<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 11 dicembre 2020 n. 268</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117 primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU, nonché agli artt. 21 e 47 CDFUE, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– Occorre premettere che – laddove il giudice a quo prospetta le questioni di legittimità costituzionale riferendole all’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., sia in sé considerato, sia in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. – deve ritenersi, ad un esame complessivo dell’ordinanza di rimessione, che in realtà egli censuri gradatamente entrambe le predette disposizioni, nella misura in cui le stesse attribuiscono al giudice il potere di porre le spese processuali a carico del lavoratore ricorrente, che abbia rifiutato senza giustificato motivo una proposta conciliativa, poi rivelatasi equivalente o addirittura più favorevole rispetto all’esito del giudizio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare – come si vedrà – l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. riguarda l’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva della controparte; mentre l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. concerne l’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa del giudice nel processo del lavoro.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In ogni caso sarebbe leso – secondo la Corte d’appello rimettente – il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva del lavoratore, perché le disposizioni censurate lo discriminerebbero come parte debole del rapporto in spregio al favor del lavoro sul piano costituzionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Prima di esaminare le questioni, è opportuna una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La disposizione censurata in via principale, ossia il primo comma, secondo periodo, dell’art. 91 cod. proc. civ., stabilisce che il giudice «[s]e accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tale periodo è stato inserito nell’art. 91 cod. proc. civ. dall’art. 45, comma 10, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nell’intento di deflazionare il contenzioso giudiziario facendo leva sul principio di autoresponsabilità della parte nella valutazione di una proposta conciliativa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Si tratta, quindi, di una di quelle disposizioni introdotte dal legislatore nella consapevolezza, sempre più avvertita, che, di fronte ad una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera (sentenza n. 77 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È stato in particolare previsto che il giudice è tenuto a condannare alle spese di lite, maturate successivamente alla formulazione della proposta, la parte che, sebbene sia risultata vittoriosa all’esito del processo, abbia rifiutato senza giustificato motivo nel corso dello stesso una proposta conciliativa identica o addirittura più soddisfacente rispetto alla misura nella quale la domanda della medesima parte abbia poi trovato accoglimento nella decisione conclusiva del giudizio. In sostanza, il costo del processo che si è inutilmente protratto a causa dell’ingiustificato rifiuto di aderire ad una proposta conciliativa seria, al punto da essere “confermata” dalla sentenza, viene posto a carico della parte che quella proposta abbia ingiustificatamente rifiutato, facendo proseguire inutilmente il processo, con i correlativi oneri a carico della società.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La norma censurata – avente carattere eccezionale (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 22 aprile 2020, n. 8036) – dà rilievo, quale legittimo criterio di regolamentazione delle spese processuali, alla condotta della parte che ha determinato un’inutile prosecuzione del giudizio. Ciò è espressione del principio di causalità che, a differenza di quello “oggettivo” della soccombenza, attribuisce rilievo anche a determinate condotte contrarie al dovere di lealtà e di probità (art. 88 cod. proc. civ.).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La valenza generale del principio victus victori, sancito dalla prima parte dell’art. 91 cod. proc. civ., quale completamento e misura dell’effettività del diritto di azione in giudizio sancito dall’art. 24 Cost. (sentenza n. 77 del 2018), ha richiesto un espresso intervento del legislatore per legittimare la condanna alle spese della parte vittoriosa, la quale abbia rifiutato senza giustificato motivo di aderire ad una proposta conciliativa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’operatività di tale deroga al principio di soccombenza richiede comunque che il rifiuto della proposta conciliativa sia privo di giustificato motivo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Inoltre, la disposizione censurata fa salva l’applicazione dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., così consentendo all’autorità giudiziaria, ove ricorrano i presupposti indicati da tale norma, anche a seguito di un recente intervento additivo di questa Corte (sentenza n. 77 del 2018), di compensare le spese del giudizio in luogo di porre integralmente le stesse a carico della parte vittoriosa per il periodo successivo all’ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa rivelatasi congrua in ragione dell’esito del giudizio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nell’individuare, poi, la portata applicativa dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che la proposta conciliativa alla quale tale norma fa riferimento «è evidentemente quella formulata da una delle parti in causa, le uniche titolari di un potere di proposta negoziale in senso proprio, su cui possa formarsi l’incontro delle volontà con l’eventuale adesione della controparte; il giudice è titolare, semmai, di un potere di sollecitazione delle parti a conciliarsi, formulando al limite (non già “proposte”, bensì mere) ipotesi transattive o conciliative, che le parti possono liberamente fare proprie o meno: solo nel caso in cui una di esse faccia propria l’ipotesi suggerita dal giudice, questa diverrà una proposta, suscettibile di dar luogo all’accordo conciliativo in presenza dell’accettazione di controparte» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 settembre 2017, n. 21109).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In sostanza, la sola proposta conciliativa rilevante per l’applicazione della norma censurata è quella effettuata in giudizio dalla parte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– Successivamente, il legislatore ha previsto la possibilità della proposta conciliativa o transattiva formulata dal giudice, introducendo l’art. 185-bis cod. proc. civ. nella disciplina del processo ordinario di cognizione. Infatti, tale norma – inserita nel codice di rito dall’art. 77, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98 – stabilisce che «[i]l giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La stessa disposizione invero non contempla alcuna conseguenza specifica per il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva proveniente dal giudice; nondimeno, in linea con quanto disposto dall’art. 420 cod. proc. civ., la costante giurisprudenza di legittimità riconosce che se ne potrà tenere conto al fine del regolamento delle spese processuali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– La disposizione censurata in via gradata è, per l’appunto, l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., che prevede, nel processo del lavoro, una disciplina specifica quanto alla proposta transattiva o conciliativa del giudice, fissando le conseguenze dell’ingiustificato rifiuto della stessa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, tale norma, inserita a seguito delle modificazioni introdotte all’art. 420 cod. proc. civ. dall’art. 31, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), e poi ulteriormente modificata dall’art. 77, comma 1, lettera b), del d.l. n. 69 del 2013, prevede che «[n]ell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa disposizione si colloca nell’ambito di un più ampio disegno riformatore, nel quale il legislatore ha contestualmente eliminato l’obbligo del previo tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, rendendo lo stesso solo facoltativo. Di qui l’esigenza di attribuire maggior “peso” alla proposta transattiva o conciliativa effettuata dall’autorità giudiziaria all’udienza di discussione ove sia fallito il tentativo di conciliazione svolto in tale sede, prevedendo conseguenze correlate al rifiuto della stessa senza giustificato motivo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel sistema così riformato, all’art. 420 cod. proc. civ., per l’ipotesi di proposte transattive o conciliative formulate dal giudice, fa da pendant la previsione, contestualmente introdotta dalla stessa legge n. 183 del 2010, dell’art. 411, secondo comma, cod. proc. civ., in tema di tentativo stragiudiziale di conciliazione nelle controversie di lavoro. Questa norma, infatti, stabilisce, specularmente, che «[s]e non si raggiunge l’accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva formulata dall’autorità giudiziaria assume rilievo nella decisione quanto alla statuizione sulle spese processuali e non già alla valutazione del merito della controversia, stante il diritto della parte a vedersi integralmente riconosciuto, sul piano del diritto sostanziale, quanto ad essa spettante all’esito del giudizio (ex multis, sentenze n. 77 del 2007 e n. 190 del 1985).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Mentre la mancata comparizione può rappresentare un indice della volontà della parte di sottrarsi al contraddittorio e quindi può assurgere ad argomento di prova (art. 116 cod. proc. civ.), il rifiuto della proposta conciliativa o transattiva può solo giustificare una pronuncia sulle spese non fondata sul mero principio della soccombenza e non anche incidere sulla decisione del merito della lite.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– Ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. sono inammissibili.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa disposizione, infatti, non trova applicazione nella fattispecie processuale oggetto della cognizione della Corte d’appello rimettente, che è partita da un erroneo presupposto interpretativo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Dall’ordinanza di rimessione si evince con chiarezza che la proposta conciliativa oggetto del rifiuto, asseritamente ingiustificato, da parte del lavoratore appellante – rifiuto che ne aveva determinato, nel giudizio di primo grado, la condanna al pagamento delle spese processuali – non era stata formulata dall’altra parte, bensì dal giudice, e quindi, come già sopra rilevato, non trovava applicazione la regola, di carattere eccezionale, contenuta nella disposizione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La giurisprudenza, come in precedenza ricordato, ha infatti chiarito che non si tratta della proposta conciliativa del giudice (Cass., sez. un. civ., n. 21109 del 2017). Il tenore testuale della disposizione censurata, che fa riferimento all’evenienza in cui la domanda sia accolta «in misura non superiore» all’eventuale proposta conciliativa, mostra che è preso in considerazione segnatamente il rifiuto dell’attore e che la proposta è quindi quella del convenuto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>E, anche ove il giudice rimettente avesse in ipotesi ritenuto che la proposta fosse stata formulata, nel caso di specie, (anche) dalla parte convenuta, per aver quest’ultima aderito alla proposta conciliativa del giudice, potrebbe comunque non venire in rilievo l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. ove ritenuto non applicabile nel processo del lavoro.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tale disposizione si risolve in una “sanzione” per la parte che agisce in giudizio ed è quindi di dubbia compatibilità – ciò di cui non ha tenuto conto la Corte rimettente – con un processo, come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore per il lavoratore, per lo più parte ricorrente, volte a tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il profilo economico. Essa, infatti, elevando il rischio della lite per l’attore, e quindi per il lavoratore, parte ricorrente, finirebbe – piuttosto che favorire quest’ultimo – per indurlo a non insistere nel chiedere integralmente quanto dedotto nella domanda a causa del rischio dei costi che sarebbe tenuto a sopportare qualora, accolta parzialmente la domanda, l’esito della controversia fosse meno favorevole (o equivalente) al contenuto della proposta proveniente dall’altra parte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Comunque, nel processo del lavoro è previsto, per entrambe le parti, il rifiuto senza giustificato motivo della proposta conciliativa proveniente dal giudice (art. 420 cod. proc. civ.); rifiuto che trova un’autonoma e completa regolamentazione, nella previsione, come già sopra evidenziato, della possibilità per il giudice di valutarlo ai fini della regolamentazione delle spese processuali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.– Invece le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. – pur ammissibili, avendo il giudice rimettente motivato puntualmente la loro rilevanza e non manifesta infondatezza – non sono fondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Invero l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., a differenza dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., consente al giudice, ove la proposta conciliativa o transattiva, formulata dallo stesso all’udienza di discussione, non sia stata accettata, di tenere conto in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai fini della sola regolamentazione delle spese, del rifiuto di tale proposta senza giustificato motivo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tale facoltà, peraltro, non si traduce nel potere del giudice di condannare alle spese la parte che sia risultata parzialmente vittoriosa (pur in misura equivalente o inferiore all’importo oggetto della proposta non accettata), essendo invalicabile, in difetto di un’espressa previsione normativa in senso contrario, il principio generale della soccombenza (ex multis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 22 ottobre 2020, n. 23044; sezione terza civile, ordinanza 24 ottobre 2018, n. 26918), salva l’ipotesi dell’abuso del processo sub specie di violazione del dovere di lealtà e di probità (art. 88 cod. proc. civ.), che qui non viene in rilievo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ne deriva che il potere del giudice del lavoro di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all’udienza di discussione ai fini della statuizione sulle spese di lite non si traduce altro che nella possibilità di compensarle legittimamente, in tutto o in parte, anche ove non ricorrano i presupposti di cui all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Peraltro, ciò avviene senza alcuna forma di automatismo, diversamente dall’ipotesi contemplata dall’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., in quanto il giudice ha solo la facoltà, e non già l’obbligo, di considerare tale condotta ai fini della decisione sul riparto delle spese processuali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. non viola, quindi, gli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU e all’art. 47 CDFUE), in quanto non pone un ostacolo al lavoratore, pur parte “debole” del rapporto, all’accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale, limitandosi ad ampliare il novero delle ipotesi nelle quali il giudice, motivatamente, può compensare, a fronte di una condotta comunque ingiustificata della parte, le spese di lite.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In effetti, come più volte affermato da questa Corte, sebbene il principio victus victori, espresso dalla prima parte dell’art. 91 cod. proc. civ., costituisca un completamento del diritto di azione in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., laddove evita che le spese del giudizio vengano poste a carico della parte che ha ragione, tuttavia siffatto principio, pur di carattere generale, non è assoluto ed inderogabile (sentenza n. 77 del 2018), rientrando nella discrezionalità del legislatore la possibilità di modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite (sentenza n. 196 del 1982).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ed infatti, proprio nella conformazione degli istituti processuali, nella quale rientra la disciplina delle spese del processo, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 58 e n. 47 del 2020; n. 271 e n. 97 del 2019; n. 225, n. 77 e n. 45 del 2018; ordinanza n. 3 del 2020); limite che nella fattispecie in esame può dirsi rispettato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.– Né parimenti sono fondate le questioni che attengono alla violazione degli artt. 4, 35 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo rispetto all’art. 21 CDFUE, poiché la possibilità del giudice di vagliare in modo simmetrico la condotta di entrambe le parti in causa, e non del solo lavoratore, per la statuizione sulle spese di lite – in vista di un’eventuale compensazione e non già di una condanna alle stesse esclusivamente della parte vittoriosa – rispetto all’ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa, esclude ogni forma di potenziale discriminazione in danno del lavoratore.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Invero, come di recente sottolineato da questa Corte, la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale espresso dal secondo comma dell’art. 111 Cost., e ciò vieppiù tenendo conto della circostanza che la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte «debole» trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (sentenza n. 77 del 2018).</em></p> <strong><em>Emilio Barile La Raia</em></strong>