Cass. civ., lav., ord., 25.06.2024, n. 17267
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione compete al datore di lavoro, ma a condizione che il lavoratore abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 3 e 4 legge n. 604/1966, 3 legge n. 108/1990, 15 legge n. 300/1970, 28 d.lgs. 150/2011, 2697, 2727 e 2729 c.c., 116 c.p.c. ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per l’esclusione di fatti idonei nel loro complesso alla dimostrazione in via presuntiva del carattere discriminatorio del licenziamento intimato sul rilievo, omesso, di oggettivi riscontri probatori, complessivamente valutati, del fumus discriminationis, nell’inosservanza dei canoni di attenuazione (se non proprio di inversione) dell’onere probatorio applicabili nel diritto antidiscriminatorio in relazione ad una serie di dati (in particolare: contestazione, immediatamente dopo la promozione da inserviente ad operatore sanitario, di comportamenti invece tollerati prima e comunque dalla generalità dei colleghi, ostilità del direttore sanitario per la carica sindacale interna del lavoratore, inadeguata valorizzazione di deposizioni testimoniali specificamente riportate) marginalmente considerati nella ricostruzione della discriminazione del lavoratore con il licenziamento inflitto (primo motivo);
- esso è in parte inammissibile e in parte infondato;
- ribaditi i principi in materia di onere probatorio nel diritto antidiscriminatorio, secondo cui l’art. 40 d.lgs. 198/2006– nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia UE 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione compete al datore di lavoro, ma a condizione che il lavoratore abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543). Sicché, in esso si realizza un’agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere: dovendo l’attore fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria.
E pertanto, il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere (Cass. 28 marzo 2022, n. 9870, in riferimento all’art. 28, quarto comma d.lgs. 150/2011, quale disposizione speciale rispetto all’art. 2729 c.c., in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006);
3.1. nel caso di specie, tuttavia, tali principi non rilevano, avendo la Corte territoriale fermamente escluso la ricorrenza di un licenziamento discriminatorio, per asserite ragioni sindacali (p.to 8 di pgg. 11 e 12 della sentenza);
- né si configurano gli errores in iudicando solo formalmente enunciati, non implicando le censure un problema interpretativo delle norme di diritto denunciate, né di falsa applicazione della legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851). Si tratta, piuttosto, di allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 29 ottobre 2020, n. 23927), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.;
4.1. la censura veicola più propriamente una contestazione della valutazione probatoria della Corte d’appello, autrice di un accertamento in fatto congruamente argomentato nell’esclusione di una matrice di discriminazione (sindacale) genericamente allegata, prima ancora che indimostrata (per le ragioni esposte ai p.ti 19 e 20 a pgg. da 24 a 26), in esito a critico scrutinio delle prove orali (al p.to 14 da pg. 15 a pg. 20), tanto meno integrando l’omesso esame di un fatto storico (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053). Sicché, essa si risolve in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. S.U. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), in quanto spettanti esclusivamente al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione;
- il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 18 legge n. 300/1970, 1345, 2697, 2727 e 2729 c.c., 116 c.p.c., per erronea esclusione del motivo ritorsivo in ragione dell’insussistenza di un motivo unico determinante, in quanto individuato dalla Corte territoriale in un inadempimento erroneamente ritenuto illegittimo (secondo motivo);
- esso è infondato;
- occorre preliminarmente ribadire i principi di diritto in tema di licenziamento ritorsivo, secondo cui l’accertamento della sua nullità è subordinata alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo (Cass. 7 marzo 2023, n. 6838).
Il motivo illecito addotto, ai sensi dell’art. 1345 c.c., deve essere infatti determinante, ossia costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale: con la conseguenza che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dal testo novellato dell’art. 18, comma 1 legge n. 300/1970, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento;
7.1. in realtà, anch’esso consiste in una sostanziale contestazione dell’accertamento in fatto della Corte d’appello, insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente argomentato (per le ragioni indicate al superiore punto 4.1);
- il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 18 legge n. 300/1970, 2119, 2106 c.c., 3 legge n. 604/1966, 7 legge n. 300/1970, 40 CCNL, anche in relazione agli artt. 1362 ss. c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento in presenza di previsioni contrattuali di applicazione di una sanzione conservativa, così illegittimamente sussumendo i fatti contestati nelle suddette categorie definitorie, tenendo conto di elementi (“la lesione dell’immagine” e il “carattere arrogante” dell’atteggiamento) neppure contestati e valorizzando la “ripetitività” della condotta diversamente da quanto previsto nel CCNL, per effetto di un indebito frazionamento dell’esercizio del potere disciplinare (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 3 legge n. 604/1966, 2119 c.c., 7 legge n. 300/1970, 40 CCNL, anche in relazione agli artt. 1362 ss. c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente negato un illegittimo frazionamento degli addebiti, né rilevato l’inidoneità della recidiva dell’art. 40, lett. c) del CCNL contestata con l’addebito del 6 giugno 2018 rispetto al paradigma contrattuale, nell’inosservanza dei principi di diritto in tema di rilevanza della recidiva e di previa contestazione della precedente contestazione quale suo presupposto (quarto motivo);
- essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati;
- i due motivi veicolano, in realtà, una contestazione della valutazione di proporzionalità (al p.to 18 dal quart’ultimo capoverso di pg. 23 al terzo di pg. 24 della sentenza), basata sulla gravità complessiva di più infrazioni (“inadempimento … anche particolarmente grave sia perché ripetuto sia perché denota arrogante insofferenza nei confronti del datore di lavoro … ”: così al penultimo capoverso di pg. 23 della sentenza), insindacabile in sede di legittimità, in quanto implicante un apprezzamento dei fatti spettante al giudice di merito, salve le ipotesi (qui non ricorrenti) di assoluta mancanza della motivazione o della sua affezione da vizi giuridici integranti ipotesi di nullità della sentenza ovvero di omesso esame di un fatto avente valore decisivo (Cass. 3 gennaio 2024, n. 107; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293);
10.1. la Corte d’appello ha accertato una “persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali” (così al secondo capoverso di pg. 24 della sentenza), non valutando peraltro il primo addebito alla stregua di recidiva, non contestata (così al terzo capoverso di pg. 24 della sentenza), in linea con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in esito ad un corretto procedimento di sussunzione nelle ipotesi di contrattazione collettiva (art. 40, lett. c, d, i, f, A): in esatta applicazione dei principi di diritto in tema di licenziamento disciplinare, secondo cui, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5 legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, non trasmodando detta operazione di interpretazione e sussunzione nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (Cass. 11 aprile 2022, n. 11665; Cass. 28 giugno 2022, n. 20780);
10.2. essa ha inoltre correttamente apprezzato la rilevanza della reiterazione della condotta (al secondo capoverso di pg. 24 della sentenza) e l’ha valutata, nella complessiva gravità dei fatti del primo addebito, ancorché “non … come recidiva, perché non contestata” (al terzo capoverso di pg. 24 della sentenza), in linea con i principi di diritto, secondo cui: a) ai fini disciplinari, la recidiva, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata (quanto meno) contestata formalmente al medesimo lavoratore; ove tale contestazione per la precedente infrazione sia mancata, e non sia pertanto configurabile la recidiva, la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22162); b) la mera reiterazione dell’illecito, pur rilevando ai fini della valutazione della gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, non può determinare la pretermissione della graduazione delle condotte di rilievo disciplinare contemplata dai contratti collettivi, di cui il giudice deve tenere conto per disposto normativo (Cass. 12 luglio 2023, n. 19868, che nella specie – in relazione ad una vicenda in cui, secondo la scala valoriale adottata dal CCNL, le condotte alternativamente idonee a consentire il licenziamento facevano rispettivamente leva sulla “particolare gravità” delle infrazioni punibili con sanzione conservativa oppure sulla recidiva in mancanze sanzionate con due provvedimenti di sospensione nell’arco di un anno – ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice sulla base di una valutazione della “particolare gravità” della condotta fondata non già sulle intrinseche caratteristiche – oggettive e soggettive – della condotta stessa, bensì unicamente sulla rilevanza di due omologhi precedenti disciplinari, sanzionati, rispettivamente, con il rimprovero scritto e con la multa, in tal modo finendo per applicare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva);
- pertanto il ricorso deve essere rigettato, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).