<ul> <li></li> </ul> <strong>Massima</strong> <em> </em> <em>Quando la punibilità del fatto-inadempimento reato è subordinata ad un evento condizionante del tutto sganciato da qualsivoglia rimproverabilità al reo, chi vede il bicchiere mezzo vuoto assume trovarsi al cospetto di una ipotesi di responsabilità oggettiva incostituzionale; chi invece lo vede mezzo pieno, considera l’evento condizionante – oggettivamente imputato al reo – come qualcosa di esterno rispetto alla fattispecie tipica; un evento capace di rendere concretamente opportuna la punibilità di un fatto che è già di suo offensivo, ma che è assunto dal legislatore non punibile in difetto del ridetto elemento condizionante.</em> <strong> </strong> <strong>Crono-articolo</strong> Nel diritto romano non si riscontrano fattispecie direttamente riconducibili all’istituto delle condizioni obiettive di punibilità. Tuttavia appare pertinente la sorpresa in flagranza del ladro nel <em>furtum manifestum</em> e, per quanto riguarda il <em>furtum nec manifestum</em>, il ritrovamento della cosa rubata presso il presunto ladro a seguito della antica perquisizione domiciliare operata dal derubato senza vestiti “<em>lance licioque</em>”, ovvero nudo, cinto ai fianchi da una fascia e con in mano un piatto (in modo da scongiurare che sia lui a portare la cosa derubata presso il presunto ladro, allo scopo poi di incolparlo). <strong>1889</strong> La codificazione liberale Zanardelli non prevede esplicitamente le condizioni obiettive di punibilità. Tuttavia la dottrina le riscontra per via interpretativa in talune fattispecie, come ad esempio nel caso della uccisione o delle lesioni conseguenti ad una rissa (art.379). <strong>1930</strong> Le condizioni obiettive di punibilità vengono previste all’art.44 del codice penale, senza tuttavia che ne venga data una precisa definizione: l’unica indicazione è che può anche mancare il nesso psicologico tra l’autore del reato e l’evento dedotto in condizione; l’evento che condiziona la punibilità rileva dunque in modo oggettivo. <strong>1958</strong> Il 5 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.2, caso Mezzo, che in relazione alla c.d. bancarotta prefallimentare – laddove i fatti distrattivi precedono la sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art.16 della legge fallimentare – assume che tale sentenza dichiarativa di fallimento è una condizione di esistenza del reato, e dunque un elemento costitutivo dello stesso (e non già una condizione obiettiva di punibilità). Essa viene assunta inerire in modo intimo alla struttura del reato, con la conseguenza che i fatti di bancarotta, laddove non sfocino per l’appunto in una sentenza dichiarativa di fallimento, sono penalmente irrilevanti: il vero disvalore dei fatti distrattivi viene palesato dalla sentenza dichiarativa di fallimento che, laddove mancante, rende tali fatti distrattivi privi di reale offensività. <strong>1967</strong> Il 5 giugno esce una sentenza della Cassazione, caso <em>Bove</em>, che ritiene incompatibile il tentativo con la fattispecie condizionata della bancarotta fraudolenta. L’evento condizionante è normalmente successivo alla perfezione / consumazione del reato e dunque il tentativo è automaticamente escluso perché inidoneo: anche se la condotta è idonea (ed inequivoca) rispetto all’evento consumativo, ciò potrebbe non essere sufficiente per la concreta punibilità in quanto potrebbe non intervenire mai, in via successiva, l’evento condizionante ex art.44 c.p., e questo normalmente esclude la configurabilità del tentativo di reato condizionato. Nel caso della bancarotta prefallimentare (in cui il dissesto penalmente rilevante è anteriore alla dichiarazione di fallimento, che pure si inserisce nella relativa fattispecie) il tentativo viene assunto inammissibile anche perché si finirebbe per colpire un’offesa impalpabile in quanto i fatti che lo compendiano, nel momento in cui si realizzano, non vanno oltre la (mera) messa in pericolo delle ragioni creditorie. La pronuncia sembra dunque collocare la sentenza dichiarativa di fallimento nel novero delle condizioni obiettive di punibilità (come evento condizionante), e non già in quello degli elementi costitutivi del reato. <strong>1988</strong> Il 15 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione sul caso Grespan che in tema di bancarotta post-fallimentare – come tale posta in essere dopo la dichiarazione di fallimento e durante la procedura concorsuale (art.216, comma 2, della legge fallimentare del 1942) - considera in questi casi la dichiarazione di fallimento quale mero presupposto del reato: il reato si consuma infatti nel tempo e nel luogo in cui accadono i fatti delittuosi durante la procedura concorsuale. <strong>2000</strong> Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n. 74, i cui articoli 3 e 4 incidono sulla normativa tributaria; nel dettaglio, per la frode fiscale sono previste delle soglie il cui superamento implica punizione; nasce il problema di verificare se le soglie quantitative costituiscono elementi costitutivi dei rispettivi reati (dovendo in tal caso essere attinte specificamente dal dolo) o condizioni obiettive di punibilità (essendo in tal caso sufficiente rappresentarsi e volere evadere, senza specifica contezza quantitativa). Il 13 dicembre esce la sentenza delle SSUU sul caso Sagone che, in tema di frode fiscale siccome rimodellata dal decreto legislativo 74.00, assume il superamento delle soglie quantitative di evasione come evento di danno del reato capace di coagularne ed esprimerne l’effettivo disvalore (e non come mera condizione obiettiva di punibilità), con conseguente necessità che tale superamento sia coperto dal dolo e, sul crinale oggettivo, sia avvinto tramite nesso di causalità alla condotta dell’evasore. <strong>2001</strong> Il 1 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4356, caso <em>Agostini</em>, che in tema di bancarotta prefallimentare assume la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento indispensabile per attribuire rilevanza penale a condotte distrattive altrimenti lecite, ponendosi così nel solco della giurisprudenza che la ritiene un elemento costitutivo del reato. <strong>2002</strong> L’11 aprile viene varato il decreto legislativo n.61 che modifica gli articoli 2621 e 2622 del codice civile in tema di false comunicazioni sociali (falso in bilancio); nel dettaglio, come già accaduto per la frode fiscale, vengono previste delle soglie il cui superamento implica punizione; nasce il problema di verificare se le soglie quantitative costituiscono elementi costitutivi dei rispettivi reati (dovendo in tal caso essere attinte specificamente dal dolo) o condizioni obiettive di punibilità (essendo in tal caso sufficiente rappresentarsi e voler falsamente comunicare, senza specifica contezza quantitativa). <strong>2004</strong> Il 01 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.161 che si pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Milano in tema di falso in bilancio, con particolare riguardo alle soglie di punibilità: secondo il giudice remittente, il fatto che le false od omesse comunicazioni sociali siano penalmente rilevanti solo se significative, con riguardo alla sensibile alterazione della rappresentata situazione economica, patrimoniale e finanziaria, ovvero con riguardo proprio al superamento delle soglie legalmente fissate, comporta – irragionevolmente per il giudice remittente - la non punibilità di fatti che, quantunque sotto-soglia, sarebbero comunque capaci di pregiudicare la correttezza delle comunicazioni societarie e la relativa veridicità. La Corte dichiara le questioni inammissibili sul presupposto onde, per il principio della riserva di legge in materia penale, non è possibile invocare l’intervento della Consulta per ampliare l’area delle fattispecie penalmente rilevanti (nel caso di specie, attraverso la eliminazione delle soglie). Seppure in guisa di <em>obiter</em>, la Corte sembra prendere posizione sulla natura giuridica delle soglie di punibilità, assumendole requisiti essenziali di tipicità del fatto penalmente rilevante e non condizioni obiettive di punibilità (dovendo come tali essere coperte dal dolo). In ogni caso, secondo la Corte, la legge nel prevedere le soglie ha inteso rendere meritevoli di pena solo condotte che le superano dal punto di vista quantitativo, e questa è una conclusione cui si giunge inevitabilmente qualunque sia l’idea che si abbia in ordine alla relativa natura giuridica (elementi costitutivi o condizioni obiettive di punibilità). Il 9 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 30134 che si pronuncia in tema di illecito trattamento di dati personali ai sensi dell’art.167 del codice della privacy (decreto legislativo n.196.03). Secondo la Corte tale nuova disposizione, che ha modificato quanto in precedenza previsto dall’art.35 della legge n.675.96, si esprime nel senso onde “<em>se dal fatto deriva nocumento</em>”, e non può più essere considerata una circostanza aggravante. Conviene piuttosto vedervi una condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 c.p. e, dunque, un elemento estrinseco rispetto agli elementi costitutivi del reato. Il trattamento illecito di dati personali esprime già in sé un’offesa al bene giuridico tutelato (interesse alla privacy), sicché la derivazione di un nocumento oggettivamente considerato (senza che vi sia alcun addentellato psicologico) configura in realtà un evento condizionante al quale il legislatore ha scelto, per motivi di opportunità, di ancorare la concreta punibilità, selezionando solo quelle condotte che appaiano pregnanti e non minimali. Diversamente opinando, si opterebbe per una interpretazione non costituzionalmente orientata, in quanto il nocumento dovrebbe intendersi elemento costitutivo del reato e dovrebbe dunque essere coperto dall’elemento soggettivo, con la duplice conseguenza onde un diritto fondamentale come quello al lecito trattamento dei propri dati personali verrebbe nella sostanza ad essere privo del necessario presidio penale (stante la difficoltà di provare l’intenzionalità del nocumento in capo al gestore dei dati); e potrebbe scaturirne anche una violazione della disciplina comunitaria che impone proprio il lecito trattamento dei ridetti dati personali. <strong>2007</strong> Il 3 dicembre esce la sentenza della sezione V n. 44884 che torna sulla bancarotta post-fallimentare per confermare che in queste fattispecie la dichiarazione di fallimento costituisce un mero presupposto (formale) del reato, e non occorre che sia nota al fallito soggetto agente. La dichiarazione di fallimento è un presupposto necessario, a seguito del quale viene aperta la procedura concorsuale durante il cui corso vengono poste in essere le condotte distrattive punite (sostanzialmente intese); essa può anche rimanere sconosciuta all’imputato. Più precisamente, per la Corte ai fini della configurabilità dei reati di bancarotta post fallimentare, quali previsti dall'art. 216, comma 2, l. fall., non è richiesta, sotto il profilo soggettivo, la prova che l'agente abbia avuto conoscenza dell'intervenuta dichiarazione di fallimento, atteso che la struttura di detti reati non è diversa da quelle dei reati di bancarotta prefallimentare (previsti dal comma 1 del medesimo art. 216), per i quali la dichiarazione di fallimento opera per il solo fatto del relativo sopravvenire a condotte che altrimenti sarebbero lecite o potrebbero dar luogo ad altre e diverse figure di reato. Ecco allora che in tema di bancarotta fraudolenta, è per la Corte del tutto ininfluente che la condotta sia posta in essere prima o dopo la dichiarazione di fallimento,:avendo inteso il legislatore colpire tutte le attività che possano ledere il patrimonio aziendale posto a garanzia dei creditori oppure violare la "<em>par condicio creditorum</em>", onde, affinché sia configurabile tale delitto, non è necessario che l’imprenditore sappia di essere stato dichiarato fallito (presupposto, nella pre-fallimentare, o requisito, nella post-fallimentare, meramente formale). La Corte si sofferma inoltre sull’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta assumendolo costituito dal distacco – con qualsiasi forma e con qualsiasi modalità esso poi avvenga nel concreto – del bene dal patrimonio dell’imprenditore, con conseguente possibilità di depauperazione patrimoniale nei confronti dei creditori; la sottrazione si perfeziona dunque in tale momento, anche se il reato viene ad esistenza giuridica con la dichiarazione di fallimento, e prescinde dalla validità della opponibilità e dagli effetti civili del trasferimento e dalle eventuali azioni esperibili dai creditori per la ri-acquisizione del bene (dovendosi dunque assumere irrilevante l’eventuale vizio - sotto un profilo civilistico - del negozio giuridico attuativo del trasferimento e la possibilità di farne valere la inefficacia giusta azione revocatoria). <strong>2010</strong> Il 12 marzo esce la sentenza della sezione V della Cassazione n. 13588 che si occupa di una fattispecie di bancarotta “<em>riparata</em>”, configurantesi allorché ad una prima serie di atti distrattivi che pregiudicano la garanzia patrimoniale per i creditori seguano atti positivi di segno contrario ad opera dell’imprenditore che detta garanzia ricostituiscono: in queste evenienze, secondo la Corte laddove comunque intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento, l’imprenditore deve comunque essere assoggettato a sanzione penale. <strong>2012</strong> Il 6 dicembre esce la importante sentenza della V sezione della Cassazione n. 47502, caso <em>Corvetta</em>, che in primo luogo conferma come nella bancarotta prefallimentare la sentenza dichiarativa di fallimento compendi un elemento costitutivo del reato, e non già una mera condizione obiettiva di punibilità, anche se la formulazione lessicale delle norme coinvolte (“<em>se è dichiarato fallito</em>”) potrebbe far pensare all’opposto: in realtà, le condotte distrattive sarebbero del tutto irrilevanti se non sfociassero in una sentenza dichiarativa di fallimento, che dunque costituisce un elemento costitutivo della fattispecie penalmente rilevante. Senonché, in questa occasione la Cassazione ritrae da questo postulato tutti i corollari che possono trarsene in tema di nesso di causalità e di elemento soggettivo del reato, fornendo una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni pertinenti in piena consonanza con il principio di colpevolezza di cui all’art.27 Cost. Se infatti la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento essenziale del reato, da ciò discende che si applicano gli articoli 40, 41, 42 e 43 del codice penale, i quali estrinsecano principi generali del nostro diritto penale. Peraltro, il fatto che la dichiarazione di fallimento non sarebbe evento della condotta distrattiva è circostanza più affermata che reale: in realtà si tratta proprio dell’evento del reato (da identificarsi nella diade stato di insolvenza / declaratoria di fallimento con sentenza), che deve essere legato alle condotte distrattive dal nesso causale e deve essere attinto dal dolo, quanto meno nella forma del dolo eventuale. La sentenza dichiarativa di fallimento - proprio perché elemento costitutivo – non può allora per la Corte che atteggiarsi ad evento naturalistico legato alle condotte distrattive da nesso causale, come previsto dalle disposizioni sul nesso di causalità (articoli 40 e 41 c.p.) e coperto al dolo come previsto dalle norme sul dolo (articoli 42 e 43 c.p.). <strong>2014</strong> Il 7 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 32031 che, in tema di bancarotta prefallimentare, qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato, seppure in senso “<em>improprio</em>”. Il 13 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.37424 che in relazione alla c.d. bancarotta prefallimentare – laddove i fatti distrattivi precedono la sentenza dichiarativa di fallimento – ribadisce come la sentenza dichiarativa di fallimento configuri una condizione di esistenza del reato, e dunque un elemento costitutivo dello stesso (e non già una condizione obiettiva di punibilità). Il 19 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 51094 che ribadisce la sentenza dichiarativa di fallimento compendiare un elemento costitutivo del reato di bancarotta prefallimentare. Secondo tale pronuncia, bisogna muovere dalla descrizione normativa dei reati riconducibili alla fattispecie della bancarotta prefallimentare, nel contesto letterale dei quali la sentenza dichiarativa di fallimento riveste una posizione centrale, che non ne consente la annoverabilità tra le mere condizioni obiettive di punibilità: essa è piuttosto elemento costitutivo, al quale bisogna guardare per stabilire quando e dove il reato si è consumato. Il 2 ottobre esce la sentenza della sezione V della Cassazione n.40981 che in tema di bancarotta prefallimentare muove dal consueto presupposto onde la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del reato (e non condizione obiettiva di punibilità), ancorché distinto dall’evento naturalistico: essa tuttavia cerca di recuperare in termini di personalizzazione della responsabilità penale e dunque di colpevolezza identificando nella bancarotta un reato di pericolo concreto; da questo punto di vista, anche se il dolo non ha ad oggetto la consapevolezza del dissesto (né la relativa prevedibilità in concreto), nondimeno l’imprenditore, per essere punito, deve rappresentarsi il pericolo concreto che la propria condotta crea per la tutela degli interessi dei creditori, sub specie di conservazione della garanzia patrimoniale per essi prevista. Il 15 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 52077 che si occupa di bancarotta c.d. riparata e, andando in contrario avviso rispetto alla sentenza 13588 del 2010, assume che in caso di bancarotta – seppure fraudolenta – per distrazione, laddove agli atti distrattivi abbiano poi fatto seguito atti eguali e contrari di reintegra della garanzia patrimoniale dei creditori, anche laddove intervenga per altre cause sentenza dichiarativa di fallimento, l’imprenditore deve assumersi non soggetto a sanzione penale: ciò in quanto il pregiudizio ai creditori, al fine di punire la bancarotta fraudolenta, deve sussistere tanto nel momento “<em>naturalistico</em>” della bancarotta medesima quanto nel successivo momento “<em>formale</em>” in cui viene dichiarato il fallimento. Questo perché si tratta di reato di pericolo concreto che è configurabile solo laddove le ragioni dei creditori siano state, per l’appunto, concretamente poste in pericolo, circostanza che non si verifica allorché questo pericolo sia stato scongiurato per opera dello stesso imprenditore prima della dichiarazione di fallimento. <strong>2015</strong> Il 13 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 6408 che conferma come la bancarotta “<em>riparata</em>” escluda la assoggettabilità a sanzione penale: l’imprenditore ha creato il pericolo concreto per le ragioni creditorie (riducendone la garanzia patrimoniale), ma lo ha poi anche scongiurato, e la sentenza dichiarativa di fallimento è discesa da circostanze ulteriori, sicché esso va sottoposto a procedura concorsuale, ma non a sanzione penale. Il 16 marzo viene varato il decreto legislativo n.28 che introduce nel codice penale l’art.131-bis alla stregua del quale il fatto non è punibile nel caso in cui sia di particolare tenuità. Si tratta di una norma che è connessa con il tema delle condizioni obiettive di punibilità in quanto entrambi gli istituti riportano al tema della opportunità della pena: nel caso della particolare tenuità del fatto detta valutazione di opportunità viene sostanzialmente demandata al giudice, mentre le condizioni obiettive di punibilità – almeno da un certo punto di vista – rappresentano una affermazione del principio di legalità in quanto attraverso esse la legge disciplina quando un fatto inadempimento reato è opportuno sia concretamente assoggettato a pena. Altra questione delicata è quella di verificare come si correla la particolare tenuità del fatto con le ipotesi in cui la legge preveda delle soglie quantitative di rilevanza penale, come nelle ipotesi della frode fiscale e delle false comunicazioni sociali. Il 14 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 33278 che, in tema di bancarotta prefallimentare, qualifica ancora una volta la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato. Il 27 maggio viene varata la legge n.69 che elimina le soglie di punibilità in tema di false comunicazioni sociali (falso in bilancio). Il 30 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 33774 che ribadisce ancora una volta la natura di elemento costitutivo del reato di bancarotta prefallimentare della sentenza dichiarativa di fallimento. <strong>2016</strong> Il 29 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.35611 alla cui stregua, con riferimento al reato di cui all’art.10.ter del decreto legislativo n.74 del 2000 ed all’omesso versamento di IVA che vi è previsto, la soglia di punibilità fissata in euro 250 mila, in seguito alle modifiche apportate dal decreto legislativo n.158 del 2015, configura un elemento costitutivo del reato (e non una condizione obiettiva di punibilità), dovendo dunque essere coperto dal dolo; ne consegue che in caso di mancata integrazione di tale elemento costitutivo, l’assoluzione deve avvenire con la formula “<em>il fatto non sussiste</em>”. <strong>2017</strong> Il 22 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13910, <em>Santoro</em>, onde - sul tema della natura della sentenza dichiarativa del fallimento nella bancarotta prefallimentare – con autentico <em>revirement</em> va affermato il principio di diritto per cui la ridetta sentenza dichiarativa di fallimento costituisce condizione obiettiva di punibilità, con la conseguenza per cui il termine di prescrizione decorre, ai sensi dell’art. 158 c.p. dalla data della predetta sentenza, e la competenza territoriale appartiene al giudice del luogo nel quale si è verificata tale condizione. Secondo la Corte, che aderisce ormai alla prevalente dottrina sul punto, la dichiarazione di fallimento costituisce, rispetto al reato di bancarotta prefallimentare, condizione obiettiva di punibilità ai sensi dell’art. 44 c.p. in quanto la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore atteggiandosi piuttosto ad evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente, e così rappresentando una condizione estrinseca di punibilità che restringe l’area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale (per ragioni di opportunità valutate dal legislatore) solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento. Per la Corte dunque, in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore già di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento, dovendosi tenere conto che – secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 1085 del 1988 – le condizioni obiettive di punibilità si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, comma 1, Cost.. Peraltro, sempre guardando alla bancarotta fraudolenta prefallimentare, dalla natura di condizione obiettiva di punibilità della dichiarazione di fallimento deriva, quale immediato precipitato, che il luogo e il tempo della commissione del reato, ai fini della determinazione della competenza territoriale, dei tempi di prescrizione e del calcolo del termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto, coincidono con quelli della sentenza di fallimento. La Corte precisa infine che la natura di condizione obiettiva di punibilità comporta l’insindacabilità della sentenza di fallimento, anche sotto il profilo delle eventuali modifiche migliorative della disciplina del fallimento ai sensi dell’art. 2 c.p. (c.d. successione mediata), che sarebbero invece rilevanti laddove essa costituisse elemento costitutivo della fattispecie penale. Il 7 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.17819, onde la dichiarazione di fallimento non costituisce una condizione obiettiva estrinseca di punibilità ma è piuttosto un elemento di fattispecie (c.d. elemento costitutivo atipico) che serve ad attualizzare la lesività del comportamento tipizzato dalla norma di cui all’art. 216, comma 1, n. 1, l.fall., il quale può dirsi tale non solo in quanto si concretizzi nella sottrazione di ricchezza dell’impresa poi dichiarata fallita, ma anche alla condizione che sia suscettibile di recar danno alle pretese dei creditori e che di tale concreta potenzialità offensiva sia consapevole il soggetto agente. Il 1° agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.38396 che, facendo il punto rispetto alle sentenze pubblicate nel periodo immediatamente precedente che sembravano discostarsi dal consolidato orientamento in materia, puntualizza che le fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale hanno natura di reato di pericolo concreto, sicché per il relativo perfezionamento è esclusa la necessità di un nesso causale tra i fatti di bancarotta ed il successivo fallimento, laddove i fatti di bancarotta possono assumere rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando l'impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza (come da ultimo ribadito dalla sentenza “Passarelli” in tema di false comunicazioni sociali, ovvero SSUU 27 maggio 2016, n. 22474): in quanto reato di pericolo concreto – afferma la Corte – è comunque necessario, da un lato, che il fatto di bancarotta abbia determinato un depauperamento dell'impresa e un effettivo pericolo per la conservazione dell'integrità del patrimonio dell'impresa, da valutare nella prospettiva dell'esito concorsuale e sulla base dell'idoneità del fatto distrattivo ad incidere sulla garanzia dei creditori alla luce delle specifiche condizioni dell'impresa; e, dall'altro, che tale effettivo pericolo non sia stato neutralizzato da una successiva attività "<em>riparatoria</em>" di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento. Quanto all’elemento soggettivo, fuori dall'ipotesi di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, l'elemento psicologico della bancarotta fraudolenta patrimoniale è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ma è sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere atti che possano cagionare o cagionino danno ai creditori; in quanto afferente a un reato di pericolo concreto, caratterizzato dalla "<em>fraudolenza</em>" come connotato interno del fatto, il dolo generico della bancarotta fraudolenta patrimoniale richiede comunque la rappresentazione da parte dell'agente della pericolosità della condotta distrattiva, dissipativa, etc., da intendersi come probabilità dell'effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la consapevole volontà del compimento di operazioni sul patrimonio sociale, o su talune attività, idonee a cagionare un danno ai creditori. Il 7 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 40716, che interviene sul reato di cui all’art. 189 del codice della strada e sulla necessità di assistenza alle persone ferite in seguito ad un sinistro, il quale - originariamente interpretato quale condizione obiettiva di punibilità - è stato successivamente sussunto nell'ambito degli elementi della fattispecie, dovendo essere dunque coperto dall'elemento psicologico del reato. Il dolo del conducente – secondo la più recente giurisprudenza della Corte – non deve attenere esclusivamente al fatto dell'incidente provocato o comunque in cui sia risultato coinvolto, ma deve riguardare anche la circostanza del danno occorso alle persone e alla necessità di una assistenza da prestare alle stesse, riconducibile quantomeno ad aspetti di dolo eventuale ossia alla consapevolezza del verificarsi di un incidente determinato dal proprio comportamento che sia concretamente idoneo a produrre eventi lesivi, senza che debba riscontrarsi l'esistenza di un effettivo danno alle persone. La valutazione della prospettazione da parte del conducente degli effetti lesivi del sinistro per la incolumità personale dei soggetti coinvolti, con conseguente rappresentazione della necessità di prestare assistenza, va condotta <em>ex ante</em>, e pertanto sulla base della situazione che si è profilata dinanzi al conducente al momento dell'incidente. <strong>2018</strong> Il 30 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4400, caso <em>Cirio</em>, che – tra le varie questioni affrontate in tema di reati fallimentari – torna autorevolmente sulla struttura tipica del reato di bancarotta fraudolenta e sul ruolo della sentenza dichiarativa del fallimento, quest’ultima da assumersi quale condizione obiettiva di punibilità, come tale estranea all’offesa tipica del reato ed alla sfera di volizione del soggetto agente (viene richiamata Sez. V, n. 13910/2017, <em>Santoro</em>), rimanendo di conseguenza irrilevanti il profilo della sussistenza o meno di un rapporto causale fra la condotta distrattiva ed il dissesto ed il profilo della consapevolezza di ciò da parte dell’autore della condotta, la cui lesività è integrata dal depauperamento del patrimonio dell’impresa (vengono richiamate le sentenze delle SSUU, n. 22474/2016, <em>Passarelli</em>; della Sez. V, n. 11095/2014, <em>Ghirardelli;</em> n. 32352/2014, <em>Tanzi</em>; n. 47616/2014, <em>Simone</em>; n. 26542/2014, <em>Riva</em>). Quanto poi alle ipotesi di bancarotta impropria per causazione del dissesto in conseguenza di operazioni dolose, ciò che rileva nelle stesse è il compimento di siffatte operazioni con connotazioni di coscienza e volontà che non comprendono il fine di cagionare il dissesto, ma si limitano alla consapevole realizzazione delle operazioni nella prevedibilità e nell’accettazione del dissesto quale possibile conseguenza della condotta (Sez. V, n. 45672/2015, <em>Lubrina</em>; Sez. V, n. 38728/2014, <em>Rampino</em>; Sez. V, n. 17690/2010, <em>Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a.</em>). Dai principi testè rammentati – prosegue la Corte - discende poi (si vedano in particolare SSUU Passarelli, e le pronunce immediatamente successive) l’irrilevanza della sussistenza o meno di uno stato di insolvenza della società all’epoca della commissione dei fatti contestati essendo sufficiente, per la configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, che la condotta abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei all’attività della stessa, e, quanto alla ravvisabilità del reato di bancarotta impropria per causazione del fallimento con operazioni dolose, che vengano poste in essere attività qualificabili come tali in quanto intrinsecamente pericolose per la salute economica e finanziaria dell’impresa (Sez. V, n. 47621/2014, <em>Prandini</em>; Sez. V, n. 29586/2014, <em>Belleri</em>; Sez. V, n. 12426/2014, <em>Beretta</em>). Il 6 giugno esce la sentenza della V Sezione della Cassazione n.25651, che si occupa del rapporto tra appropriazione indebita e "<em>distrazione</em>" (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ovvero di una questione che ha trovato differenti soluzioni in giurisprudenza essendosi fatto riferimento - per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall'art. 649 cod. proc. pen. - alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell'uno e nell'altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all'art. 646 cod. pen. non è di ostacolo - una volta intervenuto il fallimento - alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (è stata tuttavia ritenuta praticabile, rammenta la Corte, anche la soluzione inversa). La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), rammenta la Corte essere imperniata sulla considerazione che all'unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell'ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un'unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l'imputato, agente di cambio, già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta - consistita, fra l'altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela - potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione – prosegue il Collegio - non esclude del tutto, però, l'operatività dell'art. 649 cod. proc. pen. e del principio del <em>ne bis in idem</em>, in esso trasfuso: ciò avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona). La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza più recente e più cospicua, afferma, invece, che l'appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art.84 cod. pen., sicché solo l'avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l'appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (vengono richiamate, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010,; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003. Una applicazione di tale principio – rammenta la Corte si è avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un'ipotesi di modifica dell'imputazione ex art. 516 cod. proc. pen., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all'evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l'identità del fatto, preclusiva, per l'art. 649 cod. proc. pen. , del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all'<em>idem factum</em>. La questione deve oggi essere risolta, prosegue il Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016 laddove ha escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "<em>nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato</em>" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 cod. pen., per il quale "<em>l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto</em>". La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che - per i giudici di Strasburgo - la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v'è nessuna ragione logica, ha però precisato la Corte Costituzionale e rammenta il Collegio, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "<em>all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente</em>". Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'<em>idem factum</em>, da condurre attraverso l'esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale e rammenta la Corte, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di <em>bis in idem</em> in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i relativi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005). Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 cod. proc. pen. - senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale - e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati. Muovendo da tali criteri. deve allora per la Corte censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull'appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perché, è detto in sentenza, "<em>alla apparente unicità della condotta non corrisponde l'unicità del fatto</em>". Invero, prosegue la sentenza, "<em>anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti</em>". La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realtà, a quella richiamata giurisprudenza onde la declaratoria di fallimento, pur non integrando - per pacifica giurisprudenza - un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all'art. 216 L.F. nella relativa specificità offensiva, per il fatto che attualizza l'offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell'imprenditore costituisce per i creditori. Vero è poi, prosegue la Corte, che la Corte d'appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui è pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che è proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato è sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. Assume il Collegio a questo punto che né l'impostazione della Corte d'appello di Trieste, né quelle che l'hanno preceduta possano essere condivise. Anche se si dovesse ritenere che l'appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è, ora - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale - condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall'impatto del <em>ne bis in idem</em> sul concorso reale di norme va risolta per la Corte alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione. Nemmeno l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità può per la Corte essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "<em>attualizza</em>" l'offesa insita nell'appropriazione. Occorre considerare però, prosegue la Corte, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente; perciò, anche se nel "<em>fatto</em>" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perché possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perché consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "<em>fatto</em>", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D'altra parte – chiosa ancora la Corte - la propria recente giurisprudenza (Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, nonché, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da SS.UU., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pt-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità (<em>contra</em>, però, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata - secondo lo schema dell'art. 44 cod. pen. - alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 cod. pen., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante. Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del <em>bis in idem</em>. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al <em>dictum</em> della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "<em>fatto</em>", perché attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del <em>ne bis in idem</em>. Evidentemente, chiosa ancora la Corte, proprio perché avvertita della fragilità della costruzione prima richiamata, la Corte d'appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell'appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della società. In pratica, il fallimento della società - intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto - costituirebbe, nella specie, l'evento del reato, perché collegato causalmente con la distrazione della somma da parte dell'amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell'impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l'identità del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell'accusa mossa all’imputato (al quale non è contestata la bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, legge fall., ma quella distrattiva ex art. 216), né che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi da cui desumere che il fallimento della società sia stato conseguenza della distrazione contestata all'imputato, sicché anche l'argomento speso, da ultimo, dal giudice d'appello si rivela inidoneo a superare le criticità insite nella conclusione cui è pervenuto. In conclusione, prosegue la Corte, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all'impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza più volte richiamata, né si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi è pronuncia passata in giudicato, sicché va escluso che l’imputato potesse nel caso di specie essere nuovamente sottoposto a procedimento penale. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna per la Corte giungere per altra via. E' generalmente riconosciuta l'esistenza, nell'ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell'accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto - che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto - siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, è ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che - se la preclusione di cui all'art. 649 cod. proc. pen. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un'ipotesi di "<em>concorso formale di reati</em>" (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) - tanto non vale allorché il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009). Ciò che vale per il concorso reale di norme incriminatrici vale, stante l'identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz'altro intervenuto - prima dell'avvio dell'azione penale per il reato complesso - un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato. Ebbene, l’imputato nel caso di specie è stato assolto - con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato - dall'accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell'art. 649 cod. proc. pen., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall'appropriazione, deve riconoscersi che l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, per la Corte la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa. <strong>2019</strong> Il 16 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 1963 che, inserendosi nel dibattito circa la natura della dichiarazione di fallimento nel reato di ricorso abusivo al credito, si allinea al più recente orientamento secondo cui - valorizzando, in particolare, argomenti di ordine sistematico tratti dalla norma incriminatrice di cui all'art. 225 I. fall. (che, in tema di ricorso abusivo al credito commesso da persone diverse dal fallito, fa espresso riferimento alla declaratoria di fallimento della società) e dalla disciplina ex art. 219, secondo comma, n. 1), I. fail. - il reato di ricorso abusivo al credito richiede che il soggetto al quale viene addebitato sia successivamente dichiarato fallito, sicché il termine di prescrizione decorre dalla data della dichiarazione di fallimento. <strong>Questioni intriganti</strong> <strong>Cosa afferma la teoria tradizionale in tema di condizioni obiettive di punibilità?</strong> <ol> <li>si tratta di un <strong>elemento estrinseco ed esterno</strong> rispetto alla fattispecie penale;</li> <li>è dunque <strong>distinto</strong> sia dall’azione od omissione (<strong>condotta</strong>), sia dall’<strong>evento</strong> tipico (inadempimento-reato);</li> <li>è elemento che <strong>si aggiunge</strong> alla fattispecie penale;</li> <li>è elemento <strong>successivo</strong>, <strong>futuro ed incerto</strong> rispetto alla fattispecie penale: se non si verifica, il fatto tipico già realizzato non viene punito;</li> <li>è elemento che <strong>sopraggiunge</strong> quando il reato <strong>si è già perfezionato</strong>, ed è dunque fuori ed al di là della relativa <strong>consumazione</strong> e conseguente <strong>manifestazione di disvalore penale</strong>;</li> <li>è elemento che <strong>può dipendere dalla condotta di terzi</strong>, e anche quando è causalmente collegato all’<em>agere</em> del soggetto attivo del reato, si tratta di <strong>circostanza del tutto occasionale</strong>, in quanto l’evento condizionante non rientra tra quelli che il reo <strong>ha l’obbligo di scongiurare</strong> (proprio perché fuori dalla fattispecie tipica).</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Cosa distingue le condizioni obiettive di punibilità dalle condizioni di procedibilità?</strong> <ol> <li>le condizioni obiettive di punibilità hanno un <strong>rilievo sostanziale</strong> e rispondono al <strong>dovere di punire</strong>; si riferiscono ad un fatto storico che <strong>il legislatore penale tipizza</strong> in modo obiettivo ed una volta per tutte, quand’anche detto fatto cristallizzi <strong>ragioni di opportunità</strong> della concreta punibilità del fatto; la <strong>prescrizione</strong> decorre dal giorno in cui si è verificato l’evento condizionante; se vengono accertate in giudizio come <strong>insussistenti</strong>, scatta il <strong><em>ne bis in idem</em></strong> in un nuovo e successivo giudizio, laddove instaurato; condizionano – stando a parte della dottrina - <strong>la risarcibilità del danno non patrimoniale</strong> (personale), il che si evincerebbe (<em>a contrario</em>) dal fatto che <strong>è possibile chiedere</strong> il danno personale <strong>in sede civile</strong> solo laddove il reato sia <strong>estinto</strong> o non sia perseguibile per <strong>difetto</strong> di una condizione<strong> di procedibilità </strong>(e<strong> non di punibilità</strong>), e che dunque <strong>non è possibile chiederlo</strong> quando invece si tratti, per l’appunto, di <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong>;</li> <li>le condizioni di procedibilità hanno un <strong>rilievo processuale</strong> e rispondono ad un <strong>dovere di procedere</strong>; si riferiscono ad un fatto storico che è frutto di una <strong>scelta discrezionale</strong> demandata <strong>di volta in volta a soggetti diversi</strong> (nella querela, alla persona offesa; nella richiesta, al Ministro della Giustizia; nell’autorizzazione a procedere, alla Camera di appartenenza del soggetto coinvolto), sulla base sempre di ragioni di opportunità; la <strong>prescrizione</strong> decorre dal giorno in cui il reato è stato commesso; se vengono accertate come insussistenti, <strong>non scatta alcun <em>bis in idem</em></strong> laddove vengano in un tempo successivo assunte sussistenti, potendosi in tal caso piuttosto procedere; non condizionano la <strong>risarcibilità del c.d. danno personale</strong> in capo all’offeso-danneggiato, consentendo piuttosto il relativo difetto (con conseguente improcedibilità nei confronti del potenziale reo) la richiesta di tale danno <em>in sede civile</em>.</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Cosa distingue la condizione obiettiva di punibilità dalla condizione nel negozio giuridico e cosa accomuna i due istituti?</strong> <ol> <li>in entrambi i casi si tratta di <strong>elementi estrinseci</strong>: rispetto al <strong>reato</strong>, le <strong>condizioni obiettive di punibilità</strong> (il reato è già perfetto quando interviene l’evento condizionante); rispetto al <strong>negozio giuridico</strong>, la <strong>condizione privatistica</strong> (il contratto è già perfetto quando interviene l’evento condizionante);</li> <li>in entrambi i casi, l’evento condizionante <strong>concerne gli effetti</strong>: del reato, del quale condiziona la <strong>concreta punibilità</strong>, nel caso delle condizioni obiettive di punibilità; del negozio, del quale condiziona <strong>la vitalità</strong> (produzione di effetti o cessazione della produzione di effetti) nel caso della condizione privatistica;</li> <li>le condizioni obiettive di punibilità sono <strong>esclusivamente legali</strong>, essendo anzi espressione del <strong>principio di legalità</strong>; le condizioni privatistiche possono anche essere <strong>pattizie o convenzionali</strong>, e anzi esse sono normalmente tali, e solo eccezionalmente legali;</li> <li>le condizioni obiettive di punibilità sono <strong>imprescindibili</strong>: il reato non è punibile senza la relativa presenza; le condizioni privatistiche sono invece <strong>puramente accidentali</strong>, potendo il contratto essere valido ed efficace <strong>anche laddove non vengano previste</strong>;</li> <li>sia le condizioni obiettive di punibilità sia le condizioni privatistiche sono <strong>incerte nel relativo avverarsi</strong>;</li> <li>le condizioni obiettive di punibilità sono in genere <strong>future</strong> rispetto al reato, ma possono anche essere <strong>concomitanti</strong> (come nei casi di <strong>condizione-flagranza</strong>) ovvero – per taluni – <strong>anche antecedenti</strong>, come la dichiarazione di fallimento nel reato di bancarotta (per chi la ritiene condizione di punibilità e non piuttosto elemento costitutivo del reato); le condizioni di efficacia del negozio giuridico sono invece <strong>sempre</strong> eventi, oltre che incerti, <strong>futuri</strong>;</li> <li>sia le condizioni obiettive di punibilità, sia le condizioni di efficacia del negozio giuridico, <strong>danno rilevanza ai motivi e alla opportunità</strong>: le prime cristallizzano quei motivi di opportunità che rendono il fatto offensivo concretamente punibile; le seconde cristallizzano quei <strong>motivi</strong> (normalmente irrilevanti) ai quali viene subordinata l’efficacia del negozio che le prevede.</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Che tipo di rapporto esiste tra condizione obiettiva di punibilità ed elemento costitutivo del reato?</strong> <ol> <li>per una prima tesi, la condizione obiettiva di punibilità è <strong>elemento costitutivo del reato</strong>, non esterno ad esso, che tuttavia <strong>non è coperto da coefficiente psicologico</strong> essendo attribuito al soggetto attivo in modo del tutto oggettivo; ciò deriva dal fatto che una figura di reato è tale in quanto il <strong>precetto primario</strong> è strettamente avvinto a <strong>quello secondario</strong> (sanzione, e dunque punibilità), non potendo il secondo considerarsi <strong>esterno</strong> rispetto al primo. In altri termini, <strong>un reato senza punibilità non è un reato</strong>. Da questo punto di vista, il legislatore del codice penale è stato <strong>atecnico</strong> sul piano lessicale, in quanto avrebbe dovuto più precisamente dire che l’evento condiziona <strong>la punibilità del “<em>fatto</em>”</strong>, e <strong>non del reato</strong> (tesi recessiva);</li> <li>per una seconda tesi, la condizione obiettiva di punibilità è invece <strong>estrinseca</strong> rispetto al reato (come peraltro dimostrano i <strong>lavori preparatori</strong> al codice penale); è il legislatore che, sulla base di proprie <strong>scelte di politica criminale</strong>, decide di subordinare la punibilità concreta di un <strong>reato già perfetto</strong> (ed il cui nucleo offensivo essenziale risulta già pienamente definito) al verificarsi di un <strong>evento ulteriore ed estrinseco</strong> rispetto ad esso. Che sia così lo dimostra lo stesso art.44 del codice proprio dove si esprime in termini di <strong>punibilità del “<em>reato</em>”</strong> (e non del “<em>fatto</em>”); il fatto è infatti <strong>già perfetto come fatto-inadempimento-reato</strong>, e l’evento dedotto dal legislatore in condizione riguarda <strong>la sola (concreta) punibilità</strong> dello stesso. Ulteriore conferma della bontà di questa tesi viene rinvenuta nell’art.158 c.p. in tema di prescrizione che decorre in genere <strong>dal giorno della consumazione</strong> del reato (comma 1), mentre in presenza di una condizione obiettiva di punibilità decorre <strong>dal giorno in cui si verifica l’evento</strong> dedotto in condizione (comma 2), che dunque si profila come <strong>estrinseco</strong> rispetto alla ridetta consumazione e dunque estraneo al fatto-reato-inadempimento (tesi più accreditata);</li> <li>il problema diventa allora quello di capire quando, dinanzi ad una fattispecie sottoposta a sanzione penale, ci si trovi dinanzi ad un <strong>intrinseco elemento costitutivo del reato</strong> (che deve essere coperto dall’elemento soggettivo: dolo o colpa) e quando, all’opposto, ci si trovi al cospetto di <strong>una estrinseca (ed oggettiva) condizione di punibilità</strong>; una <strong>lettura costituzionalmente orientata</strong> delle norme pertinenti (art.27 Cost.) dovrebbe tuttavia sospingere più spesso per la prima che per la seconda soluzione.</li> </ol> <strong>Quali sono i criteri più accreditati per distinguere un elemento costitutivo del reato (intrinseco) da una condizione obiettiva di punibilità (estrinseca)?</strong> <ol> <li>il <strong>criterio formale e letterale</strong>: ogniqualvolta ci si trova dinanzi a <strong>formule codicistiche o legislative speciali</strong> che richiamano la condizione (se, qualora, laddove, nel caso in cui, quando dal fatto deriva etc.) si è al cospetto di una condizione obiettiva di punibilità. Questo implica tuttavia, alternativamente: a) la riconduzione anche dei <strong>delitti aggravati dall’evento</strong> nella categoria delle condizioni obiettive di punibilità; b) la <strong>non riconducibilità</strong> dei delitti aggravati dall’evento alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità, con la conseguenza onde in quel caso <strong>l’evento è parte integrante del reato.</strong> La <strong>non percorribilità di entrambe</strong> le strade palesa che il <strong>criterio letterale</strong> di identificazione delle condizioni obiettive è <strong>insufficiente allo scopo</strong>;</li> <li>il <strong>criterio sostanziale</strong> (con attribuzione al criterio formale di mera funzione identificativa <strong>sussidiaria</strong>); si assume come stella polare <strong>il disvalore dell’illecito penale</strong> e, dunque, la relativa <strong>portata offensiva</strong>, con riguardo alla quale le condizioni obiettive di punibilità <strong>si collocano all’esterno</strong>. Su questo crinale, gli elementi costitutivi sono quelli che, col ledere l’interesse (creditorio) penalmente protetto (c.d. interesse “<strong><em>interno</em></strong>”), rendono il fatto che lo pregiudica (inadempimento-reato) antigiuridico e “<strong><em>meritevole di pena</em></strong>”, onde la relativa presenza impone indefettibilmente la punizione; le condizioni obiettive di punibilità sono invece quegli eventi la cui assenza rende il fatto di compromissione dell’interesse penalmente tutelato “<strong><em>non bisognoso (seppur meritevole) di pena</em></strong>” in forza di un <strong>controinteresse dello Stato</strong> (c.d. interesse “<strong><em>esterno</em></strong>”) ad evitare in concreto sanzioni penali pur al cospetto di un fatto astrattamente <strong>anti-giuridico</strong>; l’<strong>interesse protetto interno</strong> alla fattispecie penale ed il <strong>contro-interesse esterno</strong> alla medesima sono del tutto <strong>eterogenei</strong> tra loro, fondando il secondo quelle esigenze di opportunità valutate dalla discrezionalità del legislatore che possono <strong>concretamente</strong> disinnescare la punibilità di un fatto <strong>astrattamente</strong> Proprio abbracciando il criterio sostanziale, si ritiene di scorgere una <strong>mera condizione obiettiva di punibilità</strong>, e non già un elemento costitutivo del reato, ogni qual volta – laddove si elimini l’elemento dubbio – il fatto tipico <strong>non perda la propria potenzialità offensiva</strong>.</li> </ol> <strong>Sono ammissibili condizioni obiettive di punibilità c.d. “intrinseche”?</strong> <ol> <li>secondo parte della dottrina esse sono <strong>ammissibili</strong>, ed <strong>approfondiscono la carica offensiva</strong> già presente nel fatto tipico: si tratta di opzione ermeneutica che tuttavia si trova a fare i conti con il <strong>principio di personalità della responsabilità penale</strong> (art.27, comma 1, Cost.) e che da questo punto di vista si colloca in posizione di <strong>potenziale incostituzionalità</strong>;</li> <li>secondo altra parte della dottrina, esse sono invece <strong>inammissibili</strong>, potendo assumersi <strong>intrinseci</strong> solo gli <strong>elementi costitutivi del reato</strong>, che devono essere coperti dall’elemento soggettivo, anche al fine di garantire una lettura compatibile alla Costituzione dell’art.44 c.p.; le condizioni obiettive di punibilità sono dunque <strong>giocoforza estrinseche</strong> rispetto al reato: l’evento condizionante b.1) è <strong>estraneo all’offesa tipica</strong>2) o comunque <strong>non accentra in sé tale offesa</strong>, rimanendone ai margini.</li> </ol> <strong>Che tipo di rapporto intecorre tra le condizioni obiettive di punibilità ed il principio di legalità in materia penale?</strong> <ol> <li>è proprio il <strong>principio di legalità</strong> a costituire <strong>la <em>ratio</em> più profonda</strong> delle condizioni obiettive di punibilità:</li> <li>esse devono intendersi <strong>necessariamente estrinseche</strong> al <strong>nucleo di offensività del reato</strong> espresso dai relativi elementi costitutivi (che devono essere coperti dall’elemento soggettivo) e, se è così, il relativo scopo è quello di <strong>cristallizzare <em>ex lege</em> quei motivi di opportunità</strong> che condizionano la punibilità di un determinato fatto offensivo, e che in precedenza erano <strong>totalmente demandati alla discrezionalità del giudice</strong>.</li> </ol> <strong> </strong> <strong>Quali sono le fattispecie tradizionalmente ricondotte alle condizioni obiettive di punibilità?</strong> <ol> <li>la <strong>presenza del reo nel territorio dello Stato</strong>, ai sensi degli articoli 9 e 10 del codice penale;</li> <li>la <strong>sorpresa in flagranza</strong> nel <strong>possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio</strong> (art.260, comma 1, numeri 2 e 3);</li> <li>la <strong>commissione in luogo pubblico o aperto al pubblico</strong> degli <strong>atti osceni</strong> (art. 527 c.p.); ormai è tuttavia accreditata anche la tesi che lo ritiene un <strong>elemento costitutivo</strong> della fattispecie, muovendo dalla circostanza onde agli atti sessuali consumati in intimità non può essere ascritto alcun profilo di <strong>reale oscenità</strong>, quale potenziale lesione della <strong>sfera etico-sessuale</strong> di terzi;</li> <li>l’<strong>annullamento del matrimonio</strong> nella <strong>induzione al matrimonio mediante inganno</strong> (art.558 c.p.)</li> <li>il <strong>pubblico scandalo</strong> nell’<strong>incesto</strong> (art.564 c.p.); si tratta di un fatto che normalmente ripugna alla coscienza sociale, e chi vede nell’interesse tutelato dalla fattispecie penale la <strong>moralità pubblica</strong>, assume che il pubblico scandalo sia ormai da considerarsi elemento costitutivo del reato; chi invece ritiene ancora che l’interesse tutelato sia la <strong>moralità (meramente) familiare</strong>, conseguentemente assume il pubblico scandalo come evento legato ad un <strong>contro-interesse dello Stato</strong> a punire nel solo caso in cui, per l’appunto, il fatto <strong>non resti in ambito meramente familiare</strong>, ma debordi in ambito sociale più allargato;</li> <li>il <strong>pericolo di una malattia nel corpo o nella mente</strong> nell’<strong>abuso dei mezzi di correzione</strong> (art.571 c.p.); non manca tuttavia chi ritiene trattarsi di un <strong>elemento costitutivo</strong> della fattispecie;</li> <li>il verificarsi del <strong>suicidio</strong> nella <strong>istigazione al suicidio</strong> (art.580 c.p.);</li> <li>il <strong>derivato nocumento</strong> nel caso di <strong>trattamento illecito di dati personali</strong> (art.167 del decreto legislativo n. 196 del 2003, c.d. codice <em>privacy</em>);</li> <li>la <strong>dichiarazione di fallimento</strong> nei reati di <strong>bancarotta</strong> (art.216 della legge 267.42, c.d. legge fallimentare);</li> <li>il <strong>superamento delle soglie quantitative</strong> nella <strong>frode fiscale</strong> (art.3 e 4 del decreto legislativo n.74.00) e, finché previste, nel <strong>falso in bilancio</strong> (art.2621 e 2622 c.c.).</li> </ol> <strong>Quali tesi si giustappongono in tema di amnistia e condizioni obiettive di punibilità, con riguardo al tempo di commissione del reato?</strong> <ol> <li>l’<strong>amnistia</strong> può applicarsi solo ai reati in relazione ai quali siano stati già realizzati <strong>tutti gli elementi costitutivi</strong> e siano <strong>già intervenute le condizioni obiettive di punibilità</strong> quando entra in vigore la relativa legge, mentre non è applicabile ai reati perfetti per i quali non si sia tuttavia già verificato <strong>l’evento condizionante</strong> la punibilità;</li> <li>l’amnistia può applicarsi anche a reati che <strong>siano perfetti</strong> quando entra in vigore il relativo provvedimento, ancorché <strong>non si sia ancora verificato</strong> l’evento condizionante ex art.44 c.p.: ciò sia in forza del <strong>principio del <em>favor rei</em></strong>, sia in forza della considerazione onde il reo <strong>ha già posto in essere tutti gli elementi costitutivi</strong> del reato amnistiato prima dell’accadimento (estrinseco) condizionante.</li> </ol> <strong>E’ ammissibile il tentativo nelle fattispecie in cui opera una condizione obiettiva di punibilità (c.d. reato condizionato) ?</strong> E’ ammesso nel solo caso (laddove a propria volta ritenuto ammissibile) in cui l’evento condizionante <strong>non segue</strong> (e dunque <strong>precede o accompagna</strong>) il <strong>perfezionamento del fatto tipico</strong>, come nell’ipotesi <ol> <li>della <strong>dichiarazione di fallimento</strong> rispetto al reato di <strong>bancarotta post-fallimentare</strong> (per chi ammette che sia condizione obiettiva di punibilità): chi compie atti idonei ed inequivoci orientati a <strong>sottrarre</strong> i propri beni ai creditori (ad esempio espatriandoli) e viene scoperto prima di operare, con conseguente dichiarazione di fallimento; si configurerebbe in questi casi una <strong>tentata bancarotta</strong> (post-fallimentare);</li> <li>del <strong>pubblico scandalo</strong> rispetto al reato di <strong>incesto</strong> (per chi ammette che sia condizione obiettiva di punibilità): chi compie atti idonei ed inequivoci orientati ad un <strong>incesto pubblicamente scandaloso</strong> che gli viene per tempo impedito: si configurerebbe in questi casi un tentato incesto.</li> </ol> E’ invece escluso nel caso in cui l’evento condizionante sia <strong>necessariamente successivo</strong> al <strong>perfezionamento/consumazione</strong> del reato, come nell’ipotesi; <ol> <li>dell’<strong>annullamento del matrimonio</strong> rispetto all’<strong>induzione al matrimonio mediante inganno</strong>, essendo l’annullamento del matrimonio <strong>necessariamente successivo</strong> all’induzione al matrimonio medesimo;</li> <li>del <strong>suicidio</strong> rispetto alla <strong>istigazione al suicidio</strong>, essendo il suicidio necessariamente successivo all’istigazione al suicidio medesimo; se infatti il <strong>tentativo di istigazione</strong> resta per l’appunto un tentativo, l’istigazione non si verifica e l’eventuale suicidio (che non dipenderà dalla istigazione in quanto essa non si è consumata) non è assumibile come condizione di punibilità <strong>di un fatto tipico che non si è consumato</strong>.</li> </ol> <strong>Cosa è la bancarotta prefallimentare e la bancarotta impropria, e quali tesi si contendono il campo attorno ad essa?</strong> <ol> <li>la bancarotta prefallimentare è tale perché ha luogo <strong>prima della dichiarazione </strong>(con <strong>sentenza</strong> all’uopo)<strong> di fallimento</strong>, laddove l’imprenditore compia talune condotte di tipo <strong>sottrattivo/distrattivo</strong>: la pena viene inflitta al soggetto attivo “<strong><em>se è dichiarato fallito</em></strong>” (articoli 216, comma 1, e 217 legge fallimentare);</li> <li>la bancarotta <strong>impropria</strong> è quella che coinvolge amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società “<strong><em>dichiarate fallite</em></strong>” per la commissione di determinati fatti (previsti dagli articoli 223, comma 1, e 224, n.1, della legge fallimentare, che richiamano gli articoli 216 e 217 sulla bancarotta prefallimentare);</li> <li>il <em>busillis</em> concerne il ruolo della <strong>sentenza dichiarativa di fallimento</strong> in queste fattispecie, poiché la dottrina la ritiene <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong>, mentre la giurisprudenza la considera da sempre <strong>elemento costitutivo</strong> dei reati ivi descritti (anche se non mancano ormai <strong>recentissime voci</strong> <strong>pretorie</strong> consonanti con la dottrina);</li> <li>in particolare, la dottrina ritiene contraddittorio considerare la sentenza dichiarativa di fallimento, ad un tempo, come <strong>elemento costitutivo del reato</strong> successivo alla condotta, ma tuttavia “<strong><em>non evento</em></strong>”, con l’aggravante (costituzionalmente inaccettabile ex art.27 cost.) della <strong>non necessaria</strong> copertura del <strong>dolo</strong>; la sentenza Corvetta del 2012 appare maggiormente coerente, ma valorizza un <strong>nesso causale</strong> del quale nelle norme sulla bancarotta non vi è traccia e – circostanza ancor più rilevante – confonde il <strong>dissesto</strong> (che dipende dall’imprenditore) con la <strong>dichiarazione di fallimento</strong> (che invece dipende da <strong>circostanze esterne</strong> all’imprenditore).</li> </ol> <strong>Quale è la singolarità della sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo “improprio” della bancarotta prefallimentare, siccome assunto dalla giurisprudenza?</strong> <ol> <li>la sentenza dichiarativa di fallimento è <strong>elemento costitutivo del reato</strong>, ma al contempo <strong>non è evento del reato</strong> di bancarotta prefallimentare, in quanto il legislatore concepisce questi fatti come punibili dall’imprenditore “<strong><em>se è dichiarato fallito</em></strong>”, e non già <strong>se ha cagionato</strong> la dichiarazione di fallimento;</li> <li>in altri termini, la legge <strong>non richiede un nesso eziologico</strong> tra i <strong>fatti distrattivi</strong>, il <strong>dissesto</strong> e la <strong>dichiarazione di fallimento</strong>, anche perché dove lo richiede lo prevede esplicitamente usando il verbo “<strong><em>cagionare</em></strong>” (come nelle ipotesi di <strong>bancarotta impropria</strong> previste dagli articoli 223, comma 2, e 224, n.2 della legge fallimentare);</li> <li>ci si trova dunque al cospetto di un <strong>elemento costitutivo del reato</strong> (la sentenza dichiarativa di fallimento) che <strong>non deve essere legato da nesso causale</strong> rispetto ai fatti distrattivi e <strong>non deve neppure essere coperto dal dolo</strong>, rilevando <strong><em>ex se</em></strong> ed in modo <strong>oggettivo</strong>;</li> <li>e che tuttavia – secondo questa singolare concezione - <strong>non è condizione obiettiva di punibilità</strong>, ma <strong>elemento costitutivo</strong> del reato, <strong>individuandone <em>tempus</em> e <em>locus commissi delicti</em></strong> in quanto ne segna <strong>la concreta consumazione</strong>.</li> </ol> <strong>In che senso per la dottrina la sentenza dichiarativa di fallimento è da intendersi come condizione obiettiva di punibilità nella bancarotta prefallimentare?</strong> <ol> <li>la dottrina muove dalla premessa onde sono gli <strong>atti di bancarotta in sé considerati</strong> (che dipendono <strong>totalmente dall’imprenditore</strong>) ad esprimere il <strong>disvalore</strong> della condotta penalmente sanzionato, e non già la <strong>successiva sentenza dichiarativa di fallimento</strong> (che dipende da <strong>fattori estranei</strong> all’imprenditore);</li> <li>a diversamente opinare, si assisterebbe ad un <strong>disvalore penale “<em>a scoppio ritardato</em>”</strong> o comunque <strong>“<em>a manifestazione posticipata</em>”</strong> peraltro legato ad una circostanza – la declaratoria di fallimento – che non può più essere vista come un fattore patologico: è <strong>fisiologico</strong> piuttosto (anche se ovviamente non auspicabile) che l’attività di impresa possa esitare in un fallimento, quale <strong>esito negativo dello sforzo imprenditoriale dispiegato</strong>.</li> <li>sia il <strong>dato lessicale</strong> (che si esprime con un “<strong><em>se</em></strong>”), sia la stessa circostanza onde la dichiarazione di fallimento <strong>può dipendere da circostanze estranee</strong> alla sfera di controllo dell’imprenditore, inducono a vedere nella sentenza dichiarativa di fallimento una <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong>;</li> <li>soltanto quando <strong>lo stato di insolvenza diviene irreversibile</strong>, ed interviene <strong><em>ab externo</em></strong> la dichiarazione di fallimento, può scattare <strong>la punibilità</strong> di condotte che anteriormente <strong>potrebbe rivelarsi inopportuna</strong> (e tale la ha considerata il legislatore proprio con il prevedere la <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong>) perché <strong>capace di accelerare un tracollo</strong> che sarebbe pregiudizievole per l’imprenditore coinvolto, per i relativi <strong>creditori</strong> e per il relativi <strong>lavoratori dipendenti</strong>.</li> <li>del resto, vedere nella sentenza dichiarativa di fallimento una <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong> non incide, a ben vedere, né sul <strong><em>tempus commissi delicti</em></strong> (la prescrizione decorre dalla pubblicazione di tale sentenza) né sul <strong><em>locus commissi delicti</em></strong> (da ricondursi ancora una volta al <strong>luogo</strong> in cui <strong>viene dichiarato con sentenza il fallimento</strong>, che rappresenta quello in cui il dissesto <strong>diventa penalmente rilevante</strong>).</li> </ol> <strong>Come concilia la dottrina la concezione per cui la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità con il principio di colpevolezza?</strong> <ol> <li>secondo parte della dottrina, la sentenza dichiarativa di fallimento è <strong>esterna al reato ed oggettiva</strong>, ma il reato si atteggia a reato <strong>di pericolo concreto</strong>, sicché l’imprenditore deve rappresentarsi sul piano soggettivo come i propri atti distrattivi creino un <strong>concreto pericolo per la garanzia (patrimoniale) dei creditori</strong>, che è bene giuridico tutelato dalla norma penale; sul piano oggettivo, poi, la condotta deve essere <strong>concretamente idonea a porre in pericolo</strong> il ridetto bene giuridico, sicché – con <strong>prognosi postuma</strong> simile a quella operativa in tema di tentativo – occorre verificare se, stanti <strong>le obbligazioni in scadenza</strong>, si sia distratta <strong>una quantità di risorse necessaria a farvi fronte</strong>; ove la distrazione concerna una <strong>quantità inferiore</strong>, essa non può che farsi rientrare nella <strong>insindacabile discrezionalità gestionale</strong> dell’imprenditore sui propri beni, tale da rendendolo non punibile;</li> <li>secondo altra parte della dottrina, muovendo <strong>dall’art.27 Cost.</strong>, occorre concordare con la giurisprudenza che vede nella sentenza dichiarativa di fallimento <strong>un elemento costitutivo del reato</strong>, quantunque <strong>non coperto dal dolo</strong> (e non configurabile come <strong>evento</strong> del reato medesimo), in quanto la salvaguardia del <strong>principio di colpevolezza</strong> si recupera declinando il reato come reato “<strong><em>di evento</em></strong>” in cui l’evento <strong>è evento di danno</strong>, corrispondente proprio <strong>con la bancarotta</strong> (e <strong>non</strong> con la <strong>formale dichiarazione di fallimento</strong>); essendo la bancarotta l’evento (di danno) del reato, essa deve essere coperta dal dolo, dovendosi l’imprenditore <strong>rappresentare</strong> e dovendo egli <strong>volere</strong> tale evento, riassumibile nel <strong>depauperamento del proprio patrimonio</strong> e nella conseguente non realizzabilità delle pretese creditorie;</li> <li>entrambe le tesi <strong>escludono</strong>, coerentemente, la rilevanza penale laddove la bancarotta sia stata “<strong><em>riparata</em></strong>”, vale a dire allorché la <strong>garanzia patrimoniale</strong> in un primo momento <strong>pregiudicata da atti distrattivi</strong> sia stata poi <strong>ricostituita</strong> (quand’anche non si sia poi evitato il fallimento a cagione di altre circostanze): in questi casi tanto il <strong>pericolo concreto</strong> (prima tesi) quanto <strong>il danno</strong> (seconda tesi) per i creditori viene in realtà scongiurato dall’imprenditore.</li> </ol> <strong>Quali sono le posizioni della dottrina e della giurisprudenza in tema di soglie rilevanti con riguardo alla frode fiscale?</strong> <ol> <li>secondo la dottrina le <strong>soglie</strong> costituiscono <strong>condizioni obiettive di punibilità</strong>, e non devono essere attinte dal <strong>dolo</strong>;</li> <li>secondo <strong>parte</strong> della giurisprudenza il raggiungimento della soglia è invece <strong>l’evento del reato</strong>, legato alla condotta da <strong>nesso di causalità</strong>, e come tale è <strong>elemento costitutivo del reato</strong> che deve essere coperto dal <strong>dolo</strong>.</li> </ol> <strong>Quali erano le posizioni della dottrina in tema di falso in bilancio ex articoli 2621 e seguenti c.c. prima della eliminazione delle soglie di punibilità?</strong> <ul> <li>per una prima tesi sia “<strong><em>l’alterazione in modo sensibile</em></strong>” della <strong>rappresentazione</strong> della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società (fattispecie <strong>qualitativa</strong>), sia il <strong>superamento delle soglie</strong> previste dalla legge (fattispecie <strong>quantitativa</strong>), costituivano entrambi degli <strong>elementi costituivi del reato</strong>, integrando dunque la <strong>condotta tipica</strong> esprimendone la <strong>potenzialità aggressiva</strong> del bene penalmente protetto (le corrette comunicazioni sociali);</li> <li>per una seconda tesi, mentre “<strong><em>l’alterazione in modo sensibile</em></strong>” della <strong>rappresentazione</strong> della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società (fattispecie <strong>qualitativa</strong>), costituiva un <strong>elemento costituivo del reato</strong>, integrando dunque la <strong>condotta tipica</strong> ed esprimendone la <strong>potenzialità aggressiva</strong> del bene penalmente protetto (le corrette comunicazioni sociali), dovendo dunque essere coperta dal <strong>dolo</strong> ed avvinta da <strong>nesso di causalità</strong> rispetto alla condotta tipica (quale evento del reato); il superamento delle soglie previste dalla legge (fattispecie quantitativa) costituiva invece una <strong>condizione obiettiva di punibilità</strong>, estrinseca rispetto al fatto tipico ed alla relativa offensività, onde il <strong>mancato superamento</strong> della soglia integrava una <strong>causa di non punibilità</strong> del fatto-inadempimento reato.</li> </ul>