Massima
Il principio del favor rei impone di riservare al condannato il trattamento più favorevole allorché si verifichi una successione di leggi che incidono sul c.d. reato-inadempimento, rimodulandone la punibilità in senso – per l’appunto – più favorevole; il che talvolta può accadere anche nel caso in cui la successione normativa riguardi non già la fattispecie penale direttamente ed immediatamente considerata, quanto piuttosto elementi normativi della fattispecie medesima, che viene lambita in modo mediato ed indiretto, purché si assista ad un effettivo scemare del disvalore penale, complessivamente considerato, del fatto – inadempimento – reato.
Crono-articolo
Nel diritto romano vige fondamentalmente il principio “tempus regit actum”, secondo il quale è la legge in vigore al tempo in cui un atto è stato posto in essere a disciplinare il rapporto giuridico che da esso scaturisce. Il principio della retroattività della norma penale più favorevole ancora non affiora, men che meno se (solo) “mediatamente” riferita al fatto penalmente punito (crimen).
1889
La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, comma 3 del c.p., prevede che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato.
1930
Il codice penale all’art.2, comma 3, prevede che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato (e non già il fatto penalmente rilevante, prima della qualifica dello stesso quale inadempimento-reato, come nei precedenti comma del medesimo articolo) e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
1948
La Costituzione, all’art.25, comma 2, ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo. Nel caso della successiva norma più favorevole, entra in gioco anche l’art.27 della Carta ed in particolare la percezione del disvalore penale in capo al reo – “colpevole” ab origine (comma 1) di un fatto in seguito assunto meno grave che in precedenza – e la conseguente efficacia special-preventiva della pena, in quanto non viene percepita neppure come tendenzialmente rieducativa (comma 3) una pena che sanziona molto gravemente un fatto in seguito giudicato dal legislatore meno grave che ab origine.
1981
Il 19 novembre esce la sentenza delle SSUU sul caso “Carfi” che assume il dipendente di un istituto di credito quale incaricato di pubblico servizio ai fini della applicabilità dei reati propri che presuppongono tale qualifica soggettiva.
1987
Il 16 luglio esce la sentenza delle SSUU sul caso “Tuzet” che – muovendo dalla novella legislativa la quale, laddove correttamente interpretata, fa venire meno per i dipendenti delle banche la qualifica di incaricati di pubblico servizio – assume tale modifica extrapenale come incidente sulle pertinenti fattispecie incriminatrici, dichiarando nel caso di specie non punibile il reato di peculato. Secondo le SSUU la legge incriminatrice si compendia nel complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto punibile, sicché qualunque modifica, anche extrapenale, che incida su uno di detti elementi non può non sortire effetti sulla punibilità del fatto stesso. A mente della direttiva comunitaria 77/780 e delle relative norme di attuazione – legge 74.85 e 350.85 – gli istituti di credito hanno una nuova disciplina e, in modo parallelo, muta anche la qualifica legislativa dei dipendenti di banca, che non possono essere più considerati incaricati di pubblico servizio.
1995
Il 21 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 5816 che, in tema di colpa specifica, assume irrilevante il succedersi delle norme cautelari specifiche richiamate rispetto al precetto penale: bisogna guardare al momento in cui il fatto viene commesso, e se è “specificamente colposo” in quel momento, anche se in seguito la regola cautelare specifica muti o venga abrogata, tale circostanza non escludendo la natura colposa, ad esempio, dell’omicidio a suo tempo commesso. Ciò in quanto le regole cautelari specifiche presiedono solo all’imputazione (soggettiva) colposa del fatto, non incidendo sulla fattispecie penale punita (anche) a titolo colposo.
2003
Il 16 giugno esce la sentenza delle SSUU n. 25887 che, in tema di reati societari ed abolitio criminis, parte dal presupposto onde ai fini dell’operatività del comma 3 dell’articolo 2 del codice penale, ovvero affinché non vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge successiva sia punibile anche in base alla legge precedente, rientri cioè nell’ambito della previsione di questa. Le SSUU si muovono dunque dal punto di vista delle fattispecie astratte di reato a confronto: nel caso delle norme di cui agli articoli 2621 e seguenti del codice civile, alla luce delle novità introdotte dal Decreto legislativo n. 61/2002, poiché la norma successiva è speciale (nel senso che l’area della punibilità riferibile alla norma anteriore viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che, pur rientrando nella norma generale venuta meno, sono privi degli elementi specializzanti introdotti dalla norma successiva), ci si trova in presenza di un’abolizione parziale, che rende non più punibili soltanto i fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e che come tali restano assoggettati alla regola del comma 2 dell’articolo 2 del codice penale (abolitio criminis).
2006
Il 24 febbraio viene varata la legge n.85, il cui articolo 14 inserisce nell’art.2 del codice penale un nuovo comma tra il secondo ed il terzo, che dunque diventa il nuovo terzo comma (“se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135”), facendo diventare il vecchio terzo comma il nuovo quarto comma. La riforma è importante anche perché se normalmente la norma più favorevole non si applica in costanza di una pronuncia ormai in giudicato (irrevocabile), il limite del giudicato può essere invece superato laddove la natura più favorevole della norma successiva sia collegata al tipo di pena irrogata, pecuniaria in luogo della precedente detentiva: il nuovo terzo comma prevede infatti che se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135, anche se in relazione al fatto sia intervenuta condanna irrevocabile a pena detentiva.
2007
L’8 maggio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 17578 in tema di punibilità del cittadino rumeno ai sensi dell’art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo 286.98 sull’immigrazione: egli era straniero, ma a seguito dell’ingresso della Romania nell’Unione europea è divenuto cittadino europeo, sicché è dubbio se il reato possa ancora ritenersi configurabile o se, per i fatti commessi antecedentemente, debba procedersi ad assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. La questione viene rimessa alle SSUU per la soluzione della questione, registrandosi in dottrina e giurisprudenza due tesi contrapposte: a) una tesi più rigorista, secondo la quale non si configura abolitio criminis (e dunque il reato si configura ancora e va punito) in considerazione del fatto che la fonte extrapenale non incide nel caso di specie sulla condotta penalmente rilevante, ma sui presupposti di tale condotta, e non può dunque riverberarsi in melius sulla vicenda penale concreta, relativa ad un fatto di trattenimento dello “straniero” anteriore all’ingresso della Romania nell’Unione; b) una tesi più garantista, che parte dal presupposto onde qualunque fonte normativa (extrapenale) che contribuisca a concretare il contenuto del precetto penale incide direttamente sul medesimo, che non resta indifferente, pertanto, alle relative modificazioni, dovendosene assumere modificata l’ampiezza della fattispecie ed il connesso disvalore del fatto.
2008
Il 16 gennaio esce la sentenza delle SSUU n. 2451 che assume inapplicabile l’art.2 c.p. alla fattispecie del cittadino rumeno che era “straniero” al momento del fatto di trattenimento nel territorio dello Stato ed è poi divenuto medio tempore cittadino europeo. Secondo le SSUU – che si muovono nell’orbita del confronto tra fattispecie astratte di reato (come già nel caso risolto nel 2003 con riguardo ai reati societari) – in tema di successione di norme extrapenali, solo laddove tali norme siano integratrici della fattispecie penale può applicarsi l’art.2 del codice. L’incriminazione stigmatizza un disvalore e solo ove tale disvalore – per il tramite della nuova norma extrapenale richiamata in sede penale – subisca un ridimensionamento può parlarsi di successione mediata di norma penale (tramite successione immediata di norma extrapenale). La norma penale è infatti caratterizzata da una specifica area incriminatrice e, al fine di applicare l’art.2 c.p., occorre che la norma extrapenale richiamata (e oggetto di successione) concorra a disegnare detta area incriminatrice. Ove questo non accada, non può predicarsi l’applicazione dell’art.25 Cost. e dell’art.2 c.p.; né a tal fine si può richiamare il caso Tuzet del 1987, in quanto in quella ipotesi le SSUU in realtà non hanno scandagliato una vera e propria successione di norme extrapenali richiamate, operando piuttosto una diversa interpretazione della normativa pertinente ed attribuendo ad essa effetto retroattivo in melius. Muovendo dalle fattispecie astratte di reato, occorre allora vedere se la modifica della norma extrapenale (nel caso di specie, quella che disciplina il se un tale soggetto può assumersi straniero o meno) incida sulla fattispecie di reato di cui all’art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo n.286.98, e in tal caso essa avrebbe effetto retroattivo in melius; ovvero si limiti a modificare la situazione di fatto che fa da sfondo all’applicazione della norma penale ed al relativo disvalore ivi sanzionato, ipotesi nella quale l’effetto retroattivo non potrebbe predicarsi. Per le SSUU, al fine di rispondere a tale domanda – come accade anche nel caso dell’errore su norma extrapenale di cui all’art.47, comma 3, c.p. – occorre muovere dalla natura integratrice o meno della norma extrapenale della cui successione si tratta rispetto al precetto penale. Ciò è dovuto anche alla differenza di regime che presidia le norme penali in senso puro, per le quali – ove più favorevoli – la retroattività rappresenta la regola ai sensi dell’art.2 c.p., rispetto alle norme che penali non sono, e per le quali vige l’opposta regola della irretroattività ex art.11 delle c.d. preleggi: dunque solo una norma extrapenale realmente integratrice del precetto penale, assumendo in qualche modo le vesti della norma penale (o contribuendone in modo decisivo al c.d. habitus penalistico), può spiegare efficacia retroattiva mediata sul precetto penale, e non anche una norma estranea al sistema penale che, seppure richiamata in una fattispecie di reato, non spieghi tale effetto integrativo. Diversa, precisano le SSUU, sarebbe stata la soluzione nel caso in cui fosse stata mutata la definizione di “straniero” di cui all’art.1 del decreto legislativo n.286.98, escludendone dal relativo novero una sottoclasse quale quella dei cittadini di Stati candidati ad entrare nell’Unione europea (abolitio criminis parziale), circostanza che tuttavia non può predicarsi nel caso di specie in cui il precetto penale è rimasto lo stesso, ed è semplicemente mutato il regime dei permessi ottenibili da chi era straniero ed ora è da considerarsi cittadino europeo. Peraltro, a voler ragionare diversamente, lo straniero potrebbe allegramente trattenersi nello Stato, violando il disposto della norma di cui all’art.14, comma 5.ter, con la consapevolezza di non essere punito tutte le volte che sia in corso la procedura di ingresso del relativo Stato di cittadinanza nell’Unione europea. Non mancheranno le critiche della dottrina, che rileverà come le SSUU abbiano forgiato in questo arresto un criterio di accertamento della c.d. abolitio criminis ulteriore e diverso rispetto al canone strutturale, peraltro dai contorni ambigui ed incerti, come si evincerebbe dalla pronuncia stessa laddove rappresenta che – oltre che rispetto alle norme integratrici di quelle penali – l’art.2 c.p. può trovare applicazione rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, allorché nella fattispecie penale esse non rilevino solo per la qualificazione di un elemento della fattispecie medesima, quanto piuttosto per l’assetto giuridico (complessivo) che realizzano: diventa allora difficile, secondo la critica dottrinale ridetta, distinguere quando viene modificato “l’assetto giuridico” della fattispecie, con conseguente abolitio criminis, e quando viene piuttosto modificata la mera qualificazione di un elemento della fattispecie, con difetto di abolitio criminis. Per altra parte della dottrina, proprio questo passaggio della pronuncia autorizzerebbe invece a pensare, in ottica garantista, che le SSUU abbiano voluto porre a disposizione dei giudici di merito, accanto al criterio logico-formale e strutturale, anche un criterio più “sostanziale” come tale più ancorato al disvalore della specifica fattispecie penale scandagliata (siccome stigmatizzato dal legislatore) e dunque alla ratio della incriminazione considerata.
Il 15 maggio esce la sentenza delle SSUU n. 19601 che – a seguito delle modifiche normative apportate alla nozione di piccolo imprenditore (R.D. 267.42, art.1) dai decreti legislativi 5.06 e 169.07, che assumono poter essere piccolo imprenditore (non fallibile) anche la società commerciale, in relazione alla modestia degli investimenti operati o dei ricavi ottenuti – si occupa di verificare cosa accade ai fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore della novella a chi allora poteva dirsi imprenditore fallibile e, successivamente, non può più dirsi tale; secondo le SSUU occorre partire dalla circostanza onde la bancarotta presuppone un dato strutturale di carattere formale e giurisdizionale, vale a dire la sentenza dichiarativa di fallimento, che – quale atto giurisdizionale – è insindacabile dal giudice penale: non rilevano i fatti accertati nella sentenza dichiarativa di fallimento (come erano disciplinati prima e come, magari più favorevolmente, dopo: oggettivo stato di insolvenza e soggettiva qualifica, per l’appunto, di “imprenditore fallibile”), essendo pregiudiziale la circostanza onde esiste una sentenza (provvedimento giurisdizionale) che dichiara il fallimento, e dalla quale il giudice penale non può prescindere né può disapplicare. La dottrina sarà tuttavia critica con questa giurisprudenza della Cassazione, denunciandola come l’esempio più pregnante che il criterio c.d. “strutturale” è in realtà sempre passibile di una applicazione potenzialmente errata, il che avverrebbe proprio in questa pronuncia della Corte laddove ci si trova dinanzi ad una modifica di norma che integra la fattispecie penale e ciò in quanto la riforma dell’art.1 della legge fallimentare ha implicato una modifica della norma che fornisce il concetto definitorio medesimo di “imprenditore fallito”, quale soggetto attivo della bancarotta; ad essere modificata è stata dunque in tal caso una norma che partecipa della struttura della norma incriminatrice della bancarotta, e che è dunque da assumersi soggetta alla regola della successione di cui all’art.2, comma 2, c.p.
2011
Il 19 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 46669 che scandaglia la fattispecie in materia di usura, partendo dal presupposto che – ai sensi dell’art. 644, comma 3, c.p. – è la legge a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Vi ha provveduto in una prima fase l’art.2 della legge 108.96 (con riguardo alla categoria di operazioni nelle quali è ricompreso il credito della cui usurarietà si discute, tale limite si compendiava nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione trimestrale pubblicata in Gazzetta Ufficiale, aumentato della metà), ma è poi intervenuto l’art.8, comma 5, lettera d) del decreto legge 70.11, che ha abbassato il limite dell’aumento del tasso medio dalla metà a ¼, con aggiunta di un margine di ulteriori 4 punti percentuali (e con precisazione che la differenza tra il limite/usura e il tasso medio non può comunque essere superiore ad otto punti percentuali). Ciò ha comportato, per le aperture di credito in conto corrente, una modifica migliorativa in termini di fattispecie usurarie, con la conseguenza che fatti in precedenza catalogabili come usurari non possono più essere considerati tali. La Corte parte dal presupposto che l’art.644 c.p. configura una norma penale in bianco, nel contesto operativo della quale il precetto penalmente sanzionato non viene posto direttamente dalla norma penale, dovendo far riferimento ad una fonte diversa, extrapenale, la cui disciplina è connotata da temporaneità: proprio per questo, l’unica norma applicabile (anche ai fini della punibilità) è solo quella vigente al momento del fatto, e non quella (eventualmente più favorevole) vigente al momento della sentenza. Secondo la Corte – che si rifà sul punto a quanto affermato dalle SSUU nella nota sentenza 2451.08 in tema di immigrazione – occorre guardare al precetto penale ed alla relativa struttura essenziale: solo se le modifiche apportate in sede extrapenale incidono su tale struttura essenziale possono rilevare in tema di retroattività della lex mitior, mentre ciò non accade quando ad essere modificato è solo il contenuto del precetto, del quale viene rimodulata la portata, e ciò è quanto avviene anche nell’ipotesi degli interessi usurari, in quanto la norma incriminatrice è rimasta la stessa (si punisce l’usura), essendo stati regolamentati in modo diverso i soli presupposti per la relativa applicazione.
2012
Il 13 settembre esce il decreto legge n. 158 (c.d. decreto Balduzzi), il cui articolo 3 si occupa del medico e più in generale dell’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida ed alle buone pratiche (best practices) accreditate dalla comunità scientifica: in questi casi viene esclusa la responsabilità penale per colpa lieve, essendo dunque punibile solo la colpa grave (resta ferma, in caso di colpa lieve, la eventuale responsabilità civile ex art. 2043 c.c.). La questione che si pone è dunque quella di verificare se un fatto punito penalmente perché commesso solo con colpa lieve prima della novella può ora essere considerato non punibile ex post ed in seguito all’entrata in vigore di detta novella, da assumersi quale lex mitior.
L’8 novembre il decreto legge 158.12 viene convertito nella legge n.189.
2016
Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 193 che si occupa del principio di retroattività della legge più favorevole con riguardo a sanzioni che, pur essendo para-penali, hanno natura amministrativa (viene scandagliato l’art.1 della legge 689/81 proprio laddove non prevede la retroattività in mitius delle sanzioni amministrative): secondo la Corte, il sistema della CEDU siccome interpretato dalla Corte EDU non impone agli Stati membri, e in particolare all’Italia, di prevedere tale retroattività in mitius delle sanzioni amministrative in modo dunque tutt’affatto analogo a quanto invece certamente accade per quelle di matrice penale pura. Quando la legge interna prevede tale retroattività favorevole – con riferimento a talune sanzioni amministrative – si tratta per la Corte di lex specialis che tiene conto degli interessi tutelati e della efficacia dissuasiva della sanzione: si tratta di scelte di politica legislativa che non possono essere sindacate dalla Corte costituzionale se non quando ci si trovi dinanzi a manifesta irragionevolezza o ad arbitrio. La sentenza si inserisce in un contrasto di giurisprudenza che dura a partire dal caso Varvara (Varvara c. Italia, del 29 ottobre 2013, dove il problema, per quel che qui rileva, riguardava la confisca urbanistica, assunta dalla Cassazione di natura amministrativa e dunque retroattiva, mentre per i giudici di Strasburgo essa ha natura penale, e dunque non retroattiva): se la Corte EDU assume che la retroattività in mitius appartiene al novero delle garanzie fondamentali ed è come tale applicabile anche alle sanzioni amministrative (oltre che a quelle penali pure), di diverso avviso si mostra la Corte costituzionale, secondo la quale la retroattività in mitius delle sanzioni amministrative non è imposta né dagli articoli 6 e 7 della CEDU (per il tramite dell’art.117 Cost.), né dall’art.3 della Carta.
2017
L’8 marzo viene varata la legge n.24, c.d. Gelli-Bianco, in materia di responsabilità medica, che – nel tipizzare la colpa medica, con particolare riguardo a quella derivante da imperizia – introduce per il caso di morte o lesioni colpose del paziente la causa di non punibilità prevista dall’art.590.sexies, comma 2, del codice penale, onde qualora l’evento si sia verificato appunto a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Interessante in particolare l’art.3 della legge che prevede la istituzione di un Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, destinato a raccogliere i dati utili per la gestione del rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure, giusta predisposizione di linee di indirizzo con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie; all’uopo viene previsto un elenco delle società e delle associazioni in parola, che presentino caratteristiche peculiari idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica; si tratta nella sostanza di enti deputati ad elaborare, unitamente alla istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in Linee guida con la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità tanto preventive e diagnostiche quanto terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale. Si tratta di una fattispecie che configura, de futuro, una ipotesi di successione mediata di norme, collegata al mutamento nel tempo delle linee guida, delle raccomandazioni e delle buone pratiche, siccome raccolte e detenute a livello pubblicistico.
Il 22 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13910 onde – sul tema della natura della sentenza dichiarativa del fallimento nella bancarotta prefallimentare – con autentico revirement va affermato il principio di diritto per cui la ridetta sentenza dichiarativa di fallimento costituisce condizione obiettiva di punibilità, con la conseguenza per cui il termine di prescrizione decorre, ai sensi dell’art. 158 c.p. dalla data della predetta sentenza, e la competenza territoriale appartiene al giudice del luogo nel quale si è verificata tale condizione. Secondo la Corte, che aderisce ormai alla prevalente dottrina sul punto, la dichiarazione di fallimento costituisce, rispetto al reato di bancarotta prefallimentare, condizione obiettiva di punibilità ai sensi dell’art. 44 c.p. in quanto la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore atteggiandosi piuttosto ad evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente, e così rappresentando una condizione estrinseca di punibilità che restringe l’area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale (per ragioni di opportunità valutate dal legislatore) solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento. Per la Corte dunque, in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore già di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento, dovendosi tenere conto che – secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 1085 del 1988 – le condizioni obiettive di punibilità si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, comma 1, Cost.. Peraltro, sempre guardando alla bancarotta fraudolenta prefallimentare, dalla natura di condizione obiettiva di punibilità della dichiarazione di fallimento deriva, quale immediato precipitato, che il luogo e il tempo della commissione del reato, ai fini della determinazione della competenza territoriale, dei tempi di prescrizione e del calcolo del termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto, coincidono con quelli della sentenza di fallimento. La Corte precisa infine che la natura di condizione obiettiva di punibilità comporta l’insindacabilità della sentenza di fallimento, anche sotto il profilo delle eventuali modifiche migliorative della disciplina del fallimento ai sensi dell’art. 2 c.p. (c.d. successione mediata), che sarebbero invece rilevanti laddove essa costituisse elemento costitutivo della fattispecie penale.
Il 13 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, n. 22407, la quale chiarisce che la regola della c.d. abolitio criminis, sancita dall’art. 2, comma II, del codice penale, non si applica retroattivattivamente, nell’ipotesi degli illeciti disciplinari che siano stati commessi dai magistrati, prima della depenalizzazione di un fatto di reato. La sanzione disciplinare, infatti, nonostante il fatto reato commesso dal magistrato sia stato abolito per opera di una legge sopravvenuta, rimane viva; chiarisce la Corte che la depenalizzazione del fatto-reato non incide retroattivamente sugli illeciti disciplinari dei magistrati, rientrando questi nell’alveo degli illeciti amministrativi. La irretroattività della abolitio criminis è coerente con la diversità dei beni protetti dalla norma penale e dalla norma disciplinare giacché, quest’ultima, pur di fronte alla depenalizzazione del fatto, continua a tutelare il bene dell’immagine del magistrato.
2018
Il 14 maggio esce l’ordinanza della IV sezione della Cassazione n. 21286 con la quale viene rimessa alle Sezioni Unite la risoluzione della questione giuridica, in tema di applicazione della legge penale sopravvenuta, circa quale trattamento sanzionatorio debba applicarsi nel caso di reato colposo d’evento a forma libera, in cui la condotta sia interamente realizzata nel vigore di una legge più favorevole e l’evento si sia verificato dopo la modifica del trattamento sanzionatorio. Il caso vedeva un investimento di un pedone avvenuto prima dell’introduzione delle norme sull’omicidio stradale (art. 589-bis c.p. introdotto dalla L. 41/2016), divenute operative solo al momento della morte dell’uomo. Al ricorrente era stata applicata la pena prevista dalla nuova normativa, certamente più sfavorevole di quella in vigore al momento della condotta incriminata, secondo la tesi del momento consumativo del reato (non essendosi verificato l’evento morte, quale elemento costitutivo della fattispecie di reato, le modifiche sopravvenute erano da applicarsi al fatto concreto, anche in ipotesi di condotta posta in essere antecedentemente).
Al riguardo, la Corte rileva tuttavia l’esistenza di due diversi orientamenti. Secondo un certo orientamento giurisprudenziale, in tema di trattamento sanzionatorio, deve aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato, ovvero al momento dell’evento lesivo; ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2 c.p., il tempus commissi delicti va collocato al momento della consumazione del reato, ovvero al momento dell’evento lesivo (Cass. pen., Sez. Iv, 17 aprile 2015, n. 22379). Nello stesso senso è anche Cass. pen., Sez. V, 13 marzo 2014, n. 19008, secondo cui, in tema di successione di leggi penali nel tempo, il concorrente che abbia realizzato un contributo causale interamente esauritosi prima della introduzione di una nuova norma incriminatrice o meramente sanzionatoria è soggetto alla disciplina sopravvenuta, anche se più sfavorevole, quando il reato è pervenuto a consumazione dopo l’entrata in vigore di quest’ultima. Sul piano diametralmente opposto, si colloca altra giurisprudenza la quale ritiene che nel caso di successione di leggi penali che regolano la stessa materia, la legge da applicare é quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non già quella del momento in cui si è verificato l’evento che determina la consumazione del reato.
A luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 40986, con cui la Suprema Corte si pronuncia sul quesito di diritto, ad essa rimesso, se a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta ovvero quella vigente al momento dell’evento. La Corte aderisce all’orientamento secondo cui il parametro di riferimento deve essere rappresentato dal momento in cui l’agente ha realizzato la condotta, stabilendo che «in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta» (La problematica si era, in concreto, posta in specie, per i reati caratterizzati da uno sviluppo dell’iter criminis nel quale interviene un significativo iato temporale tra condotta ed evento e, per altro verso, dalla sopravvenienza, in tale intervallo temporale, di una legge penale più sfavorevole: sì tratta, dunque, di quelle che in dottrina sono state definite ipotesi di reato “a distanza” o ad evento differito, ipotesi ricondotte alla più generale figura del reato “a tempi plurimi”).
2019
Il 17 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16896 che affronta l’ulteriore questione di diritto se l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applichi anche quando il provvedimento che ha disposto la misura sia divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.
La soluzione della questione prospettata – precisa la Corte – richiede la previa illustrazione delle disposizioni succedutesi nel tempo. Occorre, in primo luogo, precisare che: – nel caso in esame, la misura di prevenzione è stata applicata in forza dell’art. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e che la legge 22 maggio 1975, n. 152, con l’art. 19, ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956; – l’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella relativa originaria formulazione, stabiliva che le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall’articolo 416-bis cod. pen., sono tenuti a comunicare per 10 anni, ed entro 30 giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad un certo importo (stabilendo, altresì, un obbligo di comunicazione entro il 31 gennaio per le variazioni intervenute nell’anno precedente concernenti elementi di valore non inferiore ad un determinato limite e con esclusione dei beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani); – il termine decennale decorre dalla data del decreto, ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna, mentre gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione; – l’omessa comunicazione è sanzionata dall’art. 31 della stessa legge.
L’ambito di operatività della disposizione – prosegue il Collegio – era originariamente limitato ai soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, come si deduce dal fatto che il legislatore individua, quale soggetto destinatario delle comunicazioni concernenti le variazioni patrimoniali, il «nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575». Tale ultimo articolo, infatti, è stato introdotto dall’art. 14 della legge n. 646 del 1982 e faceva riferimento, nella relativa prima stesura, alle «persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall’articolo 1» e, successivamente, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990, ai «soggetti indicati all’articolo 1 nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno». L’art. 1 riguardava a propria volta, originariamente, «gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» e tale generico richiamo veniva successivamente puntualizzato mediante un più dettagliato riferimento agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» (modifica apportata dalla legge n. 646 del 1982).
Le ulteriori, successive modifiche a tale disposizione non rilevano, per quel che ora interessa, in quanto la legge 19 marzo 1990, n. 55, con l’art. 11, ha sostituito il comma 1 dell’art. 30, legge n. 646 del 1982, indicando come soggette all’obbligo di comunicazione «le persone condannate con sentenza definitiva per il reato di cui all’articolo 416-bis del codice penale o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall’articolo 1 di tale legge» A quel tempo, pertanto, detto obbligo veniva quindi chiaramente limitato, quanto ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione, a quelli raggiunti da un provvedimento definitivo, specificando, altresì, che la misura considerata è quella applicata agli indiziati di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso. Si tratta, dunque, di una puntualizzazione che ha individuato espressamente quei soggetti, destinatari degli obblighi di comunicazione, che già l’originaria stesura dell’articolo 30 consentiva di determinare attraverso i richiami ad altre disposizioni di cui si è già detto.
Un’ulteriore modifica del comma 1 dell’art. 30 è stata apportata dall’art. 7, comma 1, lett. b) della legge 13 agosto 2010 n. 136, prevedendo l’obbligo di comunicazione non soltanto per i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965, ma anche alle persone condannate, con sentenza definitiva, per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen., ovvero per il delitto di cui all’articolo 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.
Estendendone l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 30 veniva dunque adeguato ai contenuti del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e della legge 15 luglio 2009, n. 94, che avevano ampliato il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione apportando modifiche all’art. 1 della legge n. 575 del 1965. La stessa legge n. 136 del 2010 conferiva anche una delega al Governo per l’emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, cui veniva data attuazione mediante il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha abrogato, con l’art. 120, le leggi n. 1423 del 1956 e 575 del 1965, lasciando intatta la legge n. 646 del 1982 (fatta eccezione per l’art. 16). L’art. 80 del citato decreto legislativo, infatti, fa salvo quanto già previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982, stabilendo che «le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria (ora nucleo di polizia economico finanziaria ai sensi dell’art. 35, comma 8, lett. a), d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, n.d.r.) del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata».
Le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo sono stabilite dall’art. 76, comma 7 del medesimo decreto. L’introduzione del menzionato art. 80 ha determinato uno scorporo dell’originaria fattispecie, la quale, per ciò che concerne i soggetti sottoposti a misura di prevenzione, è stata trasfusa nel decreto legislativo (artt. 80 e 76, comma 7), restando invece intatta negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 relativamente ai soggetti condannati con sentenza definitiva.
Dalla disamina delle richiamate disposizioni emerge dunque, precisa a questo punto la Corte, che fino all’intervento modificativo apportato dalla legge n. 136 del 2010 (entrata in vigore il 7 settembre 2010), l’ambito di operatività dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 era limitato ai soli soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e solo successivamente è stata estesa agli altri soggetti di cui si è detto in precedenza.
Occorre osservare, a tale proposito, che nell’ordinanza di rimessione si afferma, non condividendosi quanto sostenuto dal Tribunale di Bologna nel provvedimento impugnato, che l’intervento modificativo ad opera della legge n. 136 del 2010 – pur avendo accresciuto i «reati/fonte» a seguito dell’abolizione della precisazione, circa la correlazione tra imposizione dell’obbligo e indizio di appartenenza alla organizzazione mafiosa, apportata dal legislatore del 1990 – avrebbe lasciato comunque intatto il testo dell’articolo 30, vigente tra il 2010 e il 2011, il quale continuava a fare riferimento ai destinatari di misura di prevenzione applicata ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, con la conseguenza che ciò non autorizzerebbe una interpretazione ampliativa (pur agganciata alla riemersa vigenza, dopo il decreto legge 92 del 23 maggio 2008, del testo originario dell’art. 19 legge n. 152 del 1975 in tema di applicabilità ai pericolosi semplici di talune disposizioni della legge n. 575 del 1965), stante il generale principio di tassatività e la tecnica descrittiva del presupposto di incriminazione. Si assume, in definitiva, che, per quanto riguarda le misure di prevenzione, l’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali sarebbe avvenuta nel 2011 con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159
Come si è detto in precedenza, l’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 30 rispondeva ad un esigenza di adeguamento della norma all’incremento, operato dal c.d. pacchetto sicurezza, dei possibili destinatari delle misure di prevenzione, poiché, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 10, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e dall’art. 2, comma 4, della legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 1 della legge 575/1965 stabiliva che le misure di prevenzione disposte dalla medesima legge 575/1965 potessero essere applicate – oltre che agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso – anche ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. e dall’art. 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 306/1992 (trasferimento fraudolento di valori).
Con l’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, dunque, per effetto delle modifiche apportate, era stato realizzato uno stabile coordinamento tra le diverse disposizioni.
Considerata dunque, chiosa ancora la Corte, la successione delle varie modifiche che hanno interessato le richiamate disposizioni, vanno considerati i contenuti dei diversi orientamenti, segnalati dall’ordinanza di rimessione, circa l’incidenza dell’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali di cui si è detto. Si tratta di considerazioni che la giurisprudenza ha espresso con riferimento all’incremento del novero dei reati per i quali è richiesta la condanna definitiva, ma che, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, assumono rilievo anche riguardo al corrispondente ampliamento delle ipotesi in cui è possibile l’applicazione delle misure di prevenzione.
Un primo orientamento (espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 31 della legge n. 646 del 1982 nel caso in cui la condanna per il delitto presupposto (nella fattispecie, quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. 152/06, ora 452 -quaterdecies cod. pen., introdotto ex novo dall’art. 7, comma primo, lett. b) della legge n. 136 del 2010) sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 136, ritenendo altresì non rilevante il fatto che i beni e le disponibilità oggetto dell’omessa comunicazione siano entrati nel patrimonio del condannato per il delitto presupposto in data successiva alla predetta normativa del 2010.
Nella richiamata decisione si assume che, in presenza delle condizioni di cui all’art. 30 della legge n. 646 del 1982, il termine decennale, decorrente, nel caso esaminato in quell’occasione, dalla sentenza definitiva di condanna, è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, in quanto integra e delimita l’ambito temporale «di sospetto e di attenzione» che il legislatore ha individuato nella relativa discrezionalità tecnica al fine di consentire un quadro dinamico ed aggiornato di controllo sulle variazioni patrimoniali, oltre un certo rilievo, soltanto di determinati soggetti (coloro i quali abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo delle violazioni del suindicato art. 30), con la conseguenza che esso deve essere accertato, nella relativa sussistenza, al tempo dell’entrata in vigore della norma penale che stabilisce la sanzione (7 settembre 2010, data dalla quale la violazione dell’art. 260 d.lgs. 152/06 era stata inserita nel novero dei reati presupposto).
Viene conseguentemente ritenuto contrastante con il disposto dell’art. 2 cod. pen. e dell’art. 25, comma secondo, Cost. il diverso orientamento, prospettato nel provvedimento poi annullato, ove veniva valorizzato il fatto che gli obblighi di comunicazione avrebbero dovuto comunque essere adempiuti dalla data di entrata in vigore della norma incriminatrice, tanto che, nella fattispecie, si erano considerati soltanto i movimenti patrimoniali successivi a tale data (anche Sez. 6, n. 6744 del 7/11/2013, dep. 2014, D’Angelo, Rv 258991 qualifica l’art. 30 della legge 646/82 quale norma integratrice del precetto penale, ancorché la sanzione per la sua violazione sia contenuta nel successivo art. 31).
Un secondo indirizzo interpretativo pone, invece, in evidenza la natura di reato omissivo istantaneo del delitto in esame, la consumazione del quale deve essere collocata nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni delle variazioni patrimoniali andavano effettuate, poiché ciò che rileva è la condotta omissiva di colui che, nel momento in cui non provvede alla comunicazione, si trovi nelle condizioni soggettive ed oggettive richieste dalla legge (Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, Salvaggio, Rv. 253538. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, Dangeli e altro, Rv. 264137, ove viene dato conto del diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 41113/2013). La natura di reato omissivo istantaneo della violazione in esame era stata d’altronde già affermata in precedenti occasioni (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164. V. anche Sez. 5, n. 3079 del 17/01/2005, Cesaro, Rv. 231417), peraltro, in un caso (Sez. 1, n. 2440 del 20/12/2007, dep. 2008, Nocera, Rv. 239209), richiamando analoghe conclusioni cui si era pervenuti in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali (Sez. 1, n. 6850 del 04/12/1997, dep. 1998, Langeli, Rv. 209538; Sez. 3, n. 3985 del 24/11/2000, dep. 2001, Pignatti, Rv. 218321).
Va a questo punto rilevato per le SSUU come la natura del reato in esame sia stata presa in considerazione più volte dalla giurisprudenza di legittimità. Si è, in primo luogo, affermato che la legge 22 maggio 1975, n. 152, estendendo, con l’art. 19, l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956, ha operato una completa equiparazione tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi da cui traggono, almeno in parte, i mezzi di vita, attraverso l’estensione a questi ultimi della disciplina introdotta per i primi (lo ricorda, in particolare, Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311, richiamando i principi precedentemente espressi da Sez. 5, n. 38 del 12/01/1999, Galasso, Rv. 212341; Sez. 1, n. 950 del 23/02/1994, Russo, Rv. 196838; Sez. 1, n. 5166 del 29/11/1993, dep. 1994, Catalfamo, Rv. 196098). Si è anche chiarito (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) che la condotta sanzionata, concernente la violazione dell’obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali da parte di persone condannate per uno dei delitti indicati nell’art. 30, non costituisce una pena accessoria del reato presupposto, stante la relativa autonomia rispetto a quest’ultimo, richiamandone la natura «sanzionatoria», ovvero «pregiudizievole», o ancora configurabile alla stregua di una «conseguenza giuridica negativa», dell’imposizione di comunicare ogni variazione patrimoniale che consegue di diritto alla condanna per il delitto di associazione mafiosa, e, dall’altro, che detto obbligo risponde ad esigenze di tutela e ad interessi del tutto analoghi a quelli posti a base dell’incriminazione cui è riferita la condanna a tale fine rilevante.
Il bene giuridico tutelato è stato individuato nell’ordine pubblico (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D’Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, Messina, Rv. 220377).
Quanto all’elemento soggettivo del reato, si è sostenuto (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, Anzalone, Rv. 264666) che il delitto in esame è integrato dal semplice dolo generico, sicché non è richiesto che l’autore agisca allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l’obbligo imposto si riferisce (conf. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074; Sez. 5, n. 38098 del 29/5/2015, Clemente, Rv. 264998; Sez. 6, n. 33590 del 15/6/2012, Picone, Rv. 253199; Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 2, n. 27196 del 18/05/2010, Curto, Rv. 247842). Risulta, inoltre, ormai consolidato l’orientamento secondo il quale il dolo non può escludersi in caso di variazioni patrimoniali documentate da atti pubblici (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003, Gallico, Rv. 224379; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D’Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 12433 del 17/02/2009, Cannamela, Rv. 243486; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, Iaconis, Rv. 246398; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, Seidita, Rv. 254387; Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) rispetto a quello che lo escludeva (Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494; Sez. 6, n. 11398 del 05/02/2003, Libri e altro, Rv. 224007), specificando, peraltro, che l’incertezza derivante da tali contrastanti arresti giurisprudenziali non consente di invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale, poiché al contrario, tale situazione deve indurre ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074. V. anche Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, Picone, Rv. 253200; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, D’Angelo, Rv. 258991).
In particolare, la sentenza Picone dando conto dei diversi criteri – oggettivo, soggettivo e misto- elaborati dalla giurisprudenza di legittimità alla luce della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale ha rilevato, sulla scorta del primo, ravvisabile nelle situazioni connotate da oscurità o contraddittorietà del testo legislativo, generalizzato caos interpretativo o assoluta estraneità del contenuto precettivo ai valori correnti nella società, che la norma in esame offre un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. sfera parallela laica, alla quale è noto che la legge prevede una serie di controlli e di cautele nei confronti dei soggetti condannati per reati di mafia.
L’operatività del criterio soggettivo, legato alle condizioni personali dell’agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto penale, come l’elevato deficit culturale, alla luce, ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia, o l’incolpevole carenza di socializzazione è stata pure esclusa, così come l’applicabilità del parametro misto, comprensivo delle ipotesi in cui, in varia misura e con diverso spessore, operano entrambi i criteri, oggettivo e soggettivo, escludendo che l’esimente della buona fede possa essere integrata dal semplice comportamento passivo dell’agente, essendo, invece, necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all’ordinamento giuridico, ad esempio, informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia.
Il reato, inoltre, è stato qualificato come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) e, ricordando la differenza intercorrente con i reati omissivi propri «naturali», si è preso in considerazione l’elemento soggettivo, evidenziando come l’accertamento della coscienza e volontà della condotta debba effettuarsi considerando lo specifico contesto in cui il comportamento omissivo, meramente «formale», si è concretamente realizzato e le peculiarità scaturenti dagli specifici connotati che caratterizzano l’inosservanza dell’obbligo di fare imposto e rimasto inadempiuto, giungendo, sulla base di tali considerazioni, alla conclusione, in fattispecie relativa a misura cautelare reale, che il reato può ritenersi sussistente, quanto al relativo fumus, in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario, residuando in capo all’autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato.
Sulla base del tenore letterale dell’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 (dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990) si è pure ritenuto (Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311) che l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo. Tale obbligo, peraltro, sorge con riferimento a qualsiasi modifica dell’assetto patrimoniale non inferiore alla soglia individuata dalla legge e non limitata a quelle che comportano un effettivo incremento, assumendo rilievo anche quelle in apparenza ininfluenti sull’entità del patrimonio, in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione, ed anche di quelle passive, che comunque incidono sulla consistenza dei beni posseduti e, quindi, sulla composizione del patrimonio e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi, sicché, oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma, privati o pubblici ed i conti correnti, anche il mutuo, l’affidamento bancario ed il mutuo ipotecario restano soggetti all’obbligo di comunicazione (così, Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, Elefante, Rv. 244404. Conf. Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, Raso, Rv. 251724).
Va a questo punto considerata per la Corte anche la lettura delle disposizioni in esame offerta dalla Corte costituzionale, più volte chiamata a verificare la legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, dichiarando, in un primo tempo, manifestamente infondate le questioni proposte (ordinanze n. 442 del 2001 e n. 362 e 143 del 2002), considerando che le disposizioni scrutinate «costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni» e dando conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto conforme a Costituzione una interpretazione delle stesse che escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e, dunque, sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
Con una successiva pronuncia (sent. n. 81 del 2014) veniva dato atto di un diverso indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale il delitto deve ritenersi configurato anche nel caso in cui l’omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri. Nella citata sentenza veniva altresì ricordata la natura di reato di pericolo presunto che la medesima giurisprudenza aveva attribuito al delitto in esame, attraverso il quale si è inteso garantire una effettiva e sollecita conoscenza, da parte del nucleo di polizia tributaria, delle variazioni patrimoniali relative a soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che le possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa), nonché l’obbligatorietà, per l’amministrazione, di una verifica, altrimenti solo eventuale (v., in tema, Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494), specificando che l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, caratterizzato dalla mera cognizione della qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato e del superamento della soglia di rilevanza dell’operazione, presupposti di fatto da cui sorge l’obbligo di comunicazione, senza che sia necessario il perseguimento del fine di occultamento delle informazioni, con l’ulteriore precisazione che l’ignoranza, da parte dell’interessato, della stessa esistenza dell’obbligo di comunicazione va ritenuta non scusabile, trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale (in tal senso, v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015 – dep. 2016, Artale, Rv. 266381, con richiami ai precedenti).
Da ultimo (sent. n. 99 del 2017), considerando la legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge n. 646 del 1982, laddove indica, come penalmente rilevante, anche l’omessa comunicazione relativa a variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, ritenute, per tale ragione, inoffensive, la Corte costituzionale, ribadendo quanto già osservato nella sentenza n. 81 del 2014, ha respinto tale assunto, richiamando, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità, la quale ha individuato le finalità della norma incriminatrice nel consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite, escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell’atto dispositivo, che non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione e non consente un constante monitoraggio, dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri.
La Corte costituzionale ha comunque precisato come – sempre che non possa escludersi il dolo – spetti comunque al giudice di rilevare la offensività in concreto della condotta con riferimento al caso specifico, verificando se la singola omissione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma, tenendo conto delle finalità che la stessa persegue.
Tanto premesso, la Corte ritiene di condividere il secondo degli indirizzi interpretativi in precedenza richiamati. L’estensione ad altri soggetti, operata dalla legge 136\2010 degli obblighi di comunicazione è pacificamente indicativa di una scelta del legislatore di ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice. Occorre tuttavia stabilire se tale intervento abbia o meno inciso sulla struttura essenziale del reato, integrando il precetto penale ed a tale domanda deve darsi risposta negativa. Deve ritenersi che, riguardo al reato in esame, la selezione dei fatti penalmente rilevanti è stata operata dal legislatore facendo riferimento ai sottoposti a misura di prevenzione (o ai condannati con sentenza definitiva), posizione soggettiva preventivamente individuata, che resta indifferente ad eventuali modifiche normative riguardanti le preliminari condizioni per la relativa attribuzione, la quale, a sua volta, è conseguenza di un provvedimento giudiziale ormai definitivo, così come del tutto immutata resta l’essenza stessa del reato.
In altre parole, la condizione di sottoposto a misura di prevenzione (o condannato definitivo) è del tutto indipendente dal contenuto delle disposizioni che ne disciplinano l’applicazione, costituendo un mero presupposto per l’insorgenza degli obblighi comunicativi e rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate, poiché l’incidenza degli interventi normativi succedutesi nel tempo ha solo ridefinito l’ambito di operatività del precetto. La condotta sanzionata è, infatti, quella di chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti i limiti indicati e le modifiche apportate nel tempo hanno riguardato esclusivamente il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo, intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla relativa osservanza, lasciando però inalterata la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore.
Le finalità perseguite dal legislatore, lo si è detto, sono quelle di assicurare un capillare e continuativo controllo patrimoniale su soggetti ritenuti pericolosi al fine di verificare se le operazioni compiute siano correlate con attività illecite e ciò avviene mediante l’imposizione di un obbligo di comunicazione. Non si pone, conseguentemente, un problema di applicabilità dell’art. 2, comma quarto cod. pen., che presuppone una modifica della fattispecie incriminatrice che le richiamate disposizioni non hanno determinato.
Va a tale proposito rilevato che la giurisprudenza di legittimità è pervenuta, in diverse occasioni, a conclusioni analoghe, seppure alla luce delle specifiche caratteristiche delle disposizioni prese in esame nel caso trattato. In tema di infortuni sul lavoro, ad esempio, si è affermato che le disposizioni che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari, sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell’imputato (Sez. 4, n. 2604 del 25/10/2006, dep. 2007, Cazzarolli, Rv. 235780)
Riguardo al delitto di cui all’art. 464 cod. pen. si è affermato che la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice quanto all’individuazione solo dei valori di bollo, non pure dei casi in cui ne è richiesto l’uso, con la conseguenza che la modificazione o l’abrogazione della disciplina di tali casi non configura una successione di leggi penali ai sensi dell’ art. 2 cod. pen., in quanto la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall’entrata in vigore della legge successiva o dall’emanazione del successivo provvedimento amministrativo di attuazione e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (Sez. 5, n. 18068 del 03/04/2002, Versace, Rv. 221917; conf. Sez. 5, n. 4634 del 18/12/2003, dep. 2004, Campicelli, Rv. 227454; Sez. 5, n. 26652 del 07/05/2004, Oliveri, Rv. 229880).
A conclusioni analoghe si era in precedenza pervenuti in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel d.m. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2001, osservando che la normativa secondaria richiamata nella rubrica di reato, successivamente abrogata, aveva avuto incidenza esclusivamente sulla portata del comando, modificato nel relativi contenuti a far data dal provvedimento innovativo, lasciando però inalterato il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il controllo sull’antigiuridicità della condotta andava effettuato sul perimetro dei divieti esistenti al momento del fatto (Sez. 3, n. 18193 del 12/3/2002, Pata V, Rv. 221943).
La necessaria distinzione tra norme integratici del precetto penale e quelle che non sono tali è stata posta in evidenza anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, P.G. in proc. Magera, Rv. 238197, che individua le prime come modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell’art. 2 cod. pen. come una successione di norme penali. e Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398 che la richiama), mentre altre pronunce delle sezioni semplici, giunte sostanzialmente alle medesime conclusioni, hanno riguardato, ad esempio, la materia degli stupefacenti (Sez. 4, n. 17230 del 22/02/2006, Sepe, Rv. 234029), l’introduzione di armi in area protetta (Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà, Rv. 250119), l’usura (Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252194), la bancarotta (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi, Rv. 266474); il reato di cui all’art. 16, comma 1, del decreto legislativo n. 96 del 2003 (Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335).
Resta da considerare – chiosa ancora il Collegio – che la soluzione interpretativa adottata non sembra porsi in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte EDU con riferimento all’art. 7 della Convenzione e richiamati dalla Sezione rimettente sotto il profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tale proposito, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21/10/2013). Invero, per le ragioni dianzi esposte, il precetto penale è chiaro nell’individuare, quali obbligati alle comunicazioni delle variazioni patrimoniali oltre una determinata soglia di valore, le persone sottoposte a misura di prevenzione (o a condanna), che restano soggette a tale obbligo per un periodo di tempo anch’esso specificato. L’inosservanza dell’obbligo è penalmente sanzionata. La fattispecie incriminatrice è pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una relativa inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l’obbligo di comunicazione permane per 10 anni.
Analogamente, deve escludersi che abbia avuto in qualche modo incidenza negativa la sussistenza del contrasto giurisprudenziale che ha condotto all’odierna decisione, essendo sufficiente richiamare quanto condivisibilmente ribadito in una recente pronuncia (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876), richiamata anche nell’ordinanza di rimessione, osservando, dopo aver richiamato plurimi precedenti, che la non prevedibilità di una decisione giudiziale che ne preclude l’applicazione retroattiva deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale, in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso in esame, peraltro con un numero di decisioni decisamente contenuto.
Alla stregua di quanto precede, può per le SSUU enunciarsi il seguente principio di diritto: l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.
2020
Il 30 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 30227, sul c.d. peculato dell’albergatore.
In particolare, ad avviso della Corte, la modifica delle modalità di riscossione della tassa di soggiorno ha dato luogo a una successione nel tempo di norme extrapenali in cui, per i fatti anteriori alla novella legislativa, è rimasto inalterato non solo il precetto (art. 314 cod. pen.), ma anche la qualifica soggettiva (art. 358 cod. pen.) la cui sussistenza è richiesta ai fini della punibilità a titolo di peculato.
In precedenza il gestore raccoglieva e custodiva il denaro (pubblico) versato dai clienti a titolo di imposta di soggiorno per poi riversarlo all’ente titolare della riscossione, mentre oggi deve versare il tributo a prescindere dal pagamento da parte opera degli ospiti della struttura ricettiva, sui quali può esercitare diritto di rivalsa secondo modalità tipiche della figura del responsabile d’imposta di cui all’art. 64 TUIR.
Si deve, di conseguenza, escludere che la modifica del quadro di riferimento normativo di natura extra penale che regola il versamento dell’imposta di soggiorno abbia comportato un fenomeno di abolitio criminis, poiché tale effetto si determina solo quando la modifica abbia riguardato norme realmente integratrici della legge penale, come quelle di riempimento di norme penali in bianco o le norme definitorie, ma non anche le norme richiamate da elementi normativi della fattispecie penale, nessuna di tali tra loro differenti situazioni essendosi, peraltro, determinata nella vicenda normativa in esame.
Nella vicenda allo scandaglio della Corte, di contro, si deve registrare un caso di successione di norme extrapenali che, pure collocandosi in rapporto di interferenza applicativa sia con la norma che definisce la qualifica soggettiva dell’agente (art. 358 cod. pen.) sia con quella che stabilisce la struttura del reato (art. 314 cod. pen.), lasciano, però, entrambe inalterate, potendo al più dirsi richiamate in maniera implicita da elementi normativi contenuti sia nella norma definitoria sia nella fattispecie penale.
Per il complesso delle suddette argomentazioni deve conclusivamente ribadirsi, ad avviso della Corte, la rilevanza penale a titolo di peculato delle condotte commesse in epoca anteriore alla novatio legis di cui all’art. 180, comma 4, d. I. n. 34/2020.
Questioni intriganti
Quale è la fattispecie in cui rileva la norma penale più favorevole?
- un fatto-reato specifico, accaduto in determinate circostanze spazio-temporali;
- diverse leggi in successione tra loro, delle quali va identificata quella appunto più favorevole con riguardo alla connotazione del fatto non in sé, ma come reato (e dunque come inadempimento penalmente sanzionabile);
In cosa consiste il criterio della “norma mista” e con cosa confligge?
- consiste nel superamento della logica dell’alternatività applicativa e nella creazione ope iudicis di una norma attraverso la sintesi delle diverse norme in successione tra loro, pescando gli elementi di maggior favore da entrambe;
- contrasta in quanto tale con il principio di legalità e, in particolare, con il principio di tassatività in quanto il giudice – seppure in sede applicativa – si fa creatore di una norma “terza” autoattribuendosi prerogative che sono solo del legislatore.
Quale criterio deve muovere il giudice nella ricerca della norma più favorevole?
- il giudice deve partire dal fatto concreto (come concretamente realizzatosi), identificarne il disvalore penale che qualifica tale fatto come reato e verificare quale sia il trattamento più mite per esso previsto dalle norme in successione, tenendo conto di tutti i fattori che incidono – in concreto – sulla punibilità del reo;
- alcuni esempi si rintracciano nella introduzione di una condizione di procedibilità rispetto ad un reato prima punito d’ufficio, ovvero nella presenza di nuove cause di giustificazione, di circostanze o altro.
Quali sono i due tipi di successione di leggi penali, in relazione ai quali si pone il problema di identificare la norma più favorevole?
- la successione immediata: le norme in successione investono in modo immediato e diretto la struttura della fattispecie;
- la successione mediata: le norme in successione investono la struttura della fattispecie in modo mediato e indiretto, attraverso il rinvio (a norme diverse da quella incriminatrice) per l’individuazione di taluni elementi della fattispecie medesima, come è il caso delle c.d. norme penali in bianco o, in misura meno smaccata, dei c.d. elementi normativi del fatto tipico.
Quali sono le 3 tesi dottrinali più note in tema di successione di norme extrapenali?
- la tesi che tende ad applicare sempre l’art.25 Cost. e l’art.2 c.p. partendo dalla nozione di “fatto” penalmente rilevante di cui al comma 1 dell’art. 2 (che viene assunta non poter essere che la medesima offerta nel comma 2), sicché qualunque modifica (anche extrapenale) che incida su tale “fatto” – se “in melius – ha anche una rilevanza penale, diversamente dovendo intendersi vanificato anche il principio rieducativo a cagione della condanna per un fatto che viene percepito dal reo come ormai non più stigmatizzato dal punto di vista penale;
- la tesi che tende a guardare al disvalore penale del fatto senza preconcetti aprioristici, e ad applicare la normativa più favorevole, in caso di successione coinvolgente la norma extrapenale, quando detta successione incide sul predetto disvalore: ad esempio, viene punita l’associazione a delinquere finalizzata allo sciopero, ma se lo sciopero da reato diviene diritto costituzionalmente tutelato, l’associazione a delinquere non è più punibile ove ad esso finalizzata;
- la tesi che tende a verificare se la norma extrapenale oggetto di successione integra (o meno) la fattispecie penale, ovvero se meramente la puntualizza (tesi più accreditata).
Quando una norma extrapenale può dirsi certamente integratrice della fattispecie penale attivando, in caso di successione, l’ipotesi della c.d. norma più favorevole?
- quando si è al cospetto di una norma penale in bianco, come ad esempio nell’ipotesi dell’art. 73 del D.P.R. 309.90 in tema di stupefacenti, che rimanda ad un decreto interministeriale per l’identificazione di quali sostanze siano stupefacenti;
- quando si è dinanzi ad una norma definitoria di un elemento costitutivo della fattispecie penale, come ad esempio nel caso della maggiore età (nelle fattispecie penali in cui rileva), che la legge 39.75 abbassò da 21 a 18 anni.
Quando una norma extrapenale può dirsi solo puntualizzatrice di una fattispecie penale, e con quali effetti?
- la norma extrapenale che puntualizza un elemento della fattispecie penale, proprio perché tale non lo integra: si tratta degli elementi normativi della fattispecie che non contribuiscono ad esplicitare la scelta di politica criminale operata dal legislatore, sicché in caso di modifica delle norme extrapenali richiamate nessun effetto viene spiegato sulla fattispecie penale;
- l’incriminazione ha allora un determinato ambito applicativo, ed il mutamento legislativo extrapenale non sortisce alcun effetto su tale ambito penalmente rilevante (laddove questo accada, all’opposto, gli articoli 25 Cost. e 2 c.p. impongono di valutare quale sia la norma più favorevole da applicare al soggetto attivo);
- in dottrina, a seconda della prospettiva più o meno garantista prescelta, la norma extrapenale puntualizzatrice può sortire effetti o meno – in caso di successione che la coinvolga – sulla fattispecie penale che la richiama (elemento normativo), come nel caso di cui al concetto di “corso legale” della moneta ai fini dell’applicazione (o meno) del reato di contraffazione ex art. 453 c.p.
Quali sono le ipotesi di elementi normativi più discusse in ordine alla possibile rilevanza sul precetto penale della successione delle norme extrapenali richiamate?
- in tema di colpa specifica: il problema è vedere cosa accade se la regola cautelare specifica richiamata muta, e che tipo di conseguenze ciò può sortire, per esempio, su un omicidio colposo (la tesi più accreditata ritiene che tale mutamento non sortisca effetti dal punto di vista penale);
- in tema di norme non solo extrapenali, ma addirittura extragiuridiche e, dunque, sociali o culturali: il problema è vedere cosa accade se la regola sociale o culturale muta, e che tipo di conseguenze può sortire, per esempio, su una ipotesi come quella degli atti “osceni” ex art. 527 c.p. (si contendono il campo una tesi più garantista che applica l’art.2 c.p. ed una più rigorosa che ne esclude l’applicazione).