<p style="text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 7 giugno 2019 n. 141 </strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non possono essere prese in esame le deduzioni intese a dimostrare che anche la norma incriminatrice del reclutamento ai fini dell’esercizio della prostituzione, di cui all’art. 3, primo comma, numero 4), prima parte, della legge n. 75 del 1958, è carente sul piano della tassatività e della determinatezza, l’ordinanza di rimessione palesandosi univoca nel limitare la censura di violazione dei principi di tassatività e determinatezza alla sola ipotesi del favoreggiamento, escludendo espressamente che analogo problema di costituzionalità si ponga in rapporto alla fattispecie del reclutamento (la cui descrizione normativa esigerebbe soltanto di “</em>attualizzare<em>” la nozione di «</em>reclutamento<em>», connessa storicamente alla volontà legislativa di eliminare lo sfruttamento della prostituzione esercitata nelle «</em>case chiuse<em>»). Vale, dunque, il principio, costantemente affermato dalla Corte, per cui l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice </em>a quo<em>, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (</em>ex plurimis<em>, sentenze n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018 e n. 29 del 2017).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo una ipotetica interpretazione adeguatrice, si dovrebbe ritenere che il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione restino, già ora, esenti da pena allorché la persona reclutata o favorita abbia liberamente scelto di prostituirsi. Ciò, o perché si tratterebbe di condotte non conformi alla fattispecie legale, ovvero, eventualmente, in ragione dell’operatività della scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 del codice penale). Entrambe le soluzioni ermeneutiche si pongono, tuttavia, in frontale contrasto con il diritto vivente. La giurisprudenza di legittimità non ha mai dubitato, infatti, che le incriminazioni in esame trovino applicazione a prescindere dall’atteggiamento psicologico della persona che si prostituisce e dal suo eventuale pieno consenso al compimento degli atti di meretricio (in questo senso, espressamente, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio 2018, n. 5768). Conclusione che appare, peraltro, in linea non soltanto con l’indifferenziato tenore letterale delle previsioni punitive, ma anche – come si avrà presto modo di verificare – con la logica stessa del modello di intervento adottato dalla legge n. 75 del 1958. Non si può, pertanto, rimproverare alla Corte rimettente di non essersi espressamente interrogata sulla praticabilità di alternative ermeneutiche, che risulterebbero chiaramente eccentriche rispetto al modo in cui le disposizioni censurate “</em>vivono<em>” da sessant’anni. Per costante giurisprudenza della Corte, infatti, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice </em>a quo<em>, se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una propria diversa esegesi, ha, alternativamente, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di «</em>diritto vivente<em>» e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (</em>ex plurimis<em>, sentenze n. 39 del 2018, n. 259 del 2017 e n. 200 del 2016; ordinanza n. 201 del 2015). Ciò, senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo in assenza di un contrario diritto vivente (tra le altre, sentenze n. 122 del 2017 e n. 11 del 2015): nell’ipotesi considerata, infatti, «</em>la norma vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o [della] Corte<em>» (tra le altre, sentenza n. 191 del 2016; in senso analogo, ordinanza n. 207 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il fenomeno della prostituzione – vocabolo che designa, in via di prima approssimazione, l’effettuazione di prestazioni sessuali verso corrispettivo, di norma in modo abituale e indiscriminato (senza, cioè, una previa limitazione a specifici partner) – rappresenta un tema fra i più problematici per il legislatore penale. Il problema non riguarda, ovviamente, la prostituzione “</em>forzata<em>” o la tratta a fini di sfruttamento sessuale: ipotesi nelle quali è l’esigenza di tutela della persona a reclamare in modo evidente e indiscutibile l’intervento punitivo; ma quando si tratti della prostituzione volontaria, l’analisi storico-comparatistica è quanto mai restia a esprimere delle costanti, offrendo, nei tempi e nei luoghi, una amplissima gamma di risposte differenziate circa l’</em>an<em> e il </em>quomodo<em> dell’impiego della sanzione penale. Al fondo della varietà di soluzioni normative, si colloca, peraltro, la preliminare opzione tra due visioni alternative. In base alla prima, la prostituzione andrebbe riguardata come una scelta attinente all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo, che dà luogo a un’attività economica legale. L’ordinamento dovrebbe, quindi, lasciare gli individui tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di regolare opportunamente l’esercizio dell’attività, onde far fronte ai “</em>pericoli<em>” in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte le attività economiche che comportino “</em>rischi consentiti<em>” dall’ordinamento (cosiddetto modello regolamentarista). Nella seconda prospettiva, per converso, la prostituzione costituirebbe un fenomeno da contrastare, anche penalmente, in ragione delle relative ricadute negative sul piano individuale e sociale. Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralità di versanti: quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello della dignità umana (intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo); quello della salute, individuale e collettiva (non soltanto in rapporto al pericolo di diffusione di malattie trasmissibili sessualmente, ma anche in relazione ai maggiori rischi di dipendenza da droga e alcol, nonché di traumi fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui è esposta la persona che si prostituisce); quello, infine, dell’ordine pubblico (tenuto conto delle attività illecite che frequentemente si associano alla prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di persone, il traffico di stupefacenti e il crimine organizzato); in quest’ottica, la prostituzione viene quindi collocata nell’ambito di una disciplina “</em>di sfavore<em>” variamente calibrata, secondo chi si decida di punire: entrambe le parti del mercimonio sessuale (persona dedita alla prostituzione e cliente: cosiddetto modello proibizionista, adottato, ad esempio, negli Stati Uniti, con alcune eccezioni); ovvero una sola di esse (la quale nelle soluzioni più recenti si identifica nel cliente: cosiddetto modello neo-proibizionista); ovvero, ancora, soltanto le cosiddette condotte parallele alla prostituzione, ossia i comportamenti dei terzi che entrano in relazione con questa, inducendo la persona a esercitare tale attività, ovvero favorendola o traendone utili (cosiddetto modello abolizionista).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La disciplina italiana in materia di prostituzione anteriore alla legge n. 75 del 1958 si ispirava al modello, di origine francese, del cosiddetto regolamentarismo classico (per distinguerlo dal regolamentarismo contemporaneo, di cui si dirà più avanti), basato sul sistema delle «</em>case di tolleranza<em>» (</em>maisons de tolérance<em>). L’idea di fondo ad esso sottesa è che la prostituzione rappresenti un “</em>male necessario<em>”, non eliminabile, ma suscettibile e meritevole di essere regolato a fini di tutela dell’ordine pubblico e della salute (idea riflessa anche nel riferimento alla «</em>tolleranza<em>», che compare nel </em>nomen<em> delle case di prostituzione). In questo modello, la prostituzione viene quindi concepita come un’attività sottoposta a controllo di polizia, subordinata al rilascio di un permesso alla singola prostituta e di una licenza per l’esercizio di gruppo, che deve avvenire in appositi edifici rispondenti a una serie di requisiti. Nel nostro ordinamento, la relativa regolamentazione – particolarmente rigida e capillare – era racchiusa nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190 e seguenti del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «</em>Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza<em>») e nel relativo regolamento (artt. 345 e seguenti del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante «</em>Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza<em>»). L’esercizio abituale della prostituzione era consentito solo nei locali dichiarati di meretricio dall’autorità di pubblica sicurezza, controllati dal punto di vista sanitario, aventi particolari caratteristiche (una sola uscita, persiane sempre chiuse), soggetti a specifici orari di apertura e sui quali lo Stato riscuoteva regolari imposte; fuori dalle case di prostituzione, l’attività poteva essere esercitata solo in sede non fissa, costituendo reato il meretricio in luogo chiuso non preventivamente autorizzato; le prostitute erano schedate in un apposito registro, munite di un libretto personale e sottoposte a visite mediche obbligatorie. In tale cornice, la tutela penale aveva un ambito sensibilmente più ristretto rispetto all’attuale. La materia era disciplinata nel Titolo XI del Libro II del codice penale, dedicato ai «</em>delitti contro la moralità pubblica e il buon costume<em>». Esclusa la punibilità della prostituzione in sé, nel codice Rocco esistevano ovviamente fattispecie incriminatrici contro la prostituzione forzata: ma le “</em>condotte parallele<em>” alla prostituzione volontaria – quali l’istigazione, il favoreggiamento e lo sfruttamento – costituivano reato solo in presenza di particolari condizioni, legate segnatamente, quanto alle prime due ipotesi (istigazione e favoreggiamento), alla qualità dei soggetti passivi (minorenni, persone in stato di infermità o deficienza psichica, stretti congiunti dell’autore del fatto: artt. 531 e 532 cod. pen.) e, quanto alla terza (sfruttamento), alla circostanza che fosse posto in essere un vero e proprio “</em>sistema di vita<em>” di tipo parassitario in danno della persona dedita alla prostituzione (così venendo ordinariamente inteso dalla giurisprudenza il concetto di farsi «</em>mantenere<em>» da una prostituta, evocato dall’art. 534 cod. pen.). Un simile regime si era rivelato, peraltro, largamente insoddisfacente: pur riconoscendo una parvenza di legittimità all’operato delle donne che si prostituivano, esso non si proponeva, in ultima analisi, di tutelarle. Dietro la patina di tolleranza, si celava, in effetti, una legislazione orientata alla “</em>ghettizzazione<em>”: confinate all’interno delle «</em>case chiuse<em>», schedate e sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori, le prostitute si trovavano costrette, di fatto, ad esercitare la loro attività in condizioni di avvilimento e degrado, nonché in situazione di sfruttamento e di sottomissione al tenutario della “</em>casa<em>”.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si era </em>medio tempore<em> fatto strada in ambito europeo un nuovo modello di disciplina della prostituzione, originato da un movimento sorto in Gran Bretagna: il cosiddetto abolizionismo. Il relativo postulato di partenza è che la prostituzione costituisca una attività lesiva della dignità delle persone che la esercitano, le quali non avrebbero verosimilmente operato una simile scelta in diverse e più favorevoli condizioni economiche e sociali. Lo Stato non dovrebbe, pertanto, regolare tale attività: meno che mai, poi, prevedendo misure, quali le case di prostituzione e gli obblighi di visita medica, che si risolvano, di fatto, in limitazioni della libertà personale del soggetto che si prostituisce. Nel lungo termine, la prostituzione andrebbe piuttosto eliminata. A questo risultato non si dovrebbe giungere, però, punendo la persona dedita alla prostituzione, perché in tal modo si finirebbe per colpire due volte quelle che sono in realtà vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L’obiettivo dovrebbe essere conseguito invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della prostituzione; dall’altro, reprimendo severamente le attività ad essa collegate – quali l’induzione, il lenocinio, lo sfruttamento o anche il semplice favoreggiamento (le “</em>condotte parallele<em>”) – così da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare. Idee, queste, che hanno trovato una significativa eco nella Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 1949 e aperta alla firma a Lake Success-New York il 21 marzo 1950, alla quale l’Italia ha aderito il 18 gennaio 1980, depositando il relativo strumento sulla base dell’autorizzazione rilasciata con legge 23 novembre 1966, n. 1173. Nel nostro Paese, l’adeguamento ai principi abolizionisti ha avuto luogo con la legge n. 75 del 1958 (cosiddetta legge Merlin, dal nome della proponente): legge il cui titolo recita significativamente «</em>Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui<em>». La riforma muta radicalmente la prospettiva del modello preesistente. Di là dalle motivazioni di ordine più propriamente etico e morale (delle quali pure i lavori parlamentari recano ampia traccia), si ritiene fondamentalmente, in linea con i ricordati principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la prostituzione trovi normalmente la propria matrice in una condizione di vulnerabilità, legata a cause individuali e sociali (quali «</em>la distruzione della vita di famiglia, l’insufficienza dell’educazione, il bisogno<em>», «</em>i rischi speciali inerenti a certe professioni<em>» o il «</em>quadro ambientale<em>» di moralità degradata). La persona che vende prestazioni sessuali è, dunque, potenzialmente una vittima e l’aggressore è la società nel suo complesso. Di qui la necessità che lo Stato si astenga dal rendersi compartecipe dell’“</em>industria del sesso<em>”: «</em>allo Stato, che ha gli stessi doveri verso tutti i cittadini, non è lecito di sacrificare una parte della popolazione, la più debole e la più miserabile, agli uomini che vogliono abusarne<em>» (in questi termini la relazione del senatore Boggiano Pico del 21 gennaio 1955 alla prima commissione permanente del Senato della Repubblica). Viene evocata – correlativamente – anche l’esigenza di salvaguardia della dignità umana (alla quale fa riferimento pure il preambolo della citata Convenzione delle Nazioni Unite). La pregressa disciplina della materia viene considerata contrastante, in specie, con i principi di «</em>pari dignità sociale<em>» e di promozione dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini in vista del «</em>pieno sviluppo della persona umana<em>» (art. 3 Cost.), con il limite del «</em>rispetto della persona umana<em>» nella previsione di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32 Cost.), nonché con i limiti della libertà e della dignità umana cui è soggetta l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) (in questo senso la relazione alla proposta di legge presentata dall’onorevole Tozzi Condivi alla Presidenza della Camera dei deputati il 6 aprile 1956, ove pure si ribadisce come le persone «</em>cadute nella prostituzione<em>» non lo siano «</em>quasi mai per loro decisa e libera volontà<em>», essendo «</em>invece trascinate a quella vita per condizioni di vita famigliare, sociale, affettiva<em>»). Nella medesima relazione, la nuova normativa viene presentata come un provvedimento che mira «</em>non a sopprimere la prostituzione ma soltanto a sopprimere la regolamentazione della prostituzione<em>», impedendo «</em>che nello Stato possa esistere una prostituzione autorizzata e regolamentata<em>» e che «</em>ci siano degli esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la miseria<em>». A questi fini, la legge vieta, quindi, l’esercizio di case di prostituzione e dispone la chiusura di quelle esistenti (artt. 1 e 2 della legge n. 75 del 1958). Fa espresso divieto, altresì, di qualsiasi forma di registrazione delle donne che esercitano la prostituzione, escludendo che le stesse possano essere obbligate a presentarsi periodicamente alle autorità di pubblica sicurezza o alle autorità sanitarie (art. 7). Prevede, al tempo stesso, misure di rieducazione e reinserimento sociale delle donne che escono dalle case di prostituzione (artt. 8 e 9). Sul piano penalistico, rimane ferma la non punibilità tanto del soggetto che si prostituisce – a meno che i relativi comportamenti integrino gli estremi della nuova contravvenzione di adescamento o invito al libertinaggio, di cui all’art. 5 della legge n. 75 del 1958 (contravvenzione poi depenalizzata dal decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «</em>Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205<em>») – quanto del cliente che si limiti a fruire della prestazione sessuale (la cui punibilità sarà poi prevista nella sola ipotesi della prostituzione minorile dall’art. 600-bis cod. pen., aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269, recante «</em>Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù<em>»). Le politiche abolizioniste rivelano, peraltro, chiaramente il loro obiettivo ultimo con la criminalizzazione “</em>a tappeto<em>” delle “</em>condotte parallele<em>” alla prostituzione. Quest’ultima è configurata, bensì, come un’attività in sé lecita: e però le si fa “</em>terra bruciata<em>” attorno, vietando, sotto minaccia di sanzione penale, qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano morale (in termini di induzione). Le disposizioni di cui agli artt. da 531 a 536 cod. pen. vengono sostituite, in questa chiave, da quelle dell’art. 3 della legge n. 75 del 1958, il quale, nei relativi otto numeri, reca un fitto e policromo elenco di condotte incriminate, tutte punite con l’energica pena della reclusione da due a sei anni, oltre la multa (attualmente da euro 258 a euro 10.329). Nella lista dei comportamenti incriminati figurano anche le due fattispecie che formano oggetto degli odierni quesiti di costituzionalità: il reclutamento di «</em>una persona al fine di farle esercitare la prostituzione<em>» (art. 3, primo comma, numero 4, prima parte) e il favoreggiamento, «</em>in qualsiasi modo<em>», della prostituzione altrui (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte). Per «</em>reclutamento<em>» si intende, in sostanza, l’ingaggio per l’esercizio della prostituzione: e ciò indipendentemente dal fatto che la persona ingaggiata sia già dedita a tale attività o fino a quel momento estranea ad essa. Al lume della corrente esegesi giurisprudenziale, il reclutamento si realizza, in specie, allorché l’agente si attivi al fine di collocare la persona nella disponibilità del soggetto che intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio. Per l’integrazione del reato è, quindi, sufficiente un’attività di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di esaudire le richieste di prestazioni sessuali dei clienti (</em>ex plurimis<em>, tra le più recenti, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 20 ottobre 2016-28 marzo 2017, n. 15217 e 12 novembre 2014-27 marzo 2015, n. 12999). Il favoreggiamento (previsto dal numero 8 in alternativa allo sfruttamento) rappresenta, a propria volta, una fattispecie residuale e “</em>di chiusura<em>”, finalizzata a reprimere tutti quei comportamenti atti a creare condizioni favorevoli per l’esercizio della prostituzione che sarebbero potuti sfuggire altrimenti all’incriminazione, stante la tecnica casistica utilizzata per descrivere le fattispecie di cui ai numeri precedenti. La lata formulazione della disposizione fa sì che essa si presti a reprimere le più svariate condotte che valgono a rendere più facile, comodo, sicuro o lucroso l’esercizio della prostituzione altrui.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’esperienza più recente ha visto emergere, in ambito europeo, ulteriori modelli di disciplina della prostituzione, ai quali non è inopportuno far cenno in questa sede, ai fini di una visione comparata del fenomeno. Essi muovono dal riscontro delle criticità manifestate dal modello abolizionista nel conseguimento degli obiettivi prefissi: essendosi rilevato che, se, per un verso, nei Paesi che lo hanno adottato la prostituzione non ha affatto registrato una significativa flessione; per un altro verso, esso avrebbe finito per perpetuare la condizione di debolezza sociale della persona che si prostituisce e per esporla a maggiori rischi, sul piano dell’incolumità personale e della salute. Le soluzioni per far fronte a tali criticità sono state, peraltro, ricercate in due direzioni contrapposte. Da un lato, si è infatti ritenuto che occorra superare le ambiguità dell’abolizionismo in direzione “</em>liberale<em>”, considerando, cioè, la prostituzione volontaria come un’attività economica lecita a tutti gli effetti, assimilabile alle altre fonti di guadagno e generatrice di ordinari diritti economici e sociali (nonché di doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano. L’attenzione del legislatore si dovrebbe focalizzare, in quest’ottica, essenzialmente sulle cosiddette procedure di riduzione del danno, intese a limitare le conseguenze negative che la vendita di prestazioni sessuali può comportare. Questo approccio è fondamentalmente alla base delle legislazioni “</em>neo-regolamentariste<em>”, di vario taglio, messe in campo a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo in Paesi quali l’Olanda, la Germania, l’Austria e la Svizzera. In senso diametralmente opposto, si addebita invece all’abolizionismo di “</em>non fare abbastanza<em>” per tutelare la persona che si prostituisce dalla condotta vessatoria degli altri soggetti, fra i quali rientrerebbe lo stesso cliente. Andrebbe perciò eretto un argine più robusto contro l’approfittamento di una condizione di vulnerabilità, che caratterizzerebbe le persone che si prostituiscono. È sulla scia di questo filone critico dell’“</em>abolizionismo<em>” che si sviluppano le recenti politiche “</em>neo-proibizioniste<em>” adottate da alcuni Paesi europei: politiche che hanno trovato, in certa misura, appoggio anche da parte delle istituzioni dell’Unione europea. In base ad esse, il legislatore penale dovrebbe intervenire per proteggere il soggetto debole (anche) da colui che, attraverso la “</em>domanda<em>” del servizio sessuale, ne alimenta lo sfruttamento: ossia il cliente. Nella versione più “</em>temperata<em>” di tale modello, il “</em>consumatore<em>” viene punito solo quando acquisti servizi sessuali da una persona che sia vittima di prostituzione forzata (è la soluzione adottata nel Regno Unito con il</em>Policing and Crime Act<em> del 2009). Una simile tecnica d’intervento trova eco nella direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente «</em>la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime<em>», la quale invita specificamente gli Stati membri a impegnarsi per ridurre la “</em>domanda<em>” che è alla base del traffico di esseri umani, anche valutando la possibilità di prevedere come reato l’utilizzo di servizi che sono oggetto di sfruttamento, qualora l’agente sia a conoscenza che la persona è vittima di tratta (art. 18, paragrafo 4). Nella versione più ricorrente e radicale, per converso, si sceglie di punire il cliente </em>sic et simpliciter<em>, ossia a prescindere dalle caratteristiche della persona che offre i servizi sessuali e dalla condizione di soggiogamento o di necessità in cui essa eventualmente si trovi. Si tratta del cosiddetto “</em>modello nordico<em>”, essendo stata una simile strategia adottata anzitutto dalla Svezia, sul finire degli anni ’90, e poi seguita da altri Paesi del Nord Europa, ai quali si è peraltro recentemente aggiunta anche la Francia. Il ricorso a un simile modello è visto, altresì, con favore nella Risoluzione del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014, su «</em>sfruttamento sessuale e prostituzione, e loro conseguenze per la parità di genere<em>» (2013/2103 – INI, punto 29).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>È di sicuro interesse rilevare come tanto le soluzioni legislative ispirate al modello “</em>abolizionista<em>”, quanto quelle ispirate al modello “</em>neo-proibizionista<em>” nella versione più radicale – che espande ulteriormente, tramite la punizione del cliente, il perimetro della “</em>terra bruciata<em>” attorno all’attività della persona dedita alla prostituzione – siano state ritenute costituzionalmente compatibili dai Tribunali costituzionali di altri Paesi europei, in relazione a censure in buona misura sovrapponibili a quelle oggi rimesse all’esame della Corte. Riguardo alle soluzioni del primo tipo, si è pronunciato segnatamente in tal senso il Tribunale costituzionale del Portogallo (Paese la cui legislazione rispecchia anch’essa il modello “</em>abolizionista<em>”), il quale, con la sentenza n. 641/2016 del 21 novembre 2016, ha negato che possa ritenersi costituzionalmente illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto lenocinio semplice (art. 169, comma 1, del codice penale portoghese, come novellato), costituito dal fatto di chi, «</em>professionalmente o comunque a fine di lucro, fomenta, favorisce o facilita l’esercizio della prostituzione da parte di altra persona<em>». Quanto al secondo modello, il Consiglio costituzionale francese ha parimente escluso, con la recente decisione n. 2018-761 QPC del 1° febbraio 2019, la denunciata incostituzionalità dell’art. 611-1 del codice penale francese, aggiunto dalla legge 13 aprile 2016, n. 2016-444, che sottopone a pena (pecuniaria) il cliente della persona che si prostituisce, a prescindere dal carattere forzato, o no, dell’attività di quest’ultima.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 2 Cost. impegna la Repubblica italiana a riconoscere e garantire i «</em>diritti inviolabili dell’uomo<em>», sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. La previsione si presenta strettamente connessa a quella del successivo art. 3, secondo comma, che, al fine di rendere effettivi tali diritti, impegna altresì la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono «</em>il pieno sviluppo della persona umana<em>». L’art. 2 Cost. collega, dunque, i diritti inviolabili al valore della persona e al principio di solidarietà. I diritti di libertà sono riconosciuti, cioè, dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona e tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali. Il costituzionalismo contemporaneo è, del resto, ispirato all’idea che l’ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali ma deve adoprarsi per il loro sviluppo. Di qui una concezione dell’individuo come persona cui spetta una “</em>libertà di<em>” e non soltanto una “</em>libertà da<em>”. È vero che con la sentenza n. 561 del 1987 la Corte ha ritenuto che il catalogo dei diritti inviolabili evocati dall’art. 2 Cost. includa la «</em>libertà sessuale<em>». Si è rilevato, infatti, che la sessualità rappresenta «</em>uno degli essenziali modi di espressione della persona umana<em>», con la conseguenza che «</em>il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire<em>». Ma l’affermazione è stata resa in rapporto a una fattispecie nella quale veniva in rilievo il profilo negativo di tale libertà, ossia il diritto ad opporsi a “</em>intrusioni<em>” altrui non volute nella propria sfera sessuale, e con riguardo alle pretese risarcitorie scaturenti dalla violazione di tale diritto. Si lamentava, infatti, nell’occasione, che la disciplina sul trattamento pensionistico di guerra escludesse la risarcibilità dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici. È indubbio, peraltro, che l’asserto dianzi riprodotto ben può ritenersi riferibile anche al profilo positivo della libertà in questione, il quale implica che ciascun individuo possa fare libero uso della sessualità come mezzo di esplicazione della propria personalità, s’intende, nel limite del rispetto dei diritti e delle libertà altrui.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se è il collegamento con lo sviluppo della persona a qualificare la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost., non è possibile ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile – il cui esercizio dovrebbe essere, a questa stregua, non solo non ostacolato, ma addirittura, all’occorrenza, agevolato dalla Repubblica – sulla base del mero rilievo che essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita. Non può essere certamente condiviso l’assunto del giudice rimettente, stando al quale la prostituzione volontaria rappresenterebbe una «</em>modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità (e del piacere ad essa connesso) verso o contro la dazione di diversa utilità<em>».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica. La sessualità dell’individuo non è altro, in questo caso, che un mezzo per conseguire un profitto: una “</em>prestazione di servizio<em>” inserita nel quadro di uno scambio sinallagmatico. E come «</em>prestazione di servizi retribuita<em>», rientrante nel novero delle «</em>attività economiche<em>» svolte in qualità di lavoro autonomo, la prostituzione è stata in effetti qualificata tanto dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri; quanto dalla Corte di cassazione, nelle pronunce – richiamate sia dal giudice </em>a quo<em>, sia dalle stesse parti costituite – che hanno ritenuto assoggettabili ad imposta i proventi di tale attività (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27 luglio 2016, n. 15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1° ottobre 2010, n. 20528). Ammesso pure che vi siano persone che considerano personalmente gratificante esercitare la prostituzione, questo non cambia la sostanza delle cose. Al riguardo, non gioverebbe obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: ragionando in questi termini, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire un diritto inviolabile della persona, nella misura in cui richiede l’esercizio di una qualche libertà costituzionalmente garantita. Lo stesso giudice </em>a quo<em> mostra, del resto, di essere consapevole di tutto ciò nel momento in cui evoca come parametro congiunto dello scrutinio di costituzionalità l’art. 41 Cost., in materia di libertà di iniziativa economica privata. I rilievi che precedono appaiono tanto più validi, d’altro canto, in rapporto a questioni di costituzionalità quali quelle odierne, nella cui cornice la tutela della persona che si prostituisce è solo indiretta, mirando l’incidente di costituzionalità a salvaguardare, in prima battuta – e soprattutto – i terzi che si intromettono nell’attività di tale persona o che cooperano con essa. Paradigmatico, in proposito, il modo in cui la Corte rimettente – pur nell’ambito della denuncia di violazione dell’art. 2 Cost. – configura la condotta di reclutamento ai fini dell’esercizio della prostituzione, osservando come la stessa si collochi all’interno del «</em>libero incontro sul mercato del sesso tra domanda e offerta<em>»: dunque, una attività di intermediazione pertinente a un contesto tipicamente “</em>commerciale<em>”. La questione è, in conclusione, infondata, essendo l’invocato art. 2 Cost. un parametro non conferente rispetto all’(intromissione di terzi nell’)esercizio dell’attività di prostituzione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In base all’art. 41, secondo comma, Cost. la libertà di iniziativa economica è tutelata a condizione che non comprometta altri valori che la Costituzione considera preminenti: essa non può, infatti, svolgersi «</em>in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana<em>». Nella specie, la compressione delle possibilità di sviluppo dell’attività di prostituzione che deriva dalle norme censurate è strumentale al perseguimento di obiettivi che involgono i valori ora indicati. Tali obiettivi si identificano segnatamente, anche alla luce delle ricordate indicazioni dei lavori preparatori della legge n. 75 del 1958, nella tutela dei diritti fondamentali delle persone vulnerabili e della dignità umana. È, in effetti, inconfutabile che, anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “</em>vendere sesso<em>” trova alla propria radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle relative opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “</em>scelta di vita<em>” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede. Né giova obiettare che, in tale prospettiva, la disciplina censurata si paleserebbe – nella relativa assolutezza – eccedente lo scopo, vietando ogni cooperazione anche con quelle persone che si prostituiscano per effetto di scelte pienamente libere e consapevoli: fenomenologia che, per quanto ridotta possa essere la relativa incidenza percentuale, meriterebbe, comunque sia, un trattamento differenziato. Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento </em>ex post<em> affidato alla giurisdizione penale. A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono – in ipotesi – per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo). Riguardo, poi, alla concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che, nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di «</em>dignità<em>» vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “</em>dignità soggettiva<em>”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore. È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente. Valutazioni tutte, quelle dianzi indicate, che spiegano e giustificano, dunque, sul piano costituzionale, la scelta del legislatore italiano – per nulla isolata, come si è visto, nel panorama internazionale – di inibire, con le norme denunciate, la possibilità che l’esercizio della prostituzione formi oggetto di attività imprenditoriale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il fatto stesso che il legislatore – in accordo con i postulati del modello abolizionista – identifichi nella persona che si prostituisce il “</em>soggetto debole<em>” del rapporto spiega, altresì, la scelta di non intervenire penalmente nei confronti di quest’ultima, ma solo nei confronti dei terzi che “</em>interagiscano<em>” con la prostituzione altrui. Come rilevato anche dal Tribunale costituzionale del Portogallo nella decisione in precedenza richiamata, non vi è alcuna insanabile contraddizione nella dissociazione del giudizio sulla condotta-base della prostituta da quello sulla condotta del terzo che ne agevola – o sfrutta o istiga – l’attività. Non si tratta di ipotesi isolata. Allo stesso modo, infatti, la Corte ha escluso che possa ritenersi censurabile sul piano costituzionale la disparità di trattamento tra il consumatore di sostanze stupefacenti e chi gli fornisce la sostanza: il primo resta immune da pena (incorrendo solo in sanzioni amministrative: art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante il «</em>Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza<em>»); il secondo va, invece, incontro a severe sanzioni criminali (art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990) (sentenza n. 296 del 1996). Giova sottolineare, per altro verso, che è ben vero che il vigente ordinamento non vieta, di per sé, l’offerta di sesso a pagamento, ma ciò non significa che essa si configuri come espressione di un diritto costituzionalmente tutelato. Significativo, in tal senso, è che il patto avente ad oggetto lo scambio tra prestazioni sessuali e utilità economica venga tradizionalmente configurato come contratto nullo per illiceità della causa, in quanto contrario ai </em>boni mores<em> (art. 1343 del codice civile), il cui unico effetto giuridicamente rilevante è la </em>soluti retentio<em>, vale a dire il diritto della persona che si prostituisce di trattenere le somme ricevute dal cliente (art. 2035 cod. civ.), senza, tuttavia, che ella possa agire giudizialmente nel caso di mancato pagamento spontaneo (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 17 gennaio 2001-5 marzo 2001, n. 9348; vedi, anche, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 27 luglio 2016, n. 15596). La circostanza che la giurisprudenza di legittimità consideri ormai tassabili i proventi della prostituzione è, poi, ben poco significativa. Attualmente, infatti, l’ordinamento tributario assoggetta, in via generale, a imposizione anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, amministrativo o penale, ove non sottoposti a sequestro o confisca penale (art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante «</em>Interventi correttivi di finanza pubblica<em>»). Anche per questo aspetto, dunque, non vi è nulla di contraddittorio fra l’assoggettamento a imposta dei proventi dell’attività di meretricio e il fatto che la legge, pur senza sanzionarla direttamente, adotti misure indirette, di carattere penale, intese ad arginare lo sviluppo dell’attività tassata, colpendo i terzi che vi cooperano. Nessun argomento a sostegno della denunciata violazione dell’art. 41 Cost. può essere ricavato, infine, dalla sentenza della Corte di giustizia 20 novembre 2011, causa C-268/99, Jany e altri, precedentemente richiamata. Essa ha qualificato, bensì, la prostituzione come attività economica svolta in qualità di lavoratore autonomo: ma ciò al solo fine di escludere che l’esercizio di tale attività possa essere considerato un comportamento abbastanza grave da legittimare restrizioni all’accesso o al soggiorno, nel territorio di uno Stato membro, di un cittadino di altro Stato membro, nel caso in cui il primo Stato (nella specie l’Olanda, Paese la cui legislazione è ispirata al modello “</em>regolamentarista<em>”) non abbia adottato misure repressive ove il medesimo comportamento sia posto in essere da un proprio cittadino.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nelle considerazioni dianzi svolte è insita l’infondatezza anche dell’ulteriore questione riferita al principio di necessaria offensività del reato. Per costante giurisprudenza della Corte, l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla “</em>meritevolezza<em>” e al “</em>bisogno di pena<em>” – dunque, sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenze n. 95 del 2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (</em>ex plurimis<em>, sentenze n. 95 del 2019, n. 273 e n. 47 del 2010; ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007; nonché, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016). Tali affermazioni appaiono tanto più valide in rapporto a un fenomeno come quello della prostituzione, il quale si presta a un’ampia varietà di differenti valutazioni e strategie d’intervento. Per quel che attiene, poi, più specificamente, alla limitazione della discrezionalità legislativa che deriva, comunque sia, dall’esigenza di rispetto del principio di offensività, la Corte ha da tempo chiarito come tale principio operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “</em>in astratto<em>”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “</em>in concreto<em>”) (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000). Quanto al primo versante, il principio di offensività “</em>in astratto<em>” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986). In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione possa ritenersi rispettato, occorrerà “</em>che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’<em>id quod plerumque accidit” (sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991) (sentenza n. 109 del 2016).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si registrano significative oscillazioni della giurisprudenza di legittimità in ordine all’individuazione del bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958. Per lungo tempo, essa ha infatti individuato l’oggetto della tutela – conformemente all’originaria impostazione del codice penale – nel buon costume e nella moralità pubblica (dunque, in un interesse “</em>metaindividuale<em>” e indisponibile). Nel 2004 tale indirizzo è stato oggetto di revisione, essendosi affermato, in alcune pronunce, che la legge in questione mirerebbe, in realtà, principalmente a salvaguardare la dignità e la libertà di determinazione della persona che si prostituisce (Corte di cassazione, sezione terza penale, 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n. 35776; abbina pariteticamente tale interesse individuale alla protezione della moralità pubblica e del buon costume, Corte di cassazione, sezione terza penale, 9 novembre 2004-21 gennaio 2005, n. 1716). Ed è proprio valorizzando il riferimento alla libera autodeterminazione della persona nella sfera sessuale, operato dal nuovo indirizzo giurisprudenziale (peraltro in combinazione alla dignità), che la Corte rimettente nega che le norme censurate possano ritenersi rispettose del principio di offensività: se la persona ha liberamente scelto di prostituirsi, chi l’aiuta a realizzare la sua scelta recherebbe un vantaggio, e non un danno, allo stesso interesse tutelato. Successivamente, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha conosciuto una ulteriore evoluzione. Secondo le più recenti pronunce in materia, infatti, il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958 non sarebbe né la morale pubblica, né la libera autodeterminazione sessuale della persona che esercita il meretricio, la quale, se fosse conculcata contro la relativa volontà, darebbe luogo a ben diversi reati. La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto sulla dignità della persona esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non potrebbe costituire materia di contrattazioni (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio 2018, n. 5768). Questa nuova correzione di rotta è criticata – nel caso di specie - dalle parti costituite, le quali ravvisano in essa un mero espediente per evitare di dover riconoscere l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate. Il richiamo al concetto di dignità – che nella cornice del più recente orientamento assume chiaramente una valenza oggettiva – maschererebbe, nella sostanza, una riesumazione della vecchia prospettiva della tutela della morale dominante: valore insuscettibile – in assunto – di assurgere a oggetto della tutela penale, ostandovi il principio di laicità dello Stato, che impedirebbe di assoggettare a pena determinate condotte solo perché considerate dai più eticamente scorrette. Al riguardo, è peraltro dirimente il rilievo che le incriminazioni oggetto dell’odierno scrutinio si rivelano, comunque sia, conciliabili con il principio di offensività “</em>in astratto<em>” ove riguardate nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta, nei termini già illustrati: ottica nella quale esse risultano rispettose dei canoni indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, appena sopra ricordati. Quanto precede non significa, peraltro – come appare evidente – che l’incriminazione delle “</em>condotte parallele<em>” alla prostituzione rappresenti una soluzione costituzionalmente imposta e che il legislatore non possa, nella propria discrezionalità, decidere di fronteggiare i pericoli insiti nel fenomeno della prostituzione con una strategia diversa. Quella in esame rientra, semplicemente, nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione. In rapporto alla disciplina vigente, resta d’altra parte ferma, in ogni caso, l’operatività del principio di offensività nella relativa proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infondata è la questione con la quale si denuncia il difetto di determinatezza e tassatività della sola fattispecie del favoreggiamento. La Corte ha già avuto modo di dichiarare non fondata analoga questione, sollevata all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 75 del 1958, anche con riguardo alla fattispecie dello sfruttamento (sentenza n. 44 del 1964, ribadita dalla successiva ordinanza n. 98 del 1964). La conclusione va qui confermata. Per costante giurisprudenza della Corte, «</em>l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “<em>elastici</em>”, non comporta un <em>vulnus</em> del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo<em>» (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004). Nella specie, la descrizione del fatto incriminato, nella relativa “</em>asciuttezza<em>” – «</em>chiunque in qualsiasi modo favorisca<em> […] </em>la prostituzione altrui<em>» – fa perno, comunque sia, su un concetto, quale quello di favoreggiamento, di ampio e sperimentato uso nell’ambito del diritto penale, e che compare (sia pure senza l’inciso «</em>in qualsiasi modo<em>») anche in rapporto al delitto di prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.). Per questo verso, la disposizione incriminatrice non è affatto più indeterminata di quanto lo sia la generale disposizione sul concorso di persone nel reato (art. 110 cod. pen.), costruita anch’essa come clausola sintetica («[q]</em>uando più persone concorrono nel medesimo reato<em>»). Il favoreggiamento, del resto, non è altro che una forma di concorso materiale nella prostituzione altrui (pur con la particolarità che, per le ragioni già poste in evidenza, nell’occasione è punito solo il compartecipe e non l’autore del fatto). Contrariamente a quanto ritiene la Corte rimettente, nessun argomento a sostegno della tesi dell’indeterminatezza del precetto può essere ricavato dall’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della punibilità, la condotta di favoreggiamento deve essersi risolta in un aiuto alla prostituzione, e non già alla persona dedita ad essa (per tutte, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 4 febbraio 2014-17 febbraio 2014, n. 7338 e 22 maggio 2012-21 settembre 2012, n. 36595). L’affermazione è, infatti, sintonica al testo della norma censurata – il quale esige che la condotta incriminata favorisca l’attività, e non la persona che la esercita – e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera applicativa della figura criminosa. L’esistenza, poi, di dubbi o contrasti riguardo alla concreta applicazione del principio in rapporto a determinate fattispecie non vale, di per sé, a dimostrare il difetto di precisione del precetto, trattandosi di evenienza che rientra nella fisiologia dell’ermeneutica giudiziale. Cade, con ciò, anche la censura di violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni in assunto analoghe.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Bari.</em></p>