Corte Costituzionale, sentenza 26 marzo 2020 n. 57
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.− In via preliminare, va rilevata l’inammissibilità degli ulteriori profili di censura sollevati dalla parte privata, ricorrente nel giudizio a quo e costituitasi nel presente giudizio incidentale, che ha prospettato la lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217, in riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, e 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia.
Si tratta, infatti, di censure tese ad allargare il thema decidendum, e che non possono essere prese in considerazione (da ultimo, sentenze n. 27 del 2019, n. 14 del 2018, n. 29 del 2017 e n. 96 del 2016).
Sono altresì inammissibili le eccezioni di inammissibilità delle questioni sollevate dalla difesa dello Stato, in quanto non sussistono le dedotte carenze dell’ordinanza di rimessione.
3.− Ai fini dell’esame del merito, va premesso che la normativa in questione incide su un contesto ampiamente noto e studiato (e di cui il giudice a quo è perfettamente consapevole), caratterizzato dalla costante e crescente capacità di penetrazione della criminalità organizzata nell’economia.
3.1.− La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87), nella relazione conclusiva del 7 febbraio 2018, ha rilevato che sono vulnerabili anche i mercati privati e in particolare i «settori connotati da elevato numero di piccole imprese, basso sviluppo tecnologico, lavoro non qualificato e basso livello di sindacalizzazione, dove il ricorso a pratiche non propriamente conformi con la legalità formale diviene prassi diffusa» (pag. 22).
Soggiunge la Commissione che «[q]ui le mafie possono offrire diversi tipi di servizi alle imprese, come la protezione, l’elusione della libera concorrenza, il contenimento del conflitto con i lavoratori, l’immissione di liquidità. Tuttavia, nei mercati privati è possibile ravvisare anche le forme più evidenti di imprenditoria mafiosa, quando sono gli stessi boss, famiglie o affiliati ad assumere in vario modo il controllo delle imprese, investendo in attività legali i capitali ricavati da estorsioni e traffici illeciti. Le imprese mafiose rivelano un’elevata capacità di realizzare profitti proprio per la possibilità di avvalersi di mezzi preclusi alle imprese lecite nella regolamentazione della concorrenza, nella gestione della forza lavoro, nei rapporti con lo Stato, nella disponibilità di risorse finanziarie» (pag. 22).
3.2.− Il fenomeno mafioso è stato poi oggetto − specie negli ultimi tempi – di una ricca e sistematica giurisprudenza amministrativa, su cui si è a lungo soffermata la relazione sull’attività della Giustizia amministrativa del Presidente del Consiglio di Stato per l’anno giudiziario 2020 (parte allegata, paragrafo “Attività giurisdizionale”, punto 5.1.).
Ne emerge un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo − per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana.
Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché – si desume sempre dalla giurisprudenza citata nella relazione – esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse.
4.− È alla luce di questi dati che va valutata la scelta di affidare all’autorità amministrativa questa misura, che pure si caratterizza per la sua particolare gravità.
Quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento.
È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento in questione, al quale, infatti, viene riconosciuta dalla giurisprudenza natura «cautelare e preventiva» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa.
4.1.− Deriva dalla natura stessa dell’informazione antimafia che essa risulti fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari.
Si afferma infatti nella giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 30 gennaio 2019, n. 758 e 3 aprile 2019, n. 2211), che l’atto implica una valutazione tecnico-discrezionale dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa, e se, da una parte, deve considerare una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: quali i cosiddetti delitti spia), altri, a condotta libera, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può» desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (citato art. 91, comma 6).
5.− Tutto ciò, peraltro, non comporta che nella specie si debba ritenere violato il principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa.
5.1.− Al riguardo, la stessa giurisprudenza ha anzitutto precisato (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 9 febbraio 2017, n. 565, punto 12) che «l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale […], richiedano alla prefettura una attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa».
Tale quadro deve emergere, poi, da una motivazione accurata che nella specie assume una rilevanza affatto particolare (sentenza prima citata) come ha affermato anche questa Corte in un caso affine (sentenza n. 103 del 1993, che ha preso in esame la disciplina dei provvedimenti di scioglimento di consigli comunali e provinciali allorché emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata, o su forme di condizionamento).
5.2.− Infine, queste complesse valutazioni che – come si è rilevato – sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica, sono soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo.
Di fatto è questa la portata delle numerose sentenze amministrative che si sono occupate dell’istituto. Esse non si limitano ad un controllo “estrinseco” (così ancora una volta la relazione citata) e, pur dando il giusto rilievo alla motivazione, procedono ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza.
5.3.− Il risultato di questo impegno è la individuazione di un nucleo consolidato (sin dalla sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 3 maggio 2016, n. 1743, come ricorda la sentenza della terza sezione, 5 settembre 2019, n. 6105) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.
Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Si tratta di puntualizzazioni di cui va apprezzata la rilevanza alla luce di quella giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 24 del 2019) che, anche se relativa a fattispecie diversa, ha valorizzato l’apporto fornito da una giurisprudenza costante e uniforme, al fine di delimitare l’applicazione di disposizioni legislative incidenti su diritti costituzionalmente protetti, pure caratterizzate da una certa genericità.
6.− Il dato normativo, arricchito dell’articolato quadro giurisprudenziale, esclude, dunque, la fondatezza dei dubbi di costituzionalità avanzati dal rimettente in ordine alla ammissibilità, in sé, del ricorso allo strumento amministrativo, e quindi alla legittimità della pur grave limitazione della libertà di impresa che ne deriva.
In particolare, quanto al profilo della ragionevolezza, la risposta amministrativa, non si può ritenere sproporzionata rispetto ai valori in gioco, la cui tutela impone di colpire in anticipo quel fenomeno mafioso, sulla cui gravità e persistenza – malgrado il costante e talvolta eroico impegno delle Forze dell’ordine e della magistratura penale – non è necessario soffermarsi ulteriormente.
In questa valutazione complessiva dell’istituto un ruolo particolarmente rilevante assume il carattere provvisorio della misura.
È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile.
7.− Quanto alle altre caratteristiche del provvedimento evidenziate dal rimettente, esse non sono tali da pregiudicarne la costituzionalità.
7.1.− Non anzitutto la sua efficacia immediata, che, all’evidenza, è connaturata ai provvedimenti amministrativi, e a cui comunque si può porre rimedio in sede giurisdizionale con una pressoché immediata sospensione nella fase cautelare.
7.2.− L’altro rilievo attiene alla impossibilità di esercitare in sede amministrativa i poteri previsti nel caso di adozione delle misure di prevenzione dall’art. 67, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, e cioè l’esclusione da parte del giudice delle decadenze e dei divieti previsti, nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.
La differenza, che in parte trova una compensazione nella temporaneità dell’informazione antimafia (ciò che valorizza ulteriormente l’importanza del riesame periodico cui sono chiamate le autorità prefettizie), merita indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore, ma non può essere oggetto di una pronuncia specifica poiché non è dedotta in modo autonomo (non vi è infatti alcun riferimento al caso concreto), e come argomento integrativo e secondario dell’illegittimità dell’informazione interdittiva non ha una incidenza determinante.
8.– Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevate dal Tribunale ordinario di Palermo, devono essere dichiarate non fondate in riferimento agli indicati parametri costituzionali.