciata dalla più attenta dottrina come deficitaria sul crinale della tassatività, sia laddove prevede la crudeltà come elemento costitutivo della fattispecie (meno problemi pone l’indefinito concetto di crudeltà laddove compendi mera circostanza aggravante, come nell’ipotesi di cui all’art.61, n.4, c.p.); sia laddove parla di trattamento inumano e degradante, sulla scia dell’art.3 della CEDU che tuttavia, secondo l’interpretazione fornitane dalla stessa Corte EDU, non appare nozione confinabile in una definizione rigida.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 40076 che, mutando la giurisprudenza fino ad allora consolidata, dichiara che l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione. Tale pronuncia aprirà la strada all’intervento della Corte Costituzionale, in quanto la dottrina rileva immediatamente come si sia di fronte ad una portata ‘para-costituzionale’ della sentenza che ribadisce il sacrosanto principio della illegittimità di formulazioni incriminatrici vaghe ed indeterminate attraverso la strada sbagliata della interpretazione conforme, piuttosto che devolvere la questione all’organo deputato a sindacare la legittimità costituzionale delle leggi. Oltre ad entrare in collisione con l’architettura dei poteri delineata dalla Carta repubblicana, la soluzione sperimentata dalle Sezioni Unite non tutela i diritti dei destinatari di giudicati di condanna emessi in epoca antecedente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 novembre viene varata la legge n. 167 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Con tale intervento il legislatore amplia il novero delle condotte punibili con il reato di negazionismo, inserendo anche la “minimizzazione” e la “apologia”. La portata effettiva della novella è tuttavia limitata, in quanto, trattandosi di un’aggravante e non di una fattispecie autonoma di negazionismo, le condotte tipiche devono innestarsi su quelle “principali” di propaganda, istigazione e incitamento. Inoltre, il legislatore inserisce il reato di cui all’art. 3 della Legge Reale-Mancino e la relativa aggravante di negazionismo fra i reati presupposto della responsabilità degli enti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre esce la sentenza della <strong>Grande Sezione</strong> della <strong>Corte di Giustizia UE</strong> nella causa C-42/17, <em>M.A.S. e M.B.</em>, relativa alla rimessione della Corte Costituzionale del gennaio dello stesso anno in tema di prescrizione (c.d. <em>Taricco II</em>), ove viene affermata la prevalenza dei principi di non-retroattività e di determinatezza, quali specificazioni del principio di legalità dei reati e delle pene rispetto agli interessi dell’Unione, fermi tuttavia gli impegni degli Stati membri ad adeguare le proprie normative al contrasto di fenomeni elusivi. In sostanza, per la Corte <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3dNVNUR%26C%3dHb%26A%3dSHTUW%266%3dTNVJXU%26L%3dyMGG_9tpq_J4_Erjs_O7_9tpq_I9JND.76IzMGFv06L0M6Qz4.6K_9tpq_I9A6DL_Erjs_O7HZ_Erjs_O7QcWaQaTaJX_Erjs_O7ZE_CIzGz07BB_5z_E28rE6Kr_IE6C496_0N9C_65yCz0B_5z_MHKvExIv_090_zGG698FJz_96ErGM0rK6_5vE9_v5BBEv_hHI6I22.yM0C_9tpq_J9HK4_LBL962_Ihvm_Tug2h_58JJ38GKvK_Erjs_OWBM0_Dv76L4_Kntg_V16446C_4x2r9tpq_IYHK4_6xD74685_Kntg_V1evj%261%3d%2600%3dUVZKT">il principio di legalità prevale sull'obbligo di tutelare gli interessi finanziari dell'Unione Europea</a>. Per la Corte l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso di imporre al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione rientranti nel diritto sostanziale nazionale che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i ridetti casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato; ciò a meno che una disapplicazione siffatta – che è ovviamente <em>in malam partem</em> - comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 115 che chiude la c.d. “vicenda Taricco” in tema di prescrizione. La Corte di giustizia nel 2017 ha chiarito che, in virtù del divieto di retroattività in <em>malam partem</em> della legge penale, la c.d. “regola Taricco” non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015. Ciò però non equivale a ritenere la questione priva di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali. Indipendentemente dalla collocazione dei fatti, il giudice comune non può applicare loro la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, comma 2, Cost. Ciò posto, appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la "regola Taricco"), sia la "regola Taricco" in sé. Quest'ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell'art. 325 TFUE, è irrimediabilmente indeterminata nella definizione del "numero considerevole di casi" in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte evidenzia come sia indeterminato l'art. 325 TFUE perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della "regola Taricco". Il principio di determinatezza ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque "una percezione sufficientemente chiara ed immediata" dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta. Pertanto, quand'anche la "regola Taricco" potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a "colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale". Peraltro, conclude la Consulta, è persino intuitivo (anche alla luce della sorpresa manifestata dalla comunità dei giuristi nel vasto dibattito dottrinale seguito alla sentenza Taricco, pur nelle sfumature delle diverse posizioni) che la persona, prendendo contezza dell'art. 325 TFUE, non potesse (e neppure possa oggi in base a quel solo testo) immaginare che da esso sarebbe stata estrapolata la regola che impone di disapplicare un particolare aspetto del regime legale della prescrizione, in presenza di condizioni del tutto peculiari. Se è vero che anche "la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed interpretazioni sistematiche", resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla <em>praevia lex scripta</em>, con cui si intende garantire alle persone "la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d'azione". Ciò è come dire che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la "regola Taricco". Fermo restando che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell'Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la sentenza M.A. S., un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43264 che definisce l’elemento oggettivo del delitto di devastazione. In particolare, la Corte spiega come il concetto di devastazione, ai fini penalistici, consista in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento - comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo - di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreti dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 2124 che, sulla scorta dell’evoluzione avutasi con la sentenza delle SU Paternò, rimette alle Sezioni Unite la questione relativa alla definizione dei “pubblica riunione” dal momento che in giurisprudenza si rinvengono due orientamenti contrastanti e che tale incertezza è in grado di incidere sulla determinatezza della norma.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 4878 che ribadisce, ai fini del rispetto del canone della tassatività della norma, l’orientamento secondo il quale, nel reato di fronte tossica, per sostanze nocive devono intendersi quelle che possono arrecare concreto pericolo alla salute dei consumatori. Tale pericolosità, quindi, non è data dalla ipotetica ed astratta possibilità di nocumento della sostanza alimentare, ma dalla attitudine concreta di essa a provocare danno alla salute pubblica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 25 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del d.lgs 159/11 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; dichiara altresì incostituzionale, in via consequenziale, l’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte premette che l’<em>abolitio criminis</em> – per <em>ius superveniens</em> o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato. In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato; l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante, ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo. La Corte (sentenza n. 230 del 2012) − in una situazione similare che vedeva la sopravvenienza di un orientamento delle Sezioni unite penali secondo cui non costituiva reato la condotta oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui era chiesta la revoca ex art. 673 cod. proc. pen. per abolizione del reato − ha sottolineato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]l pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (<em>eius est abrogare cuius est condere</em>)». Inoltre, si è affermato che l’ordinamento nazionale «conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato» (sentenza n. 210 del 2013). E, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato da una pronuncia della Grande camera della Corte EDU, ha aggiunto che «il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che […] limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice»; a maggior ragione è allora rilevante un dubbio di legittimità costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in cui il giudicato non si è ancora formato, ma sta per formarsi proprio in ragione della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione che la Corte rimettente ritiene debba essere emessa, a meno che non sia accolta la questione di costituzionalità e sia dichiarata l’illegittimità della norma incriminatrice.</p> <p style="text-align: justify;">Entrando nel merito della questione, il parametro nazionale evocato dalla Corte rimettente è il principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato, da ciò discendendo il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La Corte costituzionale ha valutato la conformità a tale principio della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno» e nel comma 2, allora censurato, che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni». Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 − l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini, in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia. La Corte ha ricordato che per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce; e, in particolare, ha ribadito che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»; ha, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: da una parte, le «leggi» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «vivere onestamente» va «collocat[o] nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo.</p> <p style="text-align: justify;">Dei due parametri convenzionali, evocati nell’ordinanza di rimessione, che però esprimono lo stesso canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale, è stato preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge». Il sistema nazionale delle misure di prevenzione ‒ quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto − è stato censurato per essere formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare − pur dando atto della (non collimante) interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 282 del 2010 con riferimento all’omologo principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost. − ha ritenuto, all’opposto, che gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (oltre che di «non dare ragione alcuna ai sospetti», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non fossero delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, segnatamente quello posto dall’art. 2 del Protocollo n. 4. La pronuncia della Corte EDU è stata decisiva nell’orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, n. 40076 del 2017 (cosiddetta “sentenza Paternò”); le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione. La Corte di cassazione si confronta con la sentenza de Tommaso, avendo ben presente che – come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 2009) − compete al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla CEDU; considera, in particolare, che «la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)». La Corte procede quindi a una «rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU» e perviene alla conclusione che «il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”». La conclusione è che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011». Aggiungono le Sezioni unite: «ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale». Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia – per quanto sopra ritenuto in ordine alla rilevanza e all’ammissibilità delle questioni – non si è di fronte a un’<em>abolitio criminis</em> per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a uno <em>ius superveniens</em>, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale. Area questa costituita – come già sopra rilevato − sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili. In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la questione di costituzionalità come possibile completamento dell’operazione di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni unite nei limiti in cui l’interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese. L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. È ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia. La Corte costituzionale ha già affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009). È quanto si è verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla CEDU (art. 11). Non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce della Corte costituzionale sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente − rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).</p> <p style="text-align: justify;">Vi è poi da considerare che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura. Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost..</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i tre principi complementari in tema di tassatività?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il principio di <strong>precisione</strong>: i <strong>diritti di libertà</strong> del cittadino vanno preservati attraverso la <strong>precisa indicazione </strong>del<strong> fatto</strong> penalmente rilevante e della <strong>sanzione</strong> comminata, limitando la discrezionalità del giudice;</li> <li>il principio di <strong>determinatezza</strong>: il fatto penalmente rilevante va <strong>descritto</strong> in modo da poter essere <strong>accertato e provato</strong> nel processo attraverso <strong>scienza ed esperienza</strong> attuali;</li> <li>il principio di <strong>tassatività</strong> in senso stretto (o <strong>divieto di analogia</strong>): il legislatore e soprattutto <strong>il giudice</strong> non possono estendere la disciplina oltre i <strong>casi espressamente previsti</strong> dalla norma incriminatrice.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è l’atteggiamento della Corte costituzionale in fattispecie sospette di essere in rotta di collisione con il principio di tassatività?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>dichiarare direttamente la <strong>incostituzionalità</strong> della norma (come nel caso paradigmatico del plagio);</li> <li>salvare la norma, dandone una <strong>interpretazione costituzionalmente orientata</strong> (come nel caso del disastro ambientale e dello <strong><em>stalking</em></strong>).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i valori da salvaguardare attraverso il principio di tassatività della fattispecie penale?</strong></p> <ul style="text-align: justify;"> <li>evitare una <strong>operazione creativa del diritto</strong> da parte del giudice penale;</li> <li>garantire in ogni caso – non essendo la legge <strong>onniloquente</strong> come pretendevano gli Illuministi - che il dato giuridico sia adeguato al <strong>divenire della realtà sociale</strong>, attraverso l’utilizzo di <strong>formule elastiche</strong> che tuttavia non sconfinino nella <strong>genericità</strong> e siano comunque capaci di identificare un <strong>comportamento verificabile</strong> e, dunque, <strong>punibile</strong>;</li> </ul> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale problema pongono in tema di tassatività gli elementi normativi extra-giuridici della fattispecie penale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>essi richiamano <strong>norme di natura non giuridica</strong> e dunque <strong>norme etiche</strong>, <strong>norme sociali</strong>, <strong>norme di costume</strong>, <strong>norme tecniche</strong>, <strong>norme scientifiche</strong>;</li> <li>la relativa presenza compendia un <strong>elemento elastico o flessibile</strong> della fattispecie penale (non un elemento <strong>rigido e descrittivo</strong> facilmente <strong>verificabile</strong>, di tipo ad esempio <strong>numerico</strong>) che da un lato garantisce il <strong>costante adeguamento</strong> del sistema sanzionatorio al <strong>divenire della realtà sociale</strong>, ma dall’altro può implicare problemi di <strong>compatibilità</strong> con il principio di <strong>tassatività, precisione e sufficiente determinatezza</strong> della fattispecie.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si pone il problema della tassatività della fattispecie penale in relazione ai diversi elementi che la compendiano?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>Se si tratta di <strong>elementi vaghi ed indeterminati</strong>, la fattispecie non rispetta il requisito della tassatività: il giudice, dopo aver percepito, valuta in modo del tutto arbitrario il fatto concreto riconducendolo o meno, <strong>a suo libito</strong>, alla fattispecie astratta;</li> <li>Se si tratta di <strong>elementi elastici</strong> e di <strong>d. clausole di illiceità speciale</strong> (es, “<strong><em>senza giustificato motivo</em></strong>”, “<strong><em>arbitrariamente</em></strong>” o simili), anche se il grado di apprezzamento del giudice non è totalmente vincolato, essi possono in ogni caso - a determinate condizioni - <strong>essere compatibili</strong> con il principio di tassatività; sono i casi in cui esiste comunque <strong>uno iato</strong> tra l’<strong>attività percettiva</strong> del giudice e quella di <strong>valutazione</strong> a fini di riconducibilità del fatto concreto alla fattispecie astratta;</li> <li>Se si tratta di <strong>elementi rigidi</strong>, in cui il giudice <strong>percepisce</strong> e al medesimo tempo <strong>valuta</strong> la fattispecie concreta <strong>riconducendola in via immediata</strong> a quella astratta (<strong>non vi è iato</strong> tra <strong>percezione</strong> e <strong>valutazione</strong> a fini di punibilità) non si pone alcun problema di frizione col principio di tassatività.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali problemi interpretativi pone il nuovo art. 452.quater c.p. in tema di disastro ambientale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="452"> <li>una prima questione riguarda la <strong>clausola di sussidiarietà</strong>, per la quale la norma diventa operativa “<strong><em>fuori dai casi previsti dall’art.434</em></strong>”: a.1) una tesi legge tale clausola nel senso onde essa conferma la <strong>non sussumibilità</strong> del disastro ambientale nelle nozioni di <strong>disastro</strong> (nominato o innominato) previste tradizionalmente dall’art.434 c.p.; a.2) secondo un’altra tesi, al contrario, il disastro ambientale <strong>è sussumibile</strong>, a seconda dei casi, <strong>nell’art.434</strong> (che richiede <strong>un evento invasivo</strong> di contaminazione ambientale <strong>e insieme, congiuntamente,</strong> un pericolo per la <strong>pubblica incolumità</strong>) ovvero <strong>nell’art. 452.quater</strong> (per applicare il quale basta <strong>o</strong> l’<strong>evento invasivo</strong> di contaminazione ambientale <strong>ovvero, alternativamente,</strong> il pericolo per la <strong>pubblica incolumità</strong>), il che condurrebbe peraltro ad un esito irragionevole e violativo dell’art.3 Cost. in quanto i <strong>casi più gravi</strong> sono quelli in cui è presente <strong>congiuntamente</strong> sia l’<strong>evento invasivo</strong> che il pericolo per la <strong>pubblica incolumità</strong>, e ad essi finisce tuttavia con l’applicarsi – proprio in forza della clausola di sussidiarietà – l’art. 434 c.p. <strong>la cui pena è più mite</strong> rispetto a quella dell’art. 452.quater c.p.;</li> <li>una seconda questione – maggiormente afferente al principio di tassatività della fattispecie - riguarda il riferimento che <strong>l’art. 452.quater c.p.</strong> fa (al <strong>3</strong>) alla “<strong><em>offesa</em></strong>” alla <strong>pubblica incolumità</strong>: la pubblica incolumità è tuttavia aggredibile <strong>soltanto con una</strong> delle <strong>due possibili declinazioni</strong> dell’<strong>offesa</strong> penalisticamente intesa, vale a dire con la <strong>messa in pericolo</strong> (che è concetto <strong>potenziale</strong>, applicabile ad un numero indeterminato di persone), mentre è <strong>inapplicabile</strong> alla indistinta “<strong><em>pubblica incolumità</em></strong>” una offesa <strong><em>sub specie</em> di danno</strong>, stante come quest’ultimo non possa che fare riferimento – all’opposto - ad un numero <strong>determinato</strong> di persone (quelle, per l’appunto, <strong>danneggiate in concreto</strong> dall’evento disastroso ambientale); a venire sanzionato è allora <strong>solo</strong> chiunque <strong>cagiona un pericolo</strong> (offesa) per la pubblica incolumità, ed in tal modo viene decritto per essere assoggettato a pena un <strong>contegno generico </strong>(quando può<strong> realmente dirsi messa in pericolo </strong>la<strong> pubblica incolumità</strong>?), descritto in modo da escludere qualunque <strong>capacità selettiva</strong> dei comportamenti in concreto punibili e per giunta configurante <strong>un reato di pura condotta</strong>, e non già un reato di evento (l’evento-disastro ambientale), con palmare <strong>deficit di tassatività</strong> e frizione con l’art.25, comma 2, Cost.</li> </ol>