Massima
L’esperienza giuridica romana, laddove riguardata sul versante dello stretto ius civile, conosce in una prima fase la sola dicotomia tra negozi validi e negozi nulli; con l’incedere del tempo si profila tuttavia – massime attraverso l’opera garantista del “Pretore”, del ius honorarium e dell’aequitas che lo contraddistingue – una forma di tutela “intermedia” che vede il negozio astrattamente valido, ma potenzialmente (ed in concreto) privabile dei relativi effetti, massime su iniziativa di chi sia stato vittima di violenza morale o di dolo, con lento e progressivo affiorare di significatività – in termini – anche del c.d. errore sui motivi.
Articolo
I Romani , seppure in modo non totalmente consapevole, hanno una qualche contezza del fatto che vi è differenza tra i casi in cui ciò che si dichiara diverge in toto da quanto si vuole e le fattispecie in cui invece si vuole realmente quanto si vuole, ma la volontà del dichiarante è viziata o si è comunque formata in modo non corrispondente all’assiologia giuridica.
In disparte la tutela dell’incapace – ad ampio spettro, che importa in genere nullità del pertinente negozio e che richiede considerazioni a parte, tenuto anche conto del peculiare atteggiarsi della pertinente tutela (nel caso della Lex Laetoria del II secolo a. C, solo per fare un esempio, è qualsiasi cittadino a poter intentare una vera e propria azione “popolare” nei confronti di chi abbia ingannato un adolescente per proprio tornaconto) – rileva in particolar modo la disciplina del c.d. vizi della volontà, con specifico riguardo a dolo e violenza nonché, più marginalmente, all’errore.
Da notare come i Romani diano rilevanza, sul crinale diacronico, in una prima fase alla c.d. violenza morale e, dunque, alla pressione psicologica orientata ad ottenere atti giuridici, per poi soffermarsi sul dolo come induzione in errore ai medesimi fini e, da ultimo, sull’errore insorto nella mente di una “parte” negoziale, nella peculiare foggia di errore “sui motivi” del negozio posto in essere.
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La violenza “morale” – c.d. vis animo illata, che differisce da quella “corpori illata” e dunque fisica – si compendia in una minaccia particolarmente grave per il destinatario, per i propri familiari o per i propri beni, posta in essere per sospingere la controparte a negoziare inducendone il c.d. “metus”, ovvero il timore di subire un male che quegli avverte particolarmente consistente e tale da sospingerlo ad addivenire ad un negozio giuridico cui non avrebbe prestato il consenso laddove la minaccia non vi fosse stata.
In un passo del Digesto (4.2.21.5) si dice che in questi casi “quamvis si liberum esse noluissem, tamen coactus volui”, a specificare appunto che, laddove liberamente dispostosi, il soggetto non avrebbe partecipato ad un negozio che gli è stato imposto perché “costretto”(vi), e dunque con volontà presente ma viziata.
In questi casi, occorre distinguere dal tipo di rapporto giuridico oggetto della violenza morale, muovendo da quello tutelato dai c.d. iudicia bonae fidei, laddove il iudex ha il potere (discrezionale) di valutare liberamente l’intero comportamento delle parti, siccome presentatogli dalle parti medesime: l’affiorare del metus consente al giudice ridetto di dare ad esso rilevanza giuridica in sede processuale, onde si consente alla vittima di non adempiere all’obbligazione contratta con la certezza di andare assolto ovvero, laddove abbia già adempiuto, gli si consente di recuperare quanto erogato al minacciante giusta actio contrattuale all’uopo: si pensi, per il tipico caso della emptio venditio (compravendita), dell’”actio empti” (a favore del compratore) o dell’”actio venditi” (a favore del venditore).
Più complessa la fattispecie laddove il rapporto giuridico sia tutelato da un’actio stricti iuris, come tale rigidamente ancorata al ius civile e che non consente alla vittima della violenza, in un primo momento, alcun rimedio, avendo essa “voluto” (seppur compulsata dal metus) il negozio siccome formalmente confezionato. L’espandersi dei traffici e la conseguente giurisprudenza “pretorile” che ne segue tendono tuttavia a far progressivamente affermare la c.d. aequitas, in guisa correttiva rispetto alla rigida validità “iure civili” di negozi, in realtà, viziati.
Nel I secolo a.C. il Pretore inizia a promettere tutela nel proprio Editto annuale, proprio fondandosi sulla ridetta aequitas (aequitatis ratione); una tutela che si articola nella possibilità per la vittima della violenza di “eccepirla” (c.d. exceptio metus), laddove non abbia ancora adempiuto all’obbligazione contratta; ovvero nella possibilità di recuperare quanto eventualmente già erogato o comunque pagato, con piena reintegrazione della propria sfera giuridica, attraverso un rimedio detto “restitutio in integrum propter metus”.
In sostanza, attraverso questo meccanismo introdotto dal Pretore si è in simili fattispecie al cospetto di un negozio che resta formalmente valido per il ius civile, ma i cui effetti vengono paralizzati o rimossi dal ius honorarium e dall’aequitas che lo contraddistingue, su iniziativa della vittima, in guisa già in qualche maniera assimilabile al moderno concetto di “annullabilità” del negozio valido e “potenzialmente inefficace”.
Si aggiunge anche una tutela di tipo “penale” attraverso la previsione di una “actio metus” che la vittima, a fini sanzionatori, può intentare tanto contro l’autore della violenza morale quanto contro il terzo che abbia ritratto un ingiusto vantaggio dal negozio che ne è scaturito.
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Parabola analoga a quella della violenza coinvolge il dolo, quale induzione in errore della controparte al fine di condurla alla partecipazione al negozio; laddove concluso a valle di un dolo (“contrattuale”), la vittima vuole il negozio ridetto, ma la pertinente volontà si è formata in modo viziato a cagione dell’induzione in errore perpetrata dalla controparte.
Secondo la celebre definizione del giurista Labeone riportata nel Digesto (4.3.1.2), è dolo qualunque astuzia, intrigo o raggiro inteso a circuire, trarre in inganno o illudere un terzo (omnis calliditas, fallacia, machinatio, ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita).
Anche in questo caso, se nelle fattispecie tutelate da iudicia bonae fidei è direttamente il giudice a poter valutare, nel relativo complesso, il comportamento delle parti fornendo protezione alla vittima dell’induzione in errore; in quelle c.d. stricti iuris è il Pretore ad ammorbidire la rigidità del ius civile garantendo alla vittima del dolo una exceptio doli (laddove non abbia ancora adempiuto), ovvero una restitutio in integrum propter dolum (laddove abbia già adempiuto e debba vedersi ripristinata la propria sfera giuridica); ovvero ancora una actio de dolo a carattere penale.
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Per quanto riguarda l’errore – che, a differenza di violenza o dolo, nasce nel seno stesso della parte del negozio “viziato” – per i Romani esso è causa di nullità del negozio stesso, e non già di pertinente annullabilità, secondo coordinate peraltro talvolta tardo-classiche.
Ciò tanto nelle ipotesi di errore c.d. ostativo (laddove la divergenza tra reale volontà e manifestazione della medesima è incosciente: si dice “fondo Corneliano” mentre in realtà si intende “fondo Semproniano”), laddove dunque manca la stessa volontà del negozio; quanto in quelle in cui la volontà esiste, ma è viziata da errore “a monte” che cada sulla rappresentazione che l’autore del negozio si sia fatto di uno dei pertinenti elementi essenziali quali la causa (errore in negotio), il soggetto controparte (error in persona), ovvero l’oggetto del negozio stesso (error in corpore; error in substantia; error in quantitate).
In tema di errore, l’annullabilità affiora talvolta allorché esso cada sui motivi del negozio, normalmente irrilevanti: è il caso della “querela inofficiosi testamenti” attraverso la quale si consente al figlio assunto erroneamente premorto di impugnare il testamento del de cuius che lo abbia, sulla base di questo motivo unico e determinante, estromesso dalla successione.
Collegamenti
Errore – Dolo – Violenza – Capacità