Cass. civ., lav., sent., 23.05.2024, n. 14402
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- I motivi possono essere così sintetizzati.
- Con il primo motivo si denunzia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, la falsa applicazione dell’art. 32 del CCNL Gas Acqua, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 cc, dell’art. 2co. 1 lett. b) del D.lgs. n. 216/2003, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che la disposizione contrattuale collettiva non configurava una violazione del divieto di discriminazione indiretta quando, invece, la norma, nel prevedere tutele ulteriori solo nei casi di particolare gravità e di stati di malattia particolarmente gravi ovvero nell’aggiungere un impegno di un ulteriore esame in presenza di situazioni meritevoli di tutela, era assolutamente inadeguata ad assicurare vantaggi certi al disabile, così operando una sostanziale equiparazione, non consentita, tra lo stato di handicap ed una comune malattia.
- Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360n 3 cpc, la falsa applicazione dell’art. 32 del CCNL Gas Acqua, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 cc, dell’art. 3co. 3 bis del D.lgs. n. 216/2003, per avere la Corte territoriale subordinato la condotta discriminatoria alla sussistenza dell’elemento soggettivo pur non essendo l’animus nocendi elemento della fattispecie discriminatoria; inoltre si obietta che, a differenza di quanto ritenuto dai giudici di seconde cure, il dovere di collaborazione del dipendente non poteva integrare una esimente per il datore di lavoro che, in presenza di un lavoratore disabile, avrebbe dovuto ricorrere a soluzioni ragionevoli per evitare il licenziamento.
- Il primo motivo è fondato.
- L’art. 32 del CCNL Gas Acqua, applicabile alla fattispecie, ai commi da 2 a 6 prevede: “In caso di malattia o infortunio extra-professionale il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per 12 mesi senza interruzione di anzianità. Cesseranno per l’azienda gli obblighi di cui sopra qualora il lavoratore raggiunga, in complesso, durante l’arco temporale dei 24 mesi precedenti l’ultimo evento morboso, il limite massimo previsto anche in caso di diverse malattie; i periodi di ricovero ospedaliero debitamente certificati non danno luogo al raggiungimento dei termini massimi di comporto sopra elencati. I casi di particolare gravità sono valutati dall’azienda su richiesta dell’interessato, eventualmente assistito dalla RSU. Ove il superamento del periodo di conservazione del posto sia avvenuto a seguito di uno stato di malattia particolarmente grave, destinato a perdurare dopo il termine, il lavoratore può usufruire, previa richiesta e idonea certificazione scritta da presentare prima della scadenza del termine, di un periodo di aspettativa di durata non superiore a mesi 12 (dodici) durante i quali non decorrono retribuzione e anzianità. Le aziende si impegnano anche su segnalazione della rsu ad esaminare eventuali richieste di proroga del periodo di aspettativa in presenza di situazioni meritevoli di particolare attenzione”.
- La Corte territoriale ha ritenuto che la norma contrattuale, per come modulata in relazione alla possibilità di accedere ad una tutela ulteriore e differenziata nei casi di particolare gravità sottoponibili all’azienda su richiesta dell’interessato e, inoltre, in accordo alla ricorrenza di uno stato di malattia particolarmente grave, resiste alle censure di violazione del divieto di discriminazione diretta.
- Il Collegio, adeguandosi ai principi di legittimità statuiti di recente da questa Corte (Cass. n. 9095/2023; conf. Cass. n. 35747/2023), non condivide le conclusioni cui sono giunti i giudici di seconde cure.
- In particolare, nel precedente di legittimità sopra richiamato, è stato precisato, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia ivi richiamata, che il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata.
- In una ottica di bilanciamento tra l’interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale, la contrattazione collettiva, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, dovrebbe prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile e non è sufficiente una disciplina negoziale che valorizzi unicamente il profilo oggettivo della astratta gravità della patologia: deve, infatti, essere considerato anche e soprattutto l’aspetto soggettivo della disabilità in relazione alla quale adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Dir. 2000/78/CE e dall’art. 3 comma 3 bis D.lgs. n. 216/2003.
- Ciò perché anche la patologia non grave, ma in nesso causale diretto ed immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione riconosciuta dalla normativa internazionale, euro-unitaria e statale più volte richiamata nelle pronunce di questa Corte qui condivise.
- La disposizione contrattuale collettiva, per quanto sopra detto, nel caso di specie non risulta pertanto idonea ad escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap, non prevedendo appunto una differenziata soglia di tollerabilità per i lavoratori disabili rispetto a quella prevista per coloro che tali non sono.
- Sotto questo profilo è opportuno rammentare che, come di recente ribadito da questa Corte (Cass. n. 10568/2024), secondo la Corte di Giustizia “la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1° dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42).
- Dal momento che, quindi, il fattore soggettivo dell’handicap non è ricavabile dal diritto interno, ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), peraltro letto in conformità con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con la legge n. 18 del 2009e approvata dall’Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006 (ancora v. Cass. n. 9095 del 2023), si palesa l’esigenza che la contrattazione collettiva, in modo esplicito, disciplini la questione del comporto per i lavoratori disabili avendo riguardo alla condizione soggettiva, non risultando di per sé sufficiente il rilievo dato alle ipotesi di assenze determinate da patologie gravi.
- Anche il secondo motivo è fondato.
- Esso investe la tematica della conoscenza o conoscibilità da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità e della riferibilità delle assenze per malattia a detta condizione; tale questione si pone, rispetto a quello della adozione degli accorgimenti ragionevoli, su di un piano logico, in modo immediatamente antecedente.
- La Corte territoriale ha sottolineato, a sostegno della propria decisione, da un lato, che la società datoriale non era stata messa in condizione di conoscere la situazione sanitaria del C.P. e di potere valutare, secondo le doglianze levate, la possibilità di sussistenza di una condizione di discriminazione indiretta; dall’altro, ha precisato che non appariva dirimente che, per la discriminazione, non fosse di rilievo l’elemento soggettivo della parte datoriale, atteso che, nel caso de quo, il lavoratore non aveva allegato circostanze fattuali di sua esclusiva disponibilità pretendendo, poi, che di esse si fosse tenuto conto.
- Anche tale assunto non è condivisibile.
- La discriminazione indiretta, a norma del D.lgs. n. 216/2003 e della Direttiva 2000/78/CE, si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri di fatto sfavoriscono un determinato gruppo di persone.
- Ciò che viene in rilievo è, pertanto, l’effetto discriminatorio e non la condotta, come invece avviene per la discriminazione diretta e, quindi, esula ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio.
- Sotto questo profilo, al Collegio preme precisare, avendo riguardo ai precedenti già menzionati di questa Corte (Cass. n. 9095/2023; conf. Cass. n. 35747/2023; dai quali può rilevarsi, peraltro, la presenza di elementi di prova circa la conoscenza della situazione di disabilità del dipendente da parte del datore di lavoro), che senza dubbio non è decisivo l’intento discriminatorio, operando la discriminazione obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria dei disabili; tuttavia, non può negarsi che possa assumere rilevanza la conoscenza o la conoscibilità di un fattore discriminatorio, ai fini dell’accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli.
- Va sottolineato, infatti, che, proprio per le discriminazioni indirette, la Direttiva in materia stabilisce una causa di giustificazione specifica nel caso di handicap (art. 2, paragrafo 2, b), ii), e cioè quando il datore di lavoro “sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, misure per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi”; in attuazione, con l’art. 3, comma 3bis, d. lgs. n. 216 del 2003, il legislatore nazionale, nel 2013, ha imposto ad ogni datore di lavoro, privato e pubblico, di “adottare accomodamenti ragionevoli”, salvo che richiedano oneri finanziari sproporzionati.
- Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie.
- Con riguardo a tale aspetto, possono enuclearsi due ipotesi in caso di licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto: la prima, in cui il datore di lavoro abbia colpevolmente ignorato la disabilità del dipendente; la seconda, in cui il fattore di protezione, pur non risultando espressamente portato a conoscenza del datore di lavoro, avrebbe potuto essere ritenuto reale secondo un comportamento di questi improntato a diligenza.
- Nella prima ipotesi rientrano certamente i casi in cui la disabilità sia conosciuta dal datore di lavoro per essere, per esempio, il lavoratore stato assunto ai sensi della legge n. 68/1999ovvero perché il lavoratore stesso ha rappresentato, nella comunicazione delle assenze o in qualsiasi altro modo, la propria situazione di disabilità alla parte datoriale.
- Nella seconda, invece, vanno compresi i casi in cui, pur in presenza di una formale omessa conoscenza, la stessa non può ritenersi incolpevole perché il datore di lavoro era in grado di averne comunque consapevolezza per non avere, ad esempio, effettuato correttamente la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del D.lgs. n. 81/2008ovvero perché le certificazioni mediche e/o la documentazione inviate erano sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap come sopra delineata dalla normativa in materia.
- In entrambi i contesti, per il datore di lavoro sorge, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, un onere di acquisire informazioni – cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto (cfr. Cass. n. 11731 del 2024, par. 7.2).
- Solo a titolo esemplificativo può ipotizzarsi un allungamento del periodo di comporto ex art. 2110, comma 2, c.c.o l’espunzione dal comporto di periodi di malattia connessi allo stato di disabilità ovvero altre misure da scegliere in relazione alla particolarità della fattispecie: accomodamenti, peraltro, le cui problematiche sono state oggetto di rinvio pregiudiziale alla CGUE da parte del Tribunale di Ravenna con ordinanza adottata il 4.1.2024.
- L’onere di acquisire informazioni per il datore di lavoro e la cooperazione del lavoratore, invece, trovano conforto nell’art. 2 della Convenzione ONU secondo cui è una forma di discriminazione, “il rifiuto di accomodamento ragionevole”, e può rifiutarsi solo ciò che risulta oggetto di una richiesta, di una istanza.
- Anche nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità (ONU), si afferma che: “è connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l’obbligato entri in dialogo con l’individuo con disabilità”. Il Comitato definisce “l’obbligo di fornire soluzioni ragionevoli un dovere reattivo individualizzato che viene attivato nel momento in cui viene fatta la richiesta di accomodamento”.
- Appare pure significativo che, nelle conclusioni rese dall’Avvocato Generale nella causa innanzi alla Corte di Giustizia C-270/16RuizConejero contro FerroserServiciosAuxiliares SA e Ministerio Fiscal (CGUE sentenza 18 gennaio 2018), si affermi che il datore di lavoro “è tenuto a prendere provvedimenti appropriati per prevedere soluzioni ragionevoli ai sensi dell’articolo 5 della menzionata direttiva […] qualora un lavoratore sia affetto da una disabilità e il suo datore di lavoro sia o dovrebbe ragionevolmente essere a conoscenza di tale disabilità”.
- Del pari significativo è che l’art. 17 del decreto legislativo n. 62 del 3 maggio 2024, di attuazione della legge delega n. 227/21-non applicabile alla fattispecie ma che riforma l’intera materia della disabilità- nell’introdurre l’art. 5 bis alla legge n. 104 del 1992, stabilisce che, “La persona con disabilità […] ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, [tra gli altri] ai soggetti privati l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta” e partecipando “al procedimento dell’individuazione dell’accomodamento ragionevole”.
- L’interlocuzione ed il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, un fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio “al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva” e, “per verificare l’adempimento o meno dell’obbligo legislativamente imposto dal comma 3 bis”, “occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto”; ciò perché “… esso si caratterizza non (solo) in negativo, per il divieto di comportamenti” discriminatori, “quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volto alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un’attività lavorativa” al disabile. Quindi il datore è chiamato a provare, […], di aver compiuto “uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto” (Cass. n. 6497 del 2021).
- Tornando al caso di cui è processo e avendo riguardo alla menzionata impostazione metodologica, deve rilevarsi che, nello storico della gravata sentenza è chiaramente indicato che il C.P. era stato assunto in data 29.4.2000 in qualità di invalido al 50% ai sensi della legge n. 68/1999.
- La società datrice di lavoro era, pertanto, a conoscenza dello stato di disabilità per cui, avendo riguardo ai principi sopra esposti, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto coinvolgere, per una corretta applicazione delle norme in materia, il lavoratore ai fini di acquisire i necessari chiarimenti in ordine alle assenze effettuate non essendo sufficiente, per ritenere giustificata l’omessa conoscenza della disabilità, che il dipendente non avesse segnalato che le patologie che avevano dato luogo alle sue assenze fossero collegate al suo handicap ovvero che egli non avesse richiesto l’accesso a particolari strumenti previsti dalla contrattazione collettiva in ipotesi di patologie gravi.
- Il ricorso deve essere, pertanto, accolto.
- Dell’impugnata sentenza s’impone, pertanto, la cassazione con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei suindicati principi.
- Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.