Massima
La concreta possibilità di rimproverare un fatto penalmente sanzionato (evento inadempimento reato) al relativo autore deriva in primo luogo – anche dal punto di vista naturalistico – dal grado di adesione psicologica di chi agisce rispetto a ciò che compie, quale elemento che ne impegna la responsabilità e ne impone, tendenzialmente, la rieducazione; si può – nel ledere o porre in pericolo interessi penalmente rilevanti – “volere sapendo” e “sapere volendo” secondo gradi diversi in cui la rappresentazione abbraccia la volontà con fogge talvolta reali, talaltra frutto della categorizzazione di chi studia il fenomeno del dolo, indubbiamente connotato da epifanie di maggiore o minore complicazione accertativa, come dimostra la classica ipotesi del dolo c.d. eventuale in rapporto alla contermine figura della colpa cosciente.
Crono-articolo
Nel diritto romano non mancano sin dall’epoca arcaica chiari riferimenti alla necessità che il fatto illecito sia assistito dall’elemento cosciente-intenzionale, come dimostra la differenza di trattamento – riconducibile tradizionalmente alla legislazione di Numa Pompilio (c.d. Lex Numana) – riservata all’omicidio doloso (commesso dolo sciens), e che autorizzava la vendetta dei parenti della vittima, rispetto a quella prevista per l’omicidio involontario (colposo, come si evince dall’aggettivo “imprudens”), laddove era richiesto il solo sacrificio di un ariete in favore degli agnati del defunto. La dottrina ha osservato come questa “lex Numae” abbia fissato dei precisi paletti all’indiscriminata reazione dei parenti della vittima, assumendo omicida, e come tale sottoposto alla sanzione della vendetta per uccisione, solo chi commette il fatto, per l’appunto, “dolo sciens”: si è in proposito al cospetto – in questa prima fase – di una terminologia variamente usata al fine di additare la responsabilità dolosa in ambito romanistico (sciens, sciens prudensque, sciens dolo malo) che ha condotto parte della dottrina massime tedesca a ritenere come solo il momento conoscitivo venga preso in considerazione, dato inoltre che non risulta alcuna indicazione che espressamente richiami il momento volitivo in relazione all’evento, con possibilità – per i casi più gravi – di assumere sufficiente financo quello che oggi chiamiamo dolo eventuale. Successivamente, oltre alla necessità dell’elemento intenzionale per l’iniuria a partire dalle XII Tavole, si parlerà di dolus, culpa, fraus, animus, voluntas e così via per rappresentare la necessità di quel nesso di intensa riconducibilità tra la condotta ed il soggetto che se ne predicasse autore che oggi accostiamo al dolo quale (più o meno) consapevole volontà di ledere beni o interessi appannaggio di terzi. In particolare è da richiamare la lex Cornelia de sicariis et veneficis, voluta nell’81 a.C. dal dittatore Silla e che è stata dalla dottrina additata quale primo provvedimento normativo nel cui ambito il dolus malus esprime in modo ormai delineato l’elemento volitivo del fatto penalmente rilevante e, dunque, il dolo come volontà (vengono deferiti ad apposito tribunale gli omicidi commessi con uso di armi o di sostanze venefiche) più ed oltre che come mera consapevolezza.
1889
Nella codificazione liberale Zanardelli il dolo campeggia all’art.45, laddove vi viene disciplinato quale elemento soggettivo principe (e tendenzialmente esclusivo) di imputabilità del fatto, onde “nessuno può essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione”, in un contesto di mescolanza in cui restano sullo sfondo – palesandosi richiamati solo per implicito (“la legge pone altrimenti a carico”) – la colpa, il nesso di causalità e la responsabilità oggettiva e la preterintenzione. La dottrina più autorevole, come nel caso del Carrara, muovendo proprio dall’art.45 e dalla sostanziale indistinzione che lo contraddistingue, non riconosce durante la relativa vigenza autonoma dignità alla colpa con previsione, da un lato, e al dolo indiretto (o determinato ab exitu), sostanzialmente equivalente all’odierno dolo eventuale, dall’altro, riconducendoli entrambi nell’alveo del dolo tout court. Il quadro degli elementi soggettivi si completa poi con la previsione della preterintenzione e della colpa nella relativa accezione base (essendo la colpa cosciente o con previsione assimilata, come visto, al dolo), quali ipotesi in cui il fatto è posto “altrimenti” a carico dell’autore, in una con la responsabilità oggettiva.
1930
Nel codice penale Rocco il dolo è disciplinato all’art.43, onde il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; il dolo viene dunque separato dal nesso di causalità (disciplinato dagli articoli 40 e 41 c.p.) e dai diversi titoli di imputazione soggettiva del reato, quali la preterintenzione, la colpa e la responsabilità oggettiva, previsti e definiti, separatamente dal paradigma del dolo, i primi due sempre all’art.43 c.p. e la responsabilità oggettiva all’art.42, mentre all’art.61, n.3, viene prevista la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto colposo con previsione dell’evento (c.d. colpa cosciente).
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, è ciò ha un particolare valore laddove la condotta sia sorretta da un coefficiente psichico di effettiva coscienza e volontà, seppure in una gamma mutevole e variegata.
1978
Il 7 maggio esce la sentenza della Cassazione n.5796 che, assumendo insufficiente al fine di stabilire il discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente la teoria meramente volontaristica, elabora una teoria c.d. mista fondata sulla c.d. accettazione del rischio, laddove rappresentazione e volontà del soggetto agente trovano contemporanea operatività, onde risponde a titolo di dolo eventuale l’agente che, pur non avendo preso di mira l’evento poi accaduto, accetta consapevolmente il rischio che esso si verifichi agendo anche a costo di determinarlo, mentre risponde a titolo di colpa cosciente il soggetto che, pur rappresentandosi la possibilità dell’evento lesivo, agisca nella convinzione (confidando) che esso non si verificherà. A questo arresto si uniforma la giurisprudenza successiva per parecchi lustri.
1982
Il 2 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Blanc, che si occupa dei rapporti tra ricettazione ed incauto acquisto: si ha ricettazione ex art.648 c.p. quando il soggetto agente è pienamente consapevole della provenienza delittuosa della res che coscientemente e volontariamente trasferisce nella propria disponibilità; laddove invece la consapevolezza del soggetto agente in ordine alla provenienza delittuosa della res acquistata non sia piena, ma si accompagni a dubbi e perplessità, scatta la fattispecie strutturalmente colposa dell’incauto acquisto ex art.712 c.p., dinanzi al sospetto in ordine alla provenienza da reato della cosa ricevuta imponendosi ragionevoli accertamenti sulla liceità o illiceità di detta provenienza.
1983
Il 18 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.6309, Basile, che – muovendo da una concezione oggettiva (e non soggettiva) della univocità degli atti nel tentativo ex art.56 c.p. – dichiara il dolo eventuale compatibile con le fattispecie tentate. In sostanza viene inaugurato da questa importante pronuncia un filone pretorio che – aderendo ad una concezione oggettiva del requisito dell’univocità degli atti nel delitto tentato – afferma l’integrale simmetria tra il ventaglio dei coefficienti dolosi che peculiarizzano le fattispecie consumate e quello che caratterizza le corrispondenti fattispecie tentate, sì da assumere pienamente compatibile, ad esempio, l’omicidio tentato con il coefficiente psicologico del dolo eventuale.
1984
Il 26 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7489, Lagrotteria, onde, in tema di strage, non è mai configurabile il dolo eventuale (che con essa è incompatibile), in quanto occorre accertare il dolo specifico di uccidere, che è dolo intenzionale. In sostanza, uccidere è lo scopo specificamente perseguito dall’agente nella strage, non compendiando un evento che il soggetto – nel volerne un altro meno grave – si rappresenti come probabile o possibile conseguenza della propria condotta, agendo anche a costo di determinarlo. Il volere intenzionalmente uccidere della strage è dunque incompatibile con il dolo eventuale.
1985
Il 22 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Calpuno, che abbraccia il revirement delle SSUU del 1983 in tema di compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, muovendo da una concezione oggettiva (e non soggettiva) della univocità degli atti nel tentativo ex art.56 c.p
*Il 20 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Martelli, che abbraccia il revirement delle SSUU del 1983 in tema di compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, muovendo da una concezione oggettiva (e non soggettiva) della univocità degli atti nel tentativo ex art.56 c.p
1988
*L’11 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Branda, che abbraccia il revirement delle SSUU del 1983 in tema di compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, muovendo da una concezione oggettiva (e non soggettiva) della univocità degli atti nel tentativo ex art.56 c.p
1989
*Il 6 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Iannone, che abbraccia il revirement delle SSUU del 1983 in tema di compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, muovendo da una concezione oggettiva (e non soggettiva) della univocità degli atti nel tentativo ex art.56 c.p
1990
Il 23 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Zambo, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
*Il 2 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Soro, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
*Il 23 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Ditto, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
*Il 12 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Cellentani, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
*Il 26 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Nocera, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
*Il 29 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Cicuttini, che ribadisce come in tema di strage non sia mai configurabile il dolo eventuale (che con essa è incompatibile), in quanto occorre accertare il dolo specifico di uccidere, che è dolo intenzionale. In sostanza, uccidere è lo scopo specificamente perseguito dall’agente nella strage, non compendiando un evento che il soggetto – nel volerne un altro meno grave – si rappresenti come probabile o possibile conseguenza della propria condotta, agendo anche a costo di determinarlo. Il volere intenzionalmente uccidere della strage è dunque incompatibile con il dolo eventuale.
1991
Il 3 maggio viene varato il decreto legge n.143 che, all’art.12, sanziona penalmente la ricezione di carte genericamente “di provenienza illecita”: la norma porrà problemi di coordinamento con l’incauto acquisto (art.712 c.p.) e con la ricettazione (art.648 c.p.).
Il 14 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Castelletti, che ribadisce l’orientamento onde in caso di piena consapevolezza circa la provenienza delittuosa della cosa acquisita, si ha ricettazione ex art.648 c.p., che presuppone il dolo diretto ed è invece incompatibile con il dolo eventuale, stante come il dubbio (e la conseguente accettazione del rischio) in ordine alla provenienza delittuosa (quale presupposto del delitto di ricettazione) si risolve nella inoperatività dell’art.648 c.p., con fattispecie attratta sotto l’usbergo precettivo dell’art.712 c.p., laddove viene punito l’acquisto di cose di sospetta provenienza.
Il 5 luglio viene varata la legge n.197 che converte in legge il decreto legge n.143.
1992
*L’11 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Amadesi, che esclude la compatibilità del tentativo con il dolo eventuale, presupponendo il primo il dolo intenzionale o quanto meno diretto, a cagione della necessità che gli atti che lo compendiano siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
1993
Il 12 ottobre esce la sentenza delle SSUU, Cassata, che si occupa del dolo c.d. alternativo. Nella specie il soggetto agente, al fine di sottrarsi alla cattura, ingaggia una sparatoria nel cui contesto spara 5 colpi di arma da fuoco a distanza ravvicinata: secondo la Corte (che respinge la ricostruzione in termini di omicidio con dolo eventuale imbastita dal giudice del merito) chi agisce in simili circostanze prevede alternativamente gli eventi, rispettivamente, di lesioni o di morte, che sono (non già meramente possibili, quanto piuttosto) entrambi altamente probabili, sicché deve ritenersi che il dolo sia diretto per essere tali eventi entrambi alternativamente voluti in via diretta dal reo (tanto le lesioni quanto l’omicidio), onde l’agente risponde per l’evento alfine effettivamente realizzato (laddove la vittima non soccomba, tentato omicidio, che assorbe il meno grave delitto di lesioni), a titolo di dolo diretto e non eventuale.
1997
Il 16 luglio viene varata la legge n.234 in tema di modifica dei reati contro la PA, il cui art.1 interviene sulla fattispecie dell’abuso d’ufficio (art.323 c.p.) inserendo l’avverbio “intenzionalmente” e con ciò escludendo in linea tendenziale la rilevanza penale sia del dolo diretto (il soggetto vuole altro, e si rappresenta il fatto punito, l’abuso d’ufficio appunto, come altamente probabile o come certo) che a fortiori del dolo eventuale (il soggetto accetta il rischio che accada l’evento – abuso d’ufficio – penalmente sanzionato).
1998
Il 12 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione che, in contrario avviso rispetto all’orientamento maggioritario, ammette la compatibilità tra la ricettazione ed il dolo eventuale: l’incauto acquisto riguarda solo le ipotesi colpose, mentre laddove sia presente il dolo, anche nella forma minima della c.d. accettazione del rischio (dolo eventuale), per la Corte deve parlarsi di ricettazione. Del resto, l’art.712 c.p. punisce non chi abbia acquistato cose di cui (egli) “sospetti” la provenienza da reato (con richiamo all’atteggiamento psicologico e soggettivo di chi agisce), ma chi abbia operato tale acquisto o ricezione di cose di cui “si abbia motivo di sospettare” (in senso oggettivo, che richiama un agente modello) tale provenienza da reato: l’art.712 c.p., conclude la Corte, è reato strutturalmente colposo, collegato ad un difetto di diligenza in capo al soggetto agente, affiorando una oggettiva ragione di sospetto in ordine alla provenienza della res che si acquista o si riceve, cui corrisponde un comportamento imprudente o negligente di chi agisce. Al contrario, in presenza di una consapevole accettazione del rischio (dal punto di vista dell’atteggiamento psicologico) in capo al soggetto agente, questi deve essere punito per ricettazione col dolo eventuale, essendo la ricettazione punita a titolo di dolo e dunque, sostanzialmente, qualunque sia il tipo di dolo immaginabile, compreso quello appunto indiretto ed eventuale.
1999
Il 19 novembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione, Denaro, che – in tema di omicidio – ritorna sul c.d. dolo alternativo, affermando come esso si palesi quale dolo diretto (con esclusione del dolo eventuale), dal momento che il soggetto agente si rappresenta e vuole indifferentemente sia l’uno che l’altro tra gli eventi alternativamente riconducibili sul piano causale alla relativa condotta cosciente: in sostanza, per chi agisce è lo stesso se si avranno solo lesioni o se giungerà la morte, rispondendo in questo secondo caso di omicidio diretto (e non eventuale).
2001
Il 28 marzo esce la sentenza delle SSUU n.22902 in tema acquisto di carte di provenienza delittuosa, che assume configurabile nel caso di specie la ricettazione. Secondo la Corte occorre tuttavia distinguere, con riguardo al presupposto della provenienza illecita della carta: a) l’ipotesi in cui la provenienza sia delittuosa, e dunque derivi da un delitto, nella quale scatta la ricettazione ex art.648 c.p.; b) l’ipotesi in cui la provenienza illecita sia contravvenzionale, ovvero da illecito civile o amministrativo, nella quale scatta la diversa fattispecie incriminatrice di cui all’art.12 del decreto legge 143.91, convertito nella legge 197.91, che sanziona genericamente la ricezione di carte appunto “di provenienza illecita”.
2003
Il 18 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione in tema di dolo alternativo: nella fattispecie, il soggetto agente con un primo segmento di condotta opera per uccidere, e con un successivo segmento opera per distruggere ed occultare il cadavere, ovvero per uccidere laddove il primo segmento della condotta non si sia rivelato all’uopo sufficiente: in questi casi, la morte viene imputata per la Corte al soggetto agente a titolo di dolo diretto alternativo, e non già di dolo eventuale, in quanto chi agisce non accetta il rischio che la vittima muoia quando ne distrugge od occulta il cadavere, ma vuole (seppure alternativamente) essere certo di avere ucciso.
2006
Il 28 giugno esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.251 che dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale sollevata, in riferimento agli artt. 97 e 3 della Costituzione, e dunque salva la norma sull’abuso d’ufficio ridisegnata nel 1997; la questione che si pone è quella della compresenza nel pubblico ufficiale del fine privato (punito) col fine di perseguire (anche) l’interesse pubblico. Secondo la Corte, in base ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità (diritto vivente), non è sufficiente che l’imputato abbia perseguito il fine pubblico accanto a quello privato affinché la relativa condotta, ancorché illecita dal punto di vista amministrativo, vada esente da sanzione penale, ma è necessario che egli abbia perseguito tale fine pubblico come proprio obiettivo principale, con conseguente degradazione (sul crinale dell’interesse privato) del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale – l’unico che ne imporrebbe la punizione – a mero dolo diretto (semplice previsione dell’evento come secondario) od eventuale (mera accettazione del rischio della verificazione dell’evento): in sostanza, laddove il pubblico ufficiale – nel compendiare la fattispecie penalmente rilevante dal punto di vista oggettivo – si proponga l’esclusivo scopo di perseguire l’interesse pubblico, e quand’anche sia consapevole della probabilità o della possibilità del vantaggio o del danno, il dolo di abuso d’ufficio deve dirsi escluso; quando al contrario agisca con il dolo specifico (“privatistico”), dovrà essere punito quand’anche occasionalmente persegua anche l’interesse pubblico.
2007
Il 2 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.16666 che ribadisce come il tentativo sia compatibile (oltre che ovviamente con il dolo intenzionale) con il dolo diretto – anche nella relativa forma alternativa – ma non con il dolo eventuale, in quanto in tale ultima ipotesi l’agente si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi dell’evento come conseguenza della propria condotta, ed accetta il rischio di cagionarlo: ciò si pone in ontologica incompatibilità con la diretta ed inequivoca direzionalità degli atti verso l’evento divisato, penalmente punito. Laddove invece il soggetto agente si rappresenti in modo indifferente, assumendoli sostanzialmente equivalenti, l’uno o l’altro evento penalmente sanzionato alternativamente perseguiti, che scaturiscono dalla propria condotta (nesso di causalità) e che appaiono entrambi, seppure in via alternativa, coscientemente voluti (anche se per perseguire scopi ulteriori), si ha dolo diretto alternativo, che è compatibile con il tentativo.
2008
Il 12 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15633 in tema di corruzione di minorenne ex art.609.quinquies c.p., laddove gli atti sessuali sono compiuti alla presenza di un minore al fine di farlo assistere. Trattandosi di fine specifico che l’agente deve perseguire, la fattispecie per la Corte è incompatibile con il dolo eventuale.
Il 12 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44751 alla cui stregua nel caso in cui nel corso di una rapina posta in essere con violenza sulla persona (nella specie, spintonando la vittima e trascinandola per alcuni metri per strapparle la borsa) la persona offesa riporti gravi lesioni personali che ne cagionino il decesso, l’evento morte va addebitato a titolo di omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.: l’evento letale deriva da una azione volontaria di lesioni o percosse), e non come morte in conseguenza di un altro reato (art. 586 c.p.: la morte deriva da un diverso delitto doloso). Nel contesto di tale decisione, la Corte rappresenta compatibili gli atti diretti a percuotere o ledere di cui all’art.584 c.p. con il dolo eventuale: questa norma mira a prevedere una difesa avanzata del bene della vita, visto che non è raro come da atti diretti a percuotere o ledere discenda la morte della vittima: questo giustifica che gli “atti diretti a percuotere o ledere” vanno compendiati esclusivamente sul crinale oggettivo, mentre dal punto di vista soggettivo chi li pone in essere può anche solo averli accettati come eventuali, senza averli voluti in modo immediato e diretto.
2009
Il 4 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9814 che si occupa di dolo eventuale, dolo alternativo e tentativo: per la Corte quando il reo ha preso di mira due eventi alternativi tra loro, in relazione ai quali è indifferente per lui che si realizzi l’uno o l’altro, perché possa parlarsi di tentativo occorre che entrambi questi eventi siano stati da lui previsti e voluti come altamente probabili, configurandosi così il tentativo di due eventi penalmente sanzionati alternativi tra loro e con riguardo ai quali è indifferente per il reo quale dei due si realizzerà, compiendo egli atti diretti ed inequivoci orientati a realizzarli in via alternativa tra loro; occorre in queste ipotesi procedere in concreto, e non in astratto, attraverso una indagine quantitativo-probabilistica alla cui stregua il dolo alternativo potrebbe assumersi non già diretto, ma eventuale, ed in ogni caso compatibile con il tentativo.
Il 7 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.41306, in tema di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi ex art.434 c.p. che punisce il fatto diretto a cagionare un crollo di una costruzione o di una parte di essa, ovvero un altro disastro: per la Corte si è in presenza di una fattispecie in cui il soggetto agisce per un determinato e specifico fine, mentre se ha agito ad un fine diverso (saturazione di un locale col gas al fine di suicidarsi), viene a mancare tanto l’elemento oggettivo quanto quello soggettivo del reato, proponendosi l’autore del fatto un risultato diverso da quello incriminato. La Corte conclude pertanto per la incompatibilità di questa fattispecie con il (mero) dolo eventuale.
2010
L’8 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.4979 che esclude la compatibilità tra il delitto di abuso d’ufficio ex art.323 c.p., siccome ridisegnato dal legislatore nel 1997, ed il dolo eventuale: si tratta di fattispecie a dolo intenzionale, incompatibile non solo con il dolo eventuale, ma anche con lo stesso dolo diretto, dovendo il pubblico ufficiale perseguire in via immediata e diretta la realizzazione dell’evento punito, ovvero il provocare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o anche l’arrecare ad altri un danno ingiusto.
Il 30 marzo esce la sentenza delle SSUU n.12433 che dichiara compatibile il delitto di ricettazione con il dolo eventuale. Occorre muovere dalla considerazione onde il dolo eventuale nelle fattispecie di ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca per la Corte su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto. Per ravvisare il dolo eventuale di ricettazione si richiede allora più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico (colposo) di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse, palesandosi necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire. Per la Corte, può ragionevolmente affermarsi che rispetto alla ricettazione il dolo eventuale appare ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza fosse stato certo. Nel caso di specie l’imputato ha acquistato da uno sconosciuto una tessera Viacard, poi rivelatasi di provenienza illecita: condannato già in sede di appello sulla scorta della piena compatibilità del tentativo con la ricettazione ex art.648 c.p., la Cassazione a SSUU ne conferma la condanna, aderendo a tale prisma ermeneutico di compatibilità. Per comprendere bene l’iter motivazionale della pronuncia delle SSUU occorre tenere conto del fatto che una fattispecie delittuosa può talvolta presentarsi – ed è appunto il caso della ricettazione – come connotata non solo da un certo evento (consumativo), ma anche da determinati presupposti, come appunto la provenienza illecita della cosa che si acquista; rispetto a tali presupposti rileva in primis la componente rappresentativa del dolo, onde chi acquista può essere certo della sussistenza del presupposto, ovvero può essere in dubbio rispetto ad esso, accettando comunque il rischio che tale presupposto sia realmente esistente pur di aggiudicarsi i vantaggi dell’azione divisata, in tal modo abbracciandosi la componente rappresentativa (dubbio sulla provenienza illecita della res) a quella volitiva (accettazione del rischio finalizzata a perseguire un proprio interesse). L’accettazione del rischio, da questo punto di vista, può allora coinvolgere non già solo (come normalmente accade) l’evento del reato, ma anche soltanto i presupposti dello stesso, onde il soggetto agente si figura il presupposto come certo o come probabile o possibile, ma ne accetta il rischio di effettiva sussistenza “costi quel che costi”. Secondo la Corte, che richiama sul punto il proprio precedente a SSUU del 2001, laddove si ricevano carte di provenienza delittuosa, scatta la ricettazione, anche solo a titolo di dolo eventuale (in presenza dei relativi presupposti): diversamente opinando, in presenza di un dolo solo eventuale (per le forme più gravi di dolo è sempre ricettazione) – e laddove fosse predicabile una incompatibilità ontologica tra ricettazione e dolo eventuale – sarebbe da chiedersi se opererebbe l’art.712 c.p. in tema di incauto acquisto ovvero (preferibilmente per la Corte, visto che si tratta di delitto doloso eventuale) l’art.12 del d.l. 143.91 (quest’ultimo certamente operante, in caso di ricettazione di carte di credito o di pagamento, allorché la relativa provenienza sia contravvenzionale, civilmente illecita o amministrativamente illecita). La Corte, al fine di sciogliere il nodo in ordine ai rapporti tra ricettazione ed incauto acquisto in relazione al dolo eventuale, muove dallo stato dell’arte onde si ha ricettazione se l’agente è certo della provenienza delittuosa della res, mentre si ha incauto acquisto laddove tale certezza non vi sia, seppure si sia al cospetto della concreta possibilità che la provenienza sia effettivamente delittuosa. Secondo la Corte, tra il mero sospetto coperto dall’art.712 c.p. (acquisto di cose assistite da motivi di sospetto “tipizzati” in ordine alla liceità della relativa provenienza, senza che si effettuino gli opportuni accertamenti) ed il dolo diretto certamente attinto dall’art.648 c.p. si colloca un gradino intermedio che viene occupato dal dolo eventuale di ricettazione, e che si connota per un atteggiamento che non è tanto di negligenza accertativa rispetto a motivi di sospetto tipizzati, quanto piuttosto di sospetto soggettivamente inteso che è accidentale e che resta estraneo alla struttura dell’art.712 c.p., per lambire appunto quella dell’art.648 c.p.: quando non c’è nulla di incauto, ma si configura la lucida volontà – dinanzi ad un sospetto soggettivamente percepito e non tipizzato – di accettare il rischio della provenienza delittuosa della res (come nel caso esemplificativo del collezionista che è pronto ad acquistare il pezzo offertogli ed a lui mancante pur in presenza di un sospetto, onde è da assumere che acquisterebbe anche se fosse certo della provenienza delittuosa del pezzo stesso), allora si ha ricettazione con il dolo eventuale e non incauto acquisto, in quanto si tende a far prevalere il proprio interesse su quello, soccombente, di scongiurare la circolazione di cose di provenienza penalmente illecita. Dinanzi allora a quello che oggettivamente si presenta come un incauto acquisto – e tenuto conto del fatto che il dolo eventuale non è previsto esplicitamente dalla legge, ma è stato configurato dalla dottrina e dalla giurisprudenza – occorre per le SSUU fornire una guida all’interprete del sistema penale ratione materiae: occorrono dati di fatto inequivoci capaci di rendere palese, nella specifica fattispecie, la possibilità di una provenienza illecita, onde non è sufficiente il mero sospetto (oggettivamente ritratto) per far scattare la ricettazione in luogo dell’incauto acquisto, ma occorre collocarsi in un “gradino immediatamente più alto” onde l’agente si rappresenta soggettivamente la concreta possibilità della provenienza delittuosa della res che acquista o riceve. Concludendo, in presenza di un semplice motivo di sospetto (oggettivamente inteso) si ha noncuranza, disinteresse, negligenza ed incauto acquisto (colposo) ex art.712 c.p., mentre nel caso in cui la situazione fattuale abbia un significato inequivoco ed il soggetto agente, invaso da un sospetto soggettivamente inteso, si ritrovi dinanzi alla scelta se non agire, ovvero agire rischiando che la res acquistata sia di provenienza delittuosa, si può parlare di ricettazione col dolo eventuale ogniqualvolta possa ritenersi che egli avrebbe comunque agito anche laddove certo di tale provenienza delittuosa (come appunto nell’esempio del collezionista d’arte).
2011
Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10411 che, con riferimento ad un caso di investimento mortale per passaggio a semaforo rosso e di dolo eventuale, supera la teoria dell’accettazione del rischio pura e semplice per declinarla nell’ottica del c.d. bilanciamento. In primo luogo, secondo la Corte sia nel caso della colpa cosciente che in quello del dolo eventuale non solo l’evento, ma l’intero fatto tipico viene assunto dal soggetto agente come probabile o possibile, con la conseguenza per cui non è ammissibile distinguere la colpa cosciente dal dolo eventuale sulla base onde nella prima l’evento e la pericolosità della condotta appaiono all’agente come astrattamente possibili mentre nel secondo appaiono come concretamente possibili: in realtà, quando l’agente pone in essere la condotta la previsione dell’evento ci deve essere, mentre una non previsione o una contro-previsione collocano l’imputazione al di fuori tanto del dolo eventuale che della colpa cosciente. Del pari, anche l’accettazione del rischio è presente sia nella colpa cosciente che nel dolo eventuale, ma nel secondo si riscontra in più la consapevole subordinazione del bene eventualmente sacrificato (laddove il rischio accettato si concretizzi nel corrispondente evento che lo realizza) rispetto all’interesse perseguito, con piena e comprensiva consapevolezza di tale subordinazione di un bene (interesse) ad un altro. Sul crinale della prova nel processo, il PM deve allora provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il soggetto agente ha accettato il rischio dell’evento penalmente punito, e lo ha fatto subordinando l’interesse tutelato dalla norma penale (e messo consapevolmente a rischio) all’interesse perseguito con la propria condotta pericolosa: un vero e proprio bilanciamento del quale il soggetto agente è consapevole, tanto da scegliere alfine di rischiare il sacrificio di un interesse altrui per perseguirne uno proprio.
Il 14 novembre esce la sentenza della Corte d’Assise di Torino sul caso Thyssenkrupp (fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco uccidendo 7 operai) che – in tema di dolo eventuale – fa propria in primo grado la teoria del bilanciamento abbracciata dalla Corte di Cassazione nel precedente di marzo. Il soggetto agente si è determinato (deliberazione) nel senso di subordinare consapevolmente un determinato bene ad un altro: nonostante i frequenti incendi determinati da perdite di olio in fabbrica a Torino, chi ha agito ha subordinato il bene della incolumità dei lavoratori agli obiettivi economici dell’impresa, giusta risparmio di spesa in termini di prevenzione dei pertinenti infortuni, dovendo pertanto essere punito a titolo di dolo eventuale.
2012
Il 30 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.23588 sul caso Beti Ilir, resa in una fattispecie in cui un soggetto, percorrendo contromano un tratto di autostrada in stato di consistente alterazione alcolica, ha cagionato un grave incidente automobilistico. La Corte, seppure in sede cautelare (ed al fine di verificare l’applicabilità della pertinente misura cautelare custodiale), ricorda la propria giurisprudenza in tema di dolo eventuale, caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta anche la semplice possibilità che esso si verifichi e ne accetta il rischio; quando invece l’ulteriore accadimento – prosegue la Corte – si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma del dolo diretto e non in quella di dolo eventuale; si versa invece nella c.d. colpa cosciente qualora l’agente, nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori. La Corte assume come correttamente, nel caso di specie, si sia acclarato non rinvenirsi nel comportamento dell’imputato alcun elemento dal quale dedurre che, in qualche modo, egli contava di poter evitare l’evento, perché ha invece continuato a marciare ad elevatissima velocità per circa dieci minuti contromano senza porre in essere – e questo è il dato più significativo – alcuna manovra che, per quanto spericolata, potesse far pensare alla sua intenzione di evitare l’urto con altri veicoli, contando sulla sua abilità. La Corte conclude dunque, in sede cautelare, per la presenza del dolo eventuale, e non della colpa cosciente.
2013
Il 28 febbraio esce la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Torino sul caso Thyssenkrupp (secondo grado), che ribalta la decisione di prime cure del 2011 e assume configurabile nel caso di specie la colpa cosciente. Il giudice del gravame si basa sulla c.d. formula di Frank, secondo la quale si ha dolo eventuale solo nel caso in cui il soggetto agente, prefigurandosi ex ante l’evento, avrebbe agito in ogni caso, secondo lo schema del “costi quel che costi”: ciò non è predicabile nel caso di specie in quanto è da supporre che l’amministratore delegato del gruppo, qualora avesse previsto il disastro poi scaturito, non avrebbe perseverato nel relativo piano di abbattimento dei costi per la sicurezza e di conseguente esposizione dei lavoratori al rischio del devastante incendio poi verificatosi. Peraltro nel caso di specie la previsione del tragico evento incendiario si sarebbe tradotta nella rappresentazione ex ante di un evento capace di implicare una successiva spesa assai maggiore del risparmio ottenibile giusta il divisato abbattimento dei costi per la sicurezza, con la realizzazione di un evento penalmente punito (incendio devastante) capace di tradursi nella negazione dello stesso obiettivo perseguito (risparmio dei costi).
Il 22 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.13735 in tema di urbanistica e di dolo nell’abuso d’ufficio: secondo la Corte laddove si accerti in capo all’agente anche una finalità di perseguimento dell’interesse pubblico, occorre verificare se il soddisfacimento degli interessi pubblici prevalga (criterio della prevalenza) sul perseguimento del fine privato, dovendo in simili ipotesi escludere la punizione (non rilevano infatti né il dolo eventuale, né quello diretto, occorrendo piuttosto il dolo specifico intenzionale “privatistico”), mentre all’opposto scatta l’art.323 c.p. quando l’apparente fine pubblico perseguito rappresenti una mera occasione o un pretesto per tentare di nascondere l’intenzionale fine di soddisfacimento dell’interesse privato realmente perseguito.
Il 20 luglio esce la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Grosseto sul caso Costa Concordia che, nel valutare la proposta di patteggiamento presentata da talune delle parti coinvolte, fa propria in qualche modo la teoria “oggettiva” imperniantesi sulla natura del rischio che il soggetto attivo del reato decide di correre, in rapporto a quello che avrebbe corso (se lo avrebbe corso) l’agente modello in fattispecie analoga: laddove un soggetto dotato delle medesime conoscenze e capacità di chi ha agito avrebbe assunto assurdo e folle il rischio in concreto corso dal soggetto agente nel caso di specie, si ha dolo eventuale (nessun agente modello penserebbe seriamente di correre un rischio analogo), mentre in ipotesi diversa (implicante la fiducia nella gestione dello sviluppo causale del rischio corso) si ha colpa cosciente. Il Giudice del merito conclude nel senso della colpa cosciente per chi ha proceduto a navigare assai vicino alla linea di costa in conseguenza della decisione assunta da altro soggetto, comandante effettivo in quel momento della nave, peraltro giusta un comportamento rischioso sì, ma non vietato dalla normativa all’epoca in vigore e dunque non connotato da rischio “folle”.
2014
*Il 6 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10810 in tema di dolo nell’abuso d’ufficio: la Corte ribadisce che laddove si accerti in capo all’agente anche una finalità di perseguimento dell’interesse pubblico, occorre verificare se il soddisfacimento degli interessi pubblici prevalga (criterio della prevalenza) sul perseguimento del fine privato, dovendo in simili ipotesi escludere la punizione (non rilevano infatti né il dolo eventuale, né quello diretto, occorrendo piuttosto il dolo specifico intenzionale), mentre all’opposto scatta l’art.323 c.p. quando l’apparente fine pubblico perseguito rappresenti una mera occasione o un pretesto per tentare di nascondere l’intenzionale fine di soddisfacimento dell’interesse privato realmente perseguito.
Il 18 settembre esce la sentenza delle SSUU n. 38343 che si pronuncia in via definitiva sul caso Thyssenkrupp riabbracciando l’opzione ermeneutica del dolo eventuale, sulla scorta della teoria del bilanciamento già fatta propria dal giudice di prime cure. E’ una deliberazione razionale, assimilabile alla più autentica volontà, quella che ha sospinto l’amministratore delegato del gruppo nel senso di scegliere, soppesando consapevolmente il tutto, il perseguimento in ogni caso della finalità del risparmio di spesa (minori oneri per la sicurezza), bilanciandolo con il prezzo da pagare per raggiungere tale fine, ovvero la messa a repentaglio della incolumità dei lavoratori, con pretermissione di quest’ultima a tutto vantaggio del maggior profitto aziendale. Se questa è la conclusione dal punto di vista teorico, la pronuncia si occupa anche – sul crinale pratico – di verificare come è possibile raggiungere la prova del consapevole (e voluto) bilanciamento ridetto, valorizzando all’uopo – in via alternativa – specifici indizi o indicatori, in numero complessivo di 12, quali: 1) la “condotta che caratterizza l’illecito”; per la Corte, si tratta dell’indicatore principe nei delitti di sangue, nei quali le caratteristiche dell’arma usata, la ripetizione dei colpi, le parti prese di mira e quelle concretamente colpite possono rivelare come l’autore della condotta abbia bilanciato l’obiettivo perseguito con l’interesse da sacrificare; 2) la “lontananza dalla condotta standard”: per la Corte, in fattispecie come quelle afferenti alla circolazione stradale dove campeggiano norme cautelari, la natura particolarmente grave ed estrema della colpa consente di far cautamente considerare al giudice la prospettiva (non più colposa, ma) dolosa; 3) “la storia e le precedenti esperienze”; quando già in precedenti esperienze analoghe ad una data condotta sia seguito l’evento lesivo (come nel caso del contagio di un partner al quale sia stata trasmessa l’HIV, con successivo decesso della vittima), perseverare nella medesima condotta significa accettare l’evento lesivo penalmente punito che ne consegue (anche se in questo caso la Corte ammette la possibilità che in luogo del dolo eventuale sia predicabile la colpa cosciente: la precedente esperienza potrebbe infatti in determinati casi indurre nel soggetto agente la convinzione di avere acquisito la abilità necessaria a scongiurare eventi lesivi del tipo di quello già procurato in passato a terzi); 4) intelligenza, cultura e personalità del singolo agente: in questo caso il contesto soggettivo specifico nel quale si inquadra la condotta del singolo agente può essere indicatore del fatto che questi ha provveduto a bilanciare gli interessi, rispettivamente, da perseguire e da sacrificare, con configurabilità del dolo eventuale; 5) “la durata e la ripetizione della condotta”: mentre in caso di condotta repentina ed impulsiva è più probabile la colpa cosciente, nel caso in cui vi sia studio, ponderazione e dunque protrazione della condotta, si è al cospetto di indizi che depongono per il dolo eventuale; 6) “la condotta successiva al fatto”, che può palesare adesione volontaristica al fatto medesimo e dunque relativa, sostanziale accettazione (dolo eventuale: il ladro che fugge dopo un urto mortale disastroso, al fine di non essere preso), ovvero assenza di relativa previsione ed accettazione (colpa cosciente: il giovane che palesa stupore dopo un perpetrato investimento di terzi; 7) in termini quantitativi, la probabilità di verificazione dell’evento penalmente punito che, laddove avvertita come particolarmente elevata, sospinge nel senso del dolo eventuale assai più che della colpa cosciente; 8) il “contesto lecito o illecito” in cui si colloca la condotta del soggetto agente che, laddove sia radicalmente antagonista rispetto all’imperativo della legge (contesto illecito), palesa un indizio a favore del dolo eventuale assai più che della colpa cosciente, il cui habitat è invece maggiormente ravvisabile in un contesto operativo lecito; 9) “il fine della condotta”, ovvero la relativa motivazione fondante: qui la Corte fa esplicito riferimento all’evento non direttamente voluto ed al prezzo connesso, che deve essere congruente rispetto al pertinente progetto di azione, con evidente riferimento proprio al bilanciamento tra gli interessi perseguiti e quelli che l’agente sceglie consapevolmente di sacrificare; 10) le “conseguenze negative o lesive anche per l’agente” laddove l’evento non direttamente voluto si verifichi: dovendosi escludere a priori, sul piano logico, l’autolesionismo, in simili ipotesi (normalmente ravvisabili in materia di circolazione stradale) dovrà parlarsi di colpa cosciente assai più che di dolo eventuale; 11) i “tratti di scelta razionale che sottendono la condotta”: la razionalità della scelta compiuta consente, seppure a livello di indizio, di riscontrare di volta in volta gli estremi della sola colpa cosciente ovvero del dolo eventuale; 12) solo laddove realmente affidabile e concludente, il giudice può avvalersi anche della formula di Frank in ordine alla possibile verifica, su di un crinale ex ante, di come si sarebbe comportato il soggetto agente laddove avesse previsto con certezza l’evento poi realizzatosi, optando per la colpa cosciente solo laddove l’esito di tale verifica deponga nel senso del ritrarsi dalla condotta penalmente rilevante. La Corte elenca dunque gli elementi indiziari ed indicatori del dolo eventuale, e nel far questo si sofferma sulla necessità di provare tale forma di dolo, così restringendone l’area di concreta operatività per il futuro: per la colpa cosciente infatti le esigenze probatorie si appalesano decisamente più attenuate. Nella medesima pronuncia la Corte si sofferma anche sui rapporti con la figura del dolo alternativo, chiarendo come può configurarsi anche un dolo eventuale alternativo, allorché si proceda al deliberato bilanciamento tra interessi (tipico del dolo eventuale) prefigurandosi quale conseguenza della condotta fatti incompatibili tra loro, onde la realizzazione di uno esclude la realizzazione dell’altro: in altri termini, per la Corte il fatto che il dolo si presenti strutturalmente alternativo non esclude, sul piano della intensità, come esso possa declinarsi – rispetto ai due eventi previsti alternativamente tra loro – in modo intenzionale, diretto o anche solo eventuale.
2015
Il 30 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18220 sul caso Beti Ilir, decisione di merito, nel cui contesto letterale la Corte ribalta l’orientamento palesato in sede cautelare e dichiara ravvisabile la colpa cosciente in luogo del dolo eventuale. La motivazione, che incide su una sentenza del giudice territoriale che ha invece riscontrato il dolo eventuale, assume – di certo condizionata dall’insegnamento delle SSUU sul caso Thyssekrupp – che non sarebbero sufficienti gli elementi probatori addotti a sostegno della imputazione per dolo eventuale. Il fulcro della decisione è la rappresentazione volitiva, in capo al soggetto agente, degli eventi delittuosi mortali che sono scaturiti dalla relativa condotta, e che deve assumersi condizionata dalla peculiare situazione di ubriachezza in cui versava l’agente al momento del fatto; ancorché non derivante da caso fortuito o forza maggiore, si è trattato di consistente alterazione psichica da alcool che non può non aver agito sugli elementi rappresentativi e volitivi del soggetto agente, con conseguente possibilità di predicare la colpa cosciente in difetto di prove più incisive che facciano pensare ad una maggiore adesione volontaristica rispetto all’evento luttuoso finale. In sostanza, nel campo della circolazione stradale in cui gli accadimenti lesivi di interessi penalmente sanzionati trovano luogo in modo sovente repentino ed accelerato, la consapevole deliberazione tipica del giudizio di bilanciamento tra bene preferito e bene sacrificato appare difficile da predicare nei singoli casi concreti, se non del tutto incompatibile financo con gravi violazioni delle regole della circolazione stradale prudente e responsabile, laddove peraltro incidano fattori – frequentemente riscontrabili – che siano capaci di alterare la situazione di imputabilità del soggetto agente (previa assunzione di alcool o di stupefacenti).
2016
Il 23 marzo viene varata la legge n.41 che novella il codice penale introducendovi gli articoli 589.bis e 589 ter, nonché da 590.bis a 590.quinquies: vedono la luce le nuove fattispecie criminose di omicidio stradale (per il quale, a seguito di modifica dell’art.157 c.p., viene raddoppiato il termine di prescrizione) e lesioni personali stradali, con la presenza anche di nuove circostanze aggravanti che non possono essere bilanciate con le attenuanti. E’ la risposta del legislatore alla giurisprudenza della Cassazione in tema di dolo eventuale e colpa cosciente con riguardo agli episodi mortali che campeggiano in tema di circolazione stradale. Omicidio stradale e lesioni stradali si atteggiano a fattispecie speciali rispetto alle corrispondenti fattispecie generali. La specialità riguarda in primo luogo l’esplicito richiamo alla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale: il codice della strada finisce dunque con l’integrare in via extrapenale le fattispecie penali, facendo luogo a quella che la dottrina chiama “antigiuridicità speciale” (un richiamo alle disposizioni del diritto amministrativo si ha, parallelamente, all’art.323 c.p. in tema di abuso d’ufficio). Secondo la dottrina che si è occupata della novella, possono ormai configurarsi tre distinte ipotesi di rilevanza della colpa in tema di circolazione stradale: 1) si violano le norme specifiche in tema di circolazione stradale (codice della strada) e si provocano (efficienza causale) lesioni o morte: si è al cospetto di colpa specifica e scattano i reati di omicidio stradale o di lesioni stradali; 2) si violano le norme specifiche in tema di circolazione stradale (codice della strada) e non si provocano (difetto di efficienza causale) lesioni o morte: si è al cospetto di colpa specifica e scattano eventualmente le sole sanzioni previste dal decreto legislativo 285.92; 3) si rispettano le norme del codice della strada, ma si violano altre norme cautelari (anche generiche) e si provocano (efficienza causale) lesioni o morte: si è al cospetto di colpa generica o specifica non stradale, e scattano i reati di omicidio o di lesioni personali.
2017
Il 27 aprile esca la sentenza della II sezione della Cassazione n.20193 secondo la quale – dopo aver premesso che risponde di ricettazione l’imputato, che, trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, e quindi anche di telefoni cellulari, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso; e che ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta (quale che ne sia la natura, e quindi anche se si tratti di telefoni cellulari) da parte del soggetto agente – la Corte ribadisce proprio in punto di elemento soggettivo come nella ricettazione ricorre il dolo nella forma eventuale allorché si accerti che l’agente abbia consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale ex art.712 c.p. dell’acquisto di cose di sospetta provenienza.
Il 27 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.31628 che, in una fattispecie in cui alcuni infermieri sono stati spostati al pronto soccorso, esclude la responsabilità penale per abuso d’ufficio del direttore che ha sottoscritto il pertinente provvedimento per difetto, nel caso di specie, di prova della intenzionalità del dolo orientato ad arrecare un danno, non potendo ritenersi all’uopo sufficiente un richiamo generico a presunti conflitti col sindacato di appartenenza dei lavoratori in coinvolti.
Il 4 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.32114 alla cui stregua, in caso di sinistro stradale, la presenza di un terzo soccorritore non è circostanza idonea ad escludere la configurabilità per l’automobilista di una omissione di soccorso. Più in particolare, per la Corte nel reato di fuga, il dolo deve investire non già solo l’incidente, ma anche il danno alle persone e conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione obiettiva di punibilità; tuttavia, la consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale.
2018
Il 5 gennaio esca la sentenza della II sezione della Cassazione n.113 che si occupa della ricettazione e della prova della consapevolezza della provenienza illecita della res in capo al soggetto agente; più in specie, per la Corte al fine di dimostrare la consapevolezza in capo al soggetto agente della provenienza illecita di un bene, quale oggetto materiale del delitto di ricettazione, non occorre fornire la prova della precisa e completa conoscenza della commissione del reato presupposto, potendo la ridetta consapevolezza desumersi da prove indirette, tali da far ingenerare in qualunque individuo di media levatura intellettuale la certezza appunto della provenienza illecita del bene ricevuto.
Il 30 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.14663 onde – in un caso in cui è contestato all’imputato il delitto di omicidio colposo di pedone per violazione di norme sulla circolazione stradale ex art. 589, comma 2 c.p. – le importanti affermazioni contenute nella sentenza delle SSUU Thyssenkrupp del 2014 consentono di ricavare il grado di responsabilità soggettiva (colposa o dolosa) del soggetto attivo non solo dall’indagine personologica sul soggetto attivo medesimo, sui motivi determinati la relativa azione e così via, ma altresì dalla caratterizzazione del fatto storico per come esso di presenta nel relativo svolgimento diacronico (prima, durante e dopo la consumazione del reato), senza trascurare le conseguenze negative per l’autore che possano derivare dalla propria condotta. Per la Corte dunque l’indagine sull’elemento psicologico passa anche attraverso l’esame delle peculiarità del caso concreto giusta il quale è possibile attribuire all’agente un’attitudine volitiva del fatto di reato. La Corte rammenta come la giurisprudenza di legittimità abbia precisato che sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente quando l’agente si sia rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento e si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione, in modo tale che, sul piano del giudizio controfattuale, possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto la contezza della sicura verificazione dell’evento medesimo (c.d. formula di Frank: viene richiamato il precedente della Sez. I, 11 marzo 2015, n. 18220). Per il Collegio, a differenza di altri ordinamenti come quelli anglosassoni, laddove il grado della rimproverabilità dei reati che si pongono al confine tra dolo e colpa è correlato alla gravità oggettiva del fatto storico, nel nostro ordinamento, la graduazione della responsabilità in tali ipotesi si colloca in un’area individuabile attraverso le sfumature dell’interpretazione della sfera volitiva dell’agente; è necessario quindi per il Collegio rifuggire dalla tendenza a ricondurre nel fuoco del dolo eventuale ogni comportamento improntato a grave azzardo, quasi che la distinzione tra dolo e colpa fosse basata su un dato quantitativo (legato, nel caso di specie, alla sconsideratezza alla guida), piuttosto che su un accurato esame delle specificità del caso concreto, attraverso il quale pervenire al dato differenziale di fondo, ossia attribuire o meno al soggetto attivo un atteggiamento di volizione dell’evento lesivo o mortale.
Il 3 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.14776 che decide un caso in cui l’imputato è accusato di plurimo omicidio doloso aggravato, ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p., dal nesso teleologico col reato di truffa aggravata consistito nella percezione indebita di rimborsi per prestazioni sanitarie fornite dalla casa di cura di appartenenza, mediante la rappresentazione falsa che le patologie che affliggevano i pazienti avevano necessità di interventi chirurgici in realtà privi di giustificazione in ordine alla reale patologia e alle condizioni fisiche dei pazienti medesimi. Secondo il Collegio, per la configurabilità del dolo eventuale occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all’evento oggetto di rappresentazione, costituisce – anche nel dolo eventuale – un componente fondamentale dell’atteggiamento psichico dell’agente, nel senso – precisa la Corte – che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo (accettato) dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito. La Corte conferma dunque il proprio trend pretorio inteso ad indagare la sfaccettatura volontaristica del dolo eventuale in ragione di quanto statuito dal legislatore codicistico del 1930 e cristallizzato nell’art. 43 cp., e ciò giusta valorizzazione di una serie di criteri che possono essere d’aiuto nella ricostruzione del processo decisionale del soggetto agente. Ancora una volta viene invocata la c.d. formula di Frank al fine di stabilire se il sanitario, entrato in sala operatoria solo per motivi di lucro o per aumentare il proprio prestigio personale, debba rispondere degli eventi letali a titolo di dolo o colpa, confermando la Corte il principio onde si configura il dolo eventuale solo se si possa affermare con certezza che il sanitario non si sarebbe trattenuto dall’operare senza necessità il paziente neanche se fosse stato certo della morte dell’interessato, potendosi dunque ravvisare dolo eventuale solo se si raggiunge la certezza che il medico accetta non solo il rischio che il paziente possa perdere la vita nell’intervento realizzato per motivi egoistici, ma anche che egli si è rappresentato il decesso come conseguenza della propria condotta e ha deciso di entrare in sala operatoria a costo di causare la morte dell’ammalato pur di realizzare il fine prefissosi.
L’8 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.26236 che, in materia di indebita compensazione e di reati tributari, si occupa in particolare della configurabilità del dolo in capo al legale rappresentante della società. Più in specie la Corte, col ripercorrere i concetti di dolo generico, dolo eventuale e colpa cosciente, sostiene la necessità di rifuggire dalla tendenza a ricondurre nel fuoco del dolo eventuale ogni comportamento improntato a grave azzardo, quasi che la distinzione tra dolo e colpa sia basata su un dato “quantitativo” della violazione del dovere di diligenza, piuttosto che su un accurato esame delle specificità del caso concreto.
Il 10 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.31262 in tema di consapevolezza della provenienza delittuosa della res nel reato di ricettazione, alla cui stregua in ordine alle modalità di accertamento dell’elemento psicologico del reato, non è indispensabile che la consapevolezza dell’agente si estenda alla completa conoscenza di tutte le circostanze di tempo, modo e luogo del reato presupposto.
Il 23 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.38837 alla cui stregua, onde configurare la fattispecie di cui all’art.609 quater c.p. – atti sessuali con minorenne – è sufficiente il dolo generico dell’imputato, prescindendo dal consenso del minore offeso, e ciò per la Corte non solo perché la violenza è presunta dalla legge, ma anche perché la persona offesa è considerata immatura ed incapace di disporre consapevolmente del proprio corpo a fini sessuali.
Il 3 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.39413 che si occupa della omissione di versamenti contributivi e della eventuale particolare tenuità del fatto commesso. L’art. 131-bis cod. pen., rammenta la Corte, stabilisce che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale; ai sensi del comma 2, poi, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. A mente del comma 3, invece, il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Tanto premesso, la Corte rammenta come il giudice del merito abbia negato al ricorrente questa causa di non punibilità sul presupposto che trattasi di reato caratterizzato da plurime condotte (i singoli omessi versamenti mensili), sicché sussiste la preclusione di cui all’art. 131bis comma 3 attinente ai reati aventi ad oggetto condotte plurime e reiterate. Orbene, tale assunto per la Corte non può essere condiviso nella sua assolutezza, la lettera della norma, nel collegare l’abitualità del comportamento alla pluralità o reiterazione di condotte, riferendosi all’evidenza soltanto a quelle che già di per sé costituiscono reato, anche isolatamente valutate, sì da evidenziare – volta per volta – una nuova e ripetuta lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale. Con riguardo alla fattispecie in oggetto, invece, ben è possibile per la Corte che le diverse mensilità richiamate in sentenza consentano – tutte sommate, e soltanto in tal modo – di integrare il reato de quo, che tuttavia è unico, e si consuma soltanto nel momento in cui è raggiunta la soglia di punibilità di 10.000 euro annui (soglia introdotta dall’art. 3, comma 6, d. Igs. 15 gennaio 2016, n. 8). Al riguardo, la Corte medesima ha sottolineato che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali si configura oggi come una fattispecie connotata da una progressione criminosa nel cui ambito, superato il limite di legge, le ulteriori omissioni consumate nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione coincide con la scadenza del termine previsto per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo (vengono richiamate le sentenze della Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016, Messina, e n. 37232 dell’11/5/2016, Lanzoni). A quanto precede la Corte aggiunge che la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” è di certo applicabile ai reati di omissione di versamenti contributivi, per i quali il legislatore abbia fissato una soglia di punibilità, solo se gli importi omessi superano di poco l’ammontare di tale soglia, in considerazione del fatto che il grado di offensività che integra il reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (in tal senso, vengono richiamate le sentenze della Sez. 3, n. 3292 del 3/10/2017, Spera, e n. 13218 del 20/11/2015, Reggiani Viani). Quel che, peraltro, costituisce l’applicazione di quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte medesima nella sentenza n. 13681 del 25/2/2016, imp. Tushaj, che hanno affermato la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, in quanto configurabile – in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma – ad ogni fattispecie criminosa, non essere in astratto incompatibile con la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo (principio affermato in riferimento al reato di guida in stato di ebbrezza).
L’11 dicembre esce la sentenza della Cassazione Penale, Sez. V, n. 55385 in tema di falso materiale in atto pubblico. Sostiene la Corte che integra il reato di falso materiale in atto pubblico l’alterazione di una cartella clinica mediante l’aggiunta di un’annotazione, ancorché vera, in un contesto cronologico successivo e, pertanto, diverso da quello reale; né, a tal fine, rileva che il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata, trattandosi di atto avente funzione di“diario”della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve avvenire contestualmente al loro verificarsi. Il delitto di falso materiale in atto pubblico richiede il dolo generico, che consiste nella consapevolezza della immutatio veri, non essendo, invece, richiesto l’animus nocendi vel decipiendi; il dolo, peraltro, non è presunto, ma deve essere rigorosamente provato, dovendosi escludere il reato quando il falso derivi da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente, poiché il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo, ovvero quando falsità risulti essere oltre o contro la volontà dell’agente, come quando risulti dovuta soltanto ad un mero errore percettivo.
2019
Il 24 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV penale, n. 3452, che confermando la pronuncia di merito, resa in secondo grado, in cui era stata ravvisata la responsabilità a titolo doloso in capo a colui che, pur avendo causato un incidente stradale, era fuggito senza curarsi di prestare soccorso, ribadisce che integra il reato di cui all’art. 189 CDS, comma 1 e 6 (cosiddetto reato di “fuga”), la condotta di colui che – in occasione di un incidente ricollegabile al suo comportamento da cui sia derivato un danno alle persone – effettui sul luogo del sinistro una sosta momentanea, senza consentire la propria identificazione, né quella del veicolo. Infatti il dovere di fermarsi sul posto dell’incidente deve durare per tutto il tempo necessario all’espletamento delle prime indagini rivolte ai fini dell’identificazione del conducente stesso e del veicolo condotto, perché, ove si ritenesse che la durata della prescritta fermata possa essere anche talmente breve da non consentire ne’ l’identificazione del conducente, nè quella del veicolo, ne’ lo svolgimento di un qualsiasi accertamento sulle modalità dell’incidente e sulle responsabilità nella causazione del medesimo, la norma stessa sarebbe priva di ratio e di una qualsiasi utilità pratica (così Sez. 4 n. 20235 del 25/1/2001 Rv. 234581). Ai fini della configurabilità del reato il dolo richiesto deve investire l’omesso obbligo di fermarsi in relazione all’evento dell’incidente, ove questo sia concretamente idoneo a produrre eventi lesivi, e va apprezzato come eventualmente sussistente avendo riguardo alle circostanze fattuali del caso laddove queste, ben percepite dall’agente, siano univocamente indicative di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone (così questa Sez. 4, n. 863 del 21/11/2007 dep. il 2008). Ed il dolo richiesto per la punibilità può essere integrato anche dal solo dolo eventuale, non essendo necessario il dolo intenzionale (Sez. 4, n. 3568 del 10/12/2009 dep. il 2010), da apprezzarsi – per verificarne la sussistenza – avendo riguardo alle circostanze fattuali del caso, laddove queste, ben percepite dall’agente, siano univocamente indicative di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone.
Il 25 febbraio esce la sentenza n. 8133 della Corte di Cassazione, sez. IV penale, che si pronuncia sulla sussistenza della colpa cosciente (o con previsione). Va ricordato, in punto di diritto che, in tema di elemento soggettivo del reato, ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l’agente, pur essendosi rap- presentato la concreta possibilità di verificazione di un fatto costituente reato come conseguenza del proprio comportamento, persiste nella sua condotta, accettando il rischio che l’evento si verifichi; si versa invece nella colpa con previsione quando l’agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l’evento ma ha il convincimento di poterlo evitare. Ribadisce la Cassazione che la natura normativa della colpa, ormai generalmente riconosciuta, trova una significativa deroga nel caso della colpa con previsione o “colpa cosciente” nella quale la componente psicologica è non solo ineliminabile ma addirittura preponderante anche se la componente normativa è parimenti essenziale (è pur sempre necessario, nella colpa con previsione, che l’agente violi una regola cautelare). Tradizionalmente si afferma che, nella colpa cosciente ex art. 61 n. 3 cod. pen. l’agente prevede che la sua condotta possa cagionare l’evento ma ha il convincimento di poterlo evitare. Questa forma di colpa è contigua ad un’ipotesi di dolo, il dolo eventuale; ciò che distingue la colpa cosciente dal dolo eventuale è che, in questo secondo caso (dolo eventuale) l’agente non ha la convinzione di poter evitare l’evento ma accetta il rischio che l’evento si verifichi. Tanto che – si è affermato in dottrina -nel caso della colpa con previsione, se l’agente avesse saputo che l’evento si sarebbe verificato si sarebbe astenuto mentre, nel caso del dolo eventuale, avrebbe agito ugualmente. La distinzione tra le due ipotesi assume un rilievo ben maggiore quando il fatto non sia previsto come reato nella forma colposa. In questi casi un fatto rea- to previsto soltanto come doloso difetta di tipicità se è possibile provare esclusivamente la colpa, sia pure con la previsione dell’evento, e non il dolo eventuale (e tanto meno il dolo diretto o quello intenzionale). Nel caso, poi, di colpa per omissione sarà anche necessario individuare l’esistenza di una posizione di garanzia per poter addebitare l’evento, anche da un punto di vista oggettivo, all’agente. Pertanto, ciò che contraddistingue la colpa con previsione è la circostanza che l’agente prevede l’evento dannoso ma (a differenza di quanto avviene per il dolo eventuale) è convinto di poterlo evitare. Non è dunque sufficiente che l’evento sia prevedibile – perché la prevedibilità dell’evento costituisce elemento ineludibile ed essenziale per poter ritenere esistente l’elemento soggettivo per ogni forma di reato colposo – ma è necessario che l’agente l’abbia previsto in concreto sia pure con il convincimento di cui si è detto. Ebbene, come spesso avviene per gli elementi della condotta che hanno una connotazione di natura psicologica, il problema più complesso in queste fattispecie è quello dell’accertamento in concreto degli elementi, per lo più di natura sintomatica e quindi indiziaria, dai quali sia possibile dedurre che l’agente avesse previsto, sia pure genericamente, un evento dannoso del tipo di quello effettiva- mente provocato. 5. Alla luce dei principi esposti non è possibile affermare che la decisione impugnata, che sotto il profilo in esame fa leva, in concreto, esclusivamente sulla “macroscopicità della condotta colposa”, li abbia correttamente applicati al caso oggetto del presente giudizio .La sentenza, infatti, fonda la sua valutazione su elementi certamente idonei a dimostrare l’esistenza della prevedibilità dell’evento e a confermare l’elevatissimo grado di colpa da parte dell’imputato che ha agito in violazione di numerose regole di comportamento. Ma la colpa con previsione è un’altra cosa: non è, ovviamente, la prevedibilità dell’evento e prescinde dalla gravità della colpa. Ciò che è richiesto è che l’agente si sia concretamente rappresentato la possibilità del verificarsi di un evento dannoso sia pure con la convinzione di evitare che si verifichi. Non basta dunque che l’evento sia prevedibile ma occorre che l’agente lo abbia concretamente previsto. Dunque, ai fini della valutazione della responsabilità, il giudice è tenuto ad indicare, in modo analitico, gli elementi sintomatici dai quali sia desumibile non la prevedibilità in astratto dell’evento, ma la sua previsione in concreto da parte dell’imputato.
Il giorno 11 marzo esce la sentenza della V sezione penale della Corte di Cassazione, n. 10647 che, annullando la sentenza della corte di appello, ribadisce che per la configurabilità del reato di cui all’art. 216 comma 1 e 2 della legge fallimentare, è necessario il dolo specifico. Dunque, è illegittima la decisione impugnata: “con la sentenza impugnata la Corte di appello di Messina ha confermato la condanna di Cafiso Pasquale, dichiarato fallito, in ordine al reato di cui all’art. 216 comma 1, n. 2 legge fall., per avere sottratto i libri e le altre scritture contabili della propria impresa individuale. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, tramite il difensore, articolando un unico motivo con il quale denuncia violazione di legge. Dalla stessa sentenza emergerebbe che Cafiso era un mero prestanome, che tutta la documentazione della società era stata consegnata dal commercialista a tale Barbagallo, effettivo gestore dell’impresa individuale poi fallita, che la relativa sottrazione non poteva essere addebitata all’imputato, che nulla diceva la sentenza in merito al dolo specifico che deve sorreggere la condotta oggetto di addebito. Il ricorso è fondato. In tema di reati fallimentari, la bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216, comma 1, n. 2 prevede due fattispecie alternative, quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico, e quella di tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi e richiede il dolo generico (Sez. 5, n. 43966 del 28/06/2017, Rossi, Rv. 271611; Sez. 5, n. 18634 del 01/02/2017, Autunno, Rv. 269904). Il caso in rassegna, concernendo la sottrazione dei libri e delle scritture contabili, ricade nella prima ipotesi e dunque richiede il dolo specifico. Per la configurabilità del reato deve essere accertato che scopo dell’omissione sia quello di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori. Su tale punto nulla dice la sentenza che, quindi, mostra una evidente carenza motivazionale su uno degli elementi costitutivi del reato”.
Il 13 marzo esce la sentenza della Cassazione Penale, sezione III, n. 10923, che si pronuncia sulla configurabilità del dolo nel delitto di violenza sessuale. In specie, sostiene la Corte che ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi, indipendentemente dallo scopo perseguito, sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ed, in particolare, del suo carattere invasivo o lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente. L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente. La condotta vietata è quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore od a volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima, con la conseguenza che il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva: ma la volontà di umiliazione op di schermo non esclude la rilevanza penale della condotta. .
Il 19 marzo esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. VI, n. 12218, che si pronuncia in tema di interruzione di pubblico servizio, in occasione dello svolgimento di una seduta del consiglio comunale. La Corte, confermando la sentenza di merito che aveva condannato l’imputato per il reato di cui all’art. 340 c.p.c. chiarisce che ai fini della configurabilità del reato di interruzione di un ufficio ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, è necessario che il turbamento della regolarità abbia comportato e causato un’apprezzabile alterazione del funzionamento dell’ufficio o del servizio, ancorché temporanea, a nulla rilevando che l’interruzione sia definitiva o il turbamento totale, essendo sufficiente, a tal fine, anche un’interruzione momentanea, purché di durata non irrilevante, o un turbamento relativo, purché non insignificante. Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di cui all’art. 340 c.p. è sufficiente che il soggetto attivo sia consapevole che il proprio comportamento possa determinare l’interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando ed assumendone il relativo rischio. Ne deriva che correttamente i giudici di appello hanno disatteso la prospettazione riduttiva della difesa, soprattutto, avuto riguardo al subbuglio innescato dal comportamento dell’imputato, placato solo dall’intervento della forza pubblica, richiesto dal presidente della seduta. Considerato che ai fini della configurabilità del reato di interruzione di un ufficio ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, è necessario che il turbamento della regolarità abbia comportato e causato un’apprezzabile alterazione del funzionamento dell’ufficio o del servizio, ancorché temporanea (Sez.5, n. 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Andriulo e altri, Rv. 272321) e che non rileva che l’interruzione sia definitiva o il turbamento totale, essendo sufficiente, a tal fine, anche un’interruzione momentanea, purché di durata non irrilevante, o un turbamento relativo, purché non insignificante (Sez. 5, sent. n. 15388 del 6/3/2014, Rv. 260217), i giudici hanno fatto corretta applicazione di tali principi e correttamente ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato in ragione della insistente e pressante richiesta di intervenire dell’imputato, nonostante gli fosse stato chiarito che non era consentito in quella sede, così da costringere il presidente a ribadire il diniego e da provocare la reazione tumultuosa delle persone entrate in aula insieme a lui. Del tutto inconferente risulta, quindi, il riferimento al diritto alla libertà di espressione del pensiero, in quanto l’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, garantito dall’art. 21, primo comma, Cost., cessa di essere legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, come quando si concreti in un comportamento integrante la fattispecie di cui all’art.340 cod. pen. con modalità di condotta, che esorbitino dal fisiologico esercizio di quei diritti (Sez. 6, n. 46461 del 30/10/2013 Giannotti, Rv. 257452; Sez. 6, n. 7822 del 27/11/1998, Magnanelli e altri, Rv. 214755), come avvenuto nel caso in esame. I giudici di appello hanno, invece, sottolineato la condotta provocatoria ed insistente del Mihai e ravvisato nell’immediata azione di protesta e di supporto delle persone entrate insieme al ricorrente una conseguenza prevedibile della sua condotta, avuto riguardo alla condivisione di intenti ed all’azione di disturbo ed interruzione posta in essere con esibizione di striscioni, aventi ad oggetto la stessa rimostranza del Mihai. Quindi, la reazione collettiva, indipendentemente dalla validità delle rivendicazioni, era risultata adesiva al comportamento del Mihai e si era risolta in concreto in una persistente e massiccia azione di disturbo, non governata dai ripetuti richiami del presidente della seduta e dai ripetuti inviti a sedersi, a riporre gli striscioni e stare in silenzio, tanto da costringere il presidente ad abbandonare lo scranno, sospendendo, di fatto, la seduta, ed a richiedere l’intervento della polizia, che aveva fatto sgombrare l’aula e consentito la ripresa della seduta. Il rilievo attribuito a tali elementi giustifica la valutazione in punto di sussistenza dell’elemento psicologico, atteso che, come affermato da questa Corte, ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di cui all’art. 340 cod. pen., è sufficiente che il soggetto attivo sia consapevole che il proprio comportamento possa determinare l’interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando ed assumendone il relativo rischio (Sez. 6, n. 39219 del 09/04/2013, Rv. 257081). Ne consegue che in ragione delle modalità descritte coerentemente è stato ritenuto configurabile il reato, nonostante l’interruzione della seduta fosse durata solo 20 minuti.
Il 12 aprile esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 16116, che ribadisce il discrimine tra il reato di lesioni dolose ed il tentato omicidio. La Corte conferma la sentenza impugnata e ribadisce che nel delitto di tentato omicidio, pur avendo valenza concorrente i due profili dell’intenzione e dell’idoneità degli atti, quest’ultimo prevale rispetto a un’intenzione del soggetto agente solo in parte manifestata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva, come la natura del mezzo usato, le parti del corpo attinte e la gravità delle lesioni inferte (Sez. 1, n. 24808 del 16/06/2010, Lazzaro, Rv. 247806). La specifica finalità di uccidere non è necessaria nel delitto di omicidio tentato, nel senso che il tentativo di omicidio non deve necessariamente essere sorretto dal dolo intenzionale, essendo sufficiente il dolo diretto e generico, rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta che, in base a regole di comune esperienza, è idonea a provocare – con alto grado di probabilità – la morte della persona verso cui si dirige l’azione. (Sez. 6, n. 6880 del 15/4/1998, Pilato, Rv. 211082; Sez. 1, n. 12954 del 29/1/2008, Li e altri, Rv. 240273). Quanto alla idoneità degli elementi da cui è stata tratta la prova della volontà omicida, va ribadito il costante orientamento di legittimità, secondo cui, in tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne consegue che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’«animus necandi», assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso (Sez. 1, n. 35006 del 18/4/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 32851 del 10/06/013, Ciancio Cateno, Rv. 256991). Pertanto, anche la mancata inflizione da parte dell’imputato di colpi di coltello con maggiore forza o con modalità funzionali a provocare lesioni più profonde alla vittima non esclude la configurabilità del dolo omicida, ove sia stato accertato, come nel caso di specie, che, l’azione nel suo complesso era comunque idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente. La complessiva valutazione degli elementi esposti dai giudici nella sentenza impugnata è tale da supportare in modo congruo e logico sia il giudizio di univocità ed idoneità degli atti in ordine all’evento morte, sia il dolo diretto della fattispecie tentata del delitto di omicidio, senza necessità di confutare in modo specifico la considerazione svolta nei motivi di appello sui tempi limitati di guarigione della vittima, risultanti dai referti medici.
Il 29 maggio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, n. 23976, che si pronuncia in tema di condizioni per l’esclusione della colpevolezza per il reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 Ribadisce la Corte che ai fini dell’esclusione della colpevolezza per il reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000, punito a titolo di dolo generico, è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, salva la dimostrazione che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere al versamento del tributo. Nel caso in cui invece l’omesso versamento sia dovuto al mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, devono essere dimostrati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo.
Il 25 giugno esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. II, n. 27927, che si pronuncia in tema di ricettazione con riferimento all’acquisto di un telefonino al mercato dell’usato. Le prospettazioni che il ricorrente formula, secondo la Corte, si pongono in totale contrasto con gli orientamenti assolutamente accreditati e consolidati della giurisprudenza di legittimità in punto di ricettazione, anche con specifico riguardo alle fattispecie in cui ad essere ricettati siano apparecchi telefonici cellulari. Con un recente arresto di questa sezione (Sez. 2, n. 20193 del 19/04/2017, Kebe, Rv. 270120) sono stati analiticamente affrontati i temi della prova del delitto di ricettazione, in relazione al profilo dell’elemento psicologico del delitto, affermando che: 1) l’imputato trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, e quindi anche di telefoni cellulari, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto e ove non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso, risponde del delitto di ricettazione, poiché la mancanza di giustificazione costituisce prova della conoscenza dell’illecita provenienza della res, in quanto sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede; 2) tale conclusione non costituisce deroga ai principi in tema di onere della prova, né incide sulle prerogative difensive, poiché è la stessa struttura della fattispecie incriminatrice che richiede, ai fini dell’indagine sulla consapevolezza circa la provenienza illecita della res, il necessario accertamento sulle modalità acquisitive della stessa (richiedendo all’imputato esclusivamente un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l’indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento: Sez. Unite, n. 35535 del 12/07/2007, Ruggiero, Rv. 236914, in motivazione); 3) il dolo di ricettazione si atteggia nella forma del dolo eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa (ciò che caratterizza l’ipotesi contravvenzionale ex art.712 cod. pen.), situazione ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza (Sez. Unite n. 12433 del 26/11/2009, dep. 2010, Nocera, Rv. 246324); 4) la fattispecie della ricettazione di telefoni cellulari concerne beni che, «pur se di uso comune, costituiscono comunque una res potenzialmente di apprezzabile valore, non necessariamente acquistabile ricorrendo ai canali ufficiali (essendone florido il mercato dell’usato), ma che nulla induce a ritenere poter essere scambiata con disinteresse tale da non consentire all’avente causa di ricordare le modalità dell’acquisto e l’identità del dante causa»; 5) ove la disponibilità del telefono cellulare da parte dell’imputato sia indubbia, emergendo inequivocabilmente dalle (non sporadiche, ma) reiterate telefonate effettuate con esso utilizzando una SIM card intestata all’imputato, tale circostanza non è sintomatica della buona fede dell’imputato, considerato che la normativa nazionale vigente non consente il rilascio di schede SIM anonime, rendendo per così dire necessitato il ricorso a schede intestate, pur se a soggetti diversi da colui che le utilizza, né può dirsi nozione di comune esperienza quella secondo la quale coloro che consapevolmente ricevono telefoni cellulari di illecita provenienza siano a conoscenza delle tecniche che permettono di tracciare e individuare l’utilizzo di apparecchi telefonici.
Il 12 luglio esce la sentenza n. 30707 della sezione I Penale della Corte di Cassazione, che si pronuncia in tema di dolo (ravvisato, nel caso di specie, in ipotesi di rissa che era sfociata nell’evento mortale di uno dei partecipanti). Sostiene la Corte che la sentenza di merito, nella misura in cui aveva rilevato la sussistenza del dolo d’impeto nonché escluso la scriminante della legittima difesa, deve essere ritenuta legittima, per le seguenti considerazioni: “La sentenza ha rilevato sul punto che, per poter infliggere una ferita penetrante per 21-22 cm. in un corpo umano animato ed in zona toracica, dopo avere superato il tessuto tegumentario e la struttura muscolare della gabbia costale, è necessaria una forza considerevole, applicata con determinazione volontaria in modo persistente, caratteristica fattuale incompatibile con un’evenienza causale, non intenzionale, ma persino colposa, ed altrettanto incoerente con un gesto orientato soltanto a ferire il soggetto passivo. Tali considerazioni in punto di fatto, già di per sé significative e concludenti, vanno integrate con gli ulteriori dati informativi, esposti nella sentenza di primo grado -conforme a quella di appello per esiti decisori e per criteri inferenziali, quindi valutabile come un unico corpo giustificativo delle ragioni del verdetto di colpevolezza-, nella quale è stato evidenziato come il medico legale avesse dedotto dalla natura ed ubicazione della ferita l’indicazione dell’accoltellamento da distanza ravvicinata ed in un momento in cui aggressore ed aggredito erano in piedi in posizione frontale, circostanza valorizzata per contraddire l’ipotesi di una presunta “accidentale caduta della vittima sulla lama, tenuta inavvertitamente puntata verso il suo petto”. Ancorchè non diffusa nella confutazione degli argomenti difensivi, esposti con l’atto di appello per accreditare l’ipotesi del comportamento caratterizzato da colpa cosciente, la motivazione della sentenza, che individua nel dolo d’impeto l’atteggiamento soggettivo dell’imputato al momento del delitto, dà conto in modo sufficiente del ragionamento probatorio seguito per escluderne la plausibilità, così dimostrando l’inconsistenza delle contrarie deduzioni, che si presentano frutto di una lettura parziale e soggettiva dei dati probatori”.
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Il 17 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 31343 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), non deriva dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo nè da una “culpa in vigilando” sull’operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale.
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Il 21 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 36278 che, in tema di reati legati all’omesso versamento delle ritenute previdenziali, conferma l’orientamento secondo cui, per la sussistenza del reato in relazione all’elemento soggettivo risulta sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di non versare i contributi previdenziali. Il dolo generico che non può escludersi rilevando la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti.
Il reato sussiste anche quando il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute all’ INPS (o all’erario per i tributi), essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere prima al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare.
La Corte ribadisce altresì che costituisce costante indirizzo di legittimità anche quello per cui, nel reato in esame, l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto. E’ necessaria la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.
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Il 5 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 37145 onde in tema di circolazione stradale, il reato di mancata prestazione dell’assistenza occorrente in caso di incidente, di cui all’art. 189, comma settimo, cod. strada, implica una condotta ulteriore e diversa rispetto a quella del reato di fuga, previsto dal comma sesto del predetto art. 189, non essendo sufficiente la consapevolezza che dall’incidente possano ‘essere derivate conseguenze per le persone, occorrendo invece che un tale pericolo appaia essersi concretizzato, almeno sotto il profilo del dolo eventuale, in effettive lesioni dell’integrità fisica. Con particolare riferimento al reato di fuga previsto dall’art. 189, comma sesto, cod. strada, l’accertamento del dolo, necessario anche se esso sia di tipo eventuale, va compiuto in relazione alle circostanze concretamente rappresentate e percepite dall’agente al momento della condotta, laddove esse siano univocamente indicative del verificarsi di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone
2020
Il 22 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 12680 sulla compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico richiesto dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000. In particolare, tale compatibilità è stata ritenuta sia perché la finalità di evadere le imposte (o di ricevere un indebito rimborso) è ulteriore rispetto al fatto tipico, sia perché il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è reato di pericolo e non di danno, e, quindi, prescinde da una effettiva evasione del debito tributario, sia perché, in linea generale, la prevalente giurisprudenza, specie in materia di furto e di ricettazione, ritiene compatibile dolo eventuale e dolo specifico.
Non risultano, inoltre, precedenti contrari. Può essere utile aggiungere che, sempre nella giurisprudenza di legittimità, risulta costante l’indirizzo che ravvisa la compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico anche in relazione agli altri delitti previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 i quali richiedono tale forma di finalizzazione volontaria della condotta, come, ad esempio, nel caso dei reati di dichiarazione infedele, di omessa dichiarazione, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
In linea generale, però, la compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico non costituisce affermazione univoca nella giurisprudenza di legittimità, perché più volte esclusa da decisioni relative ad altre fattispecie di reato. In particolare, si è affermato, che il delitto di illecito trattamento di dati personali, di cui all’art. 167, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto reato a dolo specifico, non è configurabile a titolo di dolo eventuale, perché «la strutturale intenzionalità finalistica della condotta tipica» non è compatibile con la seconda forma di colpevolezza, la quale «postula l’accettazione solo in via ipotetica, seppur avverabile, del conseguimento di un risultato»). Analogamente, e per le medesime ragioni, è stata esclusa in precedenza la configurabilità a titolo di dolo eventuale dei reati di: corruzione di minorenne, di cui all’art. 609-quinquies cod. pen.; devastazione, saccheggio e strage, di cui all’art. 285 cod. pen.; mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice di cui all’art. 388, terzo e quarto comma, cod. pen., nel testo vigente prima della riforma recata dall’art. 3, comma 21, legge 15 luglio 2009, n. 94; strage, di cui all’art. 422 cod. pen..
In dottrina, poi, le opinioni sono prevalentemente critiche circa la compatibilità di dolo eventuale e dolo specifico. Con specifico riferimento ai reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, si osserva che il dolo specifico ha una funzione di garanzia o comunque selettiva delle condotte rilevanti, e che, da un punto di vista logico, appare difficile credere che il complesso ed articolato meccanismo fraudolento, sfociante in una dichiarazione mendace, sia sorretto da un atteggiamento psicologico di accettazione del rischio. Più in generale, inoltre, si rappresenta che il dolo eventuale è compatibile con il dolo specifico solo se l’accettazione del rischio riguarda elementi del fatto di reato diversi da quello concernente la finalità penalmente rilevante.
Ad avviso del Collegio, deve essere confermato l’indirizzo ermeneutico che ritiene configurabile il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti anche in caso di dolo eventuale, da intendere in termini di lucida accettazione, da parte dell’agente, dell’evento lesivo, e quindi anche del fine di evasione o di indebito rimborso, come conseguenza della sua condotta. In proposito, appare importante una osservazione preliminare. Il problema della compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico, anche alla luce dell’analisi della elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, ed almeno in linea generale, risulta discendere non da specifici divieti di legge, bensì dal contenuto che deve caratterizzare il primo, e cioè dalla “capacità” dello stesso a “comprendere”, o meno, anche il fine richiesto dal legislatore per l’integrazione del reato.
Ciò posto, una importantissima indicazione a sostegno della compatibilità, in linea generale, del dolo eventuale con il dolo specifico risulta desumibile dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, e segnatamente da Sez. U, n. 12433 del 26/11/2009, dep. 2010, Nocera, Rv. 246324-01 e 246323-01, in materia di ricettazione. Questa decisione, infatti, ha affermato, enunciando un principio cui si è costantemente uniformata la giurisprudenza successiva, che l’elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, a sua volta ravvisabile quando è possibile concludere che l’agente, pur rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza.
Sembra utile evidenziare, tra l’altro, che la pronuncia ha precisato come il dolo eventuale possa avere ad oggetto, oltre alla verificazione dell’evento, il presupposto della condotta, consistendo, in questo caso, nella rappresentazione della possibilità dell’esistenza del presupposto stesso e nell’accettazione dell’eventualità di tale esistenza. La decisione appena richiamata appare importante ai fini della questione esaminata in questa sede per un duplice ordine di ragioni. Essa, infatti, da un lato, pur non affrontando la questione in termini espliciti, ha comunque ritenuto configurabile, in presenza di dolo eventuale, un delitto per il quale è richiesto il dolo specifico (nella ricettazione, il reo deve agire «al fine di procurare a sé o ad altri un profitto»). Dall’altro, ha evidenziato come la nozione di dolo eventuale si caratterizza per un pregnante contenuto rappresentativo e volitivo, non riducibile alla mera accettazione del rischio, ma implicante la necessaria accettazione dell’evento stesso quale conseguenza della condotta dell’agente.
Queste conclusioni, con specifico riguardo alla nozione di dolo eventuale, sembrano ancor più significative se valutate alla luce della più recente elaborazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia. In effetti, Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104-01, enunciando un principio cui ha prestato ampia adesione la successiva giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato che il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi. La medesima sentenza Espenhahn, inoltre, proprio muovendo dalla necessità di una “lucida” raffigurazione nell’agente della realistica prospettiva di possibile verificazione dell’evento concreto quale effetto collaterale della condotta e di una consapevole “determinazione” ad agire comunque, ha significativamente precisato che lo «stato di dubbio irrisolto […] non risolve il problema del dolo eventuale: indica un indizio, ma è pur sempre necessario dimostrare che lo stato d’incertezza sia accompagnato dalla già evocata, positiva adesione all’evento; dalla scelta di agire a costo di ledere l’interesse protetto dalla legge.».
La nozione di dolo eventuale accolta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, ad avviso del Collegio, risulta estremamente significativa ai fini della soluzione della questione oggetto di esame. Invero, si è premesso che il problema della compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico discende non da puntuali divieti normativi, bensì dal contenuto che caratterizza le due forme di elemento soggettivo. Ora, la struttura del dolo eventuale, così come conformata alla luce dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, si caratterizza per un contenuto rappresentativo e volitivo tale da “includere” in termini di effettività e concretezza anche la specifica finalità richiesta dalla legge ai fini dell’integrazione del reato. Se, infatti, ai fini della configurabilità del dolo eventuale, l’agente deve “lucidamente” raffigurarsi il fatto lesivo quale conseguenza della sua condotta, e deve inoltre consapevolmente determinarsi ad agire comunque, accettando compiutamente la verificazione di tale fatto lesivo, risulta ragionevole concludere che il medesimo agente, nella indicata situazione, pone in essere la sua condotta nella piena consapevolezza che questa potrà realizzare anche la specifica finalità richiesta dalla legge ai fini dell’integrazione del reato, e, quindi, nell’attivarsi accettandola, la fa propria.
Costituisce insegnamento consolidato, e seriamente non contestabile, quello per cui un ruolo decisivo ai fini dell’accertamento del dolo è svolto dagli elementi indiziari. Non a caso, anzi, Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261105- 01, ha programmaticamente evidenziato che «l’indagine sul dolo eventuale si colloca sul piano indiziario». Tra questi indicatori, in particolare, vengono segnalati: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. Ma, anche volendo prescindere da tale indirizzo ermeneutico, occorre in ogni caso considerare che, in materia di misure cautelari reali, in linea generale, ai fini dell’affermazione del fumus commissi delicti, pure secondo l’orientamento più garantista, non sono necessari “gravi” indizi di colpevolezza o del reato, ma solo elementi di fatto, anche solo indiziari, che consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato.
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Il 3 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 14795 in tema di rapporto tra imputabilità e dolo.
Ad avviso del Collegio, l’indagine sulla imputabilità deve essere tenuta nettamente distinta da quella sul dolo, poiché quest’ultimo, quale elemento costitutivo del delitto, deve sussistere anche nei confronti di soggetto che risulti non imputabile o parzialmente imputabile e deve essere verificato ed accertato alla stregua delle regole di comune esperienza secondo i normali criteri di valutazione, in modo non dissimile da come avviene con riferimento all’ipotesi di un soggetto agente dotato di normale capacità di intendere e di volere.
Ciò significa che anche nei confronti di soggetto non imputabile, o parzialmente imputabile, dovrà comunque essere stabilito, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento prodotto sia stato “secondo l’intenzione”, “contro l’intenzione” o “oltre l’intenzione” (giusta le varie ipotesi previste dall’art. 43 c.p.), per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente.
La Corte di appello, nel caso di specie, ha disatteso questo principio, avendo ritenuto che, una volta accertata l’assenza totale di imputabilità, sarebbe ultroneo ogni ulteriore accertamento in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico, introducendo anche una non condivisibile distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente. Al contrario deve ribadirsi che, ove, all’esito dell’indagine sulla integrazione degli elementi costitutivi del reato sia esclusa la sussistenza del dolo, anche il soggetto non imputabile deve essere assolto con la formula più favorevole del fatto non costituisce reato e non con quella del difetto di imputabilità, che presuppone l’accertata consumazione del reato. Infatti, solo ove sia stata accertata la commissione del reato si impone, nel caso di difetto di imputabilità, la ulteriore valutazione delle conseguenze penali che devono discenderne a carico del soggetto ritenuto non imputabile, nella specie dell’applicazione o meno di una misura di sicurezza.
Non vi è dubbio, chiosa ancora la Corte, che lo stato di imputabilità costituisce il necessario presupposto dell’affermazione di responsabilità, ma il suo doveroso accertamento non incide in alcun modo sulla indagine relativa all’accertamento del reato, essendo quest’ultima a sua volta necessaria per l’applicazione delle misure di sicurezza, secondo quanto previsto dall’art. 202 c.p., comma 1, che stabilisce come principio generale che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, esclusi i casi di cui al comma 2 che si riferiscono ad ipotesi particolari previste da altre disposizioni di legge (ex artt. 49 e 115 c.p.).
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Il 4 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 16968, in materia di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento al reato di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 cod. civ. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Suprema Corte, il dolo necessario ai fini dell’integrazione della summenzionata fattispecie criminosa, richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.
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Il 22 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione penale n. 21936 onde, in relazione al reato di danneggiamento, va escluso il dolo dell’agente, essendo stato accertato che questi era solito lanciare cassette di plastica dal proprio balcone, per evitare di dovere scendere a riporle, senza per questo provocare danni ai mezzi parcheggiati nel cortile; inoltre, lo specifico episodio non era stato preceduto da uno scontro con il vicino di casa, con il quale pure aveva dei dissapori.
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Il 7 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 25221, in materia di concorso in omicidio doloso, in particolare con riguardo all’elemento soggettivo del reato concorsuale.
Ad avviso del Collegio, posto che, poiché per la sussistenza del concorso di persone nel reato occorre un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento nonché una preventiva adesione psichica del compartecipe alla commissione del reato, la responsabilità penale del predetto può essere affermata solo qualora egli, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti, sia stato in grado di prevedere in concreto l’evento, mostrando piena adesione psichica e fornendo un contributo causale efficiente al relativo verificarsi (cfr. Cass., Sez. I, n. 11970 del 31/10/1995, rv. 203227).
Come è stato ribadito da un recente e condivisibile arresto della Suprema Corte, in tema di concorso di persone nel reato, ai fini della sussistenza del dolo del reato concorsuale, che richiede la consapevole contribuzione, anche solo agevolativa, dell’agente alla realizzazione del reato, è necessario l’accertamento della conoscenza, anche unilaterale, della condotta altrui da parte del concorrente.
Peraltro non necessariamente il dolo nel reato concorsuale di evento si configura come dolo diretto, potendosi atteggiare anche in termini di dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale), in cui l’evento sia stato considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata.
Ed invero, soggiunge la Corte, perché il concorrente risponda di un reato di evento, non è necessario, come per l’esecutore materiale, che l’evento sia stato da lui voluto con dolo diretto, ma è sufficiente che sia stato voluto con dolo eventuale e, pertanto, egli deve aver concorso all’azione dell’esecutore materiale non soltanto prevedendo in concreto l’evento come possibile conseguenza dell’azione concordata, ma addirittura accettandone il rischio di accadimento, pur di realizzare l’azione concordata e sempre che l’evento rientri, in modo diretto e conseguenziale, nello schema esecutivo di tale azione: di talché, sul piano del giudizio controfattuale, possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento medesimo.
Per la configurabilità del dolo eventuale, dunque, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa, e, a tal fine, l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori, quali: la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; la durata e la ripetizione dell’azione; il comportamento successivo al fatto; il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; la probabilità di verificazione dell’evento; le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento.
Può, pertanto, concludersi nel senso che, ai fini del concorso in omicidio volontario, è sufficiente un contributo limitato alla sola fase preparatoria e di organizzazione logistica del reato materialmente commesso da altri concorrenti, non essendo necessario che il concorrente sia informato sull’identità di chi agirà, sulle modalità esecutive della condotta e sull’identità della vittima, purché vi lo sia la consapevolezza da parte sua che la propria azione si iscriva in un progetto delittuoso finalizzato alla realizzazione di un omicidio, la cui ideazione ed esecuzione è affidata ad altri ovvero, in alternativa, in un piano delittuoso lo sbocco del quale, rappresentato dall’evento letale, sia solo una eventuale e possibile conseguenza dell’azione concordata, il cui verificarsi, tuttavia, è accettato dal concorrente come un rischio possibile, che non gli impedisce di fornire il suo contributo materiale alla realizzazione del progetto.
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Il 9 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione penale n. 25431, concernente l’elemento soggettivo del reato di adescamento di minorenni di cui all’ art. 609 undecies c.p., in rapporto al principio di offensività.
Ad avviso del Collegio, il dolo necessario ai fini dell’integrazione del summenzionato reato non deve avere ad oggetto solamente l’attività di adescamento del minore, volta a carpirne, come espressamente precisato dalla norma sanzionatoria, la fiducia attraverso attività consistenti in artifici, lusinghe o minacce, poste in essere anche tramite l’utilizzo della rete internet o altre reti o mezzi di comunicazione, ma deve riguardare anche la finalità specifica cui siffatto adescamento è strumentale, ossia la perpetrazione in danno del minore stesso di uno dei reati specificamente elencati nella parte iniziale dell’articolo 609-undecies c.p..
Ciò considerato, osserva la Corte, che tanto più accurata dovrà essere l’indagine che in sede di merito deve essere svolta in relazione alla ricorrenza, sotto il predicato duplice profilo, dell’elemento soggettivo del reato, quanto più privi di autonoma valenza sintomatica siano gli atti riguardanti specificamente l’adescamento, ove non si voglia correre il rischio di sanzionare penalmente condotte non solo del tutto prive di offensività – rischio questo, peraltro, insito in tutti i casi in cui oggetto di sanzione è un cosiddetto reato-ostacolo, volto ad assicurare una tutela avanzata a beni interessi, di rilevante portata sociale, ancora non direttamente oggetto di lesione per effetto della condotta posta in essere dal soggetto agente – ma anche di obliterare nei fatti il dettato normativo sancito dall’articolo 609 undecies c.p., il quale impone di sanzionare penalmente non qualsivoglia attività di adescamento di soggetto minore di età, ma solamente quella che abbia la finalità di consentire, o quanto meno facilitare, la divisata realizzazione di una delle condotte criminose specificamente, elencate dalla norma ora in questione.
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Il 21 settembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione penale n. 26326, concernente l’elemento soggettivo del reato di commercio di sostanze dopanti.
Ad avviso del Collegio, non vi è dubbio che la previsione, nella nuova figura delittuosa considerata dal comma 7 dell’art. 586 bis cod. pen., del dolo specifico rappresenta un filtro selettivo della penale rilevanza della condotta, che è ora punita solo ove l’agente abbia agito con il fine indicato dalla norma, non essendo ovviamente richiesto, come ogni reato a dolo specifico, che quel fine sia effettivamente conseguito.
In altri termini, la fattispecie contemplata dall’art. 586 bis, comma 7, cod. pen. non incrimina più la commercializzazione tout court di sostanze dopanti, come avveniva in relazione all’abrogato art. 9, comma 7, I. n. 376 del 2000, ma solo quella in cui l’agente si prefigge lo scopo “di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”, indipendentemente dall’effettivo conseguimento di tale finalità. Per effetto della previsione dell’indicato dolo specifico, si è perciò realizzata una parziale abolitio criminis, non essendo più punito il commercio di “sostanze dopanti” commesso in assenza del “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”; in simili casi nemmeno può trovare applicazione la fattispecie di cui al comma 1, la quale pure esige il medesimo dolo specifico.
Pertanto, ritiene il Collegio di sollevare questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, del ridetto art. 586-bis, comma 7, cod. pen., come introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. d), d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, nella parte in cui – sostituendo l’art. 9, comma 7, I. 14 dicembre 2000, n. 376, abrogato dall’art. 7, comma 1, lett. n) del medesimo ‘ d.lgs. n. 21 del 2018 – prevede il “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.
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Il 1 ottobre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione penale n. 27241, alla stregua della quale, il reato di cui all’art. 189, comma 7, c.d.s. è integrato anche in presenza del dolo eventuale, ravvisabile in capo all’utente della strada il quale, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento e avente connotazioni tali da evidenziare in termini di immediatezza la concreta eventualità che dall’incidente sia derivato danno alle persone, non ottemperi all’obbligo di prestare la necessaria assistenza ai feriti.
In altre parole, ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in esame, è necessario che ogni componente del fatto tipico (segnatamente il danno alle persone e l’esservi persone ferite, necessitanti di assistenza) sia conosciuta e voluta dall’agente. A tal fine, è però sufficiente anche il dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, ove l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso il rischio.
Ciò significa, precisa la Corte, che, rispetto alla verificazione del danno alle persone eziologicamente collegato all’incidente, è sufficiente che, per le modalità di verificazione di questo e per le complessive circostanze della vicenda, l’agente si rappresenti la probabilità – o anche la semplice possibilità – che dall’incidente sia derivato un danno alle persone e che queste necessitino di assistenza e, pur tuttavia, accettandone il rischio, ometta di fermarsi.
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Il 23 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 29542 onde, in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, una adeguata collocazione della punteggiatura cronologica degli atti dell’agente è necessaria laddove le condotte a questi attribuite coprono un non breve arco temporale (nel caso di specie 4 anni), al fine di valutare l’unitarietà delle stesse e la natura (che deve essere unitaria) del tipo di dolo che le regge, in modo tale da poter concludere che si sia trattato, non già di atti sporadici e di manifestazioni di un atteggiamento di contingente aggressività, bensì di persistenti azioni vessatorie (Nel caso di specie, il Collegio ha assunto le compromesse condizioni di salute dell’agente inidonee a mettere in discussione la gravità del comportamento tenuto nei confronti dei familiari, oggetto di continui maltrattamenti, pur dovendo dichiarare prescritto il reato in esame).
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Il 7 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 34831, alla stregua della quale, in caso di invio di frasi diffamatorie per mezzo di un messaggio PEC, si richiede un rafforzato onere di giustificazione riguardo l’elemento soggettivo del reato di diffamazione aggravata (a mezzo stampa), in specie relativamente alla prevedibilità in concreto dell’accessibilità di terzi al contenuto dichiarativo, laddove il mittente opti per siffatto tipo di comunicazione proprio al fine della prova della ricevuta, avente valore legale, da parte del destinatario. Indici rivelatori, in tal senso, possono essere desunti dalla conoscenza delle prassi in uso al destinatario, ovvero dalla natura stessa dell’atto, se destinato all’esclusiva conoscenza del medesimo o se, invece, finalizzato all’attivazione di poteri propri di quest’ultimo che, necessariamente, implichino l’accessibilità delle informazioni da parte di terzi.
2021
Il 21 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 2483, che riafferma il consolidato orientamento secondo cui l’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale è integrato qualora si accerti che scopo della fisica sottrazione delle scritture contabili agli organi del fallimento – anche sotto forma della relativa omessa tenuta – sia quello di recare pregiudizio all’interesse dei creditori ad una ricomposizione completa ed esaustiva delle scritture sociali attinenti a tutte le iniziative economiche del fallito.
Più recentemente, inoltre, in una serie di condivisibili arresti si è ulteriormente precisato che, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa, in seno all’art. 216, comma primo, lett. b), I. fall., rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi, mentre la prima richiede il dolo specifico nei termini su precisati.
Al riguardo, chiosa la Corte, deve osservarsi che gli elementi dai quali desumere la sussistenza del dolo specifico nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale specifica (e del dolo generico nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale generica) non possono coincidere con la scomparsa dei libri contabili (o con la tenuta degli stessi in guisa tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari), che rappresentano semplicemente gli eventi fenomenici, dal cui verificarsi dipende l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato.
Dovendo, piuttosto, consistere in circostanze di fatto ulteriori, in grado di illuminare la ratio dei menzionati eventi alla luce della finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare pregiudizio ai creditori, nel caso della bancarotta fraudolenta documentale specifica; della consapevolezza che l’irregolare tenuta della documentazione contabile è in grado di arrecare pregiudizio alle ragioni del ceto creditorio, nel caso della bancarotta fraudolenta documentale generica.
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Il 18 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 6353 onde, in caso di sottrazione di uno smartphone lasciato sul bancone di un bar, ricorre il dolo del reato di furto e non quello del reato di appropriazione di cose smarrite, giacché il soggetto agente si è impossessato del cellulare dopo solo cinque o dieci minuti dall’allontanamento della legittima proprietaria, ossia un periodo di tempo troppo breve per escludere che il telefono fosse stato solo dimenticato e non definitivamente perso.
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Il 24 febbraio esce la sentenza della II sezione penale della Cassazione n. 7163, alla stregua della quale, in relazione al reato di truffa contrattuale, l’elemento che nella truffa contrattuale imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di illecito penale è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti – determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo – rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria.
Per altro verso, è evidente che la prova del dolo “iniziale” non può che provenire ed essere fondata sulla valorizzazione di elementi fattuali che possono essere di più varia indole e che possono attingere la fase antecedente come anche quella successiva al perfezionamento dell’accordo purché tali da rivelare l’iniziale proposito dell’agente.
Questioni intriganti
In quali rapporti si pongono l’elemento rappresentativo e quello volitivo nell’ambito del dolo?
- chi commette il reato persegue un risultato penalmente punito, e questo risultato deve essere da lui preveduto e voluto (art.43 c.p.);
- è da considerarsi ormai prevalente la teoria volontaristica, che individua nella volontà dell’evento criminoso il più autentico ubi consistam del reato sul crinale soggettivo, a dispetto della teoria rappresentativa che invece si incentra sulla consapevolezza;
- la previsione codicistica della c.d. colpa con previsione come circostanza aggravante (art.61, n.3, c.p.) sospinge nel senso di ritenere l’elemento rappresentativo come proprio anche della colpa, seppure protratta fino alle relative propaggini estreme, con la conseguenza onde allorché si lambisce il dolo occorre fondamentalmente la volontà dell’agente, che si aggiunge all’elemento rappresentativo di base;
- in sostanza, fino al punto in cui ci si rappresenta senza volere campeggia la colpa; laddove invece si sconfini nel campo del movimento o dell’inerzia corporea “voluti” (seppure a diversi livelli), si entra nell’ambito del dolo;
- a valorizzare eccessivamente l’elemento conoscitivo del dolo si rischierebbe peraltro di sottrarre spazi di disciplina alla colpa, finendosi col vedere fattispecie dolose anche laddove si è in realtà in presenza di mere fattispecie colpose.
Lasciando il fuoco dell’attenzione sul solo elemento volitivo, quali sono le diverse categorie di dolo elaborate da dottrina e giurisprudenza?
La condotta del reo viene preceduta da un processo psicologico di tipo decisionale volitivo, che conduce a realizzare il risultato (evento-inadempimento) punito dalla legge, e che – dal punto di vista quantitativo-probabilistico sul crinale della rappresentazione – si atteggia come segue:
- la norma penale tipizza un evento e il soggetto agente vuole proprio quell’evento (tipico), che vede come scopo ultimo della propria condotta: il dolo è intenzionale e l’evento tipico è voluto in modo immediato e diretto; il soggetto agente pone in essere una condotta che è inequivocabilmente orientata alla produzione proprio dell’evento (inadempimento) punito dalla legge, quand’anche sia insicuro di realizzarlo concretamente e si rappresenti la possibilità di non riuscirvi, pur volendo intensamente cagionarlo, ed a prescindere dai motivi che lo spingono a perseguire intenzionalmente quel risultato, che potrebbe essere isolati ovvero inserirsi in un disegno operativo più ampio (donde la evidente dequotazione dell’elemento rappresentativo rispetto a quello volitivo);
- la norma penale tipizza un evento e il soggetto agente, che aspira ad altro, sa che per arrivare al proprio obiettivo deve necessariamente passare per l’evento (tipico) punito, che dunque vuole come mezzo al fine: il dolo è diretto e l’evento tipico è collaterale rispetto agli scopi di chi agisce, che tuttavia lo vuole appunto come mezzo al fine, palesando conclamato disprezzo per l’interesse tutelato dalla norma imperativa penale e per i valori che a tale tutela sono sottesi, in quanto sa per certo che cagionerà ad essi un vulnus penalmente sanzionato (in questo caso l’elemento rappresentativo affiora quale certezza in capo al reo del prezzo da pagare in termini di possibile sanzione penale per raggiungere l’obiettivo divisato: è certo, o comunque altamente probabile, che per raggiungere lo scopo divisato si dovrà passare per la commissione di un reato); il soggetto agente si rappresenta mentalmente un elevato grado di probabilità di realizzazione dell’evento accessorio rispetto al proprio obiettivo finale, che tuttavia – “sapendo” – vuole come mezzo al fine;
- la norma penale tipizza un evento e il soggetto agente, che aspira ad altro, sa che per arrivare al proprio obiettivo deve accettare il rischio di cagionarlo quale evento penalmente sanzionato, volendo dunque correre questo rischio: il dolo è eventuale e l’evento tipico è collaterale rispetto agli scopi di chi agisce, che tuttavia ne accetta il rischio come mezzo al fine, palesando un certo grado (seppure indiretto) di disprezzo per l’interesse tutelato dalla norma imperativa penale e per i valori che a tale tutela sono sottesi, in quanto accetta il rischio di cagionare ad essi un vulnus penalmente sanzionato (in questo caso l’elemento rappresentativo affiora quale eventualità in capo al reo del prezzo da pagare in termini di possibile sanzione penale per raggiungere l’obiettivo divisato: anche se non è certo, né comunque altamente probabile, è tuttavia possibile e quasi probabile che per raggiungere lo scopo divisato si dovrà passare per la commissione di un reato, e se ne accetta il rischio); il soggetto agente si rappresenta mentalmente un certo grado di possibilità di realizzazione dell’evento accessorio rispetto al proprio obiettivo finale, che tuttavia – “sapendo” – accetta il rischio di attingere come mezzo al fine.
Come si connota il dolo alternativo, e come si compendia il relativo regime giuridico?
- il soggetto agente opera per il raggiungimento di due (o più) obiettivi alternativi;
- tali obiettivi sono incompatibili tra loro, nel senso che non possono essere contemporaneamente realizzati: se si raggiunge uno, non si raggiunge l’altro, e ciò implica che il soggetto agente risponde solo dell’evento consumato (o tentato) che si realizza concretamente in fondo alla fattispecie, senza poter rispondere dell’altro (neppure a titolo di tentativo), onde si risponde del solo reato consumato (o tentato), che assorbe il tentativo (o la consumazione) dell’altro; ciò differenzia il dolo alternativo da quello indeterminato, in cui invece gli eventi penalmente sanzionati possono verificarsi in modo contestuale, con la conseguenza onde l’autore risponderà dei due (o più) reati commessi (se del caso, l’uno a titolo di consumazione e l’altro a titolo di tentativo); il dolo alternativo rileva allora anche nell’ottica del concorso apparente di norme;
- il soggetto agente vuole, alternativamente, entrambi gli eventi puniti: o l’uno, o l’altro; ciò differenzia il dolo alternativo da quello eventuale: nel primo chi agisce vuole o l’uno o l’altro evento indifferentemente, mentre nel dolo eventuale si prefigge un fine primario (anche lecito) ed accetta il rischio che, per raggiungerlo, si verifichi un evento gerarchicamente secondario; nel dolo alternativo non vi è gerarchia di volizione rispetto ad eventi che, incompatibili tra loro, sono tutti voluti dal reo in modo indifferente ed appunto alternativo, peraltro (stando a recente dottrina) anche con epifanie diverse di dolo con riguardo ai singoli eventi alternativi voluti, onde uno potrà essere voluto con dolo diretto, l’altro con dolo intenzionale ovvero anche con dolo eventuale, fermo restando che alla fine sarà uno solo l’evento che si realizzerà ed uno solo il titolo punitivo che, anche a livello soggettivo, attingerà concretamente il reo;
- quando il dolo è alternativo, il fuoco dell’attenzione va sulla fattispecie siccome conclusasi, che oblitera gli originari intendimenti alternativi del reo, onde nel peculiare (ma frequente) caso di dolo alternativo orientato indifferentemente alle lesioni o alla morte della vittima (si tratta dunque di lesioni consistenti), se si raggiunge la morte si avrà omicidio consumato, mentre se la morte non si raggiunge si avrà omicidio tentato, senza poter condannare il reo (anche) a titolo di lesioni, e non potendo condannare per le sole lesioni stante la evidente gravità del fatto commesso (che supera lo stadio del tentativo omicidiario);
- quando la vittima è una medesima persona, il dolo è alternativo dal punto di vista oggettivo: si vogliono alternativamente ledere due beni (interessi) penalmente tutelati di tale medesima persona, tra i quali si registra normalmente una progressione lesiva (lesione o omicidio); quando le vittime sono più di una, si ha invece dolo alternativo dal punto di vista soggettivo onde il soggetto agente – che non commette alcun errore nei mezzi di esecuzione del reato (ipotesi nella quale manca proprio il dolo e si ha aberractio ictus ex art.82 c.p.) – vuole alternativamente colpire il soggetto A o il soggetto B, essendo per lui indifferente colpire il primo o il secondo;
Cosa distingue il dolo eventuale dalla colpa cosciente o con previsione?
- si parte dalla rappresentazione del soggetto agente: nel dolo eventuale, il soggetto agente si rappresenta l’evento, rapportato alla relativa condotta, come probabile; nella colpa cosciente, si rappresenta invece l’evento come meramente possibile (teoria “rappresentativa” della probabilità); si obietta che muovendo da questa prospettiva la volontà non ha alcun rilievo;
- si parte dalla rappresentazione del soggetto agente: nel dolo eventuale, il soggetto agente si rappresenta la propria condotta come concretamente pericolosa, e l’evento per conseguenza come concretamente possibile; nella colpa cosciente, si rappresenta invece la propria condotta come astrattamente pericolosa, e l’evento per conseguenza come astrattamente possibile (teoria “rappresentativa” della possibilità); si obietta che non mancano casi di colpa cosciente in cui il soggetto agente si rappresenta in realtà la pericolosità della propria condotta come concretamente possibile, e per conseguenza come concretamente possibile anche l’evento che può discenderne: ciò che connoterebbe il dolo eventuale è allora il fatto che, dinanzi alla percezione della concreta possibilità che la condotta posta in essere sia pericolosa, il soggetto agente non allontana mentalmente tale rappresentazione mentre agisce, in questo modo accettando il rischio dell’evento. Peraltro, per interpretare in senso costituzionalmente conforme l’istituto della preterintenzione, sottraendolo all’area della responsabilità oggettiva pura, si tende proprio ad agganciarlo psicologicamente all’autore delle percosse o lesioni, il quale si rappresenta la possibilità o la probabilità dell’evento morte: laddove questo sia lo schema utilizzato per il dolo eventuale, lo spazio applicativo della preterintenzione verrebbe ricacciato, limitandovelo, all’ambito della responsabilità oggettiva pura, dove l’evento morte non è in alcun modo prevedibile dal soggetto che percuote o lede;
- si parte dalla rappresentazione del soggetto agente: questi nel caso del dolo eventuale non allestisce contromisure astrattamente idonee a scongiurare l’evento penalmente punito, così palesando di accettare il fatto che l’evento si verifichi, mentre nella ipotesi della colpa cosciente allestisce contromisure idonee che gli fanno percepire, nonostante la pericolosità della propria condotta, che l’evento non si verificherà (teoria “rappresentativa” c.d. della operosa volontà di evitare, che ci giunge dalla dottrina tedesca); si tratta di un distinguo che può rivelarsi utile in determinati casi ma, si obietta, non in tutti: se l’agente è convinto di essere un buon pilota e percorre le vie cittadine a velocità elevata, alfine investendo un pedone, non adotta contromisure ma è certamente colpa cosciente; all’opposto, se un terrorista che ha collocato una bomba in un luogo pubblico con finalità ab origine solo dimostrative adotta la contromisura di allontanare chi è in zona e taluno rimane comunque ucciso o ferito, non può non discorrersi di dolo eventuale;
- si parte dalla rappresentazione del soggetto agente ed in particolare dal relativo profilo emozionale; giunge alla mente del soggetto agente un evento – penalmente punito – che egli approva, o che comunque gli è indifferente nel caso del dolo eventuale, mentre nella ipotesi della colpa cosciente il medesimo evento quegli auspica, sperandolo, che non si verifichi (teoria “rappresentativa” c.d. “emotiva”); si obietta che in un diritto penale del fatto il dolo quale strumento di imputazione soggettiva non può essere lambito da profilli di tipo emotivo ed eticizzante (avente come tale riguardo a meri atteggiamenti interiori), che peraltro assai poco hanno a che vedere con la “volontà” del fatto, comunque richiesta laddove si discorra di dolo; si rischia di affidarsi alle mutevoli sensibilità del singolo interprete (giudice), oltre che di incorrere in aporie logiche onde dovrebbe essere colpa cosciente (e non dolo eventuale) il titolo di imputazione di chi – oltre alla vittima – ha ucciso anche i relativi uomini di scorta solo perché auspicava di non ucciderli, quand’anche abbia scelto di agire orientandosi verso una possibile (o addirittura probabile) lesione (plurima) dell’interesse protetto dalla norma penale;
- si parte dalla volontà del soggetto agente, il quale aderisce all’evento penalmente punito “approvandolo” e così dimostrando di volerlo, mentre laddove egli abbia fiducia in ordine al fatto che l’evento non accada (e dunque non lo approvi), si ha colpa cosciente (teoria “volontaristica” dell’approvazione); si obietta tuttavia che quando il risultato ultimo perseguito dal soggetto agente è antagonista (anche solo parzialmente) con l’evento accaduto, questo non potrebbe mai dirsi “approvato” e a rigore dovrebbe escludersi financo il dolo eventuale; inoltre, un evento che si desuma “approvato” viene attribuito al relativo autore sulla scorta di una solo ipotetica e presunta adesione interiore, e non già sulla base di un reale coefficiente psicologico capace di avvincere il fatto a chi lo ha commesso, con larvato affiorare di forme di responsabilità oggettiva e conseguente contrasto con l’art.27 della Costituzione;
- si parte dalla volontà del soggetto agente, ma in una posizione retrospettiva o ex ante, per verificare cosa avrebbe fatto tale soggetto agente laddove si fosse rappresentato l’evento punito come conseguenza certa della propria condotta: laddove si accerti che avrebbe agito comunque “costi quel che costi”, si è al cospetto di dolo eventuale (l’evento è voluto dall’agente), mentre laddove si sarebbe trattenuto dal far luogo a quella condotta si parla di colpa cosciente (teoria “volontaristica” della d. formula di Frank, dal nome del giurista tedesco Reinhard Franck che per primo la propose); si obietta che, sul crinale probatorio, piuttosto che provare il dolo come stato psicologico effettivo occorrerebbe qui provare, in modo vieppiù difficoltoso, uno stato psicologico meramente ipotetico; inoltre, collocandosi in una prospettiva ex post, diventa difficile non punire a titolo di dolo eventuale (per limitarsi alla sola colpa cosciente) condotte in cui l’evento dannoso o pericoloso è stato concretamente previsto come tale, e solo nel caso in cui il soggetto agente se lo fosse rappresentato come certo, non avrebbe agito comunque. Si fa l’esempio del soggetto A che mutila il bimbo B affinché possa suscitare pietà nell’accattonaggio: se ci si pone ex ante, si può ritenere che A non avrebbe mutilato B se avesse saputo con certezza che B sarebbe morto; se ci si pone ex post, dinanzi alla morte del bimbio B diventa difficile non punire a titolo di dolo eventuale A, per punirlo solo a titolo di colpa cosciente, sul presupposto onde egli non avrebbe agito “costi quel che costi”;
- si parte dalla rappresentazione e dalla volontà del soggetto agente, il quale nel dolo eventuale accetta il rischio che l’evento si verifichi e dunque lo vuole, pur non avendo tale evento tra i suoi scopi, dal momento che ciò che era solo nella previsione entra alfine nel raggio della volontà, mentre nella colpa cosciente agisce certamente convinto (pur sbagliando) che l’evento non si verificherà, e dunque non lo vuole, sicché l’evento rimane nella sola previsione, senza essere lambito dal raggio della volontà (teoria “rappresentativa-volontaristica” dell’accettazione del rischio); nella colpa cosciente l’agente confida (erroneamente) o nell’intervento di terzi o nella propria abilità personale o in altri fattori, considerandoli tutti certamente capaci di interrompere il nesso causale tra la propria condotta e l’evento punito, onde non può dirsi che accetta il rischio dell’evento come invece accade nell’ipotesi del dolo eventuale, in cui non si “confida che non” ma si “rischia che”; si obietta tuttavia che solo una accettazione del rischio con disprezzo per l’interesse penalmente tutelato potrebbe far affiorare una partecipazione psicologica dell’autore al fatto degna del concetto di “dolo”: in altri termini, anche nel caso della colpa cosciente può ravvisarsi una sostanziale accettazione del rischio, connessa tuttavia a imprudenza o a negligenza, mentre nell’accettazione del rischio dolosa (dolo eventuale) occorrerebbe rintracciare qualcosa di più, finendosi altrimenti – ed è un paradosso da ribaltamento – col punire più gravemente chi fa lo sforzo mentale di rappresentarsi, ponderandolo, un rischio rispetto a chi avventatamente (e disinvoltamente) lede un interesse giuridico penalmente protetto;
- per evitare questo, si parte dalla rappresentazione e dalla volontà del soggetto agente ma si suggerisce di distinguere l’accettazione del rischio di cui alla colpa cosciente, dove manca uno specifico momento deliberativo dell’autore della condotta (che è meramente imprudente o negligente), dall’accettazione del rischio di cui al dolo eventuale, in cui invece è possibile isolare un momento deliberativo di scelta del soggetto agente, il quale subordina un determinato bene o interesse ad un altro, accettando il rischio di sacrificare il primo per perseguire il secondo (teoria “rappresentativa-volontaristica” del bilanciamento nell’accettazione del rischio);
- non si parte dalla rappresentazione volitiva del soggetto, e dunque si prescinde dal relativo atteggiamento interiore, e si fa riferimento esclusivamente al piano oggettivo della fattispecie, dal quale il dolo eventuale emerge giusta osservazione della condotta particolarmente qualificata in termini di minaccia ai beni penalmente tutelati da parte dell’agente e dunque fondamentalmente attraverso una considerazione del rischio oggettivamente assunto dall’autore del comportamento punito: in sostanza, il fatto stesso di assumersi un certo rischio è indice di dolo eventuale, senza dovere indagare l’effettivo atteggiamento interiore di chi lo pone in essere. Muovendo allora dal rischio oggettivamente inteso, laddove esso sia da assumersi “schermato” – e dunque controllabile dal soggetto agente – si ha colpa cosciente, mentre nell’opposto caso in cui si affronti un rischio i cui sviluppi causali siano incontrollabili, si ha dolo eventuale. Secondo una variante di questa opzione ermeneutica, si guarda alla condotta posta in essere ed al valore che ad essa viene socialmente riconosciuto, per concludere nel senso del dolo eventuale (e non già solo della colpa cosciente) allorché il rischio che si decide di correre si profili di tale consistenza da non poter essere neppure seriamente considerato dall’homo eiusdem condicionis et professionis, e dunque dall’agente modello: se l’autore della condotta si assume un rischio medio, connesso ad un discostamento (quantunque consistente) da quello che si sarebbe assunto l’agente modello, si è al cospetto di colpa con previsione, mentre laddove il rischio che si decide di correre sia talmente consistente da far ritenere che l’agente modello non lo avrebbe neppure preso in considerazione, si ha dolo eventuale. In sostanza, il soggetto agente decide di correre un certo rischio molto consistente, rendendosi conto che dall’assunzione di tale rischio può scaturire, in modo da lui incontrollabile, la lesione di un determinato bene giuridico penalmente tutelato, dovendosi allora tale rischio assumere doloso già sul crinale oggettivo. L’esempio che viene fatto è quello del malato di HIV che intrattiene rapporti sessuali a rischio contagio per i terzi: laddove tali rapporti siano del tutto sporadici, l’agente si assumerebbe un rischio relativo, da annoverarsi ancora nell’ambito della colpa cosciente (rimanendo egli fiducioso che il contagio del partner non avverrà), mentre laddove si tratti di rapporti frequenti e diuturni, apparirebbe del tutto irrazionale pensare di non contagiare, con conseguente assunzione di un rischio capace di per sé di fare affiorare il dolo eventuale. Si tratta di una tesi che ha ricevuto critiche collegate sia all’ovvia circostanza onde le circostanze di fatto che qualificano (rectius, dovrebbero qualificare) il rischio sono quasi sempre tutt’altro che univoche, sia al fatto che il dolo, siccome normativamente confezionato, presuppone ex lege proprio quell’atteggiamento interiore (previsione e volontà) che la teoria (non a caso) “oggettiva” del c.d. rischio schermato colloca del tutto in secondo piano.
Nei reati a dolo specifico, è configurabile il dolo eventuale?
- no, mai: esiste una incompatibilità di fondo tra il “fine di”, che pure si colloca fuori dalla condotta tipica vista dal punto di vista oggettivo, e la mera accettazione del rischio;
- occorre accertare caso per caso, potendo la risposta anche essere affermativa: poiché rispetto al fatto materiale tipico il dolo specifico si pone come ultroneo, tale fatto materiale tipico è invece coperto dal dolo generico, che può anche atteggiarsi in determinati casi a dolo eventuale. In sostanza, nei reati a dolo specifico esistono almeno 2 segmenti del dolo, il primo dei quali, generico (e potenzialmente eventuale) copre il fatto materiale tipico, mentre il secondo (sempre specifico) si colloca fuori ed oltre tale fatto materiale tipico (e non è surrogabile dalla mera accettazione del rischio). Così nel furto deve sempre sussistere l’obiettivo del profitto (segmento specifico del dolo), ma in ordine alla consapevolezza della altruità della cosa oggetto di impossessamento (segmento generico del dolo, potenzialmente eventuale) ci si può accontentare anche del dubbio e dunque dell’accettazione del rischio che la cosa sia di altri.
Il tentativo è compatibile con il dolo eventuale?
- no: il tentativo presuppone una direzionalità finalistica degli atti – che devono essere idonei ed inequivoci – onde esso è compatibile con il dolo intenzionale e con quello diretto, mentre è incompatibile con il dolo eventuale e con la colpa anche cosciente (tesi soggettiva tradizionale); del resto, il tentativo deve assumersi come fattispecie autonoma, qualitativamente diversa ed affrancata dalla corrispondente fattispecie consumata, e dunque dotata di una propria oggettività e di una propria componente soggettiva tipica, connotata dalla intenzionalità di chi agisce in vista della finalizzazione penalmente sanzionata, che al fondo non trova luogo a cagione del sopravvenire di evenienze estranee alla effettiva volontà (finalistica) del soggetto agente, che a quest’ultima si sovrappongono elidendola; si tratta di una tesi più garantista e meno attenta alla pericolosità sociale di determinate condotte preordinate al delitto;
- si: un atto può assumersi univoco già sul crinale oggettivo, per come si presenta, senza necessità di indagare l’atteggiamento psicologico di chi lo pone in essere, in quanto è la semplice probabilità a far presagire, nell’osservarlo per come è stato posto in essere in concreto e dalle circostanze che lo circondano, che da esso possa scaturire l’evento che è consumazione, il quale ultimo non si verifica solo per ragioni indipendenti dall’autore dell’atto considerato; su questo crinale, è ben possibile che un atto sia univoco nel senso di palesare in modo non equivoco che il soggetto agente intende accettare il rischio che l’evento di consumazione si verifichi, anche se non vuole coscientemente e in via diretta tale evento consumativo (tesi oggettiva): del resto, il tentativo si distingue dal delitto consumato solo da un punto di vista quantitativo, mancando solo la condotta penalmente sanzionata (reati di pura condotta) o l’evento penalmente sanzionato (reati di evento) ovvero, in modo più semplice, mancando il raggiungimento di quello stadio dell’inadempimento penalmente sanzionato che corrisponde alla consumazione, e fermandosi ad uno stadio di inadempimento (già penalmente sanzionato) che corrisponde appunto al tentativo; se così è, come ogni forma di dolo è compatibile con il delitto consumato, così ogni forma di dolo (seppure in minus) è compatibile con il delitto tentato, ivi compreso il dolo eventuale; si tratta di una tesi più rigorosa e più attenta alla pericolosità sociale di determinate condotte preordinate al delitto.