<strong>Massima</strong> <em> </em> <em>Tutti i soggetti giuridici, in quanto esistenti, sono “</em>enti<em>”: mentre tuttavia le persone fisiche sono certamente capaci di volontà consapevole, quelle “</em>giuridiche<em>” per lungo tempo ne sono state assunte incapaci, con conseguente sottrazione alla responsabilità penale puramente intesa; solo di recente il legislatore sembra aver superato questa scultorea convinzione configurando una responsabilità dell’”</em>ente<em>” diverso dalla persona fisica che si palesa, nondimeno, tutt’affatto ibrida e decisamente a metà strada tra la vera e propria responsabilità “</em>penale<em>” e la (più blanda) responsabilità “</em>amministrativa<em>”; la posizione è dunque </em>border line<em> e affiora vieppiù problematica stante </em>in primis<em> la relativa, possibile frizione coi principi costituzionali di più spiccata ascendenza penalistica, senza poter ad un tempo trascurare questioni più pratiche (ma non meno rilevanti) quali ad esempio quella della possibile costituzione di parte civile dei soggetti danneggiati dal “</em>reato<em>” direttamente nei confronti dell’”</em>ente<em>” (la cui responsabilità essendo stata affidata allo scandaglio del giudice penale).</em> <strong> </strong> <strong>Crono-articolo</strong> Non è certo risalga al diritto romano (trova, assai più plausibilmente, la sua genesi nel periodo medievale) il noto brocardo “<em>societas delinquere non potest”</em>, formula con cui in modo tradizionale viene esclusa la possibilità di configurare una “<em>responsabilità penale</em>” in capo agli enti, dotati o meno di personalità giuridica. E’ invece certamente attribuibile al diritto romano, stando alle relative fonti, l’uso del termine “<em>persona</em>” riferito esclusivamente all’uomo singolo e, dunque, alla persona fisica. Peraltro, anche quando a fatica inizia a farsi strada un embrionale concetto “<em>persona giuridica</em>” quale ente “<em>non persona fisica</em>” cui viene riconosciuta una certa capacità di diritto privato (come nel classico caso dei <em>municipia</em>), se ne esclude in ogni caso una responsabilità di tipo penale: nel IV libro del Digesto, Titolo III (<em>De dolo malo</em>) è contenuto un noto frammento di Ulpiano alla cui testuale stregua “<em>quid enim municipes dolo facere possunt?</em>” (D. 4.3.15.1), onde un <em>municipium</em> non può “<em>volere</em>” e - come tale - non può essere capace di dolo e di connesso “<em>reato</em>”. Successivamente in ambito germanico – sulla scorta della maturata consapevolezza in ordine alla esistenza di libere associazioni (seppure non distinte dai relativi membri: <em>Genossenschaften</em>, <em>Gilden</em>) – affiora anche in materia penale la “<em>responsabilità collettiva</em>”, diretto precipitato proprio della sostanziale identificazione tra associazioni e membri “<em>persone fisiche</em>”; tale rilievo della componente collettivistica con riguardo agli enti associativi si prolunga per buona parte dell’Alto Medioevo, con tentativi di collocazione sistematica da parte dei Glossatori e con progressiva, riconosciuta capacità delle c.d. “<em>universitates</em>” di commettere delitti secondo lo schema onde “<em>universitas delinquere potest</em>”: la punibilità delle <em>universitates</em> diviene principio dominante anche in seno al diritto canonico, con responsabilità penale riconoscibile in capo alle corporazioni, ai capitoli e alle congregazioni. Con l’avvento al soglio pontificio di Sinibaldo dei Fieschi (Papa Innocenzo IV, 1243-1254) trova poi affermazione la dottrina – dal medesimo elaborata in margine alla natura delle corporazioni - facente perno sul concetto di “<em>persona ficta</em>” (o “<em>persona repraesentata</em>”), ed è proprio dalla teoria della “<em>fictio</em>” in tema di persone giuridiche (in sostanza, per finzione la persona “giuridica” si considera come persona fisica, pur senza esserlo realmente) che trae origine e successiva linfa una diversa considerazione della responsabilità penale in capo agli enti collettivi, riassunta nella massima “<em>impossibile est quod universitas delinquat</em>” (proprio perché l’<em>universitas</em> non è una persona fisica vera, ma “<em>ficta</em>”), quand’anche l’accoglimento della teoria “<em>finzionistica</em>” non faccia ancora del tutto evaporare la convinzione che anche la persona “<em>giuridica</em>” possa delinquere ed essere punita, se è vero che nel diritto comune resta presente il principio del c.d. “<em>delitto corporativo</em>”. Nei secoli successivi, a partire dalla fine del XVI, anche il diritto colloca al centro delle proprie speculazioni l’uomo, attenuando via via, ed alfine sopendo, il dibattito sulla natura degli enti collettivi e della relativa responsabilità (anche penale) e contribuendo a vieppiù marcare, ad un tempo, un differenza ontologica – per l’appunto – tra “<em>uomo</em>” inteso come persona fisica e “<em>persona giuridica</em>”: ciò conduce ad una nuova formulazione (ad opera soprattutto di <em>Savigny</em>) - con importanti risvolti anche in ambito penale - della c.d. “<em>teoria della finzione</em>”, alla cui stregua i fatti che taluni assumono come “<em>delitti delle persone giuridiche</em>” non sono (e non possono essere) in realtà che delitti “<em>delle persone</em>” naturali, degli individui fisici che le governano, tanto che punire per un reato la persona giuridica “<em>sarebbe un andar contro a un principio fondamentale del diritto penale, quello dell’identità tra condannato e delinquente</em>”, dacché al delinquente persona fisica corrisponderebbe, irragionevolmente, un condannato persona “<em>giuridica</em>”. <strong>1889</strong> La codificazione liberale Zanardelli risente del percorso storico pregresso e – anche per non avere ancora punti di riferimento tecnici precisi in termini di persone giuridiche (le quali, anche nel codice civile del 1865, non figurano ancora come tali quanto piuttosto come “<em>corpi morali</em>”, sulla scorta proprio della teoria della finzione rielaborata da Savigny) – finisce col non prevedere una responsabilità penale degli enti, ma solo, per l’appunto, dei “<em>rei</em>” come persone fisiche. <strong>1930</strong> Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che continua ad escludere la responsabilità penale di soggetti diversi dalle persone fisiche – e, segnatamente, delle persone giuridiche - tuttavia con qualche importante novità. Alla stregua dell’art.197 proprio gli enti forniti di personalità giuridica (che fa dunque la sua comparsa nel lessico tecnico) - eccettuati lo Stato, le province ed i comuni (e dunque, nella sostanza, le persone giuridiche pubbliche, oltre agli enti di fatto sia pubblici che privati) - qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2534.html">rappresentanza</a>, o l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4551.html">amministrazione</a>, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell'interesse della persona giuridica, vengono dichiarati obbligati al pagamento, in caso di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4548.html">insolvibilità</a> del condannato, di una somma pari all'ammontare della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4312.html">multa</a> o dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/6032.html">ammenda</a> inflitta: la rubrica parla di obbligazione “<em>civile</em>” (pecuniaria e sussidiaria) delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende di chi, condannato, è in qualche modo legato ad esse o agli interessi che esse perseguono, configurando obblighi civili il cui oggetto è tuttavia mutuato da un parametro di tipo schiettamente penalistico (“<em>una somma pari a</em>…”), vale a dire la multa o l’ammenda inflitta alla persona fisica in sede appunto di condanna. Si tratta di una soluzione di compromesso che assorbe l’acceso dibattito tra chi in dottrina nega una responsabilità penale alle persone giuridiche – non potendosene riconoscere, in difetto di una volontà propria, la capacità rilevante per il diritto penale - e chi la ammette sulla scorta della configurabilità di una “<em>volontà sociale</em>” da assumersi “<em>autonoma e distinta da quelle degli individui componenti</em>”. Importante anche l’art.185 alla cui stregua ogni reato obbliga alle <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4532.html">restituzioni</a> a norma delle leggi civili e, laddove abbia cagionato un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4533.html">danno patrimoniale</a> o <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4534.html">non patrimoniale</a>, obbliga altresì al risarcimento di tale danno tanto (in via diretta) il colpevole quanto – in via indiretta - le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui, ivi compreso eventualmente l’ente di appartenenza. <strong>1948</strong> Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, è ciò è predicabile per una persona fisica, mentre solo in via astratta e mediata può esserlo con riguardo ad enti di natura collettiva che rappresentano la sintesi delle persone fisiche che li compendiano. Del resto la reclusione - quale pena tra le più gravi previste dal sistema (è ancora prevista, per i reati militari in tempo di guerra, financo la pena di morte) – è concepita per essere applicata a persone fisiche e non già ad enti. In sostanza, la non configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche pare trovare ulteriore, autorevole e definitiva conferma proprio dal testo costituzionale ed in particolare dall’art. 27, comma 1, della Carta che, col dichiarare la responsabilità penale “<em>personale</em>”, ne traduce il contenuto minimo in termini di “<em>responsabilità per fatto proprio</em>” e nel conseguente divieto di ogni forma di “<em>responsabilità penale per fatto altrui</em>”, la “<em>personalità</em>” della responsabilità penale finendo ineluttabilmente col saldarsi alla persona fisica in ragione delle relative potenzialità e qualità intellettive e volitive (quali componenti del dolo), sulla scorta del principio onde “<em>poena debet tenere suos auctores</em>", e non già ricadere su soggetti terzi. Altri principi importanti scolpiti nella Carta (che assumeranno nel prosieguo rilevanza <em>ratione materiae</em>) sono la presunzione di innocenza di cui all’art.27, comma 2, ed il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art.112. <strong>1981</strong> Il 24 novembre vien varata la nota legge n.689, recante significativamente “<em>modifiche al sistema penale</em>”, che all’art.116 innova l’art.197 c.p. annoverando tra le persone giuridiche pubbliche escluse dalla relativa area di applicazione anche le Regioni, non ancora istituite all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale nel 1930. Importante anche l’art.6 in tema di sanzioni amministrative (anche a seguito di depenalizzazione), onde se la violazione cui la sanzione è avvinta viene commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica o anche di un ente privo di personalità giuridica o, comunque, di un imprenditore, nell'esercizio delle proprie funzioni o incombenze, la persona giuridica o l'ente o l'imprenditore e' obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta. Si tratta di una solidarietà passiva che coinvolge non più solo le persone giuridiche, ma anche gli enti di fatto (senza personalità giuridica), seppure appunto limitatamente al pagamento di sanzioni amministrative e non anche penali “<em>pure</em>” come nel caso della multa e dell’ammenda di cui all’art.197 c.p. <strong>1988</strong> Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.74 l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5578.html">azione civile</a> per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-vii/art185.html">185</a> del codice penale può essere esercitata nel processo penale – giusta costituzione di parte civile - dal <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5509.html">soggetto al quale il reato ha recato danno</a> ovvero dai relativi successori universali, nei confronti dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5569.html">imputato</a> e del <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5588.html">responsabile civile</a>. Secondo il successivo art.83, comma 1, il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5588.html">responsabile civile</a> per il fatto dell'imputato può poi essere citato nel processo penale a richiesta della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5580.html">parte civile</a> e, nel caso previsto dall'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-penale/libro-primo/titolo-v/art77.html">77</a> comma 4 (assoluta urgenza sommata ad età minore o infermità mentale dell’imputato), a richiesta del PM. <strong>2000</strong> Il 29 settembre viene varata la legge n.300, recante ratifica ed esecuzione di taluni rilevanti Atti internazionali elaborati in base all'articolo K. 3 del Trattato dell'Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995; relativo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996; Protocollo concernente l'interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996; Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso Protocollo, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Il provvedimento reca anche la importantissima delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica. <strong>2001</strong> L’8 giugno viene varato il decreto legislativo n. 231 che, nell’attuare la delega contenuta nell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300, detta una (per molti versi) rivoluzionaria disciplina della responsabilità, definita amministrativa, delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, e dunque anche degli enti di fatto, affidandone l’accertamento al giudice penale: il noto brocardo “<em>societas delinquere non potest”</em>, viene ormai diversamente tradotto da autorevoli esponenti della dottrina penalistica nella opposta formula onde “<em>societas delinquere et puniri potest</em>”. La novità trae spunto, sul crinale sistematico, dalla incessante ricerca dottrinale di una teoria appagante capace di fondare la stessa categoria “<em>persona giuridica</em>”, come dimostra la Relazione alla decreto che espressamente richiama - collocandovela alla base – una fondamentale opzione ermeneutica sviluppata in ambito dottrinale tedesco, quella facente capo alla c.d. “<em>teoria organica</em>”: le persone giuridiche compendiano “<em>veri organismi naturali</em>” dotati di “<em>volontà propria</em>”, esattamente come le persone fisiche, potendosi allora – sulla scorta di un “<em>rapporto di immedesimazione organica</em>” - predicare una imputabilità all’ente non già solo degli atti leciti posti in essere (a relativo nome o nel relativo interesse) dai rappresentanti ovvero dagli amministratori, ma anche gli atti illeciti, onde appunto (come affermato da parte della dottrina italiana già negli anni ’70) “<em>societas delinquere potest</em>”. Anche sul crinale della Costituzione, alla interpretazione “<em>minimal</em>” dell’art.27, comma 1, alla cui stregua la responsabilità penale “<em>personale</em>” si risolve nella responsabilità per fatto proprio (<em>ex se</em> ostativa ad un coinvolgimento della persona giuridica con riguardo a fatti imputabili alle persone fisiche che la compendiano) si è via via giustapposta una interpretazione di tipo diverso proposta dalla più illuminata dottrina anche al cospetto di un fenomeno emergente e sempre più incalzante, definito “<em>patologia d’impresa</em>” o “<em>criminalità d’impresa</em>”, tale da giustificare il superamento per via interpretativa di un eventuale sbarramento costituzionale proprio rispetto ad un coinvolgimento degli enti in termini di responsabilità penale diretta. E’ la moderna elaborazione teorica della “<em>colpevolezza</em>” a consentire la svolta, come dimostra ancora una volta la Relazione al decreto legislativo, onde si è inteso con esso superare una concezione meramente psicologica della ridetta colpevolezza - come tale rigidamente improntata al legame per l’appunto psicologico tra fatto ed autore (e capace già in sé di escludere la possibile configurazione della responsabilità penale in capo ad un “<em>ente</em>”) - per abbracciare un’idea di colpevolezza intesa, in senso “<em>normativo</em>”, come rimproverabilità. Ed è rimproverabile, a fini di affermazione del giudizio di “<em>colpevolezza</em>” di cui all’art.27, comma 1, Cost. (responsabilità per fatto proprio colpevole perché “<em>rimproverabile</em>”), anche il fatto che sia scaturigine di una “<em>colpa d’organizzazione</em>”. Ciò senza che peraltro il legislatore delegato giunga a configurare in capo all’”<em>ente collettivo</em>” una responsabilità propriamente (ed <em>expressis verbis</em>) penale, come dimostra la cautela affiorante dalla stessa terminologia prescelta, laddove si parla di “<em>responsabilità amministrativa</em>” dell’ente, quale “<em>tertium genus</em>”, “<em>modello di illecito amministrativo “parapenale</em>”…che ibridamente “<em>coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo</em>”. Dal punto di vista soggettivo, il decreto dipinge una responsabilità degli enti che non può autenticamente definirsi oggettiva, dovendosi accertare da parte del giudice penale la presenza di una “<em>colpa di organizzazione</em>”, il che consente di predicare una certa qual compatibilità del decreto 231.01 con l’art.27, comma 1, della Costituzione in termini di responsabilità “<em>personale</em>”; diverso il discorso con riguardo al comma 2 dell’art.27 della Carta ed al principio presuntivo di innocenza (fino a condanna definitiva) in esso inscritto, stante come nel decreto sia previsto un meccanismo di inversione dell’onere della prova (rispetto al normale congegno onde è il PM a dover provare il fatto colpevole commesso dall’imputato) con riguardo alle fattispecie in cui il reato presupposto venga commesso da soggetti in posizione apicale (art.6) nell’ente della cui responsabilità si discute: proprio questa inversione dell’<em>onus probandi</em> cozza con l’art.27 comma 2 della Costituzione in tema di presunzione di innocenza e costituirà una freccia nell’arco di quella dottrina intesa ad interpretare la responsabilità dell’ente – in modo costituzionalmente orientato – come amministrativa (e non già penale), non potendosi neppure salvare la costituzionalità della norma (in ottica penalistica) ricostruendo la prova contraria a carico dell’ente come “<em>scusante</em>” dacché – come dimostra l’analoga vicenda di cui agli articoli 707 (possesso ingiustificato di chiavi alterate e di grimaldelli) e 708 c.p.(possesso ingiustificato di valori), laddove è l’imputato a dover provare la “<em>giustificatezza</em>” del possesso di determinate <em>res</em> – per la dottrina più garantista non vale a scongiurare l’incostituzionalità per violazione del canone della presunzione di innocenza (giusta inversione dell’onere probatorio) il fare formale ricorso a categorie e a figure (come appunto la scusante) che non possono nella sostanza escludere tale frizione. Altra porzione delicata del decreto 231.01 è quella tratteggiata agli articoli 28-33 in tema di modificazioni soggettive subite dall’ente colpito dalla sanzione: si tratta delle fattispecie di trasformazione (l’ente originario colpito dalla sanzione viene trasformato in un altro ente), della fusione (l’ente originario colpito dalla sanzione si fonde con un altro ente), della scissione (l’ente originario colpito dalla sanzione si scinde in due o più enti distinti) e della cessione di azienda (l’ente originario colpito dalla sanzione cede la propria azienda ad un altro ente). In queste fattispecie la possibile frizione con l’art.27, comma 1, della Costituzione sospingerà parte della dottrina ad abbracciare la tesi della natura “<em>amministrativa</em>”, e non già penale, della responsabilità degli enti di cui al decreto 231.01. Si tratta di una disciplina di contemperamento di opposte esigenze, giacché da un lato occorre scongiurare che l’ente “<em>a valle</em>” della modifica soggettiva sia coinvolto in responsabilità non proprie e che la relativa struttura organizzativa (e con essa la relativa immagine) venga macchiata da fatti illeciti in realtà ad esso non imputabili; dall’altro occorre invece evitare che venga eluso il regime di responsabilità degli enti, siccome dipinto dal decreto, attraverso la semplice creazione di un altro “<em>ente</em>” al quale la responsabilità in parola risulti intrasmissibile; in proposito, su di un piano generale il regime del trasferimento delle sanzioni di cui al decreto viene ricalcato su quello del trasferimento dei debiti dell’ente “<em>a monte</em>”, con dei correttivi per quanto concerne le (più gravi) sanzioni interdittive, che vengono considerate nello spettro del relativo, stretto vincolo con il ramo di attività nel cui contesto il reato presupposto è stato commesso, onde il riferimento per l’applicazione della sanzione – a valle della modifica soggettiva – non può che essere la struttura operativa alla cui “<em>colpa di organizzazione</em>” l’illecito è imputabile; i problemi maggiori riguardano in proposito, teoricamente, la fusione e la scissione, la semplice trasformazione non ponendo questioni di sorta: in ottica “<em>continuativa</em>”, resta ferma per l’ente “<em>a valle</em>” (trasformato) la responsabilità per i reati commessi da persone fisiche riconducibili all’ente “<em>a monte</em>” (fatto oggetto di trasformazione) – del quale il primo ha solo mutato la veste, senza veruna reale alterità soggettiva - prima della data in cui la trasformazione ha avuto effetto, e dunque a partire dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti dall’art.2500, comma 2, c.c. (per i reati commessi dopo, la responsabilità dell’ente trasformato è ovvia). Per quanto invece riguarda la fusione e la scissione, l’ente “<em>a valle</em>” colpito da sanzione interdittiva “<em>per derivazione</em>” può sempre chiedere la trasformazione di tale sanzione interdittiva in una sanzione di tipo pecuniario, laddove le modifiche soggettive (fusione o scissione) viaggino di pari passo con modifiche organizzative idonee a rimuovere le cause che avevano determinato o comunque resa possibile, per l’ente “<em>a monte</em>”, la commissione del fatto criminoso da parte della persona fisica in esso incardinata; si tratta di un correttivo che tuttavia, per parte della dottrina, non escluderà la frizione con l’art.27, comma 1, della Costituzione e del principio di personalità della responsabilità penale in esso inscritto. Proprio quando vede la luce il decreto 231.01 sta maturando tuttavia nella dottrina civilistica la nuova convinzione onde tanto la fusione quanto la scissione non facciano luogo sempre ed in ogni caso ad una successione “<em>mortis causa</em>” dell’ente “<em>a valle</em>” rispetto a quello “<em>a monte</em>”, con estinzione costante di quest’ultimo, sicché per quanto concerne la fusione societaria, non si sarebbe al cospetto di un nuovo contratto di società, quanto piuttosto della fusione dei due contratti relativi alle società che si fondono, con conseguente non configurabilità di alcun trasferimento della qualità di socio (ciascun socio conservando la qualità di parte del contratto originario, prima autonomo e poi fuso, e dunque dell’organizzazione unificata risultante) né di alcun trasferimento di beni, con semplice conservazione della relativa proprietà in capo alla società “<em>a valle</em>” della fusione; considerazioni analoghe (seppure inverse) valgono per la scissione societaria, onde “<em>a valle</em>” della scissione si ha solo una riorganizzazione della struttura societaria originaria, tanto la scissione quanto la fusione rappresentando null’altro se non strumenti per far fronte ad esigenze di tipo organizzativo dell’impresa, con configurabilità di una “<em>continuazione</em>” o comunque di una “<em>prosecuzione</em>” dell’impresa originaria assai più che una frattura tra vecchia e nuova struttura organizzativa. Tutte considerazioni che saranno capaci di attenuare, ma non già di escludere totalmente una possibile frizione tra la disciplina in parola e l’art.27, comma 1, della Costituzione in tema di responsabilità penale “<em>personale</em>” e di connesso divieto di responsabilità “<em>penale</em>” per fatto altrui, con conseguente, non intaccata convinzione in senso opposto da parte di chi – più garantista – continuerà ad assumere la natura amministrativa (e non già penale) di tale responsabilità. Altra freccia nell’arco della natura amministrativa (piuttosto che penale) della responsabilità degli enti di cui al decreto 231.01 viene rintracciata nell’art.58 del decreto stesso, laddove è prevista una archiviazione la cui decisione è riservata agli organi della Procura (se il PM decide di non procedere e dunque di archiviare emette decreto motivato e lo trasmette al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, che nei successivi 6 mesi può contestare all’ente le violazioni pertinenti), senza alcun intervento di tipo giurisdizionale (come invece è previsto agli articoli 408 e 409 c.p.p.) e dunque in contrasto con l’obbligatorietà dell’azione penale prevista all’art.112 della Costituzione. Sul crinale del processo agli enti, sono poi rilevanti gli articoli 34 (rubricato “<em>disposizioni processuali applicabili</em>”, alla cui stregua per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme del capo cui detto articolo appartiene e dunque le norme del decreto 231.01, rilevando solo in quanto compatibili le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) e 35 (rubricato “<em>estensione della disciplina relativa all'imputato</em>”, onde, all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, ancora una volta solo in quanto compatibili): si tratta di disposizioni che testimoniano come il processo (certamente penale) alle persone fisiche non coincide pienamente con il processo agli enti, con ricadute – per parte della dottrina - in termini di natura della responsabilità di questi ultimi. Da notare, sotto altro profilo, che la responsabilità dell’ente appare presupporre il reato commesso dalla persona fisica che vi appartiene, palesando ad un tempo una certa qual autonomia dallo stesso sulla scorta dell’art.8 del decreto 231.01 alla cui stregua, tanto nel caso in cui il reato (della persona fisica) si estingua per una causa diversa dall’amnistia quanto in quello in cui il reo (persona fisica) non sia stato identificato ovvero, identificato, non sia imputabile, tale responsabilità dell’ente permane in ogni caso. <strong>2003</strong> Il 17 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6 di riforma del diritto societario, che inserisce nel codice civile, tra gli altri, il nuovo articolo 2504.bis, alla stregua del cui comma 1 la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, “<em>proseguendo</em>” in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. Si tratta di una ulteriore freccia, di tipo normativo, nell’arco di chi in ambito civilistico assume la fusione e l’incorporazione societaria configurare fenomeni di mera “<em>prosecuzione</em>”, senza soluzione di continuità reale, tra gli enti a monte e quelli a valle. Le ricadute sistematiche sul piano della responsabilità degli enti sono nel senso di assumere maggiormente compatibile con l’art.27, comma 1, della Costituzione il regime di cui agli articoli 28 e seguenti del decreto 231.01 in tema di modifiche soggettive degli enti colpiti da sanzione, con conseguente, più accreditata possibilità di annoverare la pertinente responsabilità come penale (senza tuttavia mai sopire le più garantiste voci in senso “<em>amministrativo</em>” opposto). Il 30 maggio esce l’ordinanza del GUP di Roma che si occupa per la prima volta della questione se il decreto legislativo 231.01 sia applicabile anche ad un’impresa individuale, negando recisamente tale eventualità. Per il Giudice già la portata letterale delle norme del decreto esclude che la pertinente disciplina possa applicarsi all'imprenditore individuale, atteso che essa – sul crinale soggettivo - si applica ad enti, società o associazioni, forniti o meno di personalità giuridica, l'imprenditore individuale non potendo in alcun modo ricondursi al concetto di ente o a quello di associazione o società. Neppure una lettura estensiva della norma, prosegue il Giudice, può consentire di far rientrare nei citati concetti la figura dell'imprenditore individuale; in ogni caso - atteso anche come la natura giuridica del tipo di responsabilità in parola si palesi controversa (e anche ad ammettere che debba esserne esclusa una riconducibilità allo schema della responsabilità penale) - devono intendersi comunque non riconoscibili i presupposti perché l'impresa individuale possa essere ricompresa nella portata della pertinente disciplina in forza di interpretazione analogica, e ciò in quanto – si ricava agevolmente sia dalla lettura della disciplina stessa, sia dalla Relazione al Parlamento che la ha accompagnata - presupposto per la responsabilità in questione risulta essere quanto meno la possibilità di una distinzione soggettiva, e dunque di uno schermo giuridico, fra l'autore (materiale) del reato e il soggetto giuridico responsabile dell'illecito amministrativo, che se ne sia avvantaggiato; è possibile – continua il GUP - discutere della portata e della solidità dello schermo giuridico concretamente richiesto dalle norme del decreto (il legislatore parendo essersi orientato per l'applicabilità della disciplina anche a situazioni associative estremamente elementari, e dunque con modesta ed agile soggettività giuridica); e tuttavia la disciplina si muove imprescindibilmente sul perno di tale distinzione che, per quanto labile ed elementare, deve essere comunque configurabile, come conferma anche la dottrina che si occupa di ricercare l'ambito d'intensità soggettiva e la rilevanza dimensionale del soggetto destinatario della pertinente disciplina (con riguardo di volta in volta al tipo di associazione o di società, alla relativa dimensione, ecc.), senza tuttavia che mai tale ambito possa assumersi coincidere con quello della semplice impresa individuale. Per il GUP la stessa disciplina del procedimento applicativo, coordinata con quella sulla rappresentanza dell'ente, palesa come il presupposto logico (ancor prima di quello letterale) che appare imprescindibile per l'applicazione della “<em>responsabilità degli enti</em>” ai sensi del decreto 231.01 sia compendiato nella possibilità di tenere sufficientemente distinti i profili soggettivi dell'ente (alfine assunto “<em>amministrativamente</em>” responsabile) da quelli dell'autore del commesso reato, onde consentire all'ente di eventualmente modificare, ai fini della partecipazione al procedimento, il quadro della propria rappresentanza legale; nel caso dell’impresa individuale invece, l'unico modo di consentire all’imprenditore (individuale) responsabile del reato di partecipare al procedimento sarebbe quello di nominare un procuratore speciale, senza poter costituire, come è ovvio, l'organo sociale o associativo che ha la rappresentanza dell'ente o dell'associazione. Anche la portata dell'eventuale misura cautelare (richiesta nel caso di specie) sarebbe destinata ad incidere nello specifico ambito soggettivo già attinto dalla sanzione penale, finendo con il costituire una nuova e diversa misura sanzionatoria a carico del reo e, dunque, un sostanziale <em>bis in idem</em>. Per il GUP di Roma dunque il legislatore non ha proprio immaginato la possibilità che il reo ed il soggetto destinatario della disciplina di cui al decreto legislativo 231.01 potessero coincidere completamente (ed inevitabilmente), regolando piuttosto ipotesi sanzionatorie da porre a carico di soggetti che siano comunque distinti (o almeno sufficientemente distinguibili) da colui che ha commesso il reato e “<em>punendo</em>” anche questi ultimi attraverso la pertinente disciplina sul presupposto che si configuri un vantaggio proveniente dal reato a favore di tali ulteriori soggetti; nel caso della ditta individuale, e quindi dell'impresa individuale, si configura invece una piena ed indissolubile coincidenza fra i soggetti destinatari della disciplina penale e di quella “<em>amministrativa</em>” di cui al decreto 231.01, non potendo neppure essere individuata a carico della ditta o dell'impresa individuale una soggettività giuridica che, per quanto in modo elementare e non tale da assurgere alla personalità giuridica, si atteggi comunque ad autonoma e distinta rispetto a quella dell'imprenditore che ne è (<em>ex se</em>) titolare. <strong>2004</strong> Il 9 marzo esce il provvedimento del Tribunale di Milano (giudice Forleo) alla cui stregua deve assumersi inammissibile la costituzione di parte civile nel processo orientato all’accertamento della responsabilità di un ente, quantunque questo sia celebrato innanzi ad un giudice penale: gli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p. si riferiscono infatti specificamente (ed esclusivamente) al “<em>reato</em>” tecnicamente inteso, onde estendere all’illecito amministrativo la legittimazione – prevista per l’illecito penale – a spiccare azione civile in sede “<em>penale</em>” significherebbe allargare l’orbita giurisdizionale penale oltre i confini tracciati dalla legge, facendo luogo ad una estensione analogica <em>in malam partem</em> delle ridette norme, rispettivamente, sostanziale e processuale. Il 22 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.18941 che ribadisce la inapplicabilità della disciplina di cui al decreto 231.01 all’impresa individuale sulla scorta nella sostanza delle stesse argomentazioni già esplicitate dal GUP di Roma nel 2003, e facenti perno sulla necessaria (o comunque almeno possibile) distinzione soggettiva – quale “<em>schermo giuridico</em>” – tra l’autore del reato da mandare penalmente responsabile, da un parte, ed il soggetto giuridico che si sia avvantaggiato di tale reato, ed al quale è applicabile la sanzione amministrativa prevista dal ridetto decreto, dall’altra. Del resto gli stessi articoli 5 e 8 del decreto, nel prevedere che l’ente risponde laddove il reato sia stato commesso nel relativo interesse o vantaggio e nell’escludere invece la pertinente responsabilità allorché il reato sia stato commesso nell’interesse esclusivo della persona fisica cui esso sia penalmente addebitabile (ovvero di terzi), non fa che ribadire la imprescindibilità del contestuale configurarsi di due centri di imputazione diversi e sufficientemente distinti, uno facente capo alla persona fisica penalmente responsabile e l’altro all’impresa o all’ente che dello stesso fatto risponde in via amministrativa. La Corte si occupa anche di un problema giuridico diverso ed opposto, quello della responsabilità “<em>amministrativa</em>” della società “<em>capogruppo</em>” (c.d. <em>holding</em>) per fatti-reato commessi da un soggetto persona fisica che operi nell’ambito di una delle società del “<em>gruppo</em>”, società della quale la capogruppo detiene la totalità ovvero la maggioranza del pacchetto azionario, con conseguente potere di direzione e di coordinamento della società partecipata e dell’intero “<em>gruppo</em>”. Il problema in questi casi è scongiurare una applicazione troppo ampia (e, in sostanza, potenzialmente analogica) del decreto 231.01 ed in particolare del relativo art.5, laddove viene scolpito il concetto all’uopo rilevante di “<em>ente</em>”: se infatti è certo che il ridetto decreto si applica alla società cui “<em>appartiene</em>” la persona fisica che ha commesso il reato, ed a vantaggio o comunque nell’interesse della quale il reato stesso è stato commesso, assai meno certo è che possa invece applicarsi alla società capogruppo o <em>holding</em>. La Corte distingue in proposito 2 fattispecie: a) il caso in cui la capogruppo è, per l’appunto, a capo del “<em>gruppo</em>” con poteri di direzione e coordinamento di tutte le società che vi partecipano, incidendo dunque sulla produzione e sullo scambio riconducibili a ciascuna di esse: in questo caso, laddove un reato sia commesso nell’esercizio di attività di una delle controllate dalla “<em>capogruppo</em>”, esso ridonda a vantaggio dell’intero “<em>gruppo</em>”, risulta commesso nel relativo interesse e dunque impegna la responsabilità della “<em>capogruppo</em>” medesima, senza rimanere meramente circoscritto all’area di attività (di vantaggio e di interesse) di quella tra le compagini che compongono il gruppo cui l’autore materiale del reato appartiene; b) l’ipotesi (c.d. <em>holding</em> pura) in cui la “<em>capogruppo</em>” si limita ad amministrare le proprie partecipazioni azionarie detenute in relazione alle singole società del gruppo, da intendersi quali c.d. “<em>società operanti</em>”, le quali ultime sono le sole ad esercitare attività di produzione e scambio, con separata “<em>direzione</em>” gestionale del gruppo riservata alla <em>holding</em> e conseguente scissione – per l’appunto - tra direzione, da un lato, e produzione e scambio, dall’altro: in questa fattispecie risponde a livello amministrativo la sola compagine societaria del gruppo alla quale appartiene la persona fisica che ha commesso il reato, senza contestualmente impegnare la responsabilità della “<em>capogruppo</em>”. <strong>2005</strong> Il 19 novembre esce il provvedimento del Tribunale di Milano (giudice Ponti) alla cui stregua deve assumersi inammissibile la costituzione di parte civile nel processo innanzi al giudice penale orientato ad accertare la responsabilità di un ente, stante la natura eccezionale dell’art.74 c.p.p. con conseguente impossibilità di estensione analogica di quanto in esso previsto. <strong>2006</strong> Il 26 gennaio esce il provvedimento del Tribunale di Torino (giudice Salvatori) alla cui stregua deve assumersi ammissibile la costituzione di parte civile nel processo innanzi al giudice penale orientato ad accertare la responsabilità di un ente, potendosi tranquillamente applicare in via analogica l’art.185 c.p. (o comunque, non potendosi predicare il pertinente divieto di applicazione analogica) trattandosi di una disposizione che – pur prevista nel codice penale – ha natura civile e costituisce specificazione del disposto dell’art.2043 c.c. Il 30 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3615 che abbraccia, seppure in modo non del tutto lineare (ventilando anche il c.d. <em>tertium genus</em>), l’opzione ermeneutica intesa a ravvisare negli enti una responsabilità di tipo penale. In un caso di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art.640.bis c.p., in sede di indagini viene applicata la sanzione di cui all’art.13 del decreto 231.01 (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi e sussidi) con revoca della terza rata di un mutuo di scopo (finalizzato alla realizzazione di un impianto industriale in Sicilia per la produzione di frigoriferi), mutuo del quale una società è stata fatta destinataria, per essere intervenuto <em>medio tempore</em> proprio il decreto 231.01. Nello scandagliare la fattispecie, la Corte si sofferma sulla natura della responsabilità degli enti onde - stante come il decreto 231.01 sanzioni la persona giuridica in via autonoma e diretta, peraltro avvalendosi delle forme del processo penale - si è al cospetto di una sanzione appunto penale, dovendosi intendere ormai del tutto superato il noto motto “<em>societas delinquere non potest</em>”. In sostanza, al fine di scongiurare possibili frizioni con i principi della responsabilità per fatto proprio colpevole di cui all’art.27 Cost., il legislatore ha chiamato responsabilità “<em>amministrativa</em>” quella che invece è una vera e propria responsabilità penale: al di là di grossolane concezioni antropomorfiche, chiarisce la Corte, l’ente collettivo è il vero istigatore, esecutore, beneficiario della condotta criminosa materialmente commessa dalla persona fisica che in esso è inserita; e quand’anche la nuova responsabilità possa essere ricondotta ad un <em>tertium genus</em>, quale immediata scaturigine della “<em>ibridazione</em>” della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale, la sanzione a carico dell’ente postula <em>in primis</em> il presupposto indefettibile che un reato sia stato commesso e che ciò sia accaduto nell’interesse dell’ente, da parte di persone fisiche che all’ente appartengono: tale sanzione va dunque esclusa laddove il fatto criminoso sia commesso da persone fisiche che, pur appartenenti all’ente in parola, agiscano per un fine loro proprio ovvero per un fine di terzi, con condotte che vanno assunte estranee alla politica di impresa. Per la Corte si tratta dunque di una responsabilità penale e, al più, di un <em>tertium genus</em> ibrido, ma non già di responsabilità amministrativa pura. <strong>2008</strong> *Il 24 luglio esce il provvedimento del Tribunale di Torino (giudice Moroni) che ribadisce doversi assumersi inammissibile la costituzione di parte civile nel processo orientato all’accertamento della responsabilità di un ente, quantunque questo sia celebrato innanzi ad un giudice penale: gli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p. si riferiscono infatti specificamente (ed esclusivamente) al “<em>reato</em>” tecnicamente inteso, onde estendere all’illecito amministrativo la legittimazione – prevista per l’illecito penale – a spiccare azione civile in sede “<em>penale</em>” significherebbe allargare l’orbita giurisdizionale penale oltre i confini tracciati dalla legge, facendo luogo ad una estensione analogica <em>in malam partem</em> delle ridette norme, rispettivamente, sostanziale e processuale. <strong>2009</strong> Il 6 febbraio esce la sentenza della VI Sezione della Cassazione n.19764, che inquadra la responsabilità dell’ente nel quadro del concorso di persone nel reato. La Corte muove dalla criminalità di impresa, nel cui ambito sarebbe riconoscibile una responsabilità cumulativa dell’individuo e dell’ente collettivo, circostanza che troverebbe riscontro, dal punto di vista dogmatico, nello schema appunto del concorso di persone (fisiche e “<em>giuridiche</em>”) nel reato. Pur non potendosi per la Corte predicare una piena identificazione e/o sovrapposizione tecnica penalistica con il concorso di persone fisiche di cui all’art.110 e seguenti c.p., si può tuttavia parlare di equiparabilità tra le due figure dacché, realizzata un’unica condotta criminosa, ne scaturiscono una pluralità di responsabilità, con conseguente abbraccio della tesi “<em>penalistica</em>” della responsabilità dell’ente, al pari di quella della persona fisica con la quale “<em>concorre</em>”. Per la Corte, ancora più nel dettaglio, data la convergenza di responsabilità della persona fisica e di quella giuridica e avuto riguardo all'unicità del reato come "<em>fatto</em>" riferibile a entrambe, deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale, con la conseguenza che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei soggetti indagati (persone fisiche da un lato; ente societario, nel caso di specie, dall’altro) anche per l'intera entità del profitto accertato, con il limite, però, che il vincolo cautelare d'indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il valore del detto profitto e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità del reato non può che derivare l'unicità del profitto. La dottrina solleva tuttavia delle critiche a questa pronuncia; si osserva sul crinale oggettivo che l’art.6 non sembra prevedere l’accertamento di un nesso causale tra la condotta dell’ente e la realizzazione del reato, come invece imporrebbe la configurabilità in termini di concorso di persone (e di contributo causale da parte di ciascun compartecipe); sul versante soggettivo, i problemi maggiori concernono la possibilità di configurare un concorso tra il dolo della persona fisica e la colpa (di organizzazione) dell’ente, da un lato; e una cooperazione colposa tra ente e persona fisica (stante anche il difetto di adeguata consapevolezza in capo all’ente rispetto alla condotta materiale della persona fisica e alle regole cautelari che la astringono), dall’altro. Il 9 luglio esce l’ordinanza del GUP di Milano che assume ammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente in un processo – celebrato innanzi al giudice penale – orientato ad accertarne la responsabilità ai sensi del decreto 231.01. La responsabilità dell’ente ha infatti per il Giudice natura intrinsecamente penalistica, dovendo l’ente o la società essere considerati in tutto e per tutto autori dell’illecito sulla scorta del criterio di collegamento e di attribuzione individuato nelle pertinenti norme del decreto (articoli 5 e 6), onde essi devono essere assunti “<em>colpevoli</em>” come da terminologia di cui all’art.185 c.p., quali soggetti che (secondo l’approccio di cui all’art.2043 c.c.) hanno commesso il fatto doloso o colposo. Per il GUP meneghino il legislatore ha individuato nell’ente (fatto oggetto di processo in sede penale) un ulteriore centro di imputazione posto accanto alla persona fisica, con conseguente disegno di una responsabilità dell’ente medesimo da assumersi autonoma ed indipendente anche rispetto a quella della persona fisica che è autore materiale della condotta criminosa, forgiandosi un altro genere di responsabilità assistita dai presidi e dalle garanzie che disciplinano la responsabilità (penale) della persona fisica, giusta articolazione di criteri che consentono la riferibilità della condotta di reato all’ente, quale scaturigine di un rapporto di immedesimazione organica con i soggetti persone fisiche che siano autori materiali del reato contestato, la condotta venendo attribuita all’ente secondo criteri corrispondenti alla c.d. <em>suitas</em> di cui all’art.42 c.p., e dunque in termini di “<em>coscienza e volontarietà</em>” mutuate da quelle, omologhe, della persona fisica che ha materialmente posto in essere la condotta criminosa. <strong>2010</strong> Il 21 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.28699, alla cui stregua le società miste a compartecipazione pubblica e privata devono assumersi ricadenti nell’orbita precettiva del decreto 231.01, il cui art.1 esclude dalla propria sfera di applicazione lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri “<em>enti pubblici non economici</em>”: per la Corte la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria ma non ancora sufficiente per predicarne l’esclusione dall’area di applicabilità del decreto 231.01, palesandosi necessario l’ulteriore requisito del mancato svolgimento di una attività economica, onde laddove quest’ultima sia disimpegnata, un ente anche pubblico soggiace alla disciplina del decreto in parola, il che accade <em>naturaliter</em> allorché si sia al cospetto di una società di capitali (ancorché mista) che, proprio in quanto tale, esercita un’attività economica allo scopo – perseguito dai soci – di dividerne gli utili ai sensi dell’art.2247 c.c. (in disparte quale sia la finalità poi perseguita con i ridetti utili). Peraltro le società miste che gestiscono servizi pubblici locali non sono per la Corte neppure da assumere “<em>pubbliche</em>”, per essere state additate come private dalla giurisprudenza della Corte stessa, e in particolare dalle sentenze 4989 e 4990 del 1995 (caso Siena Parcheggi). Né potrebbe eccepirsi per la Corte – come pure ha fatto la difesa della società mista nel caso di specie – l’istituzionale tutela di valori di rango costituzionale affidata alla società mista (nel caso deciso, preposta alla gestione del servizio sanitario): in realtà si è al cospetto di mera attività di impresa, laddove l’esenzione prevista dall’art.1 del decreto 231.01 – concernente le “<em>funzioni di rilievo costituzionale</em>” – è orientata a scongiurare che, attraverso le misure cautelari e le sanzioni previste dal decreto stesso, vengano sospese funzioni indefettibili nell’ambito degli equilibri costituzionali: la tutela della salute è senz’altro un valore di rango costituzionale, ma non ha rango costituzionale nel caso di specie l’ente considerato, non trattandosi peraltro di un soggetto menzionato nella Costituzione e dovendosi altresì tenere conto che una s.p.a. persegue sempre un fine economico, collocandosi dunque al di fuori di un rilievo costituzionale puro e specifico (riconoscibile in ottica, all’evidenza, pubblicistica). Per la Corte peraltro, se si guarda all’ente e alla funzione che esso svolge, troppo spesso è possibile rintracciare valori di rilevanza costituzionale in qualche modo connessi a tale funzione, con conseguente aberrante esclusione dall’usbergo precettivo del decreto 231.01 di moltissimi enti (segnatamente, oltre a tutti quelli che operano nel settore sanitario, quelli operanti nei settori del risparmio, della tutela del patrimonio storico e artistico, della tutela dell’ambiente, dell’informazione, dell’igiene del lavoro, della sicurezza antinfortunistica e via dicendo). Non mancano in dottrina voci critiche a questa presa di posizione: il legislatore avrebbe piuttosto escluso <em>tout court</em> tutti gli enti pubblici di gestione di servizi pubblici locali, ivi comprese le società miste, dall’area applicativa del noto decreto, sol che si consideri come le sanzioni pecuniarie e soprattutto quelle interdittive possano avere come precipitato gravi “<em>disservizi</em>” (per l’appunto) a danno dei cittadini, sospingendo allora nel senso onde il decreto medesimo deve assumersi applicabile ai soli enti che svolgano una attività squisitamente economica (senza, nella sostanza, lambire l’interesse pubblico). <strong>2011</strong> Il 10 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.234 alla cui stregua l'attribuzione di funzioni di rilevanza costituzionale - quali sono quelle riconosciute agli Enti pubblici territoriali, come i Comuni - non può tralaticiamente essere riconosciuta anche a soggetti che hanno la struttura di una società per azioni, laddove la funzione di realizzare un utile economico è comunque un dato caratterizzante la pertinente costituzione, quand’anche si tratti di società “<em>miste</em>” alle quali un Comune partecipi (e/o delle quali promuova la costituzione). Una conclusione diversa condurrebbe per la Corte all'inaccettabile risultato di escludere dall'ambito di applicazione della disciplina del decreto 231.01 un numero pressoché illimitato di enti operanti non solo (come nel caso di specie) nel settore dello smaltimento dei rifiuti - e quindi con riguardo ad attività in cui viene in rilievo, come interesse diffuso, il diritto alla salute e all'ambiente - ma anche in settori in cui è di volta in volta significativo il diritto all'informazione, quello alla sicurezza antinfortunistica, quello all'igiene del lavoro, quello alla tutela del patrimonio storico e artistico, quello all'istruzione e alla ricerca scientifica e tutti gli altri casi in cui, in sostanza, vengono ad essere coinvolti (seppur indirettamente) dall'attività degli enti interessati i valori costituzionali di cui alla parte prima della Costituzione (viene richiamata esplicitamente Cass., sez. II, 9/7/2010, n. 28699). In conclusione, per la Corte possono assumersi esonerati dall'applicazione del decreto 231.01 soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici. Il 22 gennaio esce l’importante sentenza della sezione VI della Cassazione n.2251 alla cui stregua è inammissibile la costituzione di parte civile nel processo – celebrantesi in sede penale – orientato ad accertare l’eventuale responsabilità degli enti ai sensi del decreto 231.01. La Corte, pur al cospetto di un ampio dibattito in ordine alla natura (penale, amministrativa o da <em>tertium genus</em>) di tale responsabilità, ritiene potersi risolvere il problema della ammissibilità di una costituzione di parte civile in modo autonomo ed indipendente rispetto al ridetto dibattito, il quale ultimo potendo peraltro assumere un rilievo meramente nominalistico al cospetto di una questione giuridica – quella appunto della eventuale ammissibilità di una costituzione di parte civile nei confronti dell’ente – che va risolta facendo i conti con la disciplina positiva del processo che vede protagonista l’ente stesso, anche in ottica di compatibilità con la costituzione di parte civile prevista con riguardo agli imputati persone fisiche nel codice di procedura penale. In proposito, il legislatore non ha inserito nel decreto 231.01 alcun riferimento alla costituzione di parte civile, e ciò per la Corte non può assumersi quale frutto di una mera dimenticanza del legislatore stesso, quanto piuttosto quale scaturigine di una scelta consapevole con cui si è inteso intenzionalmente derogare alla disciplina codicistica prevista per le persone fisiche; in nessuna parte del decreto – né in quella dedicata ai soggetti del procedimento nei confronti degli enti, né in quella dedicata ad indagini preliminari ed udienza preliminare, né in quella concernente procedimenti speciali, sentenza e impugnazioni – si fa alcuna menzione della parte civile o della persona offesa come invece accade in sede di disciplina degli omologhi istituti in seno al codice di rito penale con riguardo al processo coinvolgente persone fisiche. Al contrario, si rinvengono nel decreto 231.01 indizi univoci nel senso della precisa volontà di escludere la parte civile dal pertinente processo coinvolgente gli enti: a) l’art.27, nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente, la assume limitata all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria ad esso eventualmente irrogata, senza fare alcun cenno alle obbligazioni civili che dall’illecito dovessero discendere; b) l’art.54, nel disciplinare il sequestro conservativo, non riproduce l’art.316 c.p.p. (che prevede tale misura cautelare reale a presidio non solo del pagamento della pena pecuniaria e delle spese del procedimento penale, nonché di ogni altra somma dovuta all’erario, ma anche – esplicitamente – delle obbligazioni civili derivanti da reato, con legittimazione della parte civile a richiederne l’applicazione), ma limita la funzione di tale sequestro al soddisfacimento della finalità di assicurare il pagamento da parte dell’ente della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario senza fare alcuna menzione né delle obbligazioni civili, né tampoco della parte civile, potendo richiedere il detto sequestro peraltro il solo PM; per la Corte dunque mentre nel codice di rito penale è la parte civile a poter chiedere il sequestro conservativo a garanzia delle obbligazioni civili nascenti da reato, nel processo che coinvolge gli enti è stata consapevolmente esclusa la possibilità per il sequestro conservativo (richiedibile dal solo PM) di garantire obbligazioni di natura civile. E’ ben vero – precisa la Corte – che gli articoli 34 e 35 del decreto richiamano le disposizioni del codice di procedura penale ed in particolare quelle processuali concernenti l’imputato, assumendole applicabili “<em>in quanto compatibili</em>” e dunque potenzialmente richiamando anche la disciplina della costituzione di parte civile, con possibile rilievo anche degli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p.; nondimeno occorre per la Corte distinguere l’illecito del quale risponde l’ente dai reati (presupposti) posti in essere dalle persone fisiche che ad esso appartengono (a relativo interesse o vantaggio). Per la Corte infatti il reato realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai relativi dipendenti, compendia solo uno degli elementi dai quali deriva l’illecito la cui responsabilità è imputabile all’ente, trovandosi al cospetto di una fattispecie complessa in cui il reato della persona fisica rappresenta il presupposto fondamentale che va posto accanto alla qualifica di detta persona fisica che lo commette e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver conseguito (per poterne concretamente predicare la responsabilità) dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato che vi appartiene; onde l’illecito imputabile all’ente, lungi dall’identificarsi con il reato commesso dalla persona fisica, si limita a presupporlo (seppure indefettibilmente), e poiché l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide appunto con il reato costituendo piuttosto qualcosa di diverso che quel reato addirittura ricomprende, non è possibile estendere l’operatività degli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p., i quali si riferiscono appunto al solo “<em>reato</em>” tecnicamente inteso, e ai danni “<em>cagionati da reato</em>” che ne derivano (l’art.74 c.p.p. richiama esplicitamente l’art.185 c.p., seguendo dunque le medesime sorti di inapplicabilità per il relativo concernere i soli “<em>reati</em>” in senso tecnico). Peraltro l’art.185 c.p., al comma 2, prevede che sia obbligato a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali determinati dal “<em>reato</em>”, in via diretta, il colpevole del reato medesimo, e solo in via indiretta le persone (anche “<em>giuridiche</em>”) che a norma del codice civile sono (eventualmente) tenute a rispondere del fatto commesso da tale colpevole. Peraltro, suggella la Corte, non pare configurabile un danno da illecito amministrativo dell’ente diverso ed ulteriore rispetto a quello derivante dal reato della persona fisica, onde la tutela della parte civile trova sufficiente garanzia nella possibilità di agire in sede penale nei confronti della persona fisica colpevole del reato, senza necessità di agire anche – direttamente (e fatta salva la responsabilità indiretta) – nei confronti dell’ente cui è imputabile l’illecito che detto reato presuppone (il che, secondo la dottrina di commento, lascerebbe affiorare una certa repulsione della Corte per la nota teoria del concorso di persone, fisica e “<em>giuridica</em>”, nel reato medesimo). Né potrebbe per la Corte assumersi quale danno derivante dall’illecito commesso dall’ente l’insieme delle ripercussioni negative che si producono sugli interessi dei soci, dei creditori o dei dipendenti dell’ente per effetto dell’applicazione delle sanzioni all’ente medesimo a valle della accertata responsabilità a relativo carico, la lesione dei diritti di tali soggetti (soci dell’ente, creditori dell’ente, dipendenti dell’ente) trovando la propria causa diretta non già nell’illecito medesimo, quanto piuttosto nelle conseguenti sanzioni (pecuniarie o interdittive) applicate all’ente in parola dopo averne accertato la responsabilità per tale illecito (che poi sono i pregiudizi previsti per soci e terzi incolpevoli dalla direttiva contenuta nell’art.11, lettera v, della legge delega, alfine rimasta inattuata). Il 9 febbraio esce l’ordinanza del GIP presso il Tribunale di Firenze che, nel sospendere il procedimento al relativo scandaglio, sottopone alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale se la normativa italiana in tema di responsabilità amministrativa degli enti/persone giuridiche di cui al Decreto Legislativo n. 231/2001 e successive modificazioni, nel non prevedere “<em>espressamente</em>” la possibilità che gli stessi siano chiamati a rispondere dei danni cagionati alle vittime dei reati nel processo penale, sia conforme alle norme comunitarie in materia di tutela della vittima dei reati nel processo penale, ed in particolare alle disposizioni della decisione quadro 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel processo penale, ad alla Direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato. In sostanza, il problema è quello di accertare se è conforme al diritto eurounitario la mancata previsione in Italia della possibilità di costituirsi parte civile direttamente nei confronti degli “<em>enti</em>” cui sia imputabile il reato commesso dalle persone fisiche che vi appartengono. Il 20 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15657 che torna ad occuparsi dell’applicabilità del decreto 231.01 e della responsabilità ivi prevista all’impresa individuale, questa volta ammettendola. Occorre per la Corte muovere da una interpretazione costituzionalmente orientata del decreto, dovendo scongiurarsi una irragionevole disparità di trattamento tra impresa individuale ed impresa organizzata in forma societaria, e ciò attraverso una considerazione dell’impresa individuale quale soggetto assimilabile ad un ente fornito di personalità giuridica. Per la Corte non può negarsi che l’impresa individuale possa essere assimilata ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi l’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività economica, sol che si badi al fatto che molte imprese individuali sovente ricorrono ad una organizzazione interna di tipo complesso nella cui orbita si prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa medesima per la soluzione di determinate problematiche, con possibilità che ne resti coinvolta la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, e che tuttavia operano nell’interesse suo e della sua azienda. Per la Corte ad opinare diversamente si correrebbe anche il rischio di un vuoto normativo capace di produrre gravi ricadute di tipo costituzionale - sul crinale della disparità di trattamento - tra coloro che ricorrono a forme (spesso, solo apparentemente) semplici di impresa, ai quali il decreto 231.01 non si applicherebbe, e coloro che invece ricorrono a strutture ben più complesse e articolate (quand’anche magari solo nella forma giuridica prescelta, di tipo societario), ai quali invece esso inesorabilmente si applicherebbe. L’art.1, comma 2, del decreto dovrebbe essere allora interpretato con portata soggettivamente ampia, anche perché è un testo che non fa alcun cenno alle imprese individuali, onde esse non possono assumersi <em>a priori</em> escluse dall’area precettiva del decreto, dovendo piuttosto intendersene implicitamente incluse. La dottrina contesta tuttavia questa nuova e più rigorosa presa di posizione della Corte, sia perché non risponde partitamente a tutte le argomentazioni di cui all’orientamento opposto, sia perché sembra far luogo ad una vietata applicazione analogica (assai più che una mera interpretazione estensiva) dell’art.1 del decreto 231.01. Il 20 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.24583 onde, allorché nell’ambito dell’operatività di una delle società del gruppo (<em>holding</em>) venga commesso un reato, il decreto 231.01 può a determinate condizioni assumersi applicabile anche alla capogruppo, laddove la persona fisica che materialmente commette il reato (o che concorre a commetterlo) agisca per conto della <em>holding</em>, così perseguendone l’interesse. Per la Corte occorre che sia stato commesso uno dei “<em>reati-presupposto</em>” previsti appunto dal decreto 231.01; non basta tuttavia un generico riferimento al “<em>gruppo</em>” per poter predicare la responsabilità della “<em>capogruppo</em>” laddove uno di detti reati sia commesso, occorrendo altresì che la persona fisica che materialmente commette il reato abbia un rapporto di tipo organizzativo-funzionale rispetto alla capogruppo; è poi imprescindibile per la Corte che il reato presupposto venga commesso dalla persona fisica agente nell’interesse o a vantaggio della capogruppo, da verificarsi non già in astratto, ma in concreto nel senso onde la capogruppo deve ricevere una utilità potenziale o effettiva dalla condotta del reo persona fisica, quand’anche non si tratti di un interesse o di un vantaggio schiettamente patrimoniale. <strong>2012</strong> Il 12 luglio esce la sentenza della II sezione della Corte di Giustizia UE, C-79/11, <em>Giovanardi</em>, che si occupa della ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti degli enti. La Corte muove dalla posizione proposta dall’Avvocato Generale nelle conclusioni depositate il precedente 15 maggio, secondo le quali lo Stato resta comunque libero di individuare i mezzi più idonei al raggiungimento del risultato di garantire un ristoro alle vittime del reato anche da parte degli enti, in Italia eventualmente raggiungibile valorizzando il meccanismo della citazione del responsabile civile ex art.83 c.p.p. (che tuttavia riguarda il processo celebrato nei confronti dell’imputato persona fisica, e non già quello celebrato invece direttamente nei confronti della persona giuridica ai sensi del decreto 231.01), purché tale meccanismo sia idoneo a garantire alla vittima il risarcimento del danno subito nell’ambito dello stesso procedimento penale, spettando tuttavia al giudice nazionale valutare tale effettiva idoneità. Secondo la Corte, che decide sul punto, un illecito “<em>amministrativo</em>” da reato come quello di cui alle origine delle imputazioni sulla base del decreto 231.01 deve assumersi come un “<em>reato distinto</em>” che non presenta un nesso causale diretto con i pregiudizi cagionati dal reato commesso da una persona fisica e di cui si chiede il risarcimento. Richiamando le posizioni sistematiche espresse dal giudice del rinvio, la Corte precisa come si sia al cospetto di una responsabilità (quella della persona giuridica) qualificata come “<em>amministrativa</em>”, “<em>indiretta</em>”, “<em>sussidiaria</em>”, come tale dunque distinta dalla responsabilità penale della persona fisica autrice del reato che ha causato direttamente i danni e a cui può essere richiesto il risarcimento nell’ambito del processo penale a relativo carico. La conseguenza per la Corte è che le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso da una persona giuridica, quale è quella imputata in base al regime instaurato dal decreto legislativo n.231/01, non possono essere considerate, ai fini dell’applicazione dell’art.9, paragrafo 1, della Decisione quadro 2001/220/GAI del 15 marzo 2001 (relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale), come le vittime di un reato che hanno diritto di ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento da parte di tale persona giuridica, onde l’art.9, paragrafo 1, di tale decisione quadro deve essere interpretato nel senso che non osta a (e che dunque è compatibile con) un sistema giuridico che preveda un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello italiano, laddove la vittima di un reato non può chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati da tale reato, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un (mero) illecito amministrativo “<em>da</em>” reato. In sostanza, proprio il fatto che nel procedimento di cui al decreto 231.01 si accerta una responsabilità amministrativa “<em>da reato</em>”, e non già una responsabilità penale pura, impedisce per la Corte di invocare le norme europee a tutela della vittima di un reato che abbia subito dei danni, in quanto tali danni nel caso di specie – se sono direttamente riconducibili al reato commesso dalla persona fisica (nel cui processo è in effetti possibile costituirsi parte civile) – non sono invece direttamente riconducibili ad un “<em>reato</em>” nel procedimento inteso ad accertare la responsabilità amministrativa dell’ente (che quel reato meramente presuppone). <strong>2013</strong> Il 9 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.20060 che sposa la tesi della natura amministrativa della responsabilità degli enti: si tratta di una responsabilità che presuppone la commissione di un reato, ma che è autonoma rispetto alla responsabilità penale “<em>personale</em>” della persona fisica, onde laddove quest’ultima vada assolta, la persona “<em>giuridica</em>” potrebbe comunque incorrere nella responsabilità di tipo, appunto, amministrativo. La Corte muove dall’art.8 del decreto 231.01 alla cui stregua la responsabilità dell’ente si configura anche quando l’autore materiale del reato non è stato identificato o non è imputabile: da tale disposizione si ritrae non già solo e tanto l’autonomia sostanziale delle due fattispecie (stante peraltro come l’illecito amministrativo presupponga quello penale) quanto piuttosto, ed in modo più significativo, l’autonomia delle rispettive condanne sul crinale processuale; in sostanza non è necessario individuare e sanzionare (penalmente) il responsabile (persona fisica) del reato per giungere a sanzionare l’ente cui esso appartiene, potendo la responsabilità penale presupposta (facente capo alla persona fisica) essere accertata solo <em>incidenter tantum</em>. La conferma di questa impostazione ermeneutica la Corte la ritrae anche dalla ratio “<em>soggettiva</em>” palesata dal legislatore ed intesa – nel ricorrere di tutte le condizioni di legge – a sanzionare in via amministrativa l’ente anche quando, per la complessità della relativa articolazione interna, pur in presenza della commissione di un reato non sia tuttavia possibile accertarne la responsabilità penale in capo ad un soggetto determinato. <strong>2016</strong> Il 29 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4064 che – in una fattispecie in tema di sequestro preventivo orientato alla confisca disposto con riguardo a beni di una società incorporante per fatti commessi da persone fisiche della società incorporata – dichiara di aderire ai principi di diritto affermati di recente dalla Sezioni Unite (sentenza n. 11170, del 25.9.2014, in continuità peraltro con quanto statuito dalle medesime Sezioni Unite nella sentenza n. 9 del 28/04/1999, B.), con riferimento al particolare istituto della confisca di beni prevista dall'art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001, trattandosi di principi che attengono in generale alla posizione del terzo estraneo al reato, titolare di diritti su beni soggetti a confisca. Ferma restando – come regola generale - la permanenza del vincolo (sequestro) nei confronti dell’ente scaturito dalla fusione (e dunque, nel caso di specie, nei confronti della società incorporante), per la Corte non può tuttavia ammettersi un generalizzato automatismo nell’applicare il principio di “<em>prosecuzione</em>” scolpito all’art.2504 bis c.c., dovendosi adeguatamente tutelare i diritti (in relazione ai quali le esigenze di repressione appaiono dunque recessive) di quei terzi di buona fede che non siano stati in alcun modo coinvolti nella commissione del reato dal quale ha preso scaturigine la sanzione, né si siano resi destinatari dei vantaggi dal medesimo reato conseguiti. Quando dunque la società incorporante è estranea al reato dal quale è derivato il profitto per quella incorporata, l’estensione “<em>in prosecuzione</em>” del vincolo reale (sequestro) può essere sterilizzata al cospetto di 2 requisiti specifici: 1) sul crinale oggettivo, occorre che nessun vantaggio sia derivato alla società incorporante dall’altrui attività criminosa (riconducibile alla incorporata); 2) sul versante soggettivo, il terzo deve essere “<em>in buona fede</em>”, non essendo a conoscenza – a fronte della situazione concreta e della diligenza in essa spendibile – del rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato. La Corte precisa che la buona fede nel diritto penale si atteggia tuttavia in modo diverso rispetto a quella civilistica di cui all’art.1147 c.c., onde i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela sono tali da escludere che il soggetto acquirente (o incorporante) - che vanti come tale un titolo sui beni da confiscare (o già confiscati) - sia giuridicamente da tutelare (in via automatica), incombendo sul terzo medesimo un onere di specifica allegazione dei fatti dai quali tale buona fede deriva in concreto. Il 17 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11442 che ritiene come gli articoli 28-33 del decreto 231.01 in tema di modifiche soggettive dell’ente colpito da sanzione non siano incostituzionali per eccesso di delega, la relativa questione di costituzionalità dovendosi assumere manifestamente infondata. Per la Corte rileva in primo luogo l’orientamento della Corte costituzionale alla cui stregua non deve assumersi significativa la (sola) irrintracciabilità nella legge delega di riferimenti specifici alle previsioni concretamente introdotte dal Governo, potendo queste ultime trovare giustificazione nel naturale rapporto di “<em>riempimento</em>” che lega la norma delegata a quella delegante, non potendosi assumere le funzioni del legislatore delegato limitate ad una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dalla legge delegante, con evidente snaturamento – prosegue la Corte – del ben diverso regime che la Costituzione ha inteso prefigurare. Per valutare l’eventuale eccesso di delega occorre allora, per la Corte, guardare alla <em>ratio</em> della legge di delegazione, il cui parametro non priva il Governo delegato di ogni discrezionalità, pur vincolandolo nei fini che costituiscono allora la stella polare nell’esercizio di tale discrezionalità. Proprio per questo gli articoli 28-33 del decreto non possono essere tacciati di eccesso di delega, palesandosi piuttosto coerenti con i criteri direttivi dettati da quest’ultima nel senso di prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, con conseguente (seppure solo implicita nella legge delega) necessità di scongiurare facili elusioni nell’applicazione delle sanzioni in parola (giusta all’uopo “<em>orientate</em>” modifiche soggettive impresse all’ente che ne risulti colpito). Il 9 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.52316, che torna sulla questione della responsabilità “<em>amministrativa</em>” ex decreto 231.01 nel caso di gruppi di società o di <em>holding</em>. Per la Corte, laddove il reato presupposto venga commesso da una persona fisica nell’esercizio dell’attività propria di una delle società del gruppo (o aggregazione di imprese), non può escludersi una possibilità di estensione della responsabilità (amministrativa) anche ad altre società del gruppo, e dunque tanto alla capogruppo quanto a società collegate a quella cui appartiene il reo persona fisica. Per la Corte occorre tuttavia scongiurare qualunque forma di responsabilità “<em>di posizione</em>”, ed all’uopo va verificato se all’interesse o al vantaggio della società cui appartiene il reo, quale persona fisica agente, si affianchi anche l’interesse o il vantaggio di un’altra società del gruppo; inoltre, una imputazione “<em>comune</em>” dell’illecito amministrativo presuppone che il soggetto agente rivesta la qualifica soggettiva necessaria di cui all’art.5 del decreto 231.01 con riguardo a tutte le società del gruppo delle quali si predichi la responsabilità “<em>amministrativa</em>”. Infine, per la Corte non si può muovere dalla astratta coincidenza tra interesse del gruppo e interesse della società (che lo compone e) nel cui ambito il reato presupposto è stato in concreto commesso per dedurne, quale inammissibile presunzione, la responsabilità amministrativa ulteriore di altre società del gruppo (o della capogruppo), onde va rigorosamente verificata la sussistenza del requisito dell’interesse o del vantaggio lucrato anche dalla società non direttamente coinvolta nella commissione del reato presupposto. <strong>2017</strong> Il 27 novembre viene pubblicata in G.U. – serie 277, la legge 20 novembre n. 167, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017 -, n. 277, Serie Generale”. Tra le novità, il legislatore emenda l’aggravante di negazionismo introdotta dalla L. 16 giugno 2016, n. 115. In primo luogo, si amplia il novero delle condotte punibili, inserendo anche la “minimizzazione” e la “apologia”. L’Italia si allinea in questo modo alla Decisione Quadro del 28 novembre 2008 riguardante la lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. La portata effettiva della novella è tuttavia limitata, in quanto, trattandosi di un’aggravante e non di una fattispecie autonoma di negazionismo, le condotte tipiche devono innestarsi su quelle “principali” di propaganda, istigazione e incitamento. Inoltre, il legislatore inserisce il reato di cui all’art. 3 della Legge Reale-Mancino e la relativa aggravante di negazionismo fra i reati presupposto della responsabilità degli enti. La riforma non tocca, invece, i profili critici dell’aggravante del 2016, in particolare quelli riguardanti il profilo della determinatezza. Viene introdotto, all’interno del D.Lgs. n. 231/2001, un nuovo art. 25 terdecies, rubricato “razzismo e xenofobia”. In questo modo il reato di cui all’art. 3 della Legge Reale- Mancino e la sua aggravante di cui al comma 3 bis sono inclusi fra i reati presupposto della responsabilità degli enti (22). D’ora in poi si dovrà dunque far sì che i modelli organizzativi delle società prevengano anche il rischio della commissione di tali reati, in un’ottica precauzionale. <strong> </strong> <strong>2018</strong> Il 16 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 16713, secondo la quale l’interesse o il vantaggio che si riflettono a favore dell’impresa come precipitato dell’azione delittuosa del dipendente/responsabile non devono necessariamente riguardare l’evento antigiuridico in concreto prodottosi, potendo essi (interesse o vantaggio per l’impresa) limitarsi a concernere la mera condotta del soggetto agente. Ciò anche nell’ipotesi in cui detta condotta (illecita) sia meramente colposa e produca un risparmio di costi, essendo tale circostanza, per la Corte, sufficiente a sanzionare l’impresa o l’ente ai sensi del decreto legislativo 231.01. Il 28 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 23896 secondo la quale, in <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=0%3dBcCYF%26J%3d7f%26y%3dZCfEZ%26u%3dXBc9bI%26S%3dnQ5N_xxdx_98_3yYw_CD_xxdx_8C8U3.AtPoQ5MkDtSyQtXo8.tR_xxdx_8CyC3P_3yYw_CD7b_3yYw_CDFgKhFeJbAa_3yYw_CDYB2SkP5Pu_MpP_kN6G28wCtQp_LkF_3CgQt_Gt_0zLzOlRzL_t_AuP5G_2F7G_jF_tKvOpQg_PqSmDzLu_8wJ_g9w96FzLk.E5Kr_Ob1V_ZqSzJ_4M1OnC_xxdx_9AOCM_KpUyIpRzB3_PWza_ZBR5K_sBoG1J_3yYw_DBkJlGr_Ob1V_YG8l9gSzJ_n9sMlGmK_3yYw_DBJBR%26B%3d%26oP%3dDfEeI"> tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, laddove il reato presupposto sia integrato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, l’eventuale utilità conseguita dal danneggiato a fronte dell’esecuzione - da parte dell’ente - di prestazioni contrattuali dovute non può essere considerata “profitto confiscabile” e, conseguentemente, non concorre alla quantificazione del valore oggetto di ablazione.</a> In sintesi nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un'ipotesi di c.d. reato in contratto, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà, dunque, essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell'illecito (c.d. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l'effettivo incremento del patrimonio conseguito dall'agire illegale; dall'altro lato, non potranno essere aggrediti i "vantaggi" eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla <em>utilitas</em> di cui si sia giovata la controparte. Secondo la Corte, il punto fermo da cui occorre prendere le mosse è che, nella commisurazione del valore della "utilità conseguita dal danneggiato", non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l'ente, dell'utile d'impresa che - almeno fisiologicamente - compone il corrispettivo pagato per la prestazione: tenuto conto della ratio dell'istituto, ispirata al principio secondo il quale <em>crimen non lucrat</em>, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall'agire illecito. Ne discende che <em>l’utilitas</em> non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall'attività illecita, nè al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l'ente, un utile d'impresa, un <em>quid pluris</em> rispetto al valore "nudo" della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. Ciò premesso, La Corte affronta il tema della determinazione del valore della <em>utilitas</em> conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all'ablazione. Ritiene il Collegio che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte debba essere commisurato ai soli "costi vivi", concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale. Il 7 giugno esce la sentenza della Cassazione penale, sezione II, n. 25980, che torna a pronunciarsi sui criteri per individuare il profitto confiscabile ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 231/2001, per l’ipotesi di reati (nel caso di specie, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), commessi dagli enti. Nel caso concreto, la Cassazione accoglie il ricorso proposto da una società avverso un decreto di sequestro confermato dal Tribunale del riesame (nello specifico, trattavasi di sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 19, commi 1 e 2, D. L.vo 231/2001 di beni fungibili, ovvero in subordine e per equivalente, di beni di natura diversa intestati o nella disponibilità della stessa fino alla concorrenza della complessiva somma di 1.730.019,15). Il giudice della cautela aveva sottoposto a vincolo ablativo a fini di confisca la somma indicata, corrispondente al valore del profitto tratto dall'illecito ex artt. 5, comma 1, lett. a) e 24, comma 1 e 2 , d.lgs 231/01 in relazione al delitto di cui agli artt. 640 e 640 bis cod.pen. La cassazione annulla il provvedimento in questione, ritenendo che ricorso della società sia fondato con riguardo all'individuazione del profitto confiscabile alla luce delle specifiche connotazioni della fattispecie di truffa ascritta, non risultando scrutinati, dal giudice del riesame, i profili attinenti l'inquadramento delle condotte illecite nella tipologia del reato-contratto ovvero in contratto, con conseguente violazione di legge sul quantum della misura ablativa. Secondo il fondamentale arresto in materia costituito dalla pronunzia delle Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008 , Fisia Italimpianti Spa, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone. Secondo la Corte di legittimità, il collegio cautelare non ha quindi applicato i principi di diritto fissati da Sezione Unite che, partendo dalla distinzione tra i reati contratto e reati in contratto, prevede solo nel primo caso la confiscabilità integrale del profitto mentre nel secondo il vantaggio economico di diretta derivazione dal reato deve essere determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato. Pertanto, nell'ipotesi di specie da qualificare quale reato in contratto (la truffa aggravata in danno di un ente pubblico) doveva trovare applicazione il criterio dell'utile netto ai fini dell'individuazione del profitto confiscabile. Il 20 luglio 2018 esce la sentenza della sezione II della Cassazione, n.34293, che si pronuncia confermando il sequestro “impeditivo” disposto nei confronti di una società, accusata di aver indebitamente percepito erogazioni pubbliche. Nel caso concreto, la cassazione conferma il sequestro disposto nei confronti della medesima, sostenendo che la legge n. 231/2001 prevede un complesso sistema di repressione degli illeciti commessi dall'ente, basato sulle sanzioni amministrative indicate nell'art. 9 che vengono applicate all'esito del processo che si concluda con la condanna dell'ente (art. 69). Non potendosi tuttavia, attendere sempre l'esito definitivo del processo, il legislatore ha previsto che, nel corso delle indagini o durante lo stesso processo (art. 47), all'ente si possano applicare delle misure cautelari: «L'esigenza di apprestare un sistema di cautele con riferimento all'illecito imputabile alla persona giuridica ubbidisce a un duplice scopo: evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato; "paralizzare" o ridurre l'attività dell'ente quando la prosecuzione dell'attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato» L'art. 53/1 dispone «1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili». Il suddetto articolo, prevede testualmente che, nei confronti degli enti, si possa applicare il solo sequestro (del prezzo o del profitto del reato) a fini di confisca di cui all'art. 321/2 cod. proc. pen. In conclusione, la censura mossa dall’imputato viene disattesa, ribadendo il principio di diritto: «in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma primo dell'art. 321 cod. proc. pen., non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive». Il 3 agosto esce la sentenza della Cassazione, sez. I civile, n. 20517, che annulla la sentenza impugnata dall’Amministrazione, che ritenuto illegittima la sanzione amministrativa irrogata nei confronti dell’amministratore di una società. La Cassazione motiva la decisione di annullamento, sostenendo che "nel sistema introdotto dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, fondato sulla natura personale della responsabilità, autore dell'illecito amministrativo può essere soltanto la persona fisica che ha commesso il fatto, e non anche un'entità astratta, come società o enti in genere, la cui responsabilità solidale per gli illeciti commessi dai loro legali rappresentanti o dipendenti è prevista esclusivamente in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall' autore della violazione, rispondendo anche alla finalità di sollecitare la vigilanza delle persone e degli enti chiamati a rispondere del fatto altrui. Il criterio d'imputazione di tale responsabilità è chiaramente individuato dall'art. 6 della legge n. 689 cit., il quale, richiedendo che l'illecito sia stato commesso dalla persona fisica nell'esercizio delle proprie funzioni o incombenze, stabilisce un criterio di collegamento che costituisce al tempo stesso il presupposto ed il limite della responsabilità dell'ente, nel senso che a tal fine si esige soltanto che la persona fisica si trovi con l'ente nel rapporto indicato, e non anche che essa abbia operato nell'interesse dell'ente". Posto tale principio generale, che informa il sistema della responsabilità amministrativa, non può ritenersi che lo stesso sia derogato dall'art. 110 comma 9, lett. e) TULPS, come modificato dall'art. 10 comma 9 quinquies del d.l. 2 marzo 2012 n. 16 convertito nella L 26.4.2012 n. 144 che testualmente prevede che "Se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica o di un ente privo di personalità giuridica, la sanzione si applica alla persona giuridica o all'ente" atteso che tale norma, alla luce del dato letterale e della collocazione sistematica, ben lungi dall'avere una portata generale, disciplina invece una specifica ipotesi di recidiva prevedendo una sanzione di tipo interdittivo che non può che avere come destinatario la persona giuridica. Deve, pertanto, ritenersi che tale ultima norma non possa essere applicata alla fattispecie dedotta in giudizio. Il 14 novembre esce la sentenza della Cassazione Penale, SS.UU. n. 51515, che si pronuncia affermando il principio di diritto secondo cui in caso di proposizione di un appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17, D.Lgs. n. 231 del 2001, poste in essere dalla società indagata, l’appello non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, del codice di rito, non determinando quindi automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione. Nel caso di specie, La Sezione rimettente osservava che sulla questione relativa alla censurata assenza di contradditorio, con riferimento alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione pronunciata <em>inaudita altera parte, </em>si registrava un risalente contrasto giurisprudenziale. Nell'ordinanza si evidenziava che, ad un orientamento che privilegia l'utilizzo della forma procedimentale semplificata, <em>ex</em> art. 127, comma 9, cod. proc. pen. per la dichiarazione di inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento, si contrappone l'indirizzo in base al quale la declaratoria di inammissibilità dell'istanza di riesame di una misura cautelare reale deve essere pronunciata all'esito di udienza camerale partecipata, secondo quanto stabilito dall'art. 111, secondo comma, Cost.. Le perplessità di intepretazione secondo la corte rimettente erano giustificate anche in virtù del nuovo comma <em>5-bis, </em>dell'art. 610, cod. proc. pen., introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, per cui la Suprema Corte può dichiarare senza formalità di procedura determinate cause di inammissibilità. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite motiva, sostenendo il principio sopra esposto, nel senso che la verifica circa la persistenza, in capo alla società appellante, dell'interesse all'impugnazione richiesto dalla generale previsione di cui all'art. 568, comma 4,cod. proc. pen., a fronte della intervenuta revoca della misura cautelare oggetto di impugnazione, impone di esaminare il procedimento applicativo delle misure cautelari interdittive a carico degli enti collettivi, delineato dagli artt. 17 e 49 del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231. Infatti, dall'analisi degli effetti sortiti nella sfera dell'ente dallo specifico provvedimento di revoca di cui si tratta, discendono le ulteriori valutazioni sulla perduranza, o meno, dell'interesse all'impugnazione in sede di appello cautelare e sulle forme procedimentali. Ai sensi dell'art. 45 del citato decreto legislativo n. 231 del 2001, quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell'ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono elementi fondati e specifici dai quali desumere il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il pubblico ministero può chiedere che all'ente venga applicata quale misura cautelare una delle sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. cit. (cioè l'interdizione dall'esercizio dell'attività; la sospensione di autorizzazione o licenze; il divieto di contrattare con la P.A.; l'esclusione da agevolazione e finanziamenti pubblici ed il divieto di pubblicizzare beni e servizi). Quanto detto, induce a rilevare che la richiesta di sospensione o revoca della misura, che viene avanzata dall'ente, non implica affatto la rinunzia, da parte della società, a contestare la fondatezza della domanda cautelare. Ciò in quanto la disponibilità a porre in essere condotte riparatorie ben può dipendere dalla primaria esigenza dell'ente di scongiurare l'applicazione di misure interdittive, implicanti la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell'attività economica. Di riflesso, deve rilevarsi che l'intervenuta sospensione del provvedimento interdíttivo, ai sensi dell'art. 49, cit., come pure la revoca per effetto dell'adozione delle condotte riparatorie, sono evenienze che risultano del tutto compatibili con la perdurante attualità dell'interesse in capo alla società a coltivare l'appello cautelare, sia per contestare l'originaria legittimità del provvedimento, sia per ottenere la restituzione delle somme versate proprio al fine di ottenere la sospensione della misura, o per la rimozione di altre possibili conseguenze dannose. Il 21 novembre 2018 esce la sentenza della sezione II della Cassazione, n. 52470, che si pronuncia annullando la sentenza impugnata emessa dalla Corte di appello di Salerno, la quale aveva confermato la responsabilità accertata in primo grado di una srl, e la confisca disposta delle quote sociali della società. Sostiene la Corte che la pronuncia di annullamento, evidentemente, involge il capo della confisca per equivalente dai Giudici di merito ordinata, in quanto misura ablativa strettamente collegata alla individuazione dei presupposti di accertamento della responsabilità amministrativa da reato. Ricorda la Corte che in tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato. Nel caso in esame sembrano, in effetti, mancare due elementi per la corretta determinazione della confisca per equivalente: la determinazione dell'illecito vantaggio dell'ente - che potrebbe non coincidere con il profitto ricavato - e il valore dell'immobile sottoposto a confisca - il capannone costruito con i contributi erogati, che non viene mai indicato nelle sentenze di merito. <strong>2019</strong> In G.U. n. 13 del 16 gennaio 2019 (con entrata in vigore dal 31 gennaio 2019) viene pubblicata la Legge 9 gennaio 2019, n. 3 – recante misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici - la quale, tra l’altro, al comma 9, modifica anche alcuni articoli del decreto legislativo 231 del 2001 (in specie, all'articolo 25: 1) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321, 322, commi primo e terzo, e 346-bis del codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote»; 2) il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti di cui all'articolo 5, comma 1, lettera a), e per una durata non inferiore a due anni e non superiore a quattro, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti di cui all'articolo 5, comma 1, lettera b)»). Le novità vengono ricondotte intorno a tre profili: l’introduzione, fra i reati presupposto, del reato di traffico di influenza illecite; la previsione di una ipotesi di collaborazione processuale dell’ente, da cui derivano significativi benefici in termini sanzionatori; l’innalzamento delle sanzioni interdittive (e la maggiore durata delle relative misure cautelari), quando la società sia coinvolta in fatti di corruzione. L’ultima innovazione è fortemente criticata tanto per la sua portata draconiana quanto per le incoerenze che genera nel sistema complessivo. La L. n. 3/2019 ha modificato il D.Lgs. n. 231/2001 sul versante del catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente, inserendovi il ‘nuovo’ art. 346 bis c.p., e su quello delle comminatorie previste per le sanzioni interdittive. Mentre il primo intervento risulta coerente sotto il profilo politicocriminale, il secondo ha determinato un sovvertimento delle concorrenti finalità di deterrenza e di premialità del sistema sanzionatorio del decreto 231. Il codice della crisi di impresa, dell’08.03.2019 n° 20, pubblicata in G.U. 20/03/2019, modifica per la terza volta, a distanza di pochi mesi dalle interpolazioni della L. n.161 del 2017 e del D.Lgs. n.21 del 2018, l’art.104 bis disp. att.c.p.p. L’intenzione di porre rimedio ai dubbi interpretativi delle precedenti modifiche in tema di esecuzione del sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p., amministrazione giudiziaria dei beni e tutela dei terzi è lodevole. I risultati ancora una volta non soddisfano e confermano che l’efficacia dell’ennesimo intervento “correttivo”, privo di una visione di insieme, è“ pregiudicata” dall’esigenza contingente di ridurre le competenze nella materia de qua dell’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, la quale, piuttosto, dovrebbe essere messa in condizione con adeguate risorse umane, finanziarie e strutturali di svolgere la sua funzione fondamentale di amministrare e destinare i beni oggetto del vincolo. Risulta confermata, allo stesso tempo, la volontà di rafforzare la tutela dei terzi colpiti dal sequestro già all’interno del processo di cognizione, anche in questo caso senza affrontare la tematica in modo organico. Il 23 aprile esce la sentenza della Corte di Cassazione penale, sezione III, n. 17399, che in tema di lottizzazione abusiva, con riferimento alla confisca, si pronuncia sulla posizione dell’ente che rivendichi la proprietà del bene confiscato in un procedimento penale in cui non abbia partecipato. La Corte, sia pur brevemente, ricorda gli approdi giurisprudenziali a proposito dei limiti della tutela del terzo che rivendichi la proprietà del bene oggetto di confisca. Va ricordato che, per costante giurisprudenza, integra un contributo causale all'illecita condotta del venditore di un immobile o di un terreno abusivamente lottizzato il comportamento del compratore che ometta di acquisire ogni prudente informazione circa la legittimità dell'acquisto, così ponendosi colposamente in una situazione di inconsapevolezza (Sez. 3, n. 48924 del 21/10/2009 - dep. 21/12/2009, Tortora e altri, Rv. 245763). Si è inoltre chiarito che, in tema di lottizzazione abusiva, rientra nella sfera di cognizione del giudice dell'esecuzione l'accertamento della sussistenza di profili di colpa a carico del terzo acquirente, nei confronti del quale può essere disposta la confisca del bene qualora abbia omesso di assumere le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell'intervento edilizio con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 51387 del 24/10/2013 - dep. 19/12/2013, La Nuova Immobiliare Srl, Rv. 258015). <strong>In altri termini, per escludere la buona fede del terzo, proprietario del bene, non è richiesto il dolo </strong>(che può desumersi dalla collusione tra privato e pubblico ufficiale che rilascia l'atto, ovvero dall'illegittimità macroscopica dell'atto stesso per contrarietà a norme imperative), ma <strong>è sufficiente la colpa, che può sussistere nel caso in cui il terzo non abbia adempiuto ai doveri di informazione e conoscenza richiesti dall'ordinaria diligenza</strong> (Sez. F, n. 31921 del 24/07/2012 - dep. 07/08/2012, Spaccialbelli, Rv. 253421), e che possono essere riscontrati nell'attività precontrattuale e contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell'intervento con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 51429 del 15/09/2016 - dep. 02/12/2016, Brandi e altro, Rv. 269289). 12. Nel caso di specie, se è vero che, come osservato dalla società ricorrente, la Corte di cassazione (nel rigettare il ricorso del P.G. ad oggetto l'assoluzione dal delitto ex art. 323 cod. pen. per carenza di dolo intenzionale) ha ritenuto insindacabile la conclusione raggiunta dalla Corte di appello, che aveva escluso la "macroscopica illegittimità dell'atto amministrativo", ai fini, peraltro, dell'esclusione del dolo del reato di cui all'art. 323 cod. pen. tuttavia, come si è anticipato, in questa sede <strong>per escludere la buona fede del terzo è sufficiente la sussistenza della colpa, che la Corte territoriale, quale giudice dell'esecuzione, ha ravvisato con motivazione non manifestamente illogica</strong>. <strong>Invero, la Corte d'appello ha correttamente rilevato non solo che l'atto abilitativo era ab origine illegittimo, ma che Sofocle srl realizzò le opere in evidente contrasto con le espresse prescrizioni contenute nella convenzione di lottizzazione, procedendo alla realizzazione di diverse varianti non già tramite previa approvazione da parte del Consiglio comunale - come appunto previsto dalla convenzione - bensì tramite semplice DIA</strong>. Pertanto, come osservato dalla Corte territoriale, la società ricorrente ha completamente omesso di verificare non solo la legittimità del titolo a monte, ma, durante l'esecuzione del contratto e la realizzazione delle opere, se dette opere fossero realizzate in conformità con quanto previsto dal titolo abilitativo e/o da eventuali relative varianti regolarmente assentiti Il 12 luglio esce la sentenza della Corte di Cassazione penale, sez. IV, sentenza, n. 30634, che conferma l’orientamento che individua nella contestazione ex art. 59 D.Lgs. 231/2001 un atto non recettizio. Sostiene la Corte che nell'ipotesi di c.d. reato degli enti, infatti, <strong>l'interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l'interruzione della prescrizione nei confronti dell'imputato e coincidere con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione.</strong> Il rinvio alla lettera r) dell'art. 11 della legge delega n. 300/2000 alle norme del codice civile, con cui l'efficacia interruttiva della prescrizione viene ricollegata, dall'indirizzo minoritario, alla notificazione della richiesta di rinvio a giudizio (o più in generale dell'atto di contestazione), che peraltro manca di esplicita attuazione, va nondimeno inteso facendo riferimento al regime previsto dall'art. 2945, comma 2^, cod. civ., nel senso che una volta interrotta la prescrizione, con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, essa 'non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio'.si pronuncia aderendo all’orientamento giurisprudenziale che considera il momento dell’emissione della richiesta di rinvio a giudizio dell’ente interruttivo della prescrizione, indipendentemente dalla sua notificazione, sospendendo il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Il 7 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. II Penale, n. 41082, che si pronuncia su di un caso di estinzione non fraudolenta e fisiologica dell’ente che sia stato “accusato” dei reati di cui al D.lgs. n. 231/2001. Infatti, il trasferimento dei rapporti obbligatori in capo ai soci riconosciuto dalla giurisprudenza civile non è importabile nel processo a carico dell’ente per l’accertamento della responsabilità da reato. La natura pubblica del processo a carico della società previsto dal d.lgs. n. 231/2001 è incompatibile con l’estinzione non fraudolenta dell’ente. Il 26 ottobre entra in vigore il D.L. n. 124 recante “Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili”, che introduce l’art. 12 ter,D.Lgs. n. 27 del 2000, che prevede “casi particolari di confisca”. Recita la norma: “nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal presente decreto, diversi da quelli previsti dagli articoli 10 bis e10 ter, si applica l’articolo 240 bis del codice penale quando: a) l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 2; b) l’imposta evasa è superiore a euro centomila nel caso dei delitti previsti dagli articoli 3 e 5, comma 1; c) l’ammontare delle ritenute non versate è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 5, comma 1 bis; d) l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 8; e) l’indebita compensazione ha ad oggetto crediti non spettanti o inesistenti superiori a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 10 quater; f) l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 11,comma 1; g) l’ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 11,comma 2; h) è pronunciata condanna o applicazione di pena per i delitti previsti dagli articoli 4 e 10.” Il 28 ottobre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV Penale, n. 43656, che si pronuncia in tema di sicurezza sul lavoro, affermando che in tema di responsabilità dell’ente derivante da reati colposi di evento in violazione delle norme antinfortunistiche, spetta al giudice di merito accertare preliminarmente l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione, ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001.La Corte, pertanto, puntua il seguente principio di diritto, cui si atterrà il giudice del rinvio: "In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica compete al giudice di merito, investito da specifica deduzione, accertare preliminarmente l'esistenza di un modello organizzativo e di gestione ex art. 6 del d. Igs. n. 231 del 2001; poi, nell'evenienza che il modello esista, che lo stesso sia conforme alle norme; infine, che esso sia stato efficacemente attuato o meno nell'ottica prevenzionale, prima della commissione del fatto" (in tal senso v. la già richiamata decisione di Sez. 4, n. 28538 del 28/05/2019, Calcinoni ed altri, non mass., in motivazione, sub n. 9.2. del" considerato in diritto"). Nel D.Lgs. n. 231 del 2001 viene aggiunto l’art. 25 quinquiesdecies¸ che prevede la responsabilità degli enti per illecito amministrativo dipendente dal reato di frode fiscale ex art. 2, D.Lgs. n. 74 del 2000; in particolare, “in relazione alla commissione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applica all’ente la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote”. Il 20 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. VI, n. 52205, prevedendo che in tema di responsabilità da reato degli enti, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di patteggiamento, in relazione alla quantificazione della confisca del profitto conseguito dall’ente nel periodo in cui è stato sottoposto al commissariamento giudiziale, ai sensi dell’art. 15, comma 4, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in quanto la confisca, avendo natura sanzionatoria, può essere oggetto di ricorso nel solo caso in cui se ne deduca l’illegalità, come previsto dal novellato art. 448, comma 2 bis, c.p.p. Il 9 dicembre esce la sentenza della Cassazione penale, Sez. IV, n. 49775, che si pronuncia sulla responsabilità dell’ente ex art. 231/2001, derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, in specie sui presupposti oggettivi per la responsabilità. La Corte, annullando la sentenza impugnata, sostiene che anche sotto il profilo della violazione dell'art. 5, d.lgs. n. 231/2001 la sentenza impugnata si appalesa del tutto lacunosa, non essendo stato in alcun modo argomentato in che cosa sarebbe esattamente consistito l'"interesse" o il "vantaggio" della società perseguito attraverso la condotta criminosa, se non con un sommario rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado (la quale a sua volta, a pag. 16, si limita a un breve accenno a un non meglio precisato risparmio sui tempi di lavoro e sulle spese di smaltimento del bitume non conforme all'ordine). <strong>Orbene, é noto che, in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, da riferire entrambi alla condotta del soggetto agente e non all'evento, ricorrono, rispettivamente, il primo, quando l'autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso</strong> (Sez. 4, Sentenza n. 38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda, Rv. 274320); ma nella specie, né l'uno, né l'altro criterio di imputazione risultano osservati. 2020 Il 15 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, n. 1432, che si pronunci sulla richiesta di rinvio a giudizio della s.r.l. e sulla interruzione della prescrizione, precisando che in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti della società, in quanto atto di contestazione dell’illecito, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione. * * * Il 27 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. III, n. 3157, che si pronuncia sulla responsabilità ex 231/2001 in caso di reato ambientale, pronunciandosi sulle nozioni di interesse e di vantaggio di cui all’art. 5 D.Lgs. 231/2001. Nel rigettare il ricorso proposto dalla parte privata, sostiene la Corte di legittimità che “ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente nnassimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l'ente e l'illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi» (Sez. 4, n. 24697 del 20/04/2016, cit.). 3. <strong>I principi appena ricordati ben possono adattarsi dunque anche ai reati ambientali di natura colposa, introdotti, per il tramite dell'art. 25 undecies cit., nell'elenco dei reati- presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente e, specificamente, al reato già previsto dall'art.137 del d.lgs. n. 152 del 2006 e, oggi, dall'art. 452 quaterdecies cod. pen</strong>. Anche con riguardo ad esso, infatti, a maggior ragione trattandosi di reato di mera condotta, l'interesse e il vantaggio vanno individuati sia nel risparmio economico per l'ente determinato dalla mancata adozione di impianti o dispositivi idonei a prevenire il superamento dei limiti tabellari, sia nell'eliminazione di tempi morti cui la predisposizione e manutenzione di detti impianti avrebbe dovuto dare luogo, con economizzazione complessiva dell'attività produttiva. Non va trascurato, del resto, che già questa Corte ha ritenuto che il "risparmio" in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (Sez. 4, n. 16598 del 24/01/2019, Tecchio, Rv. 275570). <strong>Correttamente, quindi, i giudici di merito, nell'affermare la sussistenza della responsabilità amministrativa, hanno fatto riferimento proprio a tali profili</strong> come esemplificativi in particolare del vantaggio per l'ente discendente dalla commissione del fatto facendo esatta applicazione, in definitiva, del principio per cui lo stesso sussiste qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso. * * * Il 7 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 11626 che rileva come l'art. 1, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, nel definire l'ambito applicativo delle disposizioni previste dallo stesso decreto legislativo non preveda alcuna distinzione fra gli enti aventi sede in Italia e quelli aventi sede all'estero. Infatti, va notato come la responsabilità dell'ente ai sensi del decreto n. 231 del 2001 sia una responsabilità, sia pure autonoma, "derivata" dal reato, di tal che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto, a nulla rilevando che la colpa in organizzazione e dunque la predisposizione di modelli non adeguati sia avvenuta all'estero. Coerentemente con tale impostazione, l'art. 36 del decreto affida difatti la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi al giudice penale competente per i reati dai quali essi dipendono e l'art. 38 dello stesso decreto esprime un chiaro favore verso il simultaneus processus ai fini dell'accertamento del reato presupposto e dell'illecito amministrativo da esso derivante nell'ambito dello stesso procedimento. Conferma l'assunto secondo il quale la giurisdizione va apprezzata con riferimento al reato-presupposto il disposto dell'art. 4 del decreto n. 231 del 2001 che - nel disciplinare la situazione opposta in cui il reato-presupposto sia stato commesso all'estero nell'interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale in Italia - assoggetta l'ente alla giurisdizione nazionale nei casi e alle condizioni previste dagli artt. 7, 8, 9 e 10 cod. pen., purché nei suoi confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto, realizzando una parificazione rispetto all'imputato persona fisica (salvo il limite del bis in idem internazionale). Ai fini della procedibilità in ordine all'illecito amministrativo, quindi, è del tutto irrilevante la nazionalità - appunto straniera - dell'ente, non essendovi ragione alcuna per ritenere che le persone giuridiche siano soggette ad una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche sì da sfuggire ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale codificati agli artt. 3 e 6, comma primo, cod. pen., secondo i quali - rispettivamente - "la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilire dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale" e "chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana". D'altronde, il comma secondo dello stesso art. 6 considera commesso il reato in Italia, sottoponendolo alla giurisdizione del giudice italiano, anche qualora sia qui commessa una sola frazione dell'azione o dell'omissione o si sia qui verificato l'evento di condotta delittuosa, a maggior ragione allorché sia stato commesso in Italia (o qui debba ritenersi commesso) il reato-presupposto, componente la struttura complessa dell'illecito amministrativo. D'altronde, l'esigenza di ripristinare la legalità e l'ordine violato – che appunto sta alla base del riconoscimento della giurisdizione nazionale e della connessa istanza punitiva - non potrebbe non riconoscersi in relazione ad un illecito che discenda direttamente da un fatto-reato che abbia realizzato sul territorio nazionale l'offesa o la messa in pericolo del bene protetto. La tesi contraria, oltre a porsi in frontale contrasto con i rammentati principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale, comporterebbe un chiaro vulnus al principio di eguaglianza, realizzando una chiara - ed ingiustificata - disparità di trattamento fra la persona fisica straniera (pacificamente soggetta alla giurisdizione nazionale in caso di reato commesso in Italia) e la persona giuridica straniera (in caso di reato-presupposto commesso in Italia). Deve, pertanto, ritenersi che l'ente risponda, al pari di "chiunque" - cioè di una qualunque persona fisica -, degli effetti della propria "condotta", a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove si trova la sua sede principale o esplica in via preminente la propria operatività, qualora il reato-presupposto sia stato commesso sul territorio nazionale (o debba comunque ritenersi commesso in Italia o si versi in talune delle ipotesi nelle quali sussiste la giurisdizione nazionale anche in caso di reato commesso all'estero), all'ovvia condizione che siano integrati gli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità ex artt. 5 e seguenti d.lgs. n. 231/2001. Per tale ragione è del tutto irrilevante la circostanza che il centro decisionale dell'ente si trovi all'estero e che la lacuna organizzativa si sia realizzata al di fuori dei confini nazionali, così come, ai fini della giurisdizione dell'A.G. italiana, è del tutto indifferente la circostanza che un reato sia commesso da un cittadino straniero residente all'estero o che la programmazione del delitto sia avvenuta oltre confine. Né la soluzione ermeneutica sin qui tratteggiata - nel prevedere l'assoggettamento dell'ente straniero all'illecito amministrativo conseguente dall'omessa predisposizione di modelli organizzativi conformi a quello imposti dal decreto 6 giugno 2001, n. 231 -, può ritenersi tale da introdurre un trattamento discriminatorio fra soggetti anche giuridici comunitari in contrasto con la libertà di stabilimento stabiliti dagli artt. 43 e 48 del Trattato CE, come ventilato dalle difese. Seguendo la possibile tesi contraria si dovrebbe allora ritenere che il cittadino straniero non possa essere chiamato a rispondere di un reato commesso in Italia per il solo fatto che, nel proprio ordinamento, le regole a disciplina dell'attività presidiata dalla sanzione penale siano diverse, conclusione - questa - in chiaro contrasto con i principi di obbligatorietà e di territorialità espressi dal nostro codice penale. Anzi, in senso contrario, non può non rilevarsi come l'inapplicabilità alle imprese straniere delle regole e degli obblighi previsti dal decreto n. 231 ed il conseguente esonero da responsabilità amministrativa realizzerebbe un'indebita alterazione della libera concorrenza rispetto agli enti nazionali, consentendo alle prime di operare sul territorio italiano senza dover sostenere i costi necessari per la predisposizione e l'implementazione di idonei modelli organizzativi. A rinforzo dell'ermeneusi privilegiata si consideri altresì la disposizione introdotta all'art. 97-bis, comma 5, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, con il d.lgs. 9 luglio 2004, n. 197 (in attuazione della direttiva 2001/24/CE in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi), con cui il legislatore ha espressamente esteso la responsabilità per l'illecito amministrativo dipendente da reato "alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie", considerando dunque - ai fini della responsabilità ex decreto n. 231 - l'aspetto dell'operatività sul territorio nazionale a discapito di quello della nazionalità o del luogo della sede legale e/o amministrativa principale dell'ente. A nulla rileva che, a norma dell'art. 25 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), le società, le associazioni, le fondazioni ed ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, siano disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione e dalla legge italiana se la sede dell'amministrazione è situata in Italia ovvero se in Italia si trova l'oggetto principale di tali enti. Ed invero, detta disposizione ha chiaramente riguardo a profili civilistici (di regolamentazione degli aspetti costituitivi, statutari, organizzativi, operativi ecc. degli enti) e non può in alcun modo esonerare le persone giuridiche che "si trovano nel territorio dello Stato", qualunque nazionalità esse abbiano, dall'osservare - al pari delle persone fisiche - la legge penale vigente in Italia a norma dell'art. 3, comma primo, cod. pen. e, dunque, dal rispondere degli illeciti commessi con le condotte e le attività che esse svolgano nel nostro Paese a mezzo dei propri rappresentanti e/o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, viene affermato il principio di diritto secondo il quale “la persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all'efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa dell'ente stesso”. * * * Il 26 ottobre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 29584 che ricorda il fondamento della responsabilità da reato dell’ente. Trattasi di un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza. Quanto ai criteri d'imputazione oggettiva della responsabilità dell'ente (l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 del d. Igs. 231 del 2001), essi sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito. Inoltre, per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies del d.lgs. 231 del 2001), la giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità, affermando in via interpretativa che i criteri di imputazione oggettiva di che trattasi vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, coerentemente alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare e esito vantaggioso per l'ente. Si è così salvaguardato il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione. La casistica ha offerto, poi, alla giurisprudenza di legittimità l'occasione per calibrare, di volta in volta, il significato dei due concetti alternativamente espressivi del criterio d'imputazione oggettiva di cui si discute: si è così affermato, per esempio, che esso può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale); nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale; o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale. Esso, quindi, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto della norma cautelare. In altri termini: vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno (persona fisica) all'interesse dell'altro. Il principio per il quale l'interesse o il vantaggio devono essere rapportati, per quanto riguarda i reati colposi, alla condotta dell'agente, anziché all'evento del reato, è il precipitato di quella che è subito apparsa la preoccupazione dell'interprete: scongiurare una lettura della norma di cui all'art. 25-septies cit. per la quale l'affermazione della responsabilità dell'ente consegue indefettibilmente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell'agente. Per questo, in alcune pronunce, si è cercato di rinvenire un criterio moderatore di tali conseguenze e si è ritenuto di rinvenirlo nel carattere sistematico della violazione. Una simile lettura, tuttavia, non può essere recepita per più ordini di motivi. Innanzitutto, la sistematicità della violazione non rileva quale elemento della fattispecie tipica dell'illecito dell'ente: l'art. 25-septíes cit. non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati. Tale connotato, inoltre, non è imposto dalla necessità, sopra già tratteggiata, di rinvenire un collegamento tra l'azione umana e la responsabilità dell'ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza e consenta, quindi, di escludere correttamente dal novero delle condotte a tal fine rilevanti quelle sì sostenute da coscienza e volontà, ma non anche dall'elemento della "intenzionalità", come sopra definita. Sul punto la giurisprudenza ha già precisato che l'interesse dell'ente ricorre quando la persona fisica, pur,non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un'utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa: pur non volendo (quale opzione dolosa) il verificarsi dell'infortunio in danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione. Sotto altro profilo, va pure rilevato che, se il criterio di imputazione di cui si discute ha lo scopo di assicurare che l'ente non risponda in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica, assicurando che la persona fisica abbia agito nel suo interesse e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta, è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari. Il carattere della sistematicità, peraltro, presenta in sé innegabili connotati di genericità: la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell'organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell'atteggiamento anti doveroso. D'altro canto, l'innegabile quoziente di genericità del concetto non consente neppure di stabilire, in termini sufficientemente precisi, quali comportamenti rilevino a tal fine (identici; analoghi; diversi, ma pur sempre consistenti in violazioni delle regole anti infortunistiche). Tutto ciò, nel completo silenzio della legge sul punto e senza considerare che l'atteggiamento finalistico dell'agente fa parte della sua interna deliberazione e, come tale, esso va investigato, eventualmente anche alla stregua di una sistematicità dei comportamenti anti doverosi, che certamente sono espressivi di un modo di essere della organizzazione e che possono aver influenzato la determinazione del soggetto. Il che riporta l'intero discorso sul piano prettamente probatorio, al quale tale connotato per l'appunto appartiene, quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, al tempo stesso scongiurando il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica. Diversa è, infatti, la rilevanza di tale connotato in termini di elemento probatorio della esistenza di una direzione finalistica della condotta del reo: il vantaggio, come sopra già chiarito, è misurabile ex post e rileva ex se, laddove la prova dell'interesse, parametro eminentemente finalistico e da valutarsi ex ante, può certamente ricavarsi dalla dimostrata tendenza dell'ente alla trasgressione delle regole antinfortunistiche, finalizzata al contenimento dei costi di produzione o all'incremento dei profitti. Ne deriva, quale logico corollario, che l'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità. <strong>Questioni intriganti</strong> <strong>Quali soggetti posso essere chiamati a rispondere ai sensi del decreto legislativo 231.01, e quali ne sono esclusi?</strong> Ai sensi dell’<strong>art.1</strong> del decreto, in attuazione dei criteri contenuti nella <strong>legge delega</strong>: <ol> <li>sono <strong>sanzionabili</strong>: a.1) gli enti forniti di <strong>personalità giuridica</strong> (associazioni e fondazioni); a.2) le <strong>società</strong>; a.3) le <strong>associazioni prive di personalità giuridica</strong>; a.4) le <strong>Onlus</strong> e <strong>associazioni <em>no profit</em></strong> (non è stata raccolta la proposta contenuta nel <strong>progetto Grosso</strong> ed intesa a limitare la sanzione ai <strong>soli enti con finalità economiche</strong>), per queste ultime <strong>limitatamente</strong> a quelle che – stando alla <strong>Relazione</strong> al decreto – hanno i <strong>requisiti dimensionali e patrimoniali</strong> idonei a consentire loro di <strong>ottenere la personalità giuridica</strong>, contro gli altri palesandosi <strong>infruttuosa</strong> l’eventuale <strong>azione di responsabilità</strong>; a.5) gli <strong>enti pubblici economici</strong> che agiscono secondo il <strong>diritto privato</strong> (<em>iure privatorum</em>);</li> <li><strong>non sono sanzionabili</strong>: b.1) lo <strong>Stato</strong>; b.2) gli <strong>enti pubblici territoriali </strong>(Regioni, Provincie, Comuni); b.3) gli <strong>enti pubblici non economici</strong>; b.4) gli enti che svolgono <strong>funzioni di rilievo costituzionale</strong> (su tutti, <strong>partiti</strong> e <strong>sindacati</strong>: con riguardo a questi ultimi, se da un lato occorre scongiurare <strong>posizioni di privilegio</strong>, massime a fronte di sovente diffusi <strong>fenomeni corruttivi</strong>, dall’altro occorre evitare che il <strong>potere sanzionatorio “<em>penale</em>”</strong> dello Stato possa <strong>condizionare</strong> la <strong>dinamica democratica</strong> del Paese);</li> <li>è <strong>dubbio</strong> siano sanzionabili: c.1) gli <strong>enti pubblici</strong> caratterizzati da attività c.d. “<strong><em>a connotazione sociale</em></strong>” (scuole pubbliche, università pubbliche, Aziende ospedaliere etc.); c.2) gli <strong>enti pubblici associativi</strong> (ordini professionali; ACI; Croce Rossa Italiana etc.); c.3) le <strong>imprese individuali</strong>; c.4) nell’ambito di una <strong><em>holding</em></strong>, la <strong>capogruppo</strong> e le <strong>società collegate</strong> (rispetto a quella cui <strong>appartiene la persona fisica</strong> che commette il reato-presupposto); c.5) le <strong>p.a. miste</strong> per la gestione di <strong>servizi pubblici</strong>.</li> </ol> <strong>Quale è la natura giuridica della responsabilità degli enti dipinta nel decreto 231.01?</strong> <ol> <li>si tratta di responsabilità <strong>penale</strong>, dovendosi assumere ormai <strong>superato</strong> il <strong>noto brocardo</strong> <em>societas delinquere non potest</em>, sol che si consideri come – attraverso la figura della c.d. <strong>colpa di organizzazione</strong> – sia ormai possibile predicare una <strong>responsabilità penale “<em>personale</em>”</strong> dell’ente, ed essendosi allora al cospetto di una <strong>mera “<em>frode delle etichette</em>”</strong> intesa a <strong>far figurare letteralmente</strong> come “<strong><em>amministrativa</em></strong>” quella che, per l’appunto, è una <strong>responsabilità penale</strong> a tutti gli effetti, tenendosi anche conto del fatto che il <strong>relativo accertamento</strong> è affidato al <strong>giudice penale, </strong>assistendosi dunque – anche in termini di garanzie – ad una piena <strong>parificazione</strong> della <strong>posizione processuale</strong> della <strong>persona fisica</strong> a quella della <strong>persona giuridica</strong>; presuppone <strong>un reato</strong> (commesso dalla <strong>persona fisica</strong> che appartiene all’ente) e comporta l’applicazione di <strong>sanzioni di natura afflittiva</strong>; sempre nel senso della natura “<strong><em>penale</em></strong>” della responsabilità dell’ente sospingono anche l’applicazione del <strong>principio di legalità</strong> (<strong>2</strong> del decreto); quella del <strong>principio di retroattività della <em>lex mitior</em></strong> (<strong>art.3, comma 2</strong>); la possibilità per l’ente di <strong>rinunciare all’amnistia</strong> (<strong>art.8, comma 3</strong>); <strong>l’autonomia</strong> della responsabilità dell’ente rispetto a <strong>quella della persona fisica</strong> che ha commesso il <strong>reato presupposto</strong> (<strong>art.8</strong>); il <strong>sistema di commisurazione</strong> delle <strong>pene pecuniarie</strong> (<strong>articoli 10 e 11</strong>); la <strong>punibilità del tentativo</strong> nel caso in cui l’ente sia <strong>una persona giuridica</strong> (<strong>art.26</strong>); l’istituzione dell’<strong>anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative</strong> comminate agli enti (<strong>art.80</strong>, che richiama il c.d. <strong>casellario giudiziale</strong>); per <strong>parte della dottrina</strong>, la possibilità di configurare il <strong>concorso dell’ente nel reato</strong> commesso dalla persona fisica. La tesi fa tuttavia i conti con la necessità di verificare la <strong>compatibilità</strong> della disciplina in parola con i <strong>principi fondanti</strong> del <strong>diritto penale</strong>, siccome <strong>consacrati nella Costituzione</strong> (presunzione di <strong>non colpevolezza</strong>, difficilmente compatibile con il meccanismo di inversione dell’onere probatorio previsto dall’art.6 del decreto; responsabilità penale <strong>personale</strong>, poco compatibile con la <strong>disciplina</strong> dettata dagli <strong>articoli da 28 a 33</strong> del decreto in tema di <strong>permanenza della responsabilità</strong> di che trattasi laddove <strong>l’ente originario</strong> subisca delle <strong>modificazioni</strong>, responsabilità che appunto <strong>permane in capo all’ente “<em>a valle</em>”</strong> di tale modificazione, <strong>estraneo</strong> al <strong>commesso illecito</strong>; azione penale <strong>obbligatoria</strong>, in frizione con il procedimento di archiviazione previsto <strong>dall’art.58</strong> del decreto);</li> <li>si tratta di responsabilità <strong>amministrativa</strong>; in questo senso sembrerebbe deporre <strong>l’interpretazione letterale</strong> del <strong>decreto</strong>, inteso a disciplinare la <strong>responsabilità “<em>amministrativa</em>”</strong> degli enti e ad <strong>applicare</strong> ad essi, laddove riconosciuti appunto responsabili, <strong>sanzioni “<em>amministrative</em>”</strong> (<strong>9</strong>), e non già <strong>penali</strong>, onde è lo stesso <strong><em>nomen iuris</em></strong> prescelto dal legislatore ad imporre la <strong>natura amministrativa</strong> di tale responsabilità; questa opzione ermeneutica <strong>scongiura</strong> peraltro la (possibile) <strong>rotta di collisione</strong> con <strong>canoni di rilevanza costituzionale</strong>, a differenza della tesi c.d. “<strong><em>penalistica</em></strong>”, onde - dovendosi <strong>privilegiare</strong> una <strong>interpretazione</strong> delle norme <strong>costituzionalmente orientata</strong> – i dubbi di costituzionalità vengono <strong>superati</strong> proprio interpretando <strong>come “<em>amministrativa</em>”</strong>, e <strong>non già come “<em>penale</em>”</strong>, la responsabilità in parola; ancora, i <strong>termini prescrizionali</strong> dell’<strong>illecito dell’ente</strong> e i <strong>relativi atti interruttivi</strong> appaiono, per parte della dottrina, governati da <strong>principi</strong> e da <strong>norme</strong> che disegnano un <strong>regime del tutto diverso</strong> da quello proprio degli <strong>illeciti penali</strong>, che ricalca più in particolare quello previsto dall’<strong>art.8</strong> della <strong>legge 689.81</strong> in tema proprio di <strong>illeciti “<em>amministrativi</em>”</strong> (giustapposti a quelli penali e sovente scaturenti proprio dalla “<strong><em>depenalizzazione</em></strong>”). Del resto, <strong>non potrebbe evincersi</strong> la natura <strong>penale</strong> della responsabilità dell’ente (in luogo di quella amministrativa) dalla circostanza onde <strong>l’accertamento</strong> di tale responsabilità risulta demandato al <strong>giudice penale</strong>, poiché <strong>non c’è pena senza processo penale</strong>, ma <strong>non vale la reciproca</strong> potendo esservi <strong>processo penale</strong> che irroga <strong>sanzioni di natura diversa</strong> dalle pene (e, dunque, sanzioni <strong>amministrative</strong>); peraltro il <strong>processo penale</strong> all’ente appare “<strong><em>gemello</em></strong>” e <strong>non integralmente sovrapponibile</strong> al processo penale alla <strong>persona fisica</strong>, come risulta peraltro dagli <strong>articoli 34 e 35</strong> del decreto 231.01, laddove <strong>le norme del processo penale</strong> previste per <strong>l’imputato</strong> si applicano <strong>all’ente</strong> solo “<strong><em>in quanto compatibili</em></strong>” (art.35) e, più in generale, agli <strong>enti</strong> si applicano le <strong>norme del decreto</strong> previste per <strong>l’accertamento e l’irrogazione </strong>delle <strong>sanzioni amministrative,</strong> rilevando ancora una volta <strong>solo “<em>in quanto compatibili</em>”</strong> (art.34) quelle del <strong>codice di procedura penale</strong>. Tutte circostanze tali appunto da confermare la <strong>natura amministrativa</strong>, e <strong>non già penale</strong>, delle sanzioni in parola,</li> <li>si tratta di un <strong><em>tertium genus</em></strong> di responsabilità;</li> <li>si tratta di <strong>mero </strong>(e <strong>vano</strong>)<strong> esercizio accademico</strong> chiedersi <strong>quale natura abbia</strong> la responsabilità in parola; ma in realtà, si controbatte, <strong>le ricadute</strong> in termini di natura della responsabilità di che trattasi <strong>non appaiono di poco momento</strong>, senza contare che laddove si profilino <strong>lacune</strong> nella disciplina prevista dal decreto 231.01, solo il <strong>tipo di responsabilità</strong> in esso scolpito (una volta individuato) è in grado di <strong>meglio guidare l’interprete</strong> nella scelta della <strong>concreta disciplina applicabile</strong>, come testimonia tutta la vicenda relativa alla <strong>costituzione di parte civile</strong> nei confronti dell’<strong>ente</strong>.</li> </ol> <strong>Perché si ventila la possibile costituzione di parte civile (art.185 c.p. e 74 c.p.p.) direttamente nei confronti dell’ente nel giudizio in cui se ne accerta la responsabilità?</strong> <ol> <li>la questione si è posta con riguardo a <strong>processi</strong> coinvolgenti <strong>grandi società</strong> come, esemplificativamente, <strong>Telecom</strong> e <strong>Parmalat</strong>;</li> <li>in simili processi risultano <strong>spesso coinvolti molti soggetti danneggiati</strong>, in relazione ai quali si pone appunto il problema se possono o meno <strong>costituirsi parte civile</strong>;</li> <li>gli articoli <strong>34 e 35</strong> del decreto 231.01 indicano il <strong>codice di procedura penale</strong> e la <strong>disciplina processuale dell’imputato</strong> applicabili solo “<strong><em>in quanto compatibili</em></strong>”;</li> <li>è senz’altro <strong>possibile</strong>, ai sensi dell’<strong>185 c.p</strong>., costituirsi <strong>parte civile</strong> nel processo penale a carico delle <strong>persone fisiche</strong> che hanno <strong>commesso il reato</strong> e che sono <strong>incardinate</strong> nell’ente, invocando la <strong>responsabilità civile indiretta</strong> dell’ente stesso;</li> <li>più <strong>dubbio</strong> è invece se è possibile <strong>costituirsi parte civile</strong> nel <strong>processo</strong>, affidato del pari al <strong>giudice penale</strong>, che coinvolge <strong>l’ente</strong> per l’accertamento della <strong>relativa responsabilità</strong> ai sensi dell’art.231.01, laddove si invoca la <strong>responsabilità civile diretta</strong> dell’ente stesso per i <strong>danni</strong> conseguiti al <strong>reato materialmente commesso</strong> dalle <strong>persone fisiche</strong> in esso inserite;</li> <li>la questione è particolarmente significativa nei casi in cui il <strong>reato presupposto</strong> si è <strong>estinto</strong> (per <strong>causa diversa dall’amnistia</strong>), ovvero il relativo autore persona fisica <strong>non sia stato identificato</strong>, ovvero ancora egli <strong>non sia imputabile</strong> (<strong>8</strong> del decreto), laddove permane comunque – in via <strong>autonoma</strong> – la <strong>responsabilità dell’ente</strong>, nei confronti del quale, nella eventualità <strong>positiva</strong>, potrebbe essere <strong>spiccata azione civile diretta</strong> di responsabilità per <strong>danni</strong> in sede “<strong><em>penale</em></strong>” giusta costituzione di parte civile.</li> </ol> <strong>E’ ammissibile la costituzione di parte civile nel procedimento di accertamento della responsabilità degli enti?</strong> <ol> <li>si, <strong>è ammissibile</strong>; a.1) è ammissibile perché si tratta di <strong>illecito penale</strong>, accertato nell’ambito di un <strong>processo penale</strong>, con <strong>piena e diretta applicabilità</strong> degli <strong>articoli 185 c.p.</strong> e <strong>74 c.p.p.</strong>; a.2) è ammissibile <strong>nonostante l’illecito</strong> sia <strong>amministrativo</strong> (e non penale), dal momento che la <strong>possibilità di spiccare azione civile</strong> innanzi al <strong>giudice penale</strong> deriva da <strong>esigenze di</strong> opportuna <strong>concentrazione del processo</strong> che devono assumersi <strong>valere sia</strong> quando il giudice penale <strong>accerta un reato</strong>, <strong>sia</strong> quando è chiamato – come nel caso degli <strong>enti</strong> – ad accertare un <strong>illecito amministrativo</strong>; né potrebbe parlarsi di applicazione analogica degli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p., da un lato perché <strong>l’eventuale analogia</strong> riguarderebbe una <strong>responsabilità civile</strong> e <strong>non già penale</strong> (palesandosi dunque <strong>ammissibile</strong>), e dall’altro perché <strong>non già</strong> di interpretazione <strong>analogica</strong> dovrebbe discorrersi quanto, più correttamente, di interpretazione <strong>evolutiva</strong> di norme che vengono – giusta <strong>opportuna riconversione ermeneutica</strong> – <strong>razionalmente adattate</strong> ad un <strong>nuovo contesto processuale</strong> il cui <strong>oggetto</strong> è l’<strong>illecito amministrativo</strong> dell’ente, laddove il <strong>posto dell’imputato</strong> è stato appunto preso <strong>dall’ente</strong>;</li> <li>no, <strong>non è ammissibile</strong>: l’illecito dell’ente <strong>non può</strong> essere considerato “<strong><em>reato</em></strong>” in senso <strong>tecnico</strong> ma <strong>illecito amministrativo</strong> (come <strong>amministrativa</strong> è la <strong>responsabilità dell’ente</strong> cui esso è imputabile), onde <strong>non sono applicabili</strong> gli articoli <strong>185 c.p.</strong> e <strong>74 c.p.p.</strong> che invece proprio al <strong>previo accertamento di un “<em>reato</em>”</strong> fanno riferimento; questo non significa che la <strong>pretesa risarcitoria</strong> connessa all’illecito dell’ente <strong>non sia spiccabile</strong>, potendo tuttavia essa <strong>essere fatta valere solo</strong> in <strong>sede civile</strong>, come conferma il fatto che <strong>talune disposizioni</strong> del decreto 231.01 (segnatamente, gli articoli <strong>27</strong> in tema di <strong>responsabilità patrimoniale</strong> dell’ente, <strong>54</strong> in tema di <strong>sequestro conservativo</strong> e <strong>61</strong> in tema di <strong>provvedimenti</strong> emessi in sede di <strong>udienza preliminare</strong>) disciplinano <strong>istituti omologhi</strong> a quelli disciplinati dal <strong>codice di procedura </strong>penale <strong>senza</strong> tuttavia far riferimento alle <strong>obbligazioni civili</strong> e alla<strong> parte civile</strong> (come invece avviene appunto all’interno del codice di rito penale).</li> </ol>