Massima
Tanto lo Stato Comunità quanto quella “porzione individuale” dello Stato Comunità che è la vittima di un determinato fatto (presunto) illecito hanno interesse a che si accerti se tale fatto costituisce un inadempimento reato e, in caso positivo, ad individuare chi lo ha commesso e a punirlo; solo una volta punito (giusta condanna) il soggetto attivo responsabile del reato (anch’egli “porzione individuale” dello Stato Comunità), essi avranno interesse a che costui sconti concretamente la pena. Mentre in questo secondo caso si parla di pretesa punitiva concreta, che può incorrere in prescrizione per decorso del tempo (c.d. prescrizione della pena), nel primo – da sempre a cavallo tra il diritto penale sostanziale e quello processuale (e dunque tra la prescrizione “del diritto” e quella “dell’azione”) – si è al cospetto di una pretesa punitiva astratta, che sottende appunto l’interesse all’accertamento della consistenza di un fatto come “inadempimento reato”, alla individuazione del responsabile e alla pertinente punizione, e che del pari – attenuandosi per decorso del tempo – si prescrive se non giunge la condanna definitiva ed irrevocabile entro un certo termine; il quale ultimo può anche talvolta essere sospeso e che, entro dati limiti complessivi, può essere interrotto e riprendere a decorrere ex novo.
Lo Stato Apparato – nella relativa declinazione (debitoria) di “servizio-Giustizia” – ha peraltro l’obbligo, costituzionalmente presidiato, di procedere all’accertamento dell’eventuale reato, alla identificazione del responsabile ed alla pertinente punizione in tempi ragionevoli, sia (da un lato) al fine di scongiurare processi senza fine nei confronti del presunto responsabile, sia (dall’altro) per scongiurare possibili violazioni dei diritti fondamentali delle vittime, dovendosi tener conto che tanto le vittime quanto i responsabili sono anch’essi “porzioni individuali” del (creditore) Stato Comunità e che, talvolta, le vittime sono financo Soggetti sovranazionali (come l’Unione Europea) nei confronti dei quali lo Stato Apparato medesimo è vincolato da specifici e puntuali obblighi.
Può allora accadere che – nel medesimo attimo in cui lo Stato Comunità viene assunto aver perso interesse alla astratta punibilità di un determinato fatto – altri soggetti vedano perpetrato nei loro confronti, da parte dello Stato-Apparato-Giustizia, un inadempimento qualificato sul crinale sovranazionale (UE) o convenzionale (CEDU), assumendo la veste, rispettivamente, di creditori “interessati” lesi nei rispettivi diritti da tale inadempimento (in senso tanto sostanziale che processuale: sono le vittime di colpevoli che per lungaggine processuale restano impuniti pur avendo leso diritti fondamentali); ovvero di creditori “controinteressati” avvantaggiati dal ridetto inadempimento (in senso processuale: sono i colpevoli che – giusta lungaggini per l’appunto processuali – restano alfine impuniti).
Crono-articolo
Diritto romano
Nel diritto romano, la prescrizione si pone in termini di tempo di spettanza di una determinata actio, e dunque si colloca fondamentalmente in ambito processuale; e se le legis actiones sono azionabili in perpetuo e così anche le actiones di ius civile nel successivo processo formulare, diversa è la sorte che via via tocca nel periodo della Repubblica alle actiones ed alle exceptiones di diritto onorario che restano caratterizzate, quand’anche in modo non sistematico, da una certa qual temporaneità. Proprio con particolare riguardo alle actiones (pretorie) poenales, si riscontra nelle fonti (D. 44, 7, 35) una regola attribuita al giurista Cassio (di scuola Sabiniana) alla cui stregua le ridette actiones poenales sono esperibili in un tempo limitato e precisamente entro 1 anno, a differenza delle actiones reipersecutoriae, che hanno invece carattere perpetuo; mentre se si tratta di recuperare una res resta valido dunque il canone della perpetuità, nelle fattispecie più specificamente “punitive” è opportuno per i Romani che – come ha osservato la dottrina – la soddisfazione dell’offesa sia rapida rispetto all’offesa stessa, che deve essere ancora nella mente della vittima. La regola dunque, in campo penale, è quella della azioni “annuali”, anche se non mancano eccezioni, come nel caso dell’actio furti manifesti che, riprendendo una fattispecie già prevista dal ius civile (solo con pena modificata), è esperibile in perpetuo. Se questa è la situazione nel periodo classico, in epoca successiva si assiste ad una costante evoluzione del regime della prescrizione dell’azione (e, dunque, del reato), coevamente anche alla progressiva distinzione tra delicta privati e crimina pubblici, con riguardo ai quali ultimi l’azione si atteggia di regola ad imprescrittibile, ma con progressiva tendenza, compiutamente realizzata durante tutto l’affermarsi della c.d. cognitio extra ordinem, al principio della temporaneità, con progressivo invalere del termine ventennale di prescrizione (una costituzione di Diocleziano e Massimiano del 293 d.C., anche se di dubbia autenticità per parte della dottrina, indica in 20 anni la prescrizione – vigenti annorum exceptione – per l’accusa di falso o querella falsi e sembra riferire tale principio anche agli altri reati, laddove afferma: “… sicut cetera quoque fere crimina”); termine di 20 anni che è ormai senz’altro una regola ai tempi di Giustiniano, salve fattispecie penali eccezionali imprescrittibili ovvero, all’opposto, assoggettate a prescrizione più breve.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che non parla di prescrizione del reato, come del resto non discorre di prescrizione della pena, esprimendosi piuttosto in termini di prescrizione “dell’azione penale” (e, per quanto concerne la prescrizione della pena, di prescrizione “della condanna”). Le norme rilevanti sono gli articoli 91 e seguenti: più in specie, ai sensi dell’art.91 la prescrizione, salvo i casi nei quali la legge disponga altrimenti, estingue l’azione penale secondo periodi temporali che vanno dai 20 anni se all’imputato si sarebbe dovuto infliggere l’ergastolo fino ai 6 mesi nel caso in cui gli si sarebbe dovuta infliggere la minor pena possibile; ai sensi poi del successivo art. 92, la prescrizione per i reati consumati decorre dal giorno della relativa consumazione, mentre per i reati tentati o mancati dal giorno in cui fu commesso l’ultimo atto di esecuzione e, per i reati continuati o permanenti, dal giorno in cui ne cessò la continuazione o la permanenza. Ai sensi dell’art.99 la prescrizione dell’azione penale è applicabile d’ufficio, e l’imputato non può rinunziarvi. Si tratta di disposizioni che palesano già in qualche modo la ancipite rilevanza della prescrizione del reato tanto in ambito sostanziale quanto in ambito processuale.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che – dopo aver introdotto una disciplina della successione di leggi penali nel tempo ispirata fondamentalmente al principio della irretroattività della legge sopravvenuta più sfavorevole e, all’opposto, di retroattività di quella sopravvenuta più favorevole (art.2 c.p.) – norma poi la prescrizione in ottica sostanziale, quale causa di estinzione del reato, agli articoli 157 e seguenti. Secondo l’art. 157 (che non cita esplicitamente l’ergastolo) la prescrizione estingue il reato con misura decrescente: 1° in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni; 2° in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni; 3° in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni; 4° in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa; 5° in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’arresto; 6° in diciotto mesi, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’ammenda. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti; nel caso di concorso di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti si applicano anche a tale effetto le disposizioni dell’articolo 69. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e quella pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Stando al successivo art.158 il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui e’ cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui e’ cessata la permanenza o la continuazione; nessun cenno viene invece esplicitamente fatto alle fattispecie di reato abituale. Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione (ex art.44), il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si e’ verificata. Nondimeno, nei reati punibili a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato. Stando all’art.159, il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere, o di questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale e’ imposta da una particolare disposizione di legge, riprendendo il relativo corso dal giorno in cui e’ cessata la causa della sospensione. Per l’art.160 il corso della prescrizione e’ interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna. Interrompono pure la prescrizione il mandato o l’ordine di cattura o di arresto, di comparizione o di accompagnamento, l’interrogatorio reso dinanzi l’Autorita’ giudiziaria, la sentenza di rinvio al giudizio e il decreto di citazione per il giudizio. La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. Se piu’ sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre la metà. Infine, stando all’art.161 la sospensione e la interruzione della prescrizione – in caso di concorso di persone – hanno effetto entrambe (in malam partem) per tutti coloro che hanno commesso il reato. Quando per più reati connessi si procede congiuntamente, la sospensione o la interruzione della prescrizione per taluno di essi ha effetto anche per gli altri.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, i cui articoli 2934 e seguenti disciplinano la prescrizione dei diritti. In particolare, secondo l’art.2934, se da un lato ogni diritto si estingue per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge (comma 1), dall’altro non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge (comma 2): il codice prefigura dunque pretese imprescrittibili, in relazione alle quali il tempo non è idoneo a pregiudicare il titolare nel relativo esercizio.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie in cui l’inerzia “processuale” dello Stato apparato è epifania, ad un tempo, del venir meno dell’interesse dello Stato Comunità (seppur non anche, necessariamente, della relativa proiezione individuale identificantesi nella pertinente vittima) a verificare se un determinato fatto commesso è inadempimento reato, se qualcuno lo ha commesso e se merita sanzione.
1973
Il 21 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.155, che – in tema di interruzione della prescrizione – dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 160 del codice penale, in relazione all’art. 304 del codice di procedura penale, modificato dall’art. 8, primo e secondo comma, della legge 5 dicembre 1969, n. 932, sollevata dal pretore di Torino, con ordinanza 10 novembre 1971, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. La Corte rammenta come risulti dai lavori preparatori (vedasi la Relazione al Re, n. 80) che il vigente codice penale ha voluto riservare agli “atti veramente fondamentali” del procedimento la idoneità ad interrompere il corso della prescrizione. Ora, é certo – prosegue la Corte – che l’avviso della pendenza del procedimento (l’attuale comunicazione giudiziaria: art. 3 della legge 15 dicembre 1972, n. 773), teleologicamente preordinato a rendere possibile un pronto ed efficace esercizio del diritto di difesa, può precedere il promovimento dell’azione penale e può essere seguito dal cosiddetto decreto di archiviazione (art. 74, terzo e quarto comma, cod. proc. pen.), dal che si deduce che la relativa emissione non esprime necessariamente il convincimento del magistrato che si debba procedere. Va altresì osservato – prosegue la Corte – che l’avviso é destinato non solo all’indiziato di reato, ma a tutti coloro che possono assumere la qualità di parti private (art. 8 della legge n. 932 del 1969, modificato dall’art. 3 della legge n. 773 del 1972), il che lo differenzia dalla serie degli atti elencati nell’art. 160 cod. pen., parecchi dei quali sono estranei alle altre parti private e non hanno interferenza con esse. La Corte rammenta come già nella sentenza n. 97 del 1972 – la quale ha escluso che l’avviso abbia sempre obbligatorio ingresso nel processo penale, disattendendo la dedotta illegittimità della omissione nel procedimento (pretorile) che sia privo di attività istruttoria – essa abbia osservato che, prima della legge n. 932 del 1969, la mancata previsione, nel nostro sistema processuale, dell’avviso di procedimento non era mai stata denunziata, neppure per eventuale violazione del diritto di difesa; tanto meno dunque l’avviso può assurgere, per forza propria e senza l’intervento del legislatore, alla dignità di atto fondamentale, da equipararsi a quelli che per l’art. 160 cod. pen., interrompono la prescrizione. Stante, dunque, la natura diversa degli atti, per legge, interruttivi – tipica espressione della potestà punitiva dello Stato – e dell’avviso di procedimento (ora comunicazione giudiziaria), che soddisfa – ribadisce la Corte – un’esigenza defensionale, la differenza di trattamento, rispetto all’istituto della estinzione del reato per prescrizione, non appare ingiustificata, e, comunque, non integra una violazione dell’art. 3 Cost., dato che non può non rientrare nella discrezionalità del legislatore stabilire quali siano gli atti idonei ad interrompere la prescrizione.
1975
Il 22 maggio viene varata la legge n. 152, recante disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, secondo il cui art.16 la prescrizione dei reati previsti dalla legge 14 ottobre 1974, n. 497, recante nuove norme contro la criminalità, nonché dall’articolo 14 della legge stessa (naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona) rimane sospesa: a) durante la latitanza dell’imputato e per tutta la durata di essa; b) durante il tempo necessario per la notifica di ordini o mandati all’imputato che non abbia provveduto alla comunicazione prevista nel terzo comma dell’articolo 171 del codice di procedura penale sino al giorno in cui la notifica sia stata effettuata ovvero sia stato emesso il decreto di irreperibilita’ di cui all’articolo 170 dello stesso codice; c) durante il rinvio, chiesto dall’imputato o dal suo difensore, di un atto di istruzione o del dibattimento e per tutto il tempo del rinvio.
1981
Il 24 novembre viene varata la legge n.689, recante modifiche al sistema penale e depenalizzazione, secondo il cui articolo 28 il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui e’ stata commessa la violazione e l’interruzione della prescrizione e’ regolata dalle norme del codice civile.
1985
Il 4 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.254, alla cui stregua il legislatore può prevedere un trattamento differenziato, rispettivamente, per il concorso materiale di reati e per il reato c.d. continuato (con più reati avvinti dal medesimo disegno criminoso), nei limiti del contrasto con il principio di ragionevolezza. La pronuncia si occupa proprio del trattamento differenziato che, in tema di decorrenza della prescrizione del reato, intercorre tra concorso materiale di reati (laddove ciascun reato in concorso segue il proprio regime di decorrenza prescrizionale, avente a punto di riferimento la relativa consumazione) ed il reato c.d. continuato, laddove la prescrizione per tutti i reati avvinti dal medesimo disegno criminoso decorre dalla cessazione della continuazione, e dunque dalla consumazione dell’ultimo reato commesso. La Corte dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 81, secondo comma, e 158, primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Roma con ordinanza del 22 luglio 1977 e, ad un tempo, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 158, primo comma, del codice penale, nella parte in cui dispone che per il reato continuato il termine della prescrizione decorre dal giorno nel quale é cessata la continuazione, questione sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Chieri con ordinanza del 18 novembre 1978.
1988
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.531, salvo quanto disposto dall’articolo 129 comma 2, il giudice, se il reato è estinto (anche per prescrizione), pronuncia sentenza di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo, provvedendo nello stesso modo quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato. Importante proprio l’art.129, comma 2, ispirato al principio del favor rei, alla cui stregua quando ricorre una causa di estinzione del reato, e dunque anche la pertinente prescrizione, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta, essendo sempre preferibile una assoluzione piena di merito rispetto ad una declaratoria di mera estinzione del reato.
1989
Il 28 luglio viene varato il decreto legislativo n.271, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del (nuovo) codice di procedura penale, il cui art.239, comma 1, sostituisce l’art.160, comma 2, c.p. in tema di interruzione della prescrizione. Secondo la nuova formulazione, interrompono pure la prescrizione (oltre alla sentenza di condanna e al decreto penale di condanna di cui al comma 1) l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio.
1990
Il 31 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.275, che dichiara illegittimo l’art.157 c.p. laddove non prevede che la prescrizione del reato possa essere oggetto di rinuncia da parte dell’imputato. Per la Corte il legislatore, nel disciplinare l’istituto sostanziale (dunque ormai assunto tale) della prescrizione, non poteva non tener conto del carattere inviolabile del diritto alla difesa, inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova, palesandosi privo di ragionevolezza rispetto ad una situazione processuale improntata a discrezionalità, che l’interesse a non più perseguire (sorto a causa di circostanze eterogenee e comunque non dominabili dalle parti) debba prevalere su quello sostanziale dell’imputato, con la conseguenza di privarlo di un diritto fondamentale quale è appunto il diritto di difesa.
1994
Il 31 marzo esce la sentenza delle SSUU n.3760, Munaro, alla cui stregua al fine di individuare il momento in cui si produce la prescrizione del reato occorre avere riguardo all’emissione di uno degli atti di cui all’art.160 c.p., e non a quello della relativa notificazione, tenuto anche conto che non tutti tali atti sono recettizi.
Il 19 dicembre viene varato il decreto legislativo n.758, recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro, il cui art.23 statuisce che il procedimento per le pertinenti contravvenzioni è sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 del codice di procedura penale fino al momento in cui il PM riceve una delle comunicazioni di cui all’art. 21, commi 2 e 3 dello stesso decreto. La sospensione del procedimento penale viene assunta, in questi casi, implicare anche sospensione della prescrizione dei reati contravvenzionali coinvolti.
1998
Il 24 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7442, alla cui stregua la prescrizione del reato è istituto di natura sostanziale, stante come il decorso del tempo non si limiti ad estinguere l’azione penale (profilo processuale), eliminando piuttosto la punibilità in sé e per sé del reato (profilo sostanziale), nel senso che essa costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva. Di qui la necessaria irretroattività delle norme che, come ius superveniens, allunghino un termine di prescrizione non ancora decorso, pena altrimenti la frizione con gli art.25, comma 2, Cost. e 2, comma 1, c.p.
Il 30 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.455 che – nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 100, secondo comma, del testo unico delle leggi per la composizione e l’elezione degli organi delle Amministrazioni comunali, approvato con d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, sollevata, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 97 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Udine e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Caltagirone – afferma in motivazione la natura sostanziale della prescrizione del reato, nel passaggio laddove ricorda che le diverse scelte del legislatore, anche con riferimento al termine prescrizionale, sono espressione della discrezionalità che va riconosciuta al legislatore medesimo per quanto attiene alla sfera (e in particolare all’an e al quomodo) della punibilità. Ogni aggravamento di pena – o inasprimento della disciplina “sostanziale” che attenga alla punibilità – é infatti rimesso, precisa la Corte, alla ragionevole ponderazione degli interessi in gioco che spetta al Parlamento effettuare.
1999
Il 23 novembre viene varata la importantissima legge costituzionale n.2 che modifica, integrandolo, l’art.111 Cost. disciplinando il c.d. giusto processo. Più in particolare, secondo i nuovi comma da 1 a 3, la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (comma 1); ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale e la legge ne deve assicurare la ragionevole durata (comma 2); nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. La riforma concerne in specie la declinazione “processuale” della prescrizione del reato, nell’ottica della delimitazione del tempo entro il quale il processo penale va celebrato e dunque, in ultima analisi, del tempo occorrente per accertare se un fatto storico sia o meno inadempimento reato, per individuare chi lo ha commesso e per punirlo.
2000
Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n.74 recante nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, secondo il cui art.17 il corso della prescrizione per i delitti previsti dal decreto medesimo (delitti fiscali) e’ interrotto, oltre che dagli atti indicati nell’articolo 160 del codice penale, dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle relative violazioni.
Il 28 agosto viene varato il decreto legislativo n.274, recante disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468, secondo il cui articolo 61 il corso della prescrizione per i reati attribuiti appunto alla cognizione del giudice di pace e’ interrotto, oltre che dagli atti indicati nell’articolo 160 del codice penale, dalla citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, nonché dal decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace
2001
Il 6 giugno viene varato il D.p.R. n.380, recante Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, secondo il cui art.45, comma 1, l’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’articolo 36; laddove la sanatoria si produca (la PA può concederla per sole violazioni formali) le contravvenzioni edilizie si estinguono ai sensi del comma 3 del ridetto art.45, secondo il quale il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 33453, alla cui stregua l’interrogatorio dell’indagato, effettuato dalla polizia giudiziaria per delega del PM ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., non e’ atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione, non rientrando nel novero degli atti, produttivi di tale effetto, indicati nell’art. 160, comma II, cod. pen. e non essendo questi ultimi – da assumersi tassativi – suscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem materia penale.
2005
Il 5 dicembre viene varata la legge n.251, c.d. ex Cirielli dal nome del deputato che dapprima ne presenta il disegno di legge e poi, al cospetto del sostanziale mutare del pertinente testo durante l’iter parlamentare, finisce con il non votarla. Il relativo art.6 incide in modo innovativo sulla disciplina codicistica della prescrizione del reato, con particolare riguardo al tempo necessario a prescrivere e ai criteri di determinazione del tempo necessario a prescrivere (art.157, comma da 1 a 3, c.p.); alla decorrenza del termine prescrizionale in ipotesi di reato continuato (art.158, comma 1, c.p.:); alle cause si sospensione della prescrizione (art.159 c.p.); alla interruzione della prescrizione ed ai limiti fissati per il maturare della prescrizione stessa in caso di atti interruttivi (art.160 c.p.). Particolarmente rilevante la modifica operata in termini di decorrenza della prescrizione del reato laddove si configuri continuazione, con dequotazione della fictio iuris alla cui stregua si assiste ad una unificazione giuridica tra le singole figure criminose avvinte dalla medesimezza del disegno criminoso: mentre nell’originaria disciplina codicistica la prescrizione decorre dalla cessazione della continuazione (come della permanenza), e dunque dalla consumazione dell’ultimo dei reati avvinti dal vincolo della continuazione (lasciando in disparte il periodo prescrittivo riferito a ciascuno dei reati commessi ed uniti dal medesimo disegno criminoso, e nonostante il canone di autonomia dei singoli reati che compendiano la continuazione), sul presupposto che – non essendo ancora esaurito l’unico disegno criminoso imbastito dal reo – la prescrizione non può appunto decorrere, con la legge ex Cirielli il riferimento alla continuazione scompare dall’art.158 c.p., onde la prescrizione decorre – per ciascun reato avvinto dal disegno criminoso – dal giorno in cui esso è stato consumato, con trattamento dunque analogo a quello del concorso materiale tra reati. Importante anche l’art.10, secondo il cui comma 2 – in materia di diritto penale intertemporale – ferme restando le disposizioni di cui all’art.2 c.p. per quanto concerne le altre norme della legge, le disposizioni dell’art.6 – e dunque proprio quelle in materia di prescrizione – non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso, se i termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti (norma ispirata al favor rei); stando tuttavia al successivo comma 3, se per effetto delle nuove disposizioni i termini risultano più brevi di quelli previgenti (operando dunque in bonam partem), esse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti al momento di entrata in vigore della legge, ad eccezione dei processi pendenti in primo grado in relazione ai quali vi sia già stata apertura del dibattimento, nonché dei processi pendenti in grado di appello o in Cassazione. La ex Cirielli interviene poi innovativamente, in particolare, sul modus della determinazione della gravità dei reati al fine di stabilirne il rispettivo termine di prescrizione: mentre la versione originaria del codice prevedeva all’art.157 c.p. classi di reato omogenee in termini di tipologia di pena applicata, facendone derivare il termine prescrizionale (ad esempio, per le contravvenzioni punite con l’arresto la prescrizione era fissata in 3 anni), la riforma impone (nuovo art.157, comma 1) di guardare al massimo della pena edittale che la legge stabilisce di volta in volta per il singolo reato (e dunque in modo autonomo ed esclusivo, non più per classi), ancorando rigidamente al ridetto massimo il termine necessario a prescrivere, sul presupposto onde è appunto l’entità (massima) della pena prevista dal legislatore il “termometro” del disvalore penale della singola fattispecie; la prescrizione estingue infatti ormai il reato quando sia decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale prevista per quel reato dalla legge, e comunque un termine non inferiore a 6 anni se si tratta di delitto, ovvero a 4 anni se si tratta di contravvenzione (quand’anche puniti con la sola pena pecuniaria, multa o ammenda); il comma 4 del nuovo art.157 prevede poi che quando il reato è punito con pena detentiva e, congiuntamente o alternativamente, con pena pecuniaria, di quest’ultima non si tiene conto ai fini del tempo necessario a prescrivere, rilevando solo il massimo di pena detentiva previsto. Dal punto di vista pratico, con la ex Cirielli il termine di prescrizione – tanto per i delitti che per le contravvenzioni – talvolta si allunga e talaltra si accorcia, con mutevoli effetti in bonam partem o in malam partem (rilevanti, a tacer d’altro, in materia di successione di leggi penali) a seconda appunto che il termine prescrizionale si accorci o si allunghi: per quanto concerne i delitti, quelli puniti con pena non inferiore a 24 anni vedono salire il tempo necessario a prescrivere dagli originari 20 anni ai nuovi 24 o addirittura 30 anni; quando per il delitto la pena prevista è della reclusione non inferiore a 10 anni, tenendo conto del fatto che in precedenza il termine di prescrizione era sempre di 15 anni, ora occorre distinguere onde se il massimo di pena edittale fissato per il singolo delitto è superiore a 15 anni, la prescrizione è ora più lunga (adeguandosi a tale termine), mentre è più breve se il massimo di pena edittale va da un massimo di 10 anni ad un massimo di meno di 15 anni (anche qui la prescrizione adeguandosi a tale termine), mentre resta ovviamente a 15 anni laddove il massimo edittale di pena per il delitto di che trattasi sia appunto di 15 anni; quando per il delitto è prevista la pena della reclusione non inferiore a 5 anni, mentre fino ad ora la prescrizione è maturata invariabilmente in 10 anni, da ora in avanti essa vede il termine di maturazione sostanzialmente diminuito, dovendosi guardare al massimo di pena stabilito per tali reati che si muove in un range che va dai 6 ai 9 anni (comunque inferiore ai ridetti 10, anteriormente previsti); quando per il delitto è prevista la pena della reclusione inferiore a 5 anni, ovvero la pena della multa, mentre fino ad ora il termine prescrizionale è stato di 5 anni, ora esso si colloca sui 6 anni (gli esempi che vengono normalmente fatti sono quelli della corruzione per un atto dell’ufficio ex art.318 c.p., dell’abuso d’ufficio ex art.323 c.p. nonché delle c.d. false comunicazioni sociali ex art.2622 c.c.); il termine di prescrizione per le contravvenzioni è aumentato a 4 anni (minimi), rispetto ai 3 o ai 2 (a seconda della classe di riferimento) di cui al testo originario del codice: si tratta di un termine che la dottrina assume comunque breve, tenendo conto che le violazioni amministrative si prescrivono nel più lungo termine di 5 anni (ex art.28 della legge 689.81), e considerando altresì come siano puniti a titolo di contravvenzione fatti che possono essere anche gravi perché afferenti a settori delicati dell’ordinamento, come ad esempio l’edilizia. Se questo è il quadro generale di cui alla ex Cirielli in termine di “regola” con riguardo al termine necessario a prescrivere il reato, sono previste talune eccezioni, la prima delle quali è inscritta al nuovo comma 5 dell’art.157 c.p., onde quando la pena prevista dal legislatore è diversa sia da quella detentiva che da quella pecuniaria, il termine di prescrizione è pari a 3 anni: si tratta in particolare, secondo la dottrina, di fattispecie sottoposte alla competenza del Giudice di pace e punite con il lavoro di pubblica utilità, ovvero con l’obbligo di permanenza domiciliare (art.52 del decreto legislativo n.274 del 2000), che tuttavia sono sempre previste come alternative a sanzioni di natura pecuniaria, con conseguente rischio di concreta inapplicabilità della nuova disposizione in parola (onde anche i reati giudicati dal Giudice di pace si prescrivono secondo la regola di cui al comma 1 dell’art.157 c.p. novellato). Altra eccezione è quella prevista dal comma 6 dell’art.157 c.p. post legge ex Cirielli – destinato in seguito ad essere più volte novellato – onde per talune fattispecie di reato i termini di prescrizione sono raddoppiati: si tratta, segnatamente, dei delitti colposi di danno contro la pubblica incolumità ex art.449 c.p., dell’omicidio colposo aggravato e plurimo ex art.589, comma 2 e 3, c.p., nonché per i gravi reati previsti dall’art.51, comma 3 bis e 3 quater, del c.p.p. Altre importanti considerazioni vanno fatte in relazione alle novità che la legge ex Cirielli introduce in tema di circostanze, in quanto occorre ormai (art.157, comma 2 e 3, siccome novellati) – al fine di determinare il termine di prescrizione – tenere conto della pena stabilita pei il reato consumato o tentato senza che abbia rilievo la diminuzione prevista per eventuali circostanze attenuanti né, di regola, l’aumento previsto per eventuali circostanze aggravanti; è inoltre inapplicabile l’art.69 c.p. in tema di bilanciamento delle circostanze, che dunque non incide sulla prescrizione del reato al quale la circostanza si riferisce. In sostanza, viene sterilizzata l’incidenza delle circostanze sul tempo necessario a prescrivere, che dunque risulta più “astratto” meno legato al fatto siccome concretamente atteggiatosi sul piano storico; fanno eccezione le sole circostanze aggravanti che prevedano una pena di specie diversa rispetto a quella ordinaria e le circostanze c.d. ad effetto speciale (quelle cioè che, ai sensi dell’art.63 c.p., implicano un aumento della pena superiore ad un terzo); l’esclusione dell’incidenza, sul computo del termine prescrizionale, dell’eventuale giudizio di bilanciamento (peraltro pienamente coerente rispetto alla prevista, totale irrilevanza all’uopo delle circostanze attenuanti e della solo eccezionale rilevanza delle aggravanti) ha come scopo quello di oggettivizzare il tempus prescrizionale, sottraendolo alla discrezionalità del giudice penale e ad un tempo fornendo al cittadino sottoposto a processo un parametro cronologico certo di relativo coinvolgimento, in termini di permanenza, nella macchina della giustizia, tenendosi conto che una componente oggettiva è presente anche nelle eccezionali ipotesi di circostanze aggravanti che influiscono sul termine prescrizionale, che sono le medesime che influiscono sulla gravità oggettiva del reato a fini di competenza (art.4 c.p.p.) e che dunque rilevano in termini di diversa valutazione legale del fatto inadempimento reato (alla stregua dei relativi elementi costitutivi) e di un conseguentemente diverso trattamento sanzionatorio del medesimo. Richiamando gli insegnamenti della Corte costituzionale, il comma 7 dell’art.157 c.p. siccome novellato dalla legge ex Cirielli assume la prescrizione sempre rinunciabile dall’imputato, mentre l’ultimo comma prevede che non si prescrivano i reati puniti con la pena dell’ergastolo, anche qualora esso consegua all’applicazione di circostanze aggravanti (che dunque in tal caso rilevano nel senso di far escludere comunque la prescrittibilità del reato base). L’art.6, comma 3, della legge interviene anche sulla sospensione del termine di prescrizione, riformulando l’art.159 c.p., onde il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare e’ imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere; 2) deferimento della questione ad altro giudizio; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore; in caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori (c.d. legittimo impedimento), l’udienza non può peraltro essere differita oltre il 60° giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario (e dunque laddove tale rinvio dell’udienza non venga disposto) al tempo dell’impedimento aumentato di 60 giorni, fatte comunque salve le facolta’ previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale; in caso di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica dal momento in cui il PM presenta la richiesta e il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta ridetta; la prescrizione riprende il relativo corso dal giorno in cui e’ cessata la causa della sospensione. Sul versante della interruzione della prescrizione e dei relativi termini complessivi c.d. “endoprocedimentali”, la legge novella poi l’art.160 c.p.; più in specie, il relativo art.6, comma 4, modifica il comma 3 dell’art.160 c.p., onde le parole “ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre la metà” sono sostituite dalle seguenti: “ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre i termini di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale“; il successivo art.10, comma 2 e 3, della legge ex Cirielli – del pari – incide sull’art.160 comma 3 laddove dispone che ferme restando le disposizioni dell’articolo 2 del codice penale quanto alle altre norme della legge medesima, le disposizioni dell’articolo 6 (e dunque proprio quelle che concerno l’interruzione della prescrizione) non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso solo se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti mentre se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più’ brevi (e, dunque, in bonam partem), le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge stessa, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, dunque con solo parziale retroattività delle norme favorevoli. Infine, la legge interviene (art.6, comma 5), sull’art.161 c.p., sostituendo il testo del comma 2 che ora prevede che – salvo che si proceda per i reati (particolarmente gravi) di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale – in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di ¼ del tempo necessario a prescrivere, della metà nei casi (recidiva aggravata, specifica e infra-quinquennale) di cui all’articolo 99, comma 2, di 2/3 nel caso di cui all’articolo 99, comma 4 (recidiva reiterata), e del doppio nei casi (abitualità e professionalità nel delitto) di cui agli articoli 102, 103 e 105 del c.p.. Anche in questo caso, il diritto penale intertemporale viene disciplinato dall’art.10, comma 2 e 3, della legge, onde – ferme restando le disposizioni dell’articolo 2 del codice penale quanto alle altre norme della legge stessa – le disposizioni dell’articolo 6 (e dunque anche quelle in parola) non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti (e dunque in malam partem); se invece, per effetto delle nuove disposizioni, i termini ridetti risultano più brevi (e dunque in bonam partem), le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge stessa, ma ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione (retroattività in mitius mitigata).
2006
Il 23 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.393, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. ex Cirielli), limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché». In sostanza, la Corte stigmatizza l’operato del legislatore laddove ha limitato la retroattività delle norme più favorevoli introdotte in tema di prescrizione ai soli fatti per i quali siano in corso processi di primo grado con dibattimento non ancora aperto, escludendola per quelli che si trovano in una fase successiva a tale apertura del dibattimento, compresi quelli in grado di appello o in cassazione, scelta legislativa assunta irragionevole. La Corte si preoccupa in primo luogo di individuare la ratio dell’art.2, comma 4, del c.p. alla cui stregua se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, chiedendosi se per disposizioni “più favorevoli al reo” debbano intendersi solo quelle che dettano la misura della pena ovvero anche altre che ne modificano il regime di applicabilità, come appunto quella che accorcia i termini di prescrizione del sottostante reato, prendendo dunque a punto di riferimento il complessivo trattamento riservato al soggetto attivo di tale reato; per la Corte ogni qual volta la disciplina della singola fattispecie criminosa risulti modificata in melius, si è in presenza di disposizioni più favorevoli al reo. Per quanto poi concerne la natura giuridica della prescrizione del reato, la Corte opta per la relativa connotazione in termini di diritto penale sostanziale, dacché il decorso del tempo, secondo conforme giurisprudenza costituzionale, non si limita ad estinguere l’azione penale, implicando piuttosto la eliminazione della punibilità in sé e per sé, quale causa di rinuncia totale dello Stato alla pertinente potestà punitiva; proprio per questo uno ius superveniens (di natura sostanziale) che incida in senso diminutivo sul termine prescrizionale deve assumersi operare in melius rispetto alla disciplina precedente, con applicabilità appunto dell’art.2, comma 4, c.p. Per la Corte occorre poi indagare se il principio di retroattività della legge penale più favorevole, ispirato al canone del c.d. favor rei, del quale costituisce espressione proprio l’art.2, comma 4 (a lungo, in precedenza, comma 3), c.p.: in proposito, per la Corte va affermato che il principio della retroattività della normativa penale sostanziale più favorevole ha un addentellato costituzionale, il relativo fondamento giuridico palesandosi non tanto l’art.25, comma 2, Cost., quanto piuttosto l’art.3 della Carta, onde il legislatore può derogare al principio della retroattività della lex mitior solo nei limiti della ragionevolezza (in sostanza, con la finalità di presidiare interessi che abbiano rango analogo a quello sacrificato), pena la violazione appunto del principio di eguaglianza di cui all’art.3 Cost. Per la Corte, in proposito, non è sufficiente “in negativo” andare a verificare la non manifesta irragionevolezza della deroga, dovendosi piuttosto indagare “in positivo” la effettiva ragionevolezza della deroga medesima. Si è dunque al cospetto di un principio (c.d. retroattività della lex mitior penale sostanziale) che pur non avendo un rango costituzionale in sé, è divenuto canone importante anche in ambito esterno all’ordinamento italiano, con conseguente, ribadita necessità che l’eventuale deroga all’art.2, comma 4, c.p. abbia una logica ispirata a dimostrata ragionevolezza. Nel caso di specie, la deroga al principio di retroattività della lex mitior in tema di prescrizione (istituto di diritto sostanziale) siccome disposta dalla legge ex Cirielli non appare assistita dalla necessaria ragionevolezza laddove limita l’effetto favorevole in essa previsto (termine più breve di prescrizione) alla circostanza onde, per i fatti per cui si procede, non si sia ancora aperto il dibattimento di prime cure, per escluderla in tutti gli altri, non affiorando interessi di pari rango da dover presidiare giust’appunto attraverso la ridetta deroga, non potendo per tale (interesse di pari rango) essere addotto quello alla non dispersione della prova, dacché l’apertura del dibattimento di primo grado individua un momento anteriormente al quale, di norma, non vengono compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate (sicché non è verosimile il rischio che l’accorciamento del termine di prescrizione anche laddove – magari di poco – successivo alla ridetta apertura del dibattimento, dalla legge censurata escluso, contribuisca a “disperdere” il patrimonio probatorio affiorato da un giudizio che non è stato ancora celebrato: in sostanza, di dispersione della prova potrebbe parlarsi solo, al limite, dopo che la prova ha iniziato a formarsi, e dunque quanto meno a dibattimento ormai aperto).
2007
Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione – hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo.
Il 13 dicembre viene varato il Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunita’ europea (TCE) e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni. Si tratta del Trattato con il quale viene dato l’abbrivio, tra l’altro, al nuovo TFUE, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il cui articoli 325 (già art.280 del TCE), prescrive che “1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione; 2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari.”
2008
Il 23 maggio viene varato il decreto legge n.92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica.
Il 24 luglio viene varata la legge n.125, che converte con modificazioni il decreto legge n.92 e inserisce, nell’art.1, una lettera c.bis), che dispone – novellando l’art.157, comma 6, c.p. – il raddoppio dei termini prescrizionali anche per il reato previsto dall’art.589, comma 4, e dunque anche per l’omicidio colposo commesso in ambito di circolazione stradale da chi guidi in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Il 2 agosto viene varata la legge n.130, recante ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunita’ europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007. Si tratta del Trattato con il quale viene dato l’abbrivio, tra l’altro, al nuovo TFUE, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il legislatore recepisce dunque nell’ordinamento interno anche l’art.325 del ridetto Trattato, laddove gli Stati membri vengono obbligati a combattere la frode e le attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
2011
Il 29 marzo esce la sentenza della Corte EDU, sezione II, sul caso Alikaj c. Italia, afferente ad una fattispecie in cui la polizia italiana, durante un inseguimento, ha ucciso un giovane originario dell’Albania. Il caso pone la questione dei rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento convenzionale allorché il primo, l’ordinamento italiano, preveda termini di prescrizione del reato laddove il secondo (CEDU) è chiamato a tutelare diritti fondamentali della vittima del reato oggetto di prescrizione estintiva (nel caso di specie, omicidio colposo). L’Italia, sottoscrivendo la CEDU, ha assunto l’obbligo di tutelare i diritti fondamentali, obbligo il cui adempimento non può per la Corte EDU essere pregiudicato dal decorso della prescrizione, giusta finale mancata punizione per fatti di reato anche molto gravi.
Il 14 settembre viene varata la legge n.148 che, convertendo con modificazioni il decreto legge n.138 (del precedente 13 agosto), dispone (con l’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera l)) l’introduzione del comma 1-bis all’art. 17 del decreto legislativo 274 del 2000 in materia di reati tributari e contestualmente (con l’art. 2, comma 36-vicies bis) la modifica di tale art. 17, comma 1-bis. In sostanza, i termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del ridetto decreto legislativo 274.00 vengono elevati di un terzo, ma con applicazione – trattandosi di riforma in malam partem – ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della legge 148.11.
2012
Il 01 ottobre viene varata la legge n. 172, recante ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno, al cui art.4, comma 1, lettera a) viene prevista l’applicazione dell’art.157, comma 6, c.p. – e dunque il raddoppio dei termini prescrizionali – per il reato di cui all’articolo 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II (delitti contro la personalità individuale: riduzione o mantenimento in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile e così via) e di cui agli articoli 609-bis (violenza sessuale), 609-quater (atti sessuali con minorenne), 609-quinquies (corruzione di minorenne) e 609-octies (violenza sessuale di gruppo), salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609-bis (violenza sessuale di minore gravità) ovvero dal quarto comma dell’articolo 609-quater (atti sessuali con minorenne di minore gravità); in queste ultime fattispecie rilevano dunque ai fini del calcolo del termine di prescrizione anche, eccezionalmente, le circostanze attenuanti.
Il 27 dicembre viene varata la sentenza della Corte costituzionale n.313, che si occupa della eventuale illegittimità dell’art.157, comma 5, c.p., siccome novellato dalla legge ex Cirielli del 2005, laddove prevede che il termine massimo a prescrivere sia di 3 anni ogni qual volta la sanzione prevista per il reato considerato sia diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria; per la Corte la questione è manifestamente infondata laddove la norma non prevede che il ridetto termine triennale di prescrizione si applichi a tutti i reati di competenza del giudice di pace (e non solo a quelli puniti con pene c.d. paradetentive), e ciò in quanto va escluso che – con riguardo alle pene c.d. paradetentive di competenza di quest’ultimo – operi appunto l’art.157, comma 5, c.p., e ciò dovendosi tenere conto del fatto che tali pene (lavoro di pubblica utilità, obbligo di permanenza domiciliare) sono sempre alternative a sanzioni pecuniarie, mentre l’art.157, comma 5, c.p. si applica solo nel caso in cui la sanzione prevista per il reato sia diversa tanto da quella detentiva quanto da quella pecuniaria, che dunque non devono essere previste neppure alternativamente.
2013
Il 14 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.23 che dichiara inammissibile la questione di costituzionalità dell’art.159, comma 1, c.p. nella parte in cui prevede (contra reum) la sospensione del corso della prescrizione in presenza delle condizioni di cui all’art.71 e 72 c.p.p., in materia di stato mentale dell’imputato, allorché sia stata accertata la irreversibilità della incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo. La Corte “salva” dunque la norma, ma auspica un intervento del legislatore sul punto.
2014
Il 6 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.5838 che si occupano della questione se la richiesta di applicazione della pena a norma dell’art.444 c.p.p. (c.d. patteggiamento), laddove investa un reato ormai già prescritto, possa valere quale rinuncia alla prescrizione; il Collegio non risolve la questione perché nel caso di specie essa si appalesa irrilevante (all’atto della richiesta congiunta di applicazione della pena il reato non è difatti ancora, nel caso di specie, prescritto), e tuttavia afferma – su altro crinale – che le dichiarazioni spontanee rese a norma dell’art.374 c.p.p. con contestuale contestazione dell’addebito al dichiarante, esplicano un effetto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art.160 c.p., parlando quest’ultima norma di interrogatorio reso dinanzi al PM o al giudice. In questo caso, per le SSUU non si è al cospetto di una estensione analogica in malam partem dell’art.160 ridetto, la quale sarebbe inammissibile, e ciò in quanto è la stessa legge (art.374, comma 2, c.p.p.) a stabilire che l’atto che contiene le dichiarazioni spontanee, allorché assuma i connotati e la struttura dell’interrogatorio dinanzi al PM, equivale per ogni effetto all’interrogatorio medesimo, ciò riscontrandosi quando il fatto per cui si procede venga contestato in modo chiaro e preciso (in sostanza, inequivoco) a colui che si presenta spontaneamente per rendere dichiarazioni al PM, dovendo questi essere ammesso a difendersi allorché sia edotto degli addebiti che in quella sede gli vengono precisamente mossi.
Il 28 aprile viene varata la legge n. 67, recante deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio, nonché di disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, il cui art.12, comma 1 inserisce al comma 1 dell’art.159 c.p., dopo il n.3, un numero 3 bis, prevedendo la sospensione della prescrizione anche laddove il procedimento penale venga sospeso ai sensi dell’art.420 quater del c.p.p. (sospensione del processo per assenza dell’imputato), ed il cui successivo comma 2, inserisce dopo il comma 3 dell’art.159 c.p. – sempre in tema di sospensione della prescrizione – un comma 4 onde nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale, la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal comma 2 dell’articolo 161 del codice penale in termini di interruzione della prescrizione (aumento, normalmente, di non più di ¼ del tempo necessario a prescrivere).
Il 28 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.143, che si occupa del comma 6 dell’art.157 c.p., siccome novellato dalla legge ex Cirielli, laddove raddoppia il termine di prescrizione per tutta una serie di reati, prevedendo in qualche caso un termine davvero molto lungo (come nell’ipotesi di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art.630 c.p., punito nel massimo con 30 anni di reclusione e dunque con termine di prescrizione pari a 60 anni: si parla in queste fattispecie di reati “di fatto” imprescrittibili, a differenze di quelli puniti con l’ergastolo, che lo sono “di diritto”). Normalmente la giustificazione per la previsione di termini sovente molto lunghi risiede nella complessità delle indagini che presidiano l’accertamento e la punizione di determinati reati; giustificazione che tuttavia – non ha mancato nella giurisprudenza di merito e di legittimità – di far sollevare talune perplessità legate alla irragionevolezza della scelta legislativa, stante talvolta la presenza di fattispecie con oggettività giuridica omogenea, ed in relazione alle quali viene nondimeno previsto o non previsto il raddoppio del termine prescrizionale. Ne sono scaturite diverse questioni di legittimità costituzionale, tutte fondate sulla violazione del principio di eguaglianza, o comunque di ragionevolezza, sulle quali è dunque chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale. In particolare, l’attenzione della Corte si concentra sul diverso trattamento riservato, rispettivamente, all’incendio colposo (meno grave, ma soggetto a termine prescrizionale di 10 anni in virtù del raddoppio del termine giusta richiamo operato dall’art.157, comma 6, c.p. all’art.449 c.p.) e all’incendio doloso (più grave, ma che non essendo richiamato dall’art.157, comma 6, c.p., si prescrive in 7 anni, pari al relativo massimo edittale di reclusione). Per la Corte, dinanzi a fattispecie dal punto di vista oggettivo identiche (e differenti solo sul crinale dell’atteggiamento soggettivo dell’agente), stante la formulazione descrittiva “di richiamo” di cui all’art.449 c.p., si riscontra inopinatamente un termine di prescrizione più lungo per la fattispecie meno grave (incendio colposo) ed uno più breve per quella, omogenea, meno grave (incendio doloso). Si tratta per la Corte di una palesa anomalia, essendosi al cospetto di un regime che ribalta la scala di gravità delle due figure criminose, con violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza scolpiti all’art.3 Cost. (come del resto accade anche nelle ipotesi, del pari omogenee, di disastro doloso e colposo ex art.434 e 449 c.p., nonché di naufragio doloso e colposo ex art.428 e 449 c.p., in relazione alle quali verranno sollevate analoghe questioni di costituzionalità). Sullo sfondo, per la Corte vi è la natura sostanziale (e non già processuale) dell’istituto della prescrizione del reato, onde il legislatore può sempre derogare alla regola generale per cui la prescrizione è strettamente ancorata al massimo edittale di pena previsto per il singolo reato (post 2005), sulle base di valutazioni correlate alle specifiche caratteristiche degli illeciti di volta in volta considerati ed alla ponderazione complessiva degli interessi coinvolti (con riguardo alla complessità delle indagini che ne peculiarizzano l’accertamento, ovvero all’allarme sociale che consegue alla pertinente commissione), ma con spendita di potere legislativo discrezionale che è comunque soggetto al canone della ragionevolezza, pena il trattamento irragionevolmente disomogeneo (in materia di prescrizione) di fattispecie in realtà omogenee tra loro. Per la Corte tale irragionevolezza si riscontra proprio nella diversità di trattamento riservata, in materia di termine prescrizionale, tra l’incendio colposo e quello doloso. Più nel dettaglio, per la Corte l’eventualmente accresciuto allarme sociale da riconnettersi a determinate figure di reato può legittimare, nei congrui casi, parametrazioni dei termini prescrizionali che sovvertano la scala di disvalore segnata dalle comminatorie edittali allorché si tratti di figure criminose eterogenee in rapporto al bene protetto o, quanto meno, alle modalità di pertinente aggressione da parte del reo, e non invece quando si discuta di fattispecie identiche sul piano oggettivo e che si distinguono solo per il grado di compartecipazione psicologica da parte dell’autore. Del pari, l’irragionevolezza denunciata non può assumersi sanata da considerazioni giustificative di ordine probatorio, e ciò in quanto la difficoltà di individuazione della regola cautelare violata (che presidierebbe l’allungamento del termine prescrizionale) caratterizza tutti i reati colposi senza essere una peculiarità del solo incendio (colposo), tenendosi anche conto del fatto che quando l’incendio è doloso, se non vi è bisogno di individuare una specifica regola cautelare violata, le indagini possono comunque rivelarsi lunghe e complesse a cagione della maggiore difficoltà di identificarne gli autori responsabili.
Il 23 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.32656 che si occupa della incidenza del concorso di più circostanze ad effetto speciale (che, come tali, importano un aumento di pena superiore ad un terzo) rispetto al termine necessario a prescrivere il reato base. In generale, il concorso di tali circostanze implica, dal punto di vista sanzionatorio, una mitigazione del trattamento sanzionatorio che scaturirebbe dalla mera somma delle pene rispettivamente previste per ciascuna circostanza ad effetto speciale, sol che si consideri come, ai sensi del comma 4 dell’art.63 c.p., se concorrono per l’appunto più circostanze aggravanti tra quelle ad effetto speciale si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave, anche se il giudice può aumentarla. Il problema è quello di capire se questo trattamento “di favore” operi anche sul termine necessario a prescrivere, stante come le circostanze ad effetto speciale siano appunto tra quelle che rilevano in termini di calcolo di tale termine prescrizionale, ai sensi dell’art.157, comma 2, c.p. Più specificamente, si discute se, in presenza di più circostanze ad effetto speciale – come avviene nel caso in cui si contesti un furto aggravato ex art.625 cp. od una truffa aggravata ai sensi dell’art.640, comma 2, c.p., a chi sia già recidivo reiterato qualificato (art.99, comma 4, parte 2 c.p.), giacché in questi casi si è appunto al cospetto di un concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale – si debba tener conto “per sommatoria” degli aggravamenti di pena previsti ai fini del calcolo del termine di prescrizione, ovvero non se ne debba tenere conto: in ipotesi di truffa aggravata contestata al recidivo reiterato qualificato, in difetto di interruzione il termine prescrizionale è pari a 8 anni e 4 mesi se si applica l’opzione più rigorosa, ed è pari a 6 anni e 8 mesi nell’ipotesi opposta. La Corte – pur registrando la presenza di un orientamento contrario e più rigoroso – abbraccia invece, consolidandolo, l’orientamento più garantista inteso a far “riflettere” la disciplina di favore prevista dall’art.63, comma 4, c.p. anche sul computo del termine necessario a prescrivere; per il Collegio l’art.63, comma 4, c.p. esprime un principio di ordine generale con riguardo al concorso di circostanze della stessa specie, tenendosi peraltro conto del fatto che l’art.157 c.p., nella nuova formulazione post legge ex Cirielli, non prevede alcuna riserva circa l’affermata influenza delle circostanze ad effetto speciale sui termini di prescrizione con particolare riguardo alle ipotesi in cui ne sia contestata all’imputato più di una; resta ferma la necessità di operare un coordinamento con quella parte dell’art.63, comma 4, c.p. che prevede la facoltà per il giudice di aumentare la pena; e tuttavia per il Collegio – stante la autonomia della disciplina della prescrizione – la facoltà per il giudice che abbia già applicato la circostanza ad effetto speciale più grave di aumentare vieppiù la pena resta del tutto irrilevante ai fini del calcolo della prescrizione.
2015
Il 25 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.45 che questa volta accoglie la questione di costituzionalità dell’art.159, comma 1, c.p. nella parte in cui prevede (contra reum) la sospensione del corso della prescrizione in presenza delle condizioni di cui all’art.71 e 72 c.p.p., in materia di stato mentale dell’imputato, allorché sia stata accertata la irreversibilità della incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo. In sostanza dunque, accertata l’irreversibilità della patologia che affetta l’imputato e non gli consente una consapevole partecipazione al processo che lo coinvolge, la prescrizione torna a decorrere nonostante la (apparente) sospensione, con prescrizione del reato che interviene decorso un termine proporzionato alla gravità della ridetta patologia.
Il 7 aprile esce la sentenza della IV sezione della Corte EDU sul caso Cestaro c. Italia, fattispecie di violenza nell’ambito del G8 di Genova del 2001, laddove la Corte riprende la propria giurisprudenza di cui al caso Alikaj del 2011 in ottica di incompatibilità della prescrizione del reato con l’obbligo assunto dallo Stato italiano di tutelare i diritti fondamentali delle vittime di fatti gravi, peraltro costituenti reato, senza incorrere in deficit punitivi dovuti appunto al mero trascorrere del tempo e del connesso termine prescrizionale. Nel caso di specie, per la Corte EDU si è al cospetto di violenze che possono essere considerate vere e proprie torture, con violazione dell’art.3 della CEDU laddove lo Stato italiano non ha garantito ai soggetti offesi il dovuto ristoro, da riconnettersi indefettibilmente alla punizione dei responsabili (pubblici), non potendosi assumere all’uopo sufficiente il mero risarcimento in denaro. La Corte osserva come in Italia non esista una norma incriminatrice che punisce la tortura, con la conseguenza onde determinati fatti ricadono nell’orbita precettiva di reati quali le percosse, le lesioni, l’abuso d’ufficio, la violenza privata e così via, tutti assistiti da termini prescrizionali assai brevi, dovendosi peraltro tenere conto anche del provvedimento di indulto di cui alla legge 241.06, che ha implicato il totale difetto di punizione per tutti i responsabili. Per la Corte occorre dunque che l’ordinamento italiano si munisca di strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura o di altri trattamenti vietati dall’art.3 della CEDU, e ad impedire che costoro possano fruire dei benefici incompatibili con la giurisprudenza della Corte, con speciale riferimento a termini troppo brevi di prescrizione.
Il 22 maggio viene varata la legge n.68, recante disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente, giusta la quale viene modificato l’art.157, comma 6, c.p., con conseguente raddoppio dei termini prescrizionali anche per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo del codice penale, e dunque dei nuovi delitti contro l’ambiente di cui agli articoli 452.bis e seguenti c.p.
L’8 settembre esce la nota sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE, C-105/14, Taricco, che – sollecitata dal Tribunale di Cuneo – si occupa di una vicenda in cui, in materia di IVA, la prescrizione del reato finisce con il conculcare gli interessi finanziari dell’Unione europea. Il problema è quello indotto dalla circostanza onde in Italia, pur in presenza di atti interruttivi della prescrizione, ne vige un temine massimo allo spirare del quale frodi IVA anche gravi finiscono col rimanere impunite, ponendosi dunque in frizione con i ridetti interessi finanziari dell’Unione. Si tratta di una sentenza molto importante che si pone tuttavia, almeno in parte, in rotta di collisione con importanti principi del diritto penale interno. Più in specie, mentre nel precedente caso Cestaro deciso dalla Corte EDU il giudice italiano non è – a valle – costretto a disapplicare le norme interne in tema di prescrizione, qui il giudice italiano, sulla scorta del principio di primazia del diritto europeo, viene obbligato a disapplicare in malam partem la propria normativa interna in tema di prescrizione, ed in particolare il combinato disposto degli articoli 160 e 161 c.p., laddove reputi che tale normativa – laddove fissa appunto un limite massimo al termine prescrizionale – rechi seco la sostanziale impunità di un numero significativo di frodi gravi in materia di IVA, con l’ulteriore effetto di non consentire allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell’Unione, siccome disposti dall’art.325 del TFUE, alla stregua del cui comma 1 l’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma dell’articolo stesso, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione; il comma 2 dell’art.325 precisa poi che gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. I principi del diritto penale interno coinvolti sono fondamentalmente quelli di legalità, di sufficiente determinatezza e di irretroattività, siccome cristallizzati all’art.25, comma 2, Cost.; il principio di legalità dei reati e delle pene è peraltro previsto anche a livello europeo dall’art.49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, e tuttavia per la Corte di Giustizia si tratta di disposizione che afferisce al diritto penale sostanziale, e non già a quello processuale, cui va invece annoverata la prescrizione del reato, quale istituto di carattere processuale attinente alle condizioni di esercizio dell’azione penale (che non può essere attivata laddove appunto il reato è prescritto) e che, proprio come tali, non soggiacciono ai canoni della legalità del reato e della pena e della irretroattività della norma penale sfavorevole. Per la Corte, se si muove dal momento in cui il fatto è commesso e dal termine prescrizionale per esso previsto in quel momento, il soggetto attivo del reato non vanta un diritto fondamentale a non subire un allungamento del termine prescrizionale, tanto che ciò accada per opera del legislatore, quanto che avvenga invece sulla scorta di una sentenza della Corte di Giustizia UE, per lo meno laddove vi siano consistenti interessi unionali da preservare (quali appunto quelli finanziari collegati alle frodi IVA). Si tratta di una presa di posizione della Corte di Giustizia che, nondimeno, si pone agli antipodi rispetto a quanto costantemente affermato dalla Corte costituzionale, in particolare nella nota sentenza n.394 del 2006 in tema di legge ex Cirielli e di relativo regime transitorio, onde la prescrizione ha in realtà una valenza non già processuale, quanto piuttosto sostanziale, soggiacendo come tale ai canoni di legalità e di non retroattività della legge penale sfavorevole, palesandosi essa capace di influenzare le determinazioni del soggetto attivo del reato laddove incide sulla pertinente prospettiva di incorrere in una sanzione effettiva entro un determinato torno temporale (e ciò quand’anche la prescrizione stessa non attenga alla descrizione normativa del reato e delle pertinenti sanzioni penali).
Il 18 settembre esce l’ordinanza della II sezione della Corte d’Appello di Milano che reagisce a quanto statuito nella sentenza Taricco della Corte di Giustizia Ue, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art.2 della legge 130.08, laddove viene ordinata l’esecuzione nell’ordinamento interno del TFUE; segnatamente, nella parte in cui tale legge impone di applicare la disposizione dell’articolo 325, paragrati 1 e 2, per l’appunto del TFUE dalla quale, nella interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza Taricco, discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza (in sostanza, la prescrizione è stata interrotta) anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato a cagione del prolungamento del termine di prescrizione, stante il contrasto di tale norma con l’art.25, comma 2, Cost. Per la Corte d’Appello di Milano la Corte costituzionale dovrebbe in casi simili attivare i c.d. controlimiti di cui alla sentenza Granital n.170.84, laddove viene esplicitato a chiare lettere che – pur dovendosi riconoscere il primato del diritto comunitario – va comunque fatta salva la possibilità di sollevare appunto questione di legittimità costituzionale della legge di ratifica del Trattato istitutivo della Comunità Europea quando la disciplina sovranazionale finisce col porsi in frizione con principi fondamentali dell’ordinamento italiano.
2016
Il 20 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2210 che segue la scia della Corte di Giustizia sul noto caso “Taricco” aderendo alle pertinenti statuizioni e disapplicando gli articoli 160 e 161 c.p. nella parte in cui, in caso di atti interruttivi della prescrizione, fissano un termine massimo alla prescrizione medesima, laddove il reato per il quale si procede offenda gli interessi finanziari della UE. La Corte statuisce su una fattispecie in cui il ricorrente è stato condannato in primo grado per il delitto di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, con riguardo a numerose fatture per operazioni inesistenti, con condanna confermata in secondo grado, ponendosi il problema dell’eventuale rilievo d’ufficio della prescrizione, nella specie intervenuta nel gennaio 2015 nelle more del giudizio di legittimità, con riguardo a fatti relativi al periodo di imposta 2005, e dandovi risposta negativa sulla base appunto della sentenza Taricco. Per la Corte vanno dunque disapplicate le disposizioni di cui all’art. 160 ultima parte e all’art. 161 c.p., nella parte in cui fissano limiti massimi complessivi al termine prescrizionale in caso di eventi interruttivi, onde per i fatti relativi al periodo di imposta 2005, interrotto il ridetto termine prescrizionale dalla sentenza di appello, esso deve assumersi ancora pendente, essendo decorso nuovamente nella relativa ordinaria estensione di sei anni a partire dall’evento interruttivo medesimo.
Il 23 marzo viene varata la legge n.41, recante introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonche’ disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274. La legge, all’art.1, comma 3, lettera a), modifica ancora l’art.157, comma 6, c.p., con conseguente raddoppio dei termini prescrizionali anche per il delitto di cui all’art.589 bis c.p., e dunque per la nuova fattispecie di omicidio stradale.
Il 13 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.15427 che, nell’esaminare la fattispecie di cui al combinato disposto degli articoli 36 e 45 del D.p.R. n.380.01 in tema di contravvenzioni edilizie e di istanza di sanatoria, si occupa del particolare caso in cui maturi il silenzio rigetto su tale istanza di sanatoria siccome presentata dal privato, tenendo conto del fatto che essa si intende negata decorsi 60 giorni dalla richiesta (art.36: silenzio rigetto). Qualora la sospensione del processo sia stata disposta dal giudice penale per un tempo superiore ai ridetti 60 giorni, si è posta la questione se anche la prescrizione del reato continui a rimanere sospesa o piuttosto, in questi casi, essa riprenda a decorrere. Per le SSUU la sospensione del processo prevista per il caso di presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art.36 del testo unico 380.01 (come già dall’art.13 della legge 47.85) deve essere considerata ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e qualora il processo sia sospeso per un periodo superiore ai 60 giorni previsti per il maturare del silenzio rigetto ex art.36, anche la prescrizione deve assumersi contestualmente sospesa, ai sensi dell’art.159, comma 1, n.3 c.p., dovendosi assumere da un lato come il decorso dei 60 giorni non consumi il potere amministrativo di sanatoria (la PA potendo dunque sempre intervenire in senso positivo per l’istante, come peraltro generalmente accade); e dovendosi considerare dall’altro come sarebbe incongruo interpretare la norma nel senso di consentire alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio dell’udienza penale pur in difetto dei presupposti “edilizi” legittimanti (non ci sono per l’appunto i presupposti per il rilascio della concessione in sanatoria) la possibilità di lamentare ad un tempo la correlata considerazione della sospensione della prescrizione proprio da tale rinvio (da essa chiesto) derivante.
Il 12 maggio esce la sentenza delle SSUU n.19756, che si occupa della imprescrittibilità dei reati puniti con pena dell’ergastolo. Alla stregua dell’ultimo comma dell’art.157 cp., siccome introdotto dalla legge 251.05 ex Cirielli, laddove un reato sia punito con pena dell’ergastolo, quand’anche per effetto di circostanze aggravanti, la prescrizione del reato non corre ed il reato è dunque imprescrittibile, non assumendo rilevanza alcuna le eventuali circostanze attenuanti. Si è posto il problema dei rapporti con il regime precedente alla legge ex Cirielli, allorché da un lato nulla era previsto in tema di ergastolo e dall’altro, al fine di quantificare il tempus prescrizionale, le circostanze attenuanti spiegavano effetti. Secondo un primo orientamento, deve assumersi più mite il regime anteriore alla legge ex Cirielli, giacché sotto il relativo vigore la rilevanza di circostanze attenuanti è capace di tramutare un ergastolo in reclusione, con l’ulteriore effetto di rendere il reato base prescrittibile; per una seconda opzione ermeneutica invece, occorre muovere dalla considerazione onde anche nella versione originaria dell’art.157 c.p. il reato con pena dell’ergastolo deve assumersi imprescrittibile, senza che la presenza di circostanze attenuanti possa incidere su tale regime di imprescrittibilità, onde nella sostanza nulla è mutato nel passaggio dal vecchio al nuovo regime, rivelandosi l’ergastolo pena foriera di imprescrittibilità del reato per il quale viene comminato. Le SSUU abbracciano tale seconda tesi, affermando come il delitto punibile in astratto con l’ergastolo nel regime previgente alla ex Cirielli (e dunque al nuovo art.157, ultimo comma, c.p.) è comunque imprescrittibile, quand’anche poi in concreto si applichino circostanze attenuanti idonee a far applicare, in luogo della reclusione a vita, una pena detentiva temporanea. Per la Corte già l’originario art.157, comma 1, c.p. – pur non menzionando espressamente l’ergastolo – esclude la prescrittibilità dei reati puniti con pena perpetua; si tratta di una classe di reati che dunque già nella versione originaria del codice penale, in quanto puniti con l’ergastolo, vanno assunti imprescrittibili, senza che ad essi possano applicarsi i comma successivi dell’art.157 c.p., esplicitamente dedicati a pene temporanee (e ad eventuali aumenti o diminuzioni, che presuppongono appunto tale temporaneità); del resto, prosegue la Corte, mentre i concetti di aumento o diminuzione di pena si riferiscono appunto a pene di carattere temporaneo, diverso è quanto accade, sempre nel previgente regime, quando interviene la fattispecie della “sostituzione” dell’ergastolo con una pena detentiva temporanea (per effetto delle, allora rilevanti, circostanze attenuanti), in questo caso nulla mutando in termini di perpetuità della pena dell’ergastolo astrattamente intesa e di connessa non prescrittibilità del reato con essa punito.
L’8 luglio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.28346 che, sulla scia della Corte d’Appello di Milano nel 2015, solleva analoga questione di legittimità costituzionale. Per la Corte, più in specie, non è manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale – in relazione agli artt. 3, 11, 25 comma secondo, 27, comma terzo, 101, comma secondo, Cost. – dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n.130, laddove ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare l’art. 325, par.1 e 2 TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia, Grande Sezione con la sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco, da cui discende l’obbligo per il giudice nazionale – in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA – di disapplicare le disposizioni in materia di prescrizione di cui agli artt. 160, comma terzo e 16, comma secondo cod.pen. “anche quando dalla disapplicazione e dal conseguente prolungamento della prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato” (c.d. Regola Taricco).
L’11 luglio viene varata la legge n.133 – recante introduzione nel codice penale del reato di frode in processo penale e depistaggio – il cui articolo 1, comma 4, modifica ancora l’art.157, comma 6, c.p., con conseguente raddoppio dei termini prescrizionali anche per il delitto di cui al riformulato art.375 c.p. (frode in processo penale e in depistaggio); ciò limitatamente alle indagini per i delitti di cui al comma 3 del ridetto art.375 c.p., e dunque quando il fatto di depistaggio e’ commesso in relazione a procedimenti concernenti i delitti di cui agli articoli 270, 270-bis, 276, 280, 280-bis, 283, 284, 285, 289-bis, 304, 305, 306, 416-bis, 416-ter e 422 o i reati previsti dall’articolo 2 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, ovvero i reati concernenti il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico e comunque tutti i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale (fattispecie aggravata in cui si applica la pena della reclusione da 6 a 12 anni).
2017
Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.24, assai nota e molto importante, con la quale la Consulta, sollecitata dalla Corte d’Appello di Milano e dalla Cassazione, dispone a propria volta di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, talune questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato e segnatamente: se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro. La Corte ribadisce in primo luogo, nel contesto motivazionale dell’ordinanza, come l’istituto della prescrizione del reato afferisca in Italia al diritto penale sostanziale, e non già processuale, con conseguente affiorare della frizione tra quanto deciso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza Taricco e quanto è previsto dall’art.25, comma 2, Cost. laddove consacra il principio di legalità. La Corte richiama il canone di c.d. prevedibilità della decisione giudiziaria, chiedendosi se il soggetto attivo potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art.325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice penale chiamato a giudicarlo di non applicare gli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p., in presenza appunto delle condizioni enunciate dalla Corte di Giustizia UE nel caso Taricco. Altro fronte lambito dalla Corte costituzionale è quello del c.d. principio di determinatezza della fattispecie penale, ed in particolare del grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale italiano in relazione all’art.325 TFUE, segnatamente con riguardo ai poteri del giudice penale al quale, per la Corte, non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale che vanno lasciate al Parlamento; più in specie, il tempo necessario alla prescrizione del reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolare detto tempo devono sempre essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole predisposte dalla Legge e sufficientemente determinate. La Corte, nella sostanza, stigmatizza l’arresto Taricco laddove da esso discende l’obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare la normativa sulla prescrizione del reato sul fondamento di una verifica demandata, caso per caso, al giudice stesso, laddove egli accerti che gli atti interruttivi della prescrizione determinano la non punizione delle frodi che conculcano gli interessi finanziari dell’Unione “in un numero considerevole di casi”:
Il 9 giugno esce la sentenza delle SSUU n.28953 che si occupa delle c.d. circostanze indipendenti e del relativo rilievo ai fini del computo del termine prescrizionale; si tratta di quelle circostanze onde la misura della pena viene determinata in modo indipendente rispetto a quella ordinaria del reato. Un problema in particolare si è posto per quelle peculiari circostanze che sono sì indipendenti nel senso anzidetto, ma che in concreto non implicano un aumento di pena superiore ad 1/3, poiché in questo caso è dubbia l’applicazione dell’art.157, comma 2, c.p., che assume rilevanti ai fini del calcolo del termine prescrizionale le sole circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale, con aumento di pena per l’appunto superiore ad 1/3, sterilizzando gli effetti prescrizionali di tutte le altre aggravanti e (salve pochissime eccezioni) di tutte le attenuanti. Un problema si è posto in particolare per l’art.609 ter, comma 1, c.p., che aggrava il reato di violenza sessuale ex art.609 bis c.p. in modo “indipendente” (si passa da un range tra 5 e 10 anni di reclusione ad un range aggravato tra 6 e 12 anni, con aumento di pena pari ad 1/5, e dunque inferiore ad 1/3), con riguardo in particolare ai fatti di reato commessi prima dell’ottobre 2012, e prima dunque che il problema in questione venisse quanto meno dequotato dall’inclusione di tutti i reati sessuali (ivi compresi quelli qui considerati) nel novero di quelli per i quali il termine di prescrizione è raddoppiato ai sensi dell’art.157, comma 6, c.p. Ad un orientamento più garantista, inteso in questi casi a scongiurare applicazioni della legge penale in malam partem (l’art.157, comma 2, c.p. si riferisce alle sole circostanze ad effetto speciale, e non anche a quelle indipendenti, massime dove l’aumento di pena da esse previsto sia inferiore ad 1/3) si contrappone – fanno registrare le SSUU – un’altra opzione ermeneutica più rigorosa alla cui stregua le circostanze c.d. “indipendenti” sono in realtà comunque circostanze “ad effetto speciale”, che come tali rilevano ai fini del computo del termine prescrizionale; stando a questa presa di posizione, neppure rileverebbe il fatto che l’art.157, comma 2, c.p. richiama l’art.63, comma 3, c.p. e dunque le sole circostanze con pena di specie diversa e quelle ad effetto speciale, e ciò in quanto anteriormente alla riforma del 1984 la dottrina ha sempre ricompreso tra le aggravanti ad effetto speciale tutti i casi in cui l’aumento di pena operava secondo un meccanismo diverso da quello ordinario fino ad 1/3, onde non sarebbe possibile attuare una scomposizione delle circostanze indipendenti, come categoria, distinguendole a seconda della quantità di aggravio di pena da esse prevista, così finendo con lo sconfessarne il prototipo, che in realtà ne prescinde, sulla scorta di una ratio propria ed autonoma che le contraddistingue. Ancora l’indirizzo più rigoroso richiama dal punto di vista sistematico l’art.69, comma 4, c.p., dedicato al giudizio di comparazione e bilanciamento tra le circostanze, che invece annovera esplicitamente le circostanze c.d. indipendenti (con pena determinata in modo appunto indipendente rispetto a quella ordinaria del reato) e che – laddove si abbracciasse la tesi più garantista secondo la quale le circostanze indipendenti non sono circostanze ad effetto speciale – implicherebbe, al cospetto di circostanze indipendenti con aumento inferiore ad 1/3, la inoperatività proprio del bilanciamento di tali circostanze in senso assoluto, non potendo esse essere bilanciate né con quelle (disomogenee) di cui all’art.63, comma 2, c.p. (aumenti o diminuzione frazionati di pena), né con quelle (assunte del pari disomogenee) di cui al successivo comma 3, quali circostanze con pene di specie diversa o circostanze ad effetto speciale “pure” e dunque con aumento superiore ad 1/3. Per le SSUU, nondimeno, va preferito l’indirizzo garantista, onde le circostanze c.d. indipendenti non rilevano in senso peggiorativo per il soggetto attivo del reato ai fini del computo del termine prescrizionale. La Corte premette un discorso di tipo storico, andando a scandagliare la disciplina delle circostanze siccome originariamente prevista dal codice penale del 1930 e poi mutata per effetto del decreto legge 99.74 (che ha modificato l’art.69, comma 4) e della legge 400.84 (che ha modificato l’art.63, comma 3): l’originario art.63, comma 3, annovera le circostanze “indipendenti” come ora più non fa, e l’originario art.69, comma 4, le escludeva dal bilanciamento; in origine dunque le circostanze “indipendenti” e quelle “autonome” costituiscono due categorie di circostanze che convivono armonicamente, entrambe rilevando sia sul crinale del computo della pena (art.63) sia sul versante del bilanciamento (art.69), venendo più in specie escluse proprio dal sistema del bilanciamento (art.69, comma 4); due categorie di circostanze assunte dunque dal legislatore penale quali species di un unico genus, quello delle circostanze ad efficacia speciale, allora non trovante una precisa definizione. Nella nuova versione invece – sottolinea il Collegio – l’art.63, comma 3, c.p. si riferisce alle sole circostanze “ad effetto speciale”, circoscrivendo la ridetta categoria senza richiamare quella delle circostanze “indipendenti”, e dunque dando la preferenza ad un sistema quantitativo ed aritmetico (la pena prevista per il reato base viene elevata in misura superiore ad 1/3) piuttosto che ad un sistema maggiormente qualitativo (la pena prevista viene determinata in modo autonomo ed indipendente rispetto a quella del reato base): questa evenienza ha fatto alfine dubitare della persistente autonomia sistematica e concettuale delle circostanze “indipendenti”, che potrebbero anche essere sparite (in quanto tali) per il relativo convogliare, laddove vi sia previsione di pena superiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, mentre laddove vi sia previsione di pena inferiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ordinarie, con l’ulteriore conseguenza onde, nella seconda ipotesi (previsione di pena maggiorata inferiore ad 1/3), non varrebbe più il richiamo operato dall’art.157, comma 2, del codice penale che, a fini di determinazione del tempo necessario a prescrivere, dà rilevanza alle sole circostanze ad effetto speciale (aumento di pena superiore ad 1/3), oltre che a quelle con pena di specie diversa. Proprio muovendo da questa analisi le SSUU concludono nel senso onde – configurando l’art.157, comma 2, c.p. una eccezione alla regola generale della irrilevanza delle circostanze a fini di computo del termine prescrizionale – non è ammessa una deroga in malam partem rispetto alle fattispecie esplicitamente previste dal legislatore (aggravanti che prevedono una pena di specie diversa rispetto a quella del reato base ed aggravanti ad effetto speciale, come tali implicanti aumento di pena superiore ad 1/3), che non sono dunque suscettibili di interpretazione estensiva, né tampoco analogica, giusta (inammissibile) incidenza ai fini del computo della prescrizione anche delle circostanze c.d. “indipendenti”, che non rientrano in alcuna delle 2 categorie eccezionali previste dalla legge; corollario di questa affermazione è che le circostanze aggravanti “indipendenti” di cui all’art.609 ter, comma 1, c.p. non spiegano rilevanza al fine di quantificare i termini prescrizionali.
Il 22 giugno esce la sentenza della I Sezione della Corte EDU Bartesaghi Gallo ed altri contro Italia, che reitera la condanna dell’Italia in relazione alle violenze della scuola Diaz occorse a margine del G8 di Genova nel luglio 2001, tornando a riconoscere la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sul piano sostanziale e procedurale e condannando lo Stato italiano al risarcimento dei danni morali (differenziali rispetto alle provvisionali assegnate a livello interno) di circa € 45.000 in favore di ciascun ricorrente. Si tratta di una pronuncia che riproduce, seppure più sinteticamente, il precedente Cestaro del 7 aprile 2015, e dunque ripropone il problema dei rapporti tra brevi termini prescrizionali interni e obbligo convenzionale dello Stato italiano di tutelare i diritti fondamentali delle vittime di reati gravi, tra i quali la tortura, giusta effettiva punizione dei pertinenti colpevoli.
Il 23 giugno viene varata la legge n.103, meglio nota come “riforma Orlando”, il cui art.1, comma 10, aggiunge all’art.158 c.p. in tema di decorrenza della prescrizione un comma 3 onde, per i reati previsti dall’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale, se commessi nei confronti di minore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente (ad esempio, con richiesta di rinvio a giudizio), circostanza quest’ultima al cospetto della quale il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato. La natura tutt’affatto peculiare dei soggetti passivi del reato, vale a dire dei minori, rendendo più difficile la scoperta del commesso reato, ha suggerito al legislatore di posticipare (con effetti dunque in malam partem) la decorrenza del termine prescrizionale dal momento consumativo a quello in cui la vittima raggiunge i 18 anni (salvo che la fattispecie criminosa sia stata scoperta prima, con conseguente esercizio dell’azione penale). L’art.392, comma 1 bis, c.p.p. si riferisce a fattispecie di reato particolarmente gravi, quali i maltrattamenti in famiglia, la riduzione in schiavitù, la pornografia etc., in relazione alle quali è consentito procedere ad incidente probatorio anche al di fuori dei limiti di cui all’art.392 c.p.p., e proprio questo sospinge il legislatore a prevedere, contestualmente, una diversa decorrenza della prescrizione. La legge interviene anche sulla sospensione della prescrizione, e dunque sull’art.159 c.p., in primis in tema di autorizzazione a procedere onde (comma 1, n.1) la prescrizione resta sospesa dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie; quindi in tema di deferimento della questione ad altro giudizio, con sospensione della prescrizione sino al giorno in cui viene decisa la questione pertinente (comma 1, n.2); viene poi introdotta una nuova causa si sospensione della prescrizione, prevista al nuovo numero 3 ter, onde – in caso di rogatorie all’estero – la prescrizione resta sospesa dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi 6 mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria; vengono poi inseriti dalla riforma Orlando, nell’art.159 c.p., altri comma dopo il primo, onde il corso della prescrizione rimane altresì sospeso (a livello endo-processuale e con effetti in malam partem, onde la nuova disciplina non è expressis verbis applicabile retroattivamente) nei seguenti casi, tutti afferenti a sentenze di condanna: 1) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e 6 mesi; 2) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e 6 mesi; in sostanza, poiché con la condanna lo Stato dimostra un effettivo e concreto interesse alla punizione del reo, ciò implica sospensione dei termini di prescrizione fino ad un massimo di 3 anni (o anche oltre in caso di giudizio di rinvio): come spiega la Relazione illustrativa alla legge, la riforma fa leva proprio sulla sentenza di condanna laddove essa, proprio con l’affermare la responsabilità dell’imputato (seppure con statuizioni ancora gravabili), non può che assumersi del tutto incompatibile con l’ulteriore decorso del termine utile alla prescrizione e, con essa, al c.d. “oblio collettivo” rispetto al fatto criminoso in concreto commesso; non si tratta nondimeno, specifica ancora la Relazione, di far cessare la prescrizione una volta per tutte, quanto piuttosto di introdurre delle specifiche parentesi di sospensione per dare modo ai giudizi di impugnazione di poter disporre (a prescrizione per l’appunto sospesa) di un periodo congruo per il relativo svolgimento senza che si concretizzi il pericolo di estinzione del reato per decorso del tempo pur dopo un primo (o un secondo) riconoscimento della fondatezza della pretesa punitiva dello Stato, siccome consacrato in una sentenza di condanna non definitiva; i periodi di sospensione di che trattasi sono tuttavia computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo a quello in cui è intervenuta la condanna ha prosciolto l’imputato, ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale; se durante i termini di sospensione in parola si verifica poi un’ulteriore e diversa causa di sospensione, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente. L’art.1, comma 22, della riforma Orlando inserisce poi nel c.p.p. un nuovo art.72 bis alla cui stregua se, a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 70 del codice, risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento, pronuncia sentenza di non luogo a procedere o sentenza di non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. I comma 12 e 15 dell’art.1 della Riforma intervengono poi sulla interruzione della prescrizione, novellando l’art.160, comma 2, c.p.; più in specie, ha ormai effetto interruttivo della prescrizione non già solo l’interrogatorio reso davanti al PM, ma anche quello reso davanti alla PG, su delega del PM, con applicabilità tuttavia (trattandosi di norma in malam partem) ai soli fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge stessa. Infine, la riforma Orlando incide anche sull’art.161 c.p.; più in specie, l’art.1, comma 13, modifica il comma 1 dell’art.161 onde, nella relativa nuova formulazione, in caso di concorso di persone nel reato, mentre l’interruzione della prescrizione ha effetto per tutti coloro che lo hanno commesso (anche se attualmente non sotto processo) la sospensione della prescrizione ha invece effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo (per gli altri, dunque, essa continua a correre), in un’ottica che legge la sospensione della prescrizione come un istituto “parentetico” da parametrare sulla singola situazione processuale di ciascun correo, con disposizione che si rivela dunque in bonam partem per chi, ancora non sottoposto a processo per il medesimo reato, vede correre il proprio termine prescrizionale; l’art.1, comma 14, modifica invece il comma 2 dell’art.161, onde in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere (oltre che per la già prevista fattispecie di recidiva di cui all’art.99, comma 2, c.p.) anche nelle “nuove” ipotesi, in tema di corruzione, di cui agli articoli 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis (limitatamente ai soli delitti), nonché nella fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art.640 bis c.p.; con disposizioni tutte non retroattive (comma 15) che si applicano dunque esplicitamente ai soli fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge 103. Si tratta di disposizione che suscita le critiche di parte della dottrina che fa rilevare come se eccezionalmente l’aumento del tempo necessario a prescrivere è stato in passato “allungato” in relazione non già a singoli reati, quanto piuttosto – eccezionalmente – alla specifica personalità di chi li commette (recidivo; delinquente abituale o professionale), appare ora incoerente agganciare pari “estensione” del tempo necessario a prescrivere con riguardo appunto a singole e specifiche fattispecie criminose, escludendone per giunta altre più gravi (come la concussione) che presentano anche una maggiore difficoltà investigativa e che dunque vieppiù giustificherebbero la ridetta “estensione” maggiore del termine prescrizionale complessivo, invece irragionevolmente pretermessa. Dal punto di vista poi della successione di leggi penali del tempo, e dunque della previsione di non retroattività della riforma di che trattasi, se per la relativa porzione di disciplina in malam partem la dottrina ne sottolinea la superfluità, stante la più volte affermata natura sostanziale dell’istituto della prescrizione del reato, con conseguente irretroattività delle disposizioni in peius (apprezzandone solo, per l’appunto, la riaffermazione della natura sostanziale della prescrizione, a dispetto di posizioni meno dichiarate in tal senso da parte della Corte di Giustizia UE); per quanto invece concerne la porzione di disciplina in bonam partem (nella sostanza, il nuovo art.161 c.p., laddove afferma che chi ha concorso nel medesimo reato ma non è sottoposto a processo e quindi coimputato non può subire la sospensione della prescrizione), si pongono problemi di possibile incostituzionalità laddove lo ius superveniens, da assumersi lex mitior, viene assunto sempre e comunque irretroattivo, senza che venga esplicitata dal legislatore la ragionevolezza della deroga al principio, che ha base costituzionale nell’art.3 Cost., della retroattività della norma penale sostanziale più favorevole, sull’onda di quanto affermato dalla Corte costituzionale nel 2006.
Il 14 luglio viene varata la legge n.110, che introduce nel codice penale l’art.613 bis dedicato ex professo alla fattispecie penale di tortura, nella sostanza sollecitato dal conflitto registratosi tra ordinamento interno e CEDU proprio in tema di prescrizione del reato, eccessivamente breve in rapporto a determinati reati cui sono state ricondotte fattispecie assimilate dalla Corte EDU alla “tortura”, con sostanziale non punizione di soggetti attivi di reati assunti violativi di diritti fondamentali.
Il 19 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35588, che si occupa della decorrenza della prescrizione in ipotesi di reato c.d. abituale (nel caso di specie, stalking), con riguardo al quale non si rinviene alcuna specifica previsione codicistica. Per la Corte, che si inserisce in un collaudato filone giurisprudenziale, occorre guardare all’ultimo atto antigiuridico della serie di quelli che compendiano l’abitualità del reato di volta in volta considerato; se infatti da un lato è vero che il reato abituale è da assumersi perfezionato nel momento in cui le singole condotte poste in essere dal soggetto agente, nella serie successiva che le connota, assumono appunto la consistenza della abitualità, divenendo complessivamente riconoscibili e qualificabili appunto come reato abituale, nondimeno ogni successiva condotta (di stalking, di maltrattamenti in famiglia e così via) posta in essere dal soggetto agente si riannoda a quelle precedentemente realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario, la cui prescrizione decorre appunto, in modo unitario, da tale ultimo atto.
Il 5 dicembre esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, C-42/17, M.A.S. e M.B. (c.d. Taricco II), che – nel rispondere ai quesiti pregiudizialmente postile dalla Corte costituzionale italiana con riguardo alla compatibilità della c.d. Regola Taricco con l’ordinamento interno (e segnatamente con taluni principi fondamentali del medesimo) – rammenta in primo luogo come in occasione della c.d. Taricco I il Tribunale di Cuneo avesse chiesto alla Corte di Giustizia UE di pronunciarsi assumendo come parametro non già l’art.325, paragrafi 1 e 2, TFUE (assunto come parametro maggiormente pertinente dalla stessa Corte di Giustizia UE), quanto piuttosto i diversi articoli 101, 107 e 119 TFUE, nonché l’art.158 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006. La Corte ribadisce poi come sia appannaggio del legislatore interno stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi di cui al richiamato art.325 del TFUE, assicurando che il regime nazionale di prescrizione in materia penale non conduca all’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave in tema di IVA o comunque, nei confronti degli imputati, non sia (tale regime nazionale) più severo nei casi di frode lesivi degli interessi finanziari dello Stato membro interessato rispetto a quelli che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Più nello specifico, la Corte rammenta che con le questioni prima e seconda (che esamina congiuntamente) il giudice del rinvio (Corte costituzionale italiana) chiede se l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE debba essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, e ciò anche qualora l’attuazione di tale obbligo comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o di un’applicazione retroattiva di quest’ultima. In proposito, occorre per la Corte ricordare che l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE impone agli Stati membri di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure effettive e dissuasive nonché di adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari. Poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare, ai sensi della decisione 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea (GU 2014, L 168, pag. 105), le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde (v., in tal senso, sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C617/10, EU:C:2013:105, punto 26, nonché Taricco, punto 38). È compito allora degli Stati membri – prosegue la Corte – garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 7 aprile 2016, Degano Trasporti, C546/14, EU:C:2016:206, punto 21). A questo proposito, tali Stati membri sono tenuti a procedere al recupero delle somme corrispondenti alle risorse proprie che sono state sottratte al bilancio dell’Unione in conseguenza di frodi. Al fine di assicurare la riscossione integrale delle entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione, gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due (v., in tal senso, sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C617/10, EU:C:2013:105, punto 34, nonché Taricco, punto 39); a tale riguardo, occorre tuttavia per la Corte rilevare, in primo luogo, che possono essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA (v., in tal senso, sentenza Taricco, punto 39). Gli Stati membri, pena la violazione degli obblighi loro imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, devono quindi assicurarsi che, nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione in materia di IVA, siano adottate sanzioni penali dotate di carattere effettivo e dissuasivo (v., in tal senso, sentenza Taricco, punti 42 e 43); deve pertanto ritenersi che gli Stati membri violino gli obblighi loro imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE qualora le sanzioni penali adottate per reprimere le frodi gravi in materia di IVA non consentano di garantire efficacemente la riscossione integrale di detta imposta. A tale titolo, detti Stati devono altresì assicurarsi che le norme sulla prescrizione previste dal diritto nazionale consentano una repressione effettiva dei reati legati a frodi siffatte. In secondo luogo, chiosa ancora la Corte, ai sensi dell’articolo 325, paragrafo 2, TFUE, gli Stati membri devono adottare, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, in particolare in materia di IVA, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. Per quanto poi riguarda le conseguenze di un’eventuale incompatibilità di una normativa nazionale con l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, dalla giurisprudenza della Corte emerge che detto articolo pone a carico degli Stati membri obblighi di risultato precisi, che non sono accompagnati da alcuna condizione quanto all’applicazione delle norme enunciate da tali disposizioni (v., in tal senso, sentenza Taricco, punto 51); spetta quindi ai giudici nazionali competenti dare piena efficacia agli obblighi derivanti dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE e disapplicare disposizioni interne, in particolare riguardanti la prescrizione, che, nell’ambito di un procedimento relativo a reati gravi in materia di IVA, ostino all’applicazione di sanzioni effettive e dissuasive per combattere le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione (v., in tal senso, sentenza Taricco, punti 49 e 58). La Corte rammenta poi che, al punto 58 della sentenza Taricco, le disposizioni nazionali in questione (art.160 e 161 c.p.) sono state considerate idonee a pregiudicare gli obblighi imposti allo Stato membro interessato dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, nell’ipotesi in cui dette disposizioni impediscano di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o in cui prevedano, per i casi di frode che ledono detti interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti in casi di frode che ledono gli interessi finanziari di tale Stato membro. Spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 TFUE, alla luce delle considerazioni esposte dalla Corte al punto 58 della sentenza Taricco: è infatti compito del legislatore garantire che il regime nazionale di prescrizione in materia penale non conduca all’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave in materia di IVA o non sia, per gli imputati, più severo nei casi di frode lesivi degli interessi finanziari dello Stato membro interessato rispetto a quelli che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. A tale riguardo, occorre per la Corte ricordare che il fatto che un legislatore nazionale proroghi un termine di prescrizione con applicazione immediata, anche con riferimento a fatti addebitati che non sono ancora prescritti, non lede, in linea generale, il principio di legalità dei reati e delle pene (v., in tal senso, sentenza Taricco, punto 57, e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo citata a tale punto). Ciò premesso, occorre nondimeno per la Corte aggiungere che il settore della tutela degli interessi finanziari dell’Unione attraverso la previsione di sanzioni penali rientra nella competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TFUE. Nella fattispecie, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione, armonizzazione che è successivamente avvenuta, in modo parziale, solo con l’adozione della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (GU 2017, L 198, pag. 29); la Repubblica italiana era quindi libera, a tale data, di prevedere che, nel relativo ordinamento giuridico, detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità dei reati e delle pene. Dal canto loro, chiosa ancora la Corte, i giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di aver commesso un reato siano rispettati (v., in tal senso, sentenza Taricco, punto 53), a tale riguardo restando consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione (sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C617/10, EU:C:2013:105, punto 29 e giurisprudenza ivi citata); in particolare, per quanto riguarda l’inflizione di sanzioni penali, spetta ai giudici nazionali competenti assicurarsi che i diritti degli imputati derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene siano garantiti. Fatte queste premesse, secondo il giudice del rinvio (Corte costituzionale italiana) tali diritti non sarebbero rispettati in caso di disapplicazione delle disposizioni del codice penale in questione, nell’ambito dei procedimenti principali, dato che, da un lato, gli interessati non potevano ragionevolmente prevedere, prima della pronuncia della sentenza Taricco, che l’articolo 325 TFUE avrebbe imposto al giudice nazionale, alle condizioni stabilite in detta sentenza, di disapplicare le suddette disposizioni; dall’altro, secondo detto giudice, il giudice nazionale non può definire il contenuto concreto dei presupposti in presenza dei quali esso dovrebbe disapplicare tali disposizioni – ossia nell’ipotesi in cui esse impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive “in un numero considerevole di casi” di frode grave – senza violare i limiti imposti alla sua discrezionalità dal principio di legalità dei reati e delle pene. A tale riguardo, si deve ricordare per la Corte l’importanza – tanto nell’ordinamento giuridico dell’Unione quanto negli ordinamenti giuridici nazionali – che riveste il principio di legalità dei reati e delle pene, nei relativi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile; tale principio, quale sancito all’articolo 49 della Carta, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione, conformemente all’articolo 51, paragrafo 1, della medesima, come avviene allorché essi prevedano, nell’ambito degli obblighi loro imposti dall’articolo 325 TFUE, di infliggere sanzioni penali per i reati in materia di IVA; l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione non può quindi contrastare con tale principio (v., per analogia, sentenza del 29 marzo 2012, Belvedere Costruzioni, C500/10, EU:C:2012:186, punto 23). Inoltre, chiosa ancora la Corte, il principio di legalità dei reati e delle pene appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (v., per quanto riguarda il principio di irretroattività della legge penale, sentenze del 13 novembre 1990, Fedesa e a., C331/88, EU:C:1990:391, punto 42, nonché del 7 gennaio 2004, X, C60/02, EU:C:2004:10, punto 63) ed è stato sancito da vari trattati internazionali, segnatamente all’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU (v., in tal senso, sentenza del 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, C303/05, EU:C:2007:261, punto 49). Dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17) emerge in particolare che, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, il diritto garantito all’articolo 49 della medesima ha significato e portata identici al diritto garantito dalla CEDU. Per quanto riguarda poi gli obblighi derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene, occorre per il Collegio rilevare, in primo luogo, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, a proposito dell’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU, che, in base a tale principio, le disposizioni penali devono rispettare determinati requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto riguarda tanto la definizione del reato quanto la determinazione della pena (v. Corte EDU, 15 novembre 1996, Cantoni c. Francia, CE:ECHR:1996:1115JUD001786291, § 29; Corte EDU, 7 febbraio 2002, E.K. c. Turchia, CE:ECHR:2002:0207JUD002849695, § 51; Corte EDU, 29 marzo 2006, Achour c. Francia, CE:ECHR:2006:0329JUD006733501, § 41, e Corte EDU, 20 settembre 2011, OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia, CE:ECHR:2011:0920JUD001490204, §§ da 567 a 570); in secondo luogo, occorre sottolineare che il requisito della determinatezza della legge applicabile, che è inerente a tale principio, implica che la legge definisca in modo chiaro i reati e le pene che li reprimono e tale condizione è soddisfatta quando il singolo può conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la relativa responsabilità penale (v., in tal senso, sentenza del 28 marzo 2017, Rosneft, C72/15, EU:C:2017:236, punto 162); in terzo luogo, il principio di irretroattività della legge penale osta in particolare a che un giudice possa, nel corso di un procedimento penale, sanzionare penalmente una condotta non vietata da una norma nazionale adottata prima della commissione del reato addebitato, ovvero aggravare il regime di responsabilità penale di coloro che sono oggetto di un procedimento siffatto (v., per analogia, sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C554/14, EU:C:2016:835, punti da 62 a 64 e giurisprudenza ivi citata). A tale riguardo, come già rilevato al punto 45 della sentenza, i requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività inerenti al principio di legalità dei reati e delle pene si applicano, nell’ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA; ne deriva, da un lato, che spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dal punto 58 della sentenza Taricco, secondo cui le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive “in un numero considerevole di casi” di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile: se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione; dall’altro, i requisiti di cui supra ostano a che, in procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco, il giudice nazionale disapplichi le disposizioni del codice penale in questione, avendo la Corte già sottolineato, al punto 53 di tale sentenza, che a dette persone potrebbero, a causa della disapplicazione di queste disposizioni, essere inflitte sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate; tali persone potrebbero quindi essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. Se il giudice nazionale dovesse quindi essere indotto a ritenere che l’obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, esso non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione (v., per analogia, sentenza del 10 luglio 2014, Impresa Pizzarotti, C213/13, EU:C:2014:2067, punti 58 e 59). Spetta allora al legislatore nazionale adottare le misure necessarie. Per la Corte, in conclusione, l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.
2018
Il 31 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.115, che dà seguito alla sentenza della Corte di Giustizia UE sul caso c.d. Taricco II, con la quale la Corte sovranazionale ha risposto alle questioni pregiudiziali di interpretazione sollevate dalla stessa Corte costituzionale nel 2017. La Corte rammenta appunto come con l’ordinanza n. 24 del 2017 essa abbia riunito i giudizi sollevati e disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’interpretazione relativa al corretto significato da attribuire all’art. 325 TFUE e alla sentenza Taricco, dacché secondo la Corte medesima l’eventuale applicazione della “regola Taricco” nel nostro ordinamento violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost., e non potrebbe perciò essere consentita neppure alla luce del primato del diritto dell’Unione. La Corte ha tuttavia avuto la percezione che la stessa sentenza Taricco I (paragrafi 53 e 55) abbia inteso escludere tale applicazione ogni qual volta essa venga a trovarsi in conflitto con l’identità costituzionale dello Stato membro e in particolare implichi una violazione del principio di legalità penale, secondo l’apprezzamento delle competenti autorità di tale Stato, chiedendo pertinente conferma appunto alla Corte di giustizia, la cui Grande sezione, con sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A. S. e M. B., ha compreso il dubbio interpretativo postole ed ha affermato che l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare (in malam partem) la normativa interna in materia di prescrizione, sulla base della “regola Taricco”, viene meno quando ciò comporta una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o dell’applicazione retroattiva di una normativa che prevede un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. La nuova pronuncia della Corte di Lussemburgo opera, a detta della Corte costituzionale, su due piani connessi. In primo luogo, essa provvede a chiarire che, in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la “regola Taricco” non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015 (paragrafo 60). Si tratta di un divieto che discende immediatamente dal diritto dell’Unione e non richiede alcuna ulteriore verifica da parte delle autorità giudiziarie nazionali. In secondo luogo demanda a queste ultime – ovvero le autorità giudiziarie interne – il compito di saggiare la compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza in materia penale (paragrafo 59); in tal caso, per giungere a disapplicare la normativa nazionale in tema di prescrizione, è necessario che il giudice nazionale effettui uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza, che è, sia principio supremo dell’ordine costituzionale italiano, sia cardine del diritto dell’Unione, in base all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (paragrafi 51 e 52 della sentenza M.A.S.). A quest’ultimo proposito, la Corte ribadisce quanto già affermato con l’ordinanza n. 24 del 2017: l’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona. A tale scopo il ruolo essenziale che riveste il giudice comune consiste nel porre il dubbio sulla legittimità costituzionale della normativa nazionale che dà ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto, onde non può essere accolta la richiesta di restituzione degli atti avanzata dal Presidente del Consiglio dei ministri e da una parte del giudizio davanti alla Corte d’appello di Milano, dato che in seguito alla sentenza M.A. S. (la Taricco II appunto) spetta innanzi tutto alla Consulta stessa (e non già al giudice a quo) la valutazione circa l’applicabilità della “regola Taricco” nel nostro ordinamento. Fatte queste premesse, ed alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza M.A. S., tutte le questioni sollevate da entrambi i rimettenti (Corte d’Appello di Milano e Corte di Cassazione) risultano per la Corte non fondate, perché la “regola Taricco” non è applicabile nei giudizi a quibus. In entrambi i processi principali infatti si procede per fatti avvenuti prima dell’8 settembre 2015, sicché l’applicabilità degli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. e la conseguente prescrizione dei reati oggetto dei procedimenti a quibus sono riconosciute dalla stessa sentenza M.A. S., che ha escluso gli effetti della “regola Taricco” nei confronti dei reati commessi prima di tale data. Ciò però – puntualizza la Corte – non significa che le questioni sollevate siano prive di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione nel caso di specie significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali, onde solo il fatto che appunto nel caso di specie i fatti risalgano a data anteriore all’8 settembre 2015 impone di far sì che – conformemente appunto alla “regola Taricco”, ed in qualche modo riconoscendone la operatività e, prima ancora, la legittimità costituzionale – scatti la prescrizione per i reati ascritti. Senonché – del tutto indipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015 – il giudice comune non può applicare loro la “regola Taricco”, perché – e questo è il cuore della pronuncia – per la Corte costituzionale tale “regola Taricco” è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost. La Corte, nel compimento del relativo scrutinio di legittimità costituzionale, che in questo peculiare caso è anche adempimento della verifica sollecitata dalla Corte di giustizia, non può che ricordare quanto aveva già osservato con l’ordinanza n. 24 del 2017, ovvero che un istituto incidente sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza; la prescrizione pertanto deve essere considerata un istituto sostanziale, che il legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal pertinente reato non sia venuto meno (potendosene anche escludere l’applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto di tale premessa costituzionale inderogabile (ex plurimis, sentenze n. 143 del 2014, n. 236 del 2011, n. 294 del 2010 e n. 393 del 2006; ordinanze n. 34 del 2009, n. 317 del 2000 e n. 288 del 1999). Ciò posto, appare alla Corte evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé; quest’ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell’art. 325 TFUE, è per la Corte irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.). Ancor prima – chiosa ancora la Corte – è indeterminato l’art. 325 TFUE, per quanto qui interessa, perché il relativo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della “regola Taricco”. La sentenza M.A. S. ha enfatizzato, a tal proposito, la necessità che le scelte di diritto penale sostanziale permettano all’individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta, in base al testo della disposizione rilevante, e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici (paragrafo 56). Perlomeno nei Paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia, ciò avvalora (finanche in seno al diritto dell’Unione, in quanto rispettoso dell’identità costituzionale degli Stati membri) l’imprescindibile imperativo che simili scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati, rispetto a tale origine nel diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non palesandosi che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo. Il principio di determinatezza – prosegue la Corte – ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (sentenze n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004; nello stesso senso, sentenza n. 185 del 1992). Pertanto, quand’anche la “regola Taricco” potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a «colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza n. 327 del 2008). È persino intuitivo (anche alla luce della sorpresa manifestata dalla comunità dei giuristi nel vasto dibattito dottrinale seguito alla sentenza Taricco, pur nelle sfumature delle diverse posizioni) che la persona, prendendo contezza dell’art. 325 TFUE, non potesse (e neppure possa oggi in base a quel solo testo) immaginare che da esso sarebbe stata estrapolata la regola che impone di disapplicare un particolare aspetto del regime legale della prescrizione, in presenza di condizioni del tutto peculiari. Se è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche» (sentenza n. 364 del 1988), resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione» (sentenza n. 364 del 1988). Ciò per la Corte è come dire che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la “regola Taricco”. Fermo restando che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la sentenza M.A. S., un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento. Quanto appena rilevato concerne per la Corte la “regola Taricco”, sia per la porzione tratta dal paragrafo 1 dell’art. 325 TFUE, sia per quella desunta dal paragrafo 2. In quest’ultimo caso, anche se il principio di assimilazione non desse luogo sostanzialmente a un procedimento analogico in malam partem e potesse permettere al giudice penale di compiere un’attività priva di inaccettabili margini di indeterminatezza, essa, comunque sia, non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della “regola Taricco”. In altri termini, precisa la Corte, qualora si reputasse possibile da parte del giudice penale il confronto tra frodi fiscali in danno dello Stato e frodi fiscali in danno dell’Unione, al fine di impedire che le seconde abbiamo un trattamento meno severo delle prime quanto al termine di prescrizione, ugualmente l’art. 325, paragrafo 2, TFUE non perderebbe il suo tratto non adeguatamente determinato per fungere da base legale di tale operazione in materia penale, posto che i consociati non avrebbero potuto, né oggi potrebbero sulla base del solo quadro normativo, raffigurarsi tale effetto. Bisogna aggiungere – prosegue ancora la Corte – che una sufficiente determinazione non sarebbe rintracciabile neppure nell’enunciato della sentenza Taricco, relativo ai «casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato», per i quali sono stabiliti «termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione», trattandosi di un enunciato generico, che, comportando un apprezzamento largamente opinabile, non è tale da soddisfare il principio di determinatezza della legge penale e in particolare da assicurare ai consociati una relativa, sicura percezione. L’inapplicabilità della “regola Taricco”, secondo quanto riconosciuto dalla sentenza M.A. S., ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto dell’Unione, sicché ha trovato conferma l’ipotesi tracciata dalla Corte stessa con l’ordinanza n. 24 del 2017, ovvero che non vi sia alcuna ragione di contrasto. Ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento, e poiché è appunto demandato dalla Corte di Giustizia alla Corte costituzionale (quale giudice interno) verificare se la “regola Taricco” è applicabile o meno, le norme censurate sono immuni da vizio di incostituzionalità proprio laddove recepiscono sul piano interno una norma, l’art.325 TFUE, che l’ordinamento italiano è libero di interpretare nel senso onde esso non si ponga in frizione con i principi di legalità e di sufficiente determinatezza del regime di punibilità (sarebbe incostituzionale solo una eventuale interpretazione unica e vincolata della ridetta norma nel senso di imporne l’applicazione anche in presenza della frizione con i ridetti, fondamentali valori del sistema penale interno, peraltro riconosciuti anche a livello sovranazionale).
Il 21 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.52470, alla cui stregua, laddove il reato presupposto commesso dalla persona fisica sia prescritto, il giudice penale – nell’ambito di un procedimento per la responsabilità amministrativa dell’ente – non può ordinare la confisca delle quote sociali o dei beni della società senza determinare il vantaggio ritratto dalla compagine societaria.
2019
Il 9 gennaio viene varata la legge n.3, recante misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici. Più in specie, secondo l’art.1, comma 1, lettera d) all’articolo 158 c.p., il primo comma è sostituito dal seguente: «Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione»: si torna dunque al regime ante legge ex Cirielli, onde anche nel caso di reato continuato (oltre che permanente) la prescrizione prende a decorrere dal giorno in cui è cessata la continuazione e dunque dalla consumazione dell’ultimo dei reati avvinti dal medesimo disegno criminoso; per la successiva lettera e), all’articolo 159: 1) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna», onde chi viene in condannato in primo grado vede la prescrizione sospesa fino alla sentenza o comunque al pronunciamento definitivo in ordine alla propria responsabilità; 2) il terzo e il quarto comma sono abrogati; per la successiva lettera f), all’articolo 160: 1) il primo comma è abrogato; 2) al secondo comma, la parola: «pure» è soppressa. Tali disposizioni, sostanzialmente in malam partem, non sono tuttavia immediatamente operative, per la riforma della prescrizione essendo prevista l’entrata in vigore il 01 gennaio 2020.
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Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.4221, che si occupa della decorrenza della prescrizione in ipotesi di reato omissivo proprio permanente. Il Collegio rammenta in proposito come secondo la propria giurisprudenza consolidata, il reato di omessa risposta alla richiesta d’informazioni dell’Ispettorato del Lavoro, prevista dall’art. 4 della legge 22 luglio 1961, n. 628, ha natura permanente che cessa o con l’osservanza della disposizione o con il decreto penale di condanna o con la sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 753 del 21/02/1997, Saracino, secondo cui quando la richiesta di informazione preveda un termine, il reato si perfeziona alla scadenza del termine previsto e si protrae per tutto il tempo in cui il destinatario omette volontariamente di adempiere; nello stesso senso, Sez. 3, n. 13406 dell’11/10/2000, Dami; applicano lo stesso principio, Sez. 3, n. 18430 del 12/04/2012, Cavagnuolo; Sez. 3, n. 12923 del 20/02/2008, Terranova; Sez. 3, n. 28701 del 25/05/2004, D’Ambra; Sez. 3, n. 19574 del 26/04/2004, Strazzeri). Si tratta per la Corte di un principio che costituisce declinazione di quello più generale secondo il quale nei reati omissivi consistenti nella inosservanza del dovere giuridico di porre in essere un determinato comportamento attivo entro un prestabilito termine, è proprio con la scadenza infruttuosa del termine che, concretandosi l’inadempimento, la condotta omissiva viene ad avere rilevanza penale. La scadenza del termine, che non preclude al soggetto obbligato la possibilità di eliminare la situazione antigiuridica mediante l’attuazione del comportamento prescritto, segna il momento iniziale di consumazione del reato, che si protrae per tutto il tempo in cui permane l’inosservanza dell’obbligo e, conseguentemente, la condotta antigiuridica sanzionata penalmente (Sez. 3, n. 1084 del 04/04/1966, Menassero; cfr., altresì, Sez. 3, n. 8518 del 20/10/1973, Cavoni, in tema inosservanza da parte del datore di lavoro dell’obbligo di curare l’accertamento dell’idoneità dei dipendenti fanciulli ed adolescenti attraverso visite mediche periodiche; Sez. 3, n. 13719 del 18/10/1999, Cacchiarelli, in tema di omessa valutazione del rischio provocato dall’esposizione dei lavoratori dipendenti ai rumori dannosi; Sez. 3, n. 43292 del 22/06/2001, Costigliola, in tema di omessa collocazione di dispositivi idonei ad evitare che le mani o altre parti del corpo del lavoratore entrino in contatto con le parti mobili dei detti macchinari; Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2018, Cirocco, in tema di omissione di cautele contro infortuni sul lavoro). La deduzione difensiva che – così ragionando – verrebbe “premiato” il comportamento (commissivo) punito in forma alternativa di chi (piuttosto che omettere la risposta) fornisce piuttosto informazioni scientemente errate o incomplete, giovandosi quegli di un termine iniziale la cui decorrenza immediata sortisce effetti più favorevoli, non considera affatto per la Corte che la cessazione della permanenza nel reato omissivo proprio dipende esclusivamente dall’autore della condotta che, persistendo nell’omissione ovvero facendola cessare, dimostra di avere sul fatto la stessa signoria di chi, invece, adempie fraudolentemente alla richiesta.
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Il 01 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.5210 che si occupa dell’ipotesi in cui, in sede di patteggiamento, non sia stata rilevata la prescrizione del reato medio tempore intervenuta. La Corte premette che avverso le sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., il ricorso per cassazione in base al disposto di cui all’art. 448, comma 2-bis, introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 50, in vigore dal 3 agosto 2017, può essere proposto solo per i motivi ivi elencati, tra cui rientra quello attinente all’illegalità della pena, onde la riforma della disciplina dei mezzi di impugnazione, introdotta dalla recente L. n. 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando), impone di valutare se il mancato rilievo della prescrizione già maturata in sede di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen si risolva in un vizio di legittimità che investe la legalità della pena, perché determinata sulla base di un accordo che include il computo della pena per un reato già prescritto. Prima della riforma, osserva il Collegio, l’omesso controllo della insussistenza di cause di proscioglimento a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. ed il conseguente erroneo esercizio del relativo potere, integrava, per pacifica acquisizione giurisprudenziale, vizio di legittimità deducibile in cassazione, essendo consolidato l’orientamento affermato anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 5 del 28/05/1997, Lisuzzo, e Sez. U, n. 3 del 25/11/1998, dep. 1999, Messina) secondo cui “il paradigma procedimentale che regola la cognizione del giudice investito da una richiesta di applicazione della pena concordata tra le parti, assegna priorità alla verifica dell’insussistenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen., da compiersi aliunde, ossia indipendentemente dalla piattaforma negoziale, e precisamente sulla base degli atti del fascicolo del pubblico ministero, onde soltanto in caso di negativa delibazione il giudice può procedere alla valutazione degli altri profili di accoglibilità dell’accordo relativi alla correttezza della qualificazione giuridica, dell’applicazione e comparazione delle circostanze, ed alla congruità della pena concordata“. Non essendo stata modificata la disciplina del patteggiamento, si deve per la Corte assumere che persiste tuttora l’obbligo di legge che impone al giudice adito di rilevare in via preliminare la sussistenza di eventuali cause di proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen., tra cui rientra sicuramente anche la intervenuta prescrizione del reato, ove non rinunciata espressamente dall’imputato ai sensi dell’art. 157 c.p., comma 7. La questione, poi, se la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, o il consenso da lui prestato alla proposta del pubblico ministero, non possano, di per sé, valere come rinuncia espressa alla prescrizione, è stata già affrontata e decisa dalle Sezioni Unite (sentenza n. 18953 del 2016), che hanno affermato il principio della necessità della forma espressa per la validità della rinuncia alla prescrizione, escludendo la possibilità di ravvisare nella richiesta o nel consenso espresso dall’imputato all’applicazione della pena una forma legale di rinuncia espressa alla prescrizione maturata. Nonostante l’immutato quadro normativo di riferimento, per la Corte la limitazione del ricorso per cassazione ai soli casi indicati nell’art. 448 c.p.p., comma 2-bis ha profondamente inciso sulla materia del controllo dell’osservanza delle condizioni di legalità della sentenza di patteggiamento, attribuendo una valenza preponderante alla natura negoziale dell’istituto, basato sulla manifestazione di volontà dell’imputato; infatti, la sentenza di patteggiamento secondo la disposizione normativa citata, che si pone come norma speciale rispetto alla disciplina dei casi di ricorso prevista dall’art. 606 cod. proc. pen., può essere ora impugnata con il ricorso per cassazione solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza“. Secondo il consolidato orientamento di legittimità, prosegue la Corte, l’illegalità della pena ricorre solo quando la pena non è conforme a quella stabilita in astratto dalla norma penale (ad es. superiore al massimo o inferiore al minimo edittale; pena relativa ad un reato depenalizzato, per abolitio criminis o per effetto della dichiarazione di incostituzionalità della norma penale, anche se relativa al solo trattamento sanzionatorio), mentre nel caso di specie la pena è pur sempre conforme alla legge perché il vizio di violazione di legge investe non direttamente la pena ma un accertamento preliminare, quello del proscioglimento ex art. 129 c.p.p. per intervenuta prescrizione del reato, che andava disposto per uno dei reati patteggiati, perché appunto estinto per prescrizione. La pena applicata per il reato prescritto – chiosa la Corte – è in sé legale, mentre illegale è l’effetto dell’errato preliminare accertamento del presupposto sostanziale che attiene all’insussistenza di cause di proscioglimento, la cui errata o omessa valutazione si ripercuote sulla determinazione della pena, ma prima ancora sulla ratifica dell’accordo negoziale sotteso al patteggiamento. Si è, pertanto, in presenza di un vizio di violazione di legge che per il Collegio non investe direttamente la legalità della pena e che, conseguentemente, non può integrare un motivo ammissibile di ricorso per cassazione perché non riconducibile ai motivi tassativamente previsti dall’art. 448 c.p.p., comma 2 bis. Se il legislatore ha recentemente ridotto e delimitato i casi di ammissibilità del ricorso avverso la sentenza di patteggiamento, sia pure per prevalenti intenti deflattivi, la nozione di illegalità della pena non può risolversi nel riflesso del vizio di violazione di legge tout court, ma deve essere intesa come limitata ai soli casi di violazione delle norme che disciplinano la pena e più in generale il trattamento sanzionatorio, oltre che ai casi di radicale assenza della norma incriminatrice, rimanendo fuori da tale vizio tutte le altre violazioni di legge che afferiscono a differenti presupposti di legalità della sentenza impugnata. Nella giurisprudenza formatasi in tema di rilevabilità di ufficio in sede di impugnazione di detto peculiare vizio di legge, la illegalità della pena è stata rilevata nei casi in cui la pena era stata determinata contra legem, ad esempio per avere applicato una pena in misura inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 cod. pen. (Sez. 5, n. 46790 del 25//10/2005, Grifantini; Sez. 5, n. 40840 del 20/09/2004, Terzetti) o indicato come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato unito con il vincolo della continuazione (Sez. 5, n. 1411 del 22/09/2006, Braidich; Sez. 3, n. 34302 del 14/06/2007, Catuogno) ovvero individuato la pena applicata, in esito al cumulo ex art. 81 cpv. cod. pen., con un valore inferiore al minimo fissato per il reato più grave tra quelli in continuazione (Sez. 6, n. 44336 del 05/10/2004, Mastrolorenzi). Anche recentemente la medesima Sezione della Corte, con riguardo ad un ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di patteggiamento in tema di recidiva, ha ribadito il principio secondo cui per pena illegale deve intendersi solo quella che costituisca il risultato finale delle operazioni intermedie con cui viene determinata e, in sé e rispetto ai passaggi intermedi ritenuti dalla decisione contingente, fuoriesca dall’”ambito dello schema legale (Sez.6, n. 25273 del 23/05/2018, Zidane, Rv. 273392), una diversa e più estensiva interpretazione della nozione di illegalità della pena non potendo dunque – per la Corte – essere accolta perché in contrasto con il carattere tassativo della indicazione normativa dei motivi ammissibili del ricorso per cassazione, siccome introdotta dalla riforma con specifico riguardo alla sentenza di patteggiamento, atteso che, diversamente opinando, ogni vizio di legge sostanziale e processuale si tradurrebbe sempre in una illegalità della comminatoria finale della pena, quale effetto conclusivo del procedimento penale in senso lato viziato, con la conseguente assimilazione della illegalità della pena al vizio di legge come disciplinato dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c). Nessun contrasto ritiene poi il Collegio di ravvisare tra la nuova disciplina ed il principio costituzionale secondo cui avverso le sentenze è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge ex art. 111 Cost., trattandosi di sentenze di patteggiamento in cui prevale come elemento preponderante l’accordo delle parti e la conseguente adesione ai limiti legali entro cui detto provvedimento giudiziale può essere sottoposto ad impugnazione. Inoltre, chiosa ancora la Corte, la nuova normativa non esclude il ricorso per cassazione ma ne limita l’esercizio solo ai casi di violazione di legge specificandone l’ambito di operatività, introducendo dei limiti che appaiono compatibili con il controllo di legalità delle sentenze adeguato alla peculiarità di un provvedimento decisorio a base negoziale che implica una rinuncia alle ordinarie forme di impugnazione previste dalla legge, essendo la sentenza di patteggiamento inappellabile e ricorribile per cassazione solo nei casi tassativamente indicati in cui il vizio di legge incida sui presupposti formali e sostanziali del rito prescelto con riguardo alla manifestazione della volontà dell’imputato, alla conformità della sentenza alla richiesta, alla qualificazione giuridica del fatto e – per l’appunto – all’illegalità della pena o della misura di sicurezza. Si deve poi osservare, prosegue la Corte, che, attesa l’inammissibilità ex art. 448 c.p.p., 2-bis del motivo di ricorso volto a dichiarare la prescrizione del reato erroneamente non rilevata nel giudizio, la prescrizione maturata prima della sentenza impugnata non può essere evidentemente neppure rilevata di ufficio ex art. 129 c.p.p. in sede di legittimità, potendo essere rilevati di ufficio solo i casi di pena illegale, come accade per la pena per reato depenalizzato, o per la pena dichiarata incostituzionale, ma non anche l’omessa declaratoria della prescrizione del reato che non impedisce l’irrevocabilità della sentenza, e neppure può determinare una revocabilità del giudicato in sede esecutiva, come invece accade nel caso di abolitio criminis o di pena dichiarata incostituzionale. È stato già rilevato – in riferimento al tema dell’inammissibilità – come l’abrogazione di una norma incriminatrice sia fenomeno diverso rispetto alla prescrizione del reato, tanto che diversamente da quanto affermato per la prescrizione, l’inammissibilità del ricorso per cassazione non impedisce la rilevabilità d’ufficio dell’intervenuta “abolitio criminis” tranne che nel caso di tardività del ricorso (vedi Sez. 5, n. 39764 del 29/05/2017, Rhafor, Rv. 271850); analogamente – rammenta ancora la Corte – è stato affermato, sempre con riguardo alla illegalità della pena che nella sentenza di patteggiamento l’illegalità sopraggiunta della pena concordata sulla base dei parametri edittali dettati per le cosiddette “droghe leggere” dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto ma dichiarato successivamente incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 – determina la nullità dell’accordo e la Corte di Cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo (Sez. U, n.33040 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264206); si tratta quindi di ipotesi radicalmente diverse da quelle della pena irrogata per un reato prescritto, in cui l’estinzione del reato dipende dal solo decorso del tempo senza alcuna incidenza sulla permanenza legale dei suoi presupposti formali e sostanziali che vengono, invece, meno nei casi di abolitio criminis o di modifica legislativa della pena, o per effetto di pronunce di incostituzionalità. In conclusione, Il Collegio assume che – ove la prescrizione non sia stata eccepita in sede di accordo delle parti e neppure sia stata rilevata di ufficio – la pena concordata non può essere considerata pena illegale perché conforme all’accordo delle parti, rispondente alla volontà dell’imputato ed alla pena prevista dalla legge in relazione alla corretta qualificazione giuridica del fatto: in presenza di tali condizioni è la legge stessa che non consente più per effetto della normativa entrata in vigore dal 3 agosto 2017 la rilevabilità della prescrizione in sede di impugnazione della sentenza di patteggiamento. La Corte conclude affermando pertanto il principio secondo cui il mancato rilievo della prescrizione già maturata non investe la legalità della pena, perché la pena, determinata sulla base di un accordo che includa il computo anche della frazione di pena disposta per un reato prescritto tra quelli considerati unitariamente ai fini dell’aumento per la continuazione, è comunque conforme alla volontà delle parti ed alla pena prevista dalla legge penale, poiché il vizio di legge non investe la pena ma un diverso presupposto dell’accordo negoziale ratificato dalla sentenza; a tale affermazione di principio consegue che la prescrizione del reato nel patteggiamento, non potendo essere dedotta come motivo valido di impugnazione diversamente da quanto previsto per la sentenza di condanna, quand’anche la sentenza fosse stata emessa dopo che sia maturato il termine di prescrizione, neppure può essere rilevata di ufficio in difetto dell’instaurazione di un valido rapporto impugnatorio.
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Il 7 febbraio esce la sentenza delle SSUU n.6141 che si pronuncia sulla seguente questione di diritto, ovvero “Se sia ammissibile la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile“. Il problema – rappresenta la Corte – si pone sia agli effetti penali, in riferimento alla finalità di ottenere il proscioglimento nel merito, con formula più favorevole, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, sia agli effetti civili, in riferimento alla finalità di vedere caducate la statuizioni civili contestualmente confermate (od anche disposte ex novo) dalla sentenza di appello che abbia dichiarato l’estinzione del reato (nel caso in esame, per prescrizione). Rammenta la Corte come l’orientamento tradizionale, senz’altro dominante, ammette la revisione soltanto nei confronti di sentenze penali di condanna agli effetti penali, negandone l’ammissibilità (sia agli effetti penali che agli effetti civili) nei confronti delle sentenze che si siano limitate a dichiarare l’estinzione del reato, contestualmente confermando (o disponendo) le statuizioni civili. In tal senso si è pronunciata Sez. 1, n. 1672 del 15/04/1992, Bonaceto, per la quale il mezzo d’impugnazione straordinario rappresentato dalla revisione è esperibile esclusivamente, per espressa volontà legislativa, nei confronti di sentenze (o decreti penali) di condanna, con esclusione delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere. In seguito, Sez. 6, n. 4231 del 30/11/1992, dep. 1993, Melis, ha ribadito che la revisione è un mezzo (sia pur straordinario) di impugnazione, per il quale opera, quindi, il principio di tassatività, ex art. 568 c.p.p., comma 1, con la conseguenza che, riguardando l’art. 629 c.p.p., soltanto le sentenze di condanna, non possono ritenersi assoggettabili a revisione anche le sentenze che applichino l’amnistia; questa decisione precisò che tale principio vale anche quando la corte di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto, abbiano confermato le statuizioni civili della precedente sentenza, giacché anche in tal caso non si ha una condanna agli effetti penali. L’orientamento – prosegue la Corte – è stato ulteriormente ribadito da Sez. 5, n. 15973 del 24/02/2004, Decio, (sempre valorizzando il principio di tassatività delle impugnazioni, e ritenendo conseguentemente la possibilità di chiedere la revisione unicamente di sentenze che abbiano pronunciato una condanna agli effetti penali) e da Sez. 5, n. 2393 del 02/12/2010, dep. 2011, Pavesi, che, nel recepire l’orientamento all’epoca pacifico in giurisprudenza, ha anche valorizzato quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 129 del 16/04/2008, proprio in relazione al giudizio di revisione, onde: “Il Giudice delle leggi ha, invero, ritenuto come il contrasto per il quale si legittimi e razionalmente si giustifichi la revisione, più che attenere alla diversa valutazione di una vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione, abbia la ragion d’essere esclusivamente nella inconciliabilità di ricostruzioni alternative di un determinato accadimento della vita all’esito di due giudizi penali definiti con sentenze irrevocabili. Il che vale a confermare l’assunto, correttamente affermato nell’impugnata decisione, secondo il quale l’avvenuta conferma delle statuizioni civili, in presenza dell’avvenuta dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non costituisca affatto sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo straordinario rimedio della revisione“. Nel medesimo senso – prosegue la Corte – si è successivamente pronunciata anche Sez. 5, n. 24155 del 03/03/2011, Bernardelli, (le cui argomentazioni sono integralmente richiamate da Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli), sempre valorizzando il carattere di mezzo straordinario d’impugnazione della revisione, in quanto tale esperibile esclusivamente nei confronti di sentenze o decreti penali di condanna, con esclusione delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere, ed osservando, inoltre, che la sopravvenuta dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., (Corte cost., sentenza n. 113 del 2011), per effetto della quale era stata introdotta una nuova fattispecie di revisione in riferimento alla possibile violazione della Convenzione EDU, “non induce ad alcun revirement con riferimento alla fattispecie ora in esame, dovendo trattarsi pur sempre di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna e non già di proscioglimento“. Più recentemente, l’orientamento è stato ribadito da due decisioni della Seconda Sezione, la n. 2656 del 09/11/2016, dep. 2017, Calabrò, e la n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati: la sentenza Calabrò ha ritenuto che la Relazione al Progetto preliminare ed al Testo definitivo del Codice di procedura penale vigente (nella quale si legge che l’utilizzo del termine “prosciolto” in luogo del riferimento all’assoluzione si spiega in considerazione del rinvio unitario alle disposizioni di legge che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento), l’espressa previsione dell’art. 629 c.p.p., (a norma del quale la revisione è ammissibile “(…) anche se la pena è già eseguita o estinta“) e l’insieme delle altre disposizioni che disciplinano l’istituto della revisione confermerebbero che la revisione sarebbe configurata dal codice di rito quale mezzo di impugnazione straordinario “preordinato al “proscioglimento” della persona già condannata in via definitiva“. La complessiva disciplina della revisione – diversamente da quella dettata in tema di ricorso straordinario per errore di fatto (in relazione alla quale soltanto le Sezioni Unite, con la sentenza Marani, hanno esteso la legittimazione attiva anche all’imputato condannato ai soli effetti civili) – sarebbe, pertanto, incompatibile con l’estensione della legittimazione attiva in tema di revisione al condannato ai soli effetti civili, come sarebbe stato già chiarito dalle stesse Sezioni Unite, con la sentenza n. 6 del 25/03/1998, Giangrasso,; le Sezioni Unite, inoltre, con la sentenza n. 28719 del 21/06/2012, Marani, avrebbero ricollegato l’ammissibilità del ricorso straordinario in favore del soggetto condannato solo agli effetti civili unicamente all’oggettiva insussistenza di elementi di segno contrario rinvenibili nella “complessiva” disciplina dell’istituto del ricorso straordinario, al contrario ravvisabili, secondo la sentenza Calabrò, nella “complessiva” disciplina dell’istituto della revisione. Anche la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 113 del 2011) avrebbe, sia pur indirettamente, confermato la correttezza dell’orientamento sostenuto, osservando che la revisione “risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata: obiettivo, che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 c.p.p., eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa“; sarebbe stato, in tal modo, definitivamente chiarito che, nella sua originaria previsione, la revisione presuppone la necessaria allegazione di elementi idonei a fondare una pronunzia di proscioglimento.
La sentenza Ricupati ha valorizzato la nozione sostanzialistica di “sentenza di condanna” elaborata dalla Corte EDU e recepita dalla Corte costituzionale (sentenze n. 85 del 2008, n. 239 del 2009 e n. 49 del 2015), al cui ambito non sarebbe riconducibile la sentenza di proscioglimento per prescrizione con conferma delle statuizioni civili, perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o comunque latamente penalistica. Ha, inoltre, ritenuto che la sentenza delle Sezioni Unite n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, (per la quale “il ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p., può essere proposto dal condannato anche per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o rigetta il ricorso contro la decisione della Corte d’appello che, a sua volta, abbia dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso condannato“) non solo non corrobora l’orientamento minoritario, ma, al contrario, conferma quello dominante; né potrebbe trarsi argomento a sostegno dell’orientamento minoritario dalla sentenza Marani, poiché la relativa ratio decidendi – ravvisata nell’esigenza di colmare una lacuna al fine di evitare la disparità di trattamento fra quanto previsto in sede civile e quanto stabilito in sede penale non potrebbe essere estesa alla revisione. Non potrebbe, infine, obiettarsi che il prosciolto non avrebbe altro modo per rimediare ad una sentenza “ingiusta” che lo pregiudichi sia pure sotto solo il profilo civilistico, essendo costretto a “subire” l’insindacabile scelta processuale della persona offesa che, invece di far valere le proprie ragioni in sede civile, preferisca tutelarle nel processo penale costituendosi parte civile, potendo a tale obiezione replicarsi che “l’eventuale declaratoria di prescrizione è la conseguenza di una precisa scelta processuale dell’imputato che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non ritenga di rinunciare alla prescrizione. Infatti, laddove l’imputato rinunci alla prescrizione, potrebbe conseguire un duplice risultato: nel caso di assoluzione (per insussistenza del fatto e per non averlo commesso), anche le pretese della parte civile sarebbero respinte; in caso di condanna, invece, avrebbe la possibilità, in presenza dei requisiti di legge, di promuovere istanza di revisione e, conseguentemente, travolgere, in caso di accoglimento, anche le statuizioni civili“. L’orientamento in precedenza assolutamente dominante – ricorda a questo punto la Corte – è stato contrastato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, rimasta isolata, che ha ritenuto ammissibile l’istanza di revisione della sentenza di appello dichiarativa dell’estinzione del reato (nel caso esaminato, per prescrizione), confermando le statuizioni civili: premesso che la revisione ha natura di mezzo (straordinario) d’impugnazione, ed è, come tale, soggetta al principio di tassatività delle impugnazioni, e che le sentenze che abbiano disposto unicamente il proscioglimento dell’imputato per essere il reato ascrittogli estinto per amnistia o prescrizione non sono suscettibili di revisione, poiché l’art. 629 c.p.p., ammette la revisione soltanto delle sentenze di condanna e di c.d. “patteggiamento“, questa decisione ha, tuttavia, osservato che i riferimenti normativi abitualmente valorizzati dal contrario orientamento sarebbero suscettibili di una diversa lettura, poiché l’art. 629 c.p.p., indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna“, “senza precisare ulteriormente l’oggetto delle stesse“, e, simmetricamente, il successivo art. 632, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca “in maniera altrettanto generica la figura del condannato“; né potrebbe dubitarsi che la decisione che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisca una “pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p.” e che, dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, l’imputato sia “condannato” alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Ad ulteriore conforto dell’interpretazione sostenuta, sono state valorizzate le analoghe considerazioni svolte dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 28719 del 21/06/2012, Marani, e n. 28718 del 21/06/2012, Cappiello, per affermare la legittimazione del prosciolto condannato agli effetti civili ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.; si è anche ricordato che il giudice dell’appello può essere chiamato, ex art. 576 c.p.p., non già a confermare le statuizioni civili adottate nel primo grado di giudizio contestualmente alla condanna penale dell’imputato, bensì a pronunziarsi in maniera inedita ed esclusiva in favore della parte civile, senza essere contestualmente investito agli effetti penali della questione relativa alla responsabilità del presunto autore del fatto di reato. Non sarebbe possibile desumere decisivi argomenti contrari all’accoglimento della tesi propugnata: – dalla legge delega del nuovo codice di rito (L. n. 81 del 1987), posto che la direttiva n. 99 dell’art. 2 nulla prevedeva in tal senso; – dal fatto che lo stesso art. 629 c.p.p., consenta la revisione della condanna “anche se la pena è già stata eseguita o estinta“, poiché con tale disposizione il legislatore, lungi dal delimitare l’ambito oggettivo dell’impugnazione straordinaria, avrebbe unicamente inteso rimarcare la sussistenza di un interesse “morale” del condannato a rimuovere il giudicato anche in tali casi; – dall’art. 631 c.p.p.. Si osserva, infine, che, accogliendo l’orientamento tradizionale, l’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente condannato agli effetti civili, resterebbe privo di tutela, non potendo neppure ricorrere all’istituto della revocazione civile (art. 395 c.p.c.), impraticabile in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile, e stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione. Così riepilogati i termini del contrasto, emerge per il Collegio che la questione controversa investe il tema dell’individuazione dei provvedimenti impugnabili con la revisione, dovendo in particolare stabilirsi se per soggetto “condannato“, in quanto tale legittimato a proporre richiesta di revisione, si debba intendere anche quello nei cui confronti sia stata pronunciata una mera condanna agli effetti civili, con contestuale declaratoria di estinzione del reato ascrittogli agli effetti penali. In proposito, le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere risolto affermando che è ammissibile (anche agli effetti penali) la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) che, decidendo, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento del danno (od alle restituzioni) in favore della parte civile.
La revisione costituisce, secondo la dottrina tradizionale, il rimedio contro “il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale“: l’istituto consente, in particolare, di rimuovere gli errori giudiziari, revocando provvedimenti di condanna – sentenze, emesse anche ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e ss., o decreti penali – che, in considerazione di successive emergenze, si rivelino, come pure è stato sottolineato, “frutto di ingiustizia“. La necessità della previsione di un giudizio di revisione (avvertita sin dall’epoca dell’”antico diritto”: “fraus vel dolus, si intervenerit in sentenza, perpetuo succurritur damnato“; “omni tempore ratione humanitatis quaeri oportet de innocentia rei. Nonnunquam enim, aut metu, aut aliqua de causa is confitetur et saepe falsa demonstratione damnatur”) è contemplata dall’art. 24 Cost., comma 4, che, nell’imporre al legislatore ordinario di determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari“, ineludibilmente costituzionalizza anche lo strumento processuale finalizzato alla revoca delle sentenze di condanna frutto dei predetti errori, e trova conferma ulteriore nell’art. 27 Cost., comma 3, poiché la “rieducazione del condannato“, cui le pene devono tendere, non deve aver luogo nei confronti, di un innocente. Secondo la giurisprudenza costituzionale, prosegue la Corte, l’istituto risponde alla “esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità” (Corte cost., n. 28 del 1969). La revisione – chiosa ancora la Corte – trova esplicito riconoscimento anche in plurime fonti sovranazionali poste a tutela dei diritti umani: l’art. 4, 7° Protocollo alla Convenzione EDU prevede – in deroga al divieto di bis in idem – la possibilità della riapertura del processo “se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta“. Il diritto alla revisione è affermato (più o meno nei medesimi termini, ma con riferimento alle sole sentenze di condanna) anche dall’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, e costituisce, quindi, un inalienabile diritto della persona.
Il codice di procedura penale individua nell’art. 630 c.p.p., i casi di revisione (ampliati per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, che ha dichiarato l’articolo costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo“) con i limiti previsti dall’art. 631, in favore dei “condannati“, nei confronti “delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta“. Il presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire l’impugnazione straordinaria de qua è quindi, per la Corte, lo status di “condannato“, da intendere necessariamente come “il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda” (così Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata). Il ricorso alla revisione andrebbe, quindi, negato con riferimento ai procedimenti ante iudicatum, ovvero a tutte le tipologie di decisioni che non hanno come destinatario un “condannato” in tal modo inteso: si pensi, ad esempio, ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione – tuttavia, con riferimento ai provvedimenti applicativi di misure di prevenzione personali, il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 11, comma 2, delinea ad hoc l’ambito della possibile rilevanza di fatti sopravvenuti ai fini della revoca della misura, e l’art. 28, stesso D.Lgs., prevede una forma di revocazione della sola decisione definitiva sulla confisca di prevenzione, peraltro rinviando alla disciplina prevista dall’art. 630 c.p.p. e ss. -, di rimessione del processo, di consegna per un mandato di arresto Europeo e in genere ai provvedimenti in materia di estradizione. La tassativa previsione dell’art. 629, comporta che la revisione non è esperibile nei confronti delle ordinanze e nei casi in cui l’ordinamento appresti rimedi “speciali” diversi. Essa non è, quindi, esperibile: – nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere, per le quali gli artt. 434 – 437 del codice di rito prevedono una forma di impugnazione straordinaria ad hoc; – in presenza di una sopravvenuta abolitio criminis (cfr. art. 673 c.p.p., che in tal caso prevede, come rimedio ad hoc, la revoca della sentenza); – nei confronti di sentenze pronunciate da giudici speciali (cfr., con rimedi speciali, L. 25 gennaio 1962, n. 20, artt. 29 e 33, – per quanto riguarda le decisioni della Corte costituzionale – ed art. 401 c.p.m.p. – per quanto riguarda le decisioni dei tribunali militari).
L’art. 629 c.p.p., ammette la revisione unicamente in favore del “condannato“, non dunque anche della sentenza che si sia limitata, soltanto agli effetti penali, a dichiarare l’estinzione del reato (per prescrizione, come nel caso di specie, od anche per altra causa), poiché in tal caso: – il soggetto instante non avrebbe qualifica di “condannato“, a nessun effetto (in difetto di contestuali statuizioni civili); – la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino alla condanna definitiva (art. 27 Cost., comma 2), nel caso di specie non intervenuta, impedirebbe di configurare possibili pregiudizi (in ipotesi giuridicamente rilevanti) alla sua onorabilità. Un problema potrebbe in astratto porsi in riferimento all’impossibilità di esperire la revisione in tali casi, poiché anche dal proscioglimento, in ipotesi conseguente ad un’amnistia oppure all’applicazione del perdono giudiziale, ovvero all’accertamento del difetto di imputabilità, e che pertanto postuli un quanto meno implicito accertamento di responsabilità, potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (ad esempio, l’applicazione di misure di sicurezza). A conclusioni diverse deve invece per la Corte pervenirsi quando alla declaratoria di estinzione del reato (per prescrizione o per amnistia “propria“), valida e rilevante ai soli effetti penali, si accompagni in appello, come previsto e consentito dall’art. 578 c.p.p., la contestuale affermazione di responsabilità agli effetti civili (confermativa della corrispondente statuizione del primo giudice, od anche pronunziata ex novo su gravame della parte civile), con conseguente condanna dell’imputato al risarcimento del danno e/o alle restituzioni. Da lungo tempo, la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 28 del 1969), premesso che “l’istituto della revisione si pone nel sistema delle impugnazioni penali quale mezzo straordinario di difesa del condannato ed è preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, mediante l’annullamento di sentenze di condanna, che siano riconosciute ingiuste posteriormente alla formazione del giudicato“, ha riconosciuto che “esso risponde all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità“. Pur dovendo essere la revisione necessariamente subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell’intento di contemperarne le predette finalità con l’interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all’intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato, “l’evoluzione della nostra legislazione positiva dimostra una graduale estensione delle categorie dei soggetti in favore dei quali la revisione dei giudicati penali è stata ammessa, sul riflesso di un sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi sia stato a torto condannato“. Il rimedio della revisione risulta quindi apprestato per rimuovere ogni giudicato “ingiusto” idoneo a causare “serio pregiudizio non solo alla libertà e al patrimonio, ma anche alla onorabilità ed alla dignità morale e sociale dei soggetti. Beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione sociale“; e viene all’uopo in considerazione anche l’obbligo (enunciato nell’art. 185 c.p.) “delle restituzioni e del risarcimento del danno, nei casi in cui il fatto accertato ne abbia arrecato a terzi“.
Le Sezioni Unite – prosegue la Corte – hanno in più occasioni esaminato questioni controverse inerenti alla revisione. In particolare, chiamate a decidere se fosse ammissibile il giudizio di revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (all’epoca normativamente non previsto), esse hanno inizialmente osservato che, “la revisione, che presuppone il giudicato, è stata espressamente disciplinata dal legislatore quale istituto applicabile unicamente alle sentenze di condanna ed ai decreti penali di condanna divenuti irrevocabili (art. 629 c.p.p.), ovverosia alle sole decisioni che comportano il riconoscimento della responsabilità dell’imputato per un determinato reato e l’applicazione della relativa pena” (Sez. U, n. 6 del 25/03/1998, Giangrasso). In seguito, investite del ricorso tanto per la particolare importanza delle questioni proposte quanto per la soluzione del contrasto giurisprudenziale insorto fra le Sezioni ordinarie circa il concetto di prova nuova ai fini della delibazione sull’ammissibilità della richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 624 del 26/09/2001, Pisano), premesso che “al fondo della normativa sulla revisione sta il conflitto tra esigenze di natura formale ed esigenze di giustizia sostanziale che, nella tensione dialettica finalizzata alla ricerca della verità, accompagna l’intero corso del processo e ne segue i passaggi più salienti“, hanno ribadito che, con il giudizio di revisione, l’ordinamento, sulla base di scelte di politica legislativa, sacrifica “il valore (…) del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori“, precisando che tra i valori fondamentali a cui la legge attribuisce priorità, rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, vi è la “necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica – quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti – per impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell’ingiustizia della sentenza irrevocabile di condanna“. Il fondamento costituzionale della revisione è individuato dalle Sezioni Unite nella disposizione contenuta nell’art. 24 Cost., comma 4; sulla scia della condivisa giurisprudenza costituzionale, la funzione della revisione è stata ricollegata non soltanto all’interesse del singolo, ma anche “all’interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale“. Successivamente, chiamate a decidere una questione per certi versi speculare rispetto a quella odierna, ovvero se fosse ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell’imputato, e premesso che il vigente ordinamento processuale evidenzia l’esistenza di “inespressa – ma percepibile – tendenza assimilativa (dell’istituto del ricorso straordinario, disciplinato dall’art. 625 bis c.p.p.) all’istituto della revisione“, le Sezioni Unite (sentenza n. 28719 del 21/06/2012, Marani) hanno osservato che “la locuzione condannato che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario (…), non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili“, il che si è ritenuto non avvenga in tema di ricorso straordinario. Infine, chiamate a decidere se fosse ammissibile il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p., contro la sentenza o l’ordinanza della Corte di cassazione che rigetta o dichiara inammissibile il ricorso del condannato contro la decisione della corte d’appello che ha respinto ovvero dichiarato inammissibile la richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 13199 del 21/07/2016, dep. 2017, Nunziata) hanno ribadito che il ricorso straordinario “si rifà al modello della disciplina della revisione“, la quale, dal canto suo, “si inserisce nel sistema delle impugnazioni come un mezzo straordinario di difesa del condannato, per porre rimedio agli errori giudiziari, eliminando le condanne che siano riconosciute ingiuste, attraverso un giudizio che segue alla formazione del giudicato, la cui base giustificativa è di ordine prevalentemente pratico“; all’istituto della revisione è, quindi, attribuita “la funzione di rispondere all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità (Corte cost., sent. n. 28 del 1969)”. Ed è apparso evidente che “sia la giurisprudenza costituzionale sia quella di legittimità facciano derivare la scelta del favor revisionis dalla finalità di garantire i diritti inviolabili della persona, sacrificando il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale“. In accordo con i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, e già recepiti dalle Sezioni Unite, questo collegio ritiene che l’istituto della revisione costituisca applicazione estrema del principio costituzionale che assegna al processo penale il compito dell’accertamento della verità (“poiché il fine primario e ineludibile del processo penale rimane la ricerca della verità“: Corte cost., sentenza n. 111 del 1993): proprio la necessità di perseguire il rispetto della verità impone di non accogliere opzioni ermeneutiche che portino a mantenere ferme decisioni condizionate da un quadro probatorio, esistente al momento della decisione, ma che in seguito risulti radicalmente smentito. Questa funzione dell’istituto della revisione assume – per la Corte – rilievo fondamentale ai fini della decisione della questione controversa. L’art. 629 c.p.p., indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna” (senza precisarne ulteriormente l’oggetto), ed il successivo art. 632 – che dell’art. 629 costituisce pendant -, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca (altrettanto genericamente) lo status giuridico di “condannato“. Non può dubitarsi che la decisione che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisca una pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, secondo quanto espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p., e che, dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, all’imputato debba essere riconosciuto lo status di soggetto “condannato“, sia pure soltanto alle restituzioni ed al risarcimento del danno. D’altro canto, chiosa ancora la Corte, come osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, cit., nel testo dell’art. 629 non vi è traccia della possibile rilevanza della distinzione tra la condanna riportata agli effetti penali e quella riportata agli effetti civili a seguito dell’esercizio nel processo penale dell’azione civile, e nessun elemento induce a ritenere l’esistenza di “una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a consentire la revisione al condannato solo per gli interessi civili“. Anche in tali casi si è al cospetto di un’affermazione di responsabilità, contestuale alla declaratoria di estinzione del reato, e ad essa inscindibilmente collegata, per la medesimezza del fatto storico costituente oggetto della duplice valutazione (agli effetti penali e civili) e dei materiali probatori valutati, di tal che la condanna, pur pronunciata ai soli effetti civili, si risolve, pur incidentalmente, in una affermazione di responsabilità anche agli effetti penali. Lo status di “condannato“, da intendere come “il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda” (così Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata), va, pertanto, certamente riconosciuto anche al soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata in appello, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., sentenza di proscioglimento, per estinzione del reato per prescrizione ovvero per amnistia, con contestuale conferma della condanna pronunciata in primo grado alle statuizioni civili od anche con condanna alle statuizioni civili pronunciata per la prima volta in appello su gravame della parte civile. Anche in questo caso, dunque, “la locuzione “condannato” che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario (…), non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili (così la sentenza Marani in tema di ricorso straordinario, con considerazioni senz’altro mutuabili anche in riferimento alla revisione). Sia valorizzando il fatto che al predetto soggetto va riconosciuto lo status formale di condannato, sia valorizzando il fatto che l’affermazione di responsabilità agli effetti civili, contestuale alla declaratoria di estinzione del reato, non può non assumere in concreto, per le ragioni appena indicate, valenza sostanziale di affermazione di responsabilità anche agli effetti penali, appare evidente che l’art. 629 c.p.p., ne ammette la legittimazione a chiedere la revisione della sentenza d’appello che abbia dichiarato l’estinzione del reato, contestualmente confermando la condanna o condannando ex novo l’imputato alle statuizioni civili ex art. 578 c.p.p., (anche se con statuizione di condanna generica e rinvio al giudice civile per la quantificazione dei danni). L’art. 578, attua la direttiva n. 28 della legge delega n. 81 del 1987, riproducendo pressoché integralmente la L. 3 agosto 1978, n. 405, art. 13, “che costituisce il testo di legge innovativo in materia, estendendone la normativa anche all’analogo istituto della prescrizione” (Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 288). La disposizione comporta che, prosegue la Corte, quando nei confronti dell’imputato sia pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento dei danni, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione che siano sopravvenute, decidono sull’impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili: il potere-dovere del giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili del reato estinto per prescrizione o per amnistia, previsto dall’art. 578, presuppone una sentenza di condanna estesa alle statuizioni civili, emessa in primo grado, in assenza di cause estintive già maturate ed erroneamente non dichiarate. Il giudice dell’appello, nel prendere atto dell’esistenza di una delle predette cause estintive del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, deve necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale, che imporrebbero la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova dell’innocenza non risulti ictu oculi: la previsione di cui all’art. 578 comporta, infatti, che i motivi di impugnazione dell’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell’innocenza dell’imputato, secondo quanto previsto con riferimento agli effetti penali, per esigenze di economia processuale, dall’art. 129 c.p.p., comma 2, (Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, Tomasi; Sez. 4, n. 20568 del 11/04/2018, D.L.), tanto vero che la sentenza di appello che non abbia compiuto un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell’imputato deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla conferma delle statuizioni civili (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti; Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013, Galati; Sez. 5, n. 3869 del 07/10/2014, dep. 2015, Lazzari). Non può quindi dubitarsi che la statuizione di condanna agli effetti civili, pronunciata ai sensi dell’art. 578, di per sé suscettibile – se ingiusta – di arrecare pregiudizio all’interessato con riguardo alla sfera patrimoniale, contenga necessariamente, anche se incidentalmente, una implicita quanto ineludibile affermazione di responsabilità tout court operata, a cognizione piena, in relazione al fatto-reato causativo del danno, certamente suscettibile di arrecare pregiudizio all’interessato anche con riguardo alla sfera dei diritti della personalità. La contestualità delle pronunzie di estinzione del reato e di condanna alle statuizioni civili evidenzia infatti, chiosa ancora la Corte, la sussistenza di un inscindibile collegamento tra l’affermazione di responsabilità agli effetti civili e la mancata pronunzia liberatoria, anche nel merito, agli effetti penali, che è senz’altro idonea a produrre un apprezzabile pregiudizio al diritto all’onore dell’imputato, con superamento – in concreto – della presunzione costituzionale di non colpevolezza. Analoghi essendo i pregiudizi che l’interessato, pur non condannato agli effetti penali, potrebbe patire anche in tali casi, per effetto di una decisione irrevocabile successivamente rivelatasi ingiusta, sia alla propria sfera personale (per la compromissione della propria onorabilità) che a quella patrimoniale (per le – in ipotesi irreversibili – statuizioni risarcitorie o di condanna alle restituzioni), il diniego della possibilità di accesso al giudizio di revisione potrebbe porsi in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della violazione del principio di uguaglianza, derivante dal diverso trattamento riservato a situazioni che presentino analoghi profili di pregiudizio, e della palese irragionevolezza, in difetto di apprezzabile giustificazione della discrasia. E, nel dubbio, secondo quanto da tempo immemore chiarito dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, l’interprete deve sempre optare per la soluzione interpretativa che non ponga problemi di costituzionalità. Questa conclusione – prosegue il Collegio – si pone in linea con quanto già ritenuto dalle Sezioni Unite (sentenze n. 28719 del 21/06/2012, Marani, e n. 28718 del 21/06/2012, Cappiello) con riferimento al tema della legittimazione del soggetto prosciolto agli effetti penali, ma condannato agli effetti civili, ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.. Le predette decisioni, nell’affermare la legittimazione attiva al ricorso straordinario anche del soggetto avente il predetto status giuridico, hanno ritenuto effettivamente “percepibile” l’esistenza di forti analogie con l’altro mezzo d’impugnazione straordinario costituito dalla revisione. L’esistenza di una tendenza normativa all’assimilazione degli istituti del ricorso straordinario e della revisione, in più occasioni evidenziata dalle Sezioni Unite, mal si concilierebbe, invero, con una soluzione che, ai soli fini dell’esperibilità della revisione, intendesse la legittimazione normativa del “condannato” riferibile soltanto a colui che risulti tale agli effetti penali, e non anche a colui che risulti tale agli effetti civili, come ritenuto dalla sentenza Marani in tema di ricorso straordinario, tenuto peraltro conto del fatto che, come già osservato con riferimento al ricorso straordinario, anche in riferimento alla revisione la legge non distingue espressamente i due profili degli effetti penali e civili della condanna. Tale considerazione evidenzia che è senz’altro priva di rilievo ai fini della risoluzione della questione controversa la natura di rimedio impugnatorio di carattere straordinario della revisione, ed il relativo, conseguente assoggettamento al principio della tassatività delle impugnazioni, elemento abitualmente valorizzato dall’orientamento dominante: il ricorso straordinario presenta analoga natura, ma ciò non ha impedito di ritenere legittimato ad esperirlo anche il soggetto “condannato” ai soli effetti civili, proprio nel rispetto del predetto principio. Sarebbe legittimo pervenire a conclusioni diverse soltanto valorizzando dati normativi speciali, desumibili dalla disciplina della revisione, le Sezioni Unite ritengono, tuttavia, non decisivi, se non addirittura privi di rilievo, i riferimenti testuali all’uopo valorizzati dall’orientamento in atto maggioritario. Non appare rilevante la legge delega n. 81 del 1987 per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, posto che la direttiva n. 99 dell’art. 2 nulla prevedeva in riferimento alla questione controversa, essendosi limitata a stabilire, per quanto in questa sede può assumere rilievo, la “ammissibilità della revisione anche nei casi di erronea condanna di coloro che non erano imputabili o punibili a cagione di condizioni o qualità personali o della presenza di esimenti“. Non decisivo appare il riferimento all’art. 629 c.p.p., che consente la revisione della condanna “anche se la pena è già stata eseguita o estinta” (valorizzato dall’orientamento in atto maggioritario nel senso di escludere l’ammissibilità della revisione nel diverso caso in cui sia il reato, non la pena, ad essere estinto), poiché con tale disposizione il legislatore, lungi dal delimitare l’ambito oggettivo dell’impugnazione straordinaria, ha unicamente inteso rimarcare la sussistenza di un interesse “morale” del condannato a rimuovere il giudicato anche quando la pena sia già stata interamente eseguita o sia estinta. A ben vedere, l’inciso conferma, al contrario, che la revisione ha la funzione di rimuovere anche pregiudizi di natura “morale“, quale è quello che consegue all’affermazione di responsabilità sia pur pronunciata ai soli effetti civili, contestualmente alla declaratoria di estinzione del reato. Non decisivo appare – prosegue il Collegio – il riferimento all’art. 631 c.p.p., che si limita a contemplare il novero dei possibili esiti del giudizio di revisione. Come già osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, cit., “se è vero (…) che agli effetti penali l’imputato è già stato prosciolto, è altrettanto vero che ciò è avvenuto per una causa diversa da quelle elencate negli artt. 529 e 530 c.p.p., che altrimenti non sarebbe stato possibile affermare la sua responsabilità ai fini civili. E se l’assenza delle condizioni previste dai due articoli menzionati è il presupposto per la condanna agli effetti civili, la dimostrazione che l’imputato doveva essere prosciolto per una causa diversa da quella invece riconosciuta è logico presupposto per la rimozione del giudicato, anche agli effetti civili“. Non appaiono decisivi, in proposito, anche i riferimenti alla Relazione al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale vigente (GU n. 250 del 24-10-1988 – Suppl. Ordinario n. 93), nella quale si legge unicamente che “L’art. 623 (nel testo definitivo del codice, divenuto art. 631), intitolato come l’art. 555 del codice vigente, Limiti della revisione, esprime in forma sintetica il risultato potenziale cui deve tendere l’istituto della revisione, esigenza che si spiega con la natura straordinaria dell’impugnazione. È stato adottato il termine prosciolto in luogo del riferimento all’assoluzione, perché vi è un rinvio unitario alle disposizioni di legge, che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento: gli artt. 522 (sentenze di non doversi procedere), 523 (sentenza di assoluzione), 524 (dichiarazione di estinzione del reato)”. Ancora, non decisivo appare il riferimento all’art. 637 c.p.p., comma 2, poiché la “sentenza di condanna“, che va revocata nel caso in cui sia accolta la richiesta di revisione, ben può essere quella pronunciata ex art. 578 c.p.p., agli effetti civili, ed il “proscioglimento” che va pronunciato indicandone la causa in dispositivo ben può essere quello pronunciato in tali casi agli effetti penali con formula liberatoria più favorevole rispetto a quello in precedenza pronunciato per estinzione del reato. Non decisivo appare, infine, l’ulteriore riferimento dell’art. 643 c.p.p., al “proscioglimento” pronunciato in sede di revisione, che va inteso nel senso appena illustrato. Risulta fin qui non considerato un riferimento testuale che, al contrario, dal punto di vista sistematico, conferma la correttezza della soluzione prescelta in questa sede. L’art. 673 c.p.p., comma 2, stabilisce che, in caso di abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca (non soltanto la sentenza di condanna o il decreto penale, come previsto dal comma 1, della disposizione, ma anche) la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adottando i provvedimenti conseguenti. La dottrina ha osservato che la disposizione costituisce espressione della necessità che il giudicato ceda alla “rivoluzione normativa posteriore“, anche se non si tratti di un giudicato di condanna. La disposizione comporta il proscioglimento con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato“, cui peraltro il giudice può accedere, a norma degli artt. 129 e 530 c.p.p., soltanto dopo aver verificato che: – il fatto sussiste; – l’imputato lo ha commesso; – il fatto costituisce reato. Per evidenti esigenze di logica, oltre che per identità di ratio, nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione, in difetto di riferimenti testuali insuperabilmente ostativi, analoga soluzione s’impone, a fortiori, in casi nei quali vi sia stata una condanna, sia pure ai soli effetti civili, contestualmente al proscioglimento per estinzione del reato, seguita dalla scoperta ex post di elementi decisivi di prova, prima ignoti, che dimostrino l’innocenza dell’imputato. Sarebbe, invero, irragionevole aver previsto, in presenza di una sentenza che dichiari l’estinzione del reato con contestuale condanna alle statuizioni civili, la possibile caducazione del giudicato soltanto in presenza della sopravvenuta abolitio criminis, e non anche in presenza della scoperta di prove che impongano l’assoluzione nel merito con formula liberatoria di grado poziore (in tal senso, con riferimento alle formule previste dall’art. 530 c.p.p., cfr. Sez. 3, sentenza n. 9096 del 23/06/1993, Steinhauslin, per la quale, “quando il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, sia in seguito a una pura e semplice abolitio criminis, sia in seguito alla trasformazione dell’illecito penale in illecito amministrativo, il giudice è tenuto a verificare se allo stato degli atti non risulti già evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato“; nel medesimo senso, con riferimento alle formule previste dall’art. 129 c.p.p., Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, per la quale “nel concorso tra diverse cause di proscioglimento, poiché l’indicazione che si trae dalla sequenza delle formule contenuta nell’art. 129 c.p.p., è quella di un ordine ispirato a un’ampiezza di effetti liberatori per l’imputato progressivamente più ridotta, la formula perché il fatto non sussiste prevale su quella perché il fatto non è previsto dalla legge come reato“). La soluzione qui – prosegue poi la Corte – sostenuta non trova ostacoli nella giurisprudenza costituzionale, della quale costituisce anzi imprescindibile conseguenza. La sentenza n. 129 del 2008 (richiamata a conferma dell’orientamento maggioritario da Sez. 5, n. 2393 del 01/12/2010, dep. 2011, Pavesi, cit.) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a), sollevata in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 Cost., nella parte in cui non si applica ai casi di assenza di equità del processo, accertata dalla Corte EDU ai sensi dell’art. 6 della Convenzione EDU. La citata decisione non ha, peraltro, operato alcun riferimento al possibile contenuto dispositivo (di condanna agli effetti penali, o meno) delle sentenze irrevocabili emesse all’esito di diversi giudizi penali, fondate su “fatti storici“, determinanti ai fini del riconoscimento della penale responsabilità, oggettivamente incompatibili. La sentenza n. 113 del 2011 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, e con gli artt. 46 e 6 della CEDU, nella parte in cui non consente la riapertura del processo penale al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU che accertino la violazione dell’art. 6 della CEDU, senza, peraltro, svolgere alcuna considerazione riferibile all’odierna questione controversa, poiché, nell’evidenziare che “la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata“, non prende esplicita posizione in ordine al contenuto della condanna (penale o civile) della sentenza soggetta a revisione. La predetta decisione osserva, in generale, che, pur nell’indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata, non possa ritenersi contraria a Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi “in presenza di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel suo complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111 Cost.”: risulta, in tal modo, ribadita la prevalenza della tutela dei diritti fondamentali della persona sulle esigenze di certezza e di stabilità della cosa giudicata, che conferma, sotto un profilo sistematico, la correttezza dell’opzione in favore dell’orientamento in precedenza minoritario. La finalizzazione dell’istituto della revisione alla tutela della “esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità” (Corte cost., n. 28 del 1969) conferma la tesi sostenuta. La soluzione prescelta – prosegue la Corte con incedere sistematico – non trova ostacoli neppure nelle fonti sovranazionali. Il diritto alla revisione è affermato con riguardo alle “sentenze di condanna” (senza alcuna restrizione in riferimento alle statuizioni – di natura penale od anche civile – che possano conseguirne) dall’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. L’art. 4, § 2, Prot. Addizionale n. 7 alla CEDU prevede la possibilità di riapertura del processo senza limitazioni riferibili alla natura della sentenza (se di condanna o di proscioglimento) o delle statuizioni (penali o civili) conseguenti alla condanna, ma con il corollario del divieto di “essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva” (art. 4, § 1, Prot. Addizionale n. 7 cit.). E non può essere considerata priva di significato ai fini che interessano la circostanza che la riapertura del processo è garantita senza riferimento alcuno agli effetti (penali o civili) che conseguono alla sentenza originariamente pronunciata, mentre il diritto a non essere giudicato o punito due volte è affermato con riferimento ai soli effetti penali. Quanto appena osservato evidenzia la non decisività del richiamo, operato da Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, cit., dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, onde inferirne che alla condanna al risarcimento dei danni e/o alle restituzioni non potrebbe essere riconosciuta, per grado di afflittività, natura di condanna agli effetti penali. L’argomento risulta comunque fuorviante, perché, come già chiarito, il riferimento operato dall’art. 629 c.p.p., alla “condanna” ricomprende anche quella pronunciata ai soli effetti civili, e non può essere inteso come evocante una condanna anche solo sostanzialmente penale. Inoltre, esso trascura di considerare che il singolo Stato aderente alla CEDU ben potrebbe prevedere nel diritto interno un livello di garanzie superiore rispetto allo standard minimo convenzionalmente assicurato, ammettendo quindi la possibilità della revisione anche in casi con riferimento ai quali essa non risulti, in ipotesi, convenzionalmente necessaria. La tesi che viene privilegiata non si pone, infine, in contrasto con precedenti decisioni delle Sezioni Unite. La sentenza n. 6 del 1998, Giangrasso evoca, infatti, l’esperibilità della revisione contro le sole decisioni che comportino il riconoscimento della responsabilità dell’imputato per un determinato reato, il che è proprio non soltanto delle sentenze che comportino la conseguente applicazione della pena, ma anche di quelle che comportino la condanna dell’imputato ai soli effetti civili. La sentenza n. 13199 del 2017, Nunziata prende le mosse dalla collocazione del ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di impugnazione che costituisce una deroga al principio dell’irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, nell’ambito delle altre “significative brecce scavate nel muro del giudicato penale dal codice del 1988“, ravvisando il nucleo della questione controversa, in quella occasione esaminata, nel verificare se i provvedimenti della Corte di cassazione suscettibili di essere impugnati con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p., siano solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, “ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale“. Dopo avere analizzato le argomentazioni espresse dalle decisioni che avevano ampliato l’ambito operativo dell’istituto di cui all’art. 625 bis c.p.p., le Sezioni Unite hanno affermato che, nei casi indicati, “si assiste ad un progressivo allentamento del rapporto funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato e il riferimento al condannato, almeno riguardo all’ultimo esempio, assume una portata più ampia. Pertanto, è vero che, come sottolineato da una attenta dottrina, il richiamo al condannato sta a significare che possono essere impugnate con il ricorso straordinario le decisioni della Corte di cassazione che rendano incontrovertibile l’accertamento del dovere di punire, essendo evidente il collegamento con il giudicato sostanziale. Tuttavia, si tratta di verificare se i provvedimenti della Cassazione suscettibili di essere impugnati ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p., sono solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale“. Tale argomentazione appare non particolarmente rilevante ai fini che qui interessano, poiché immediatamente prima le Sezioni Unite avevano richiamato il caso dell’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto avverso le sentenze di condanna ai soli effetti civili, senza in alcun modo mettere in discussione i principi in precedenza affermati dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza Marani. In realtà, la sentenza Nunziata, nell’esaminare la questione in quella occasione controversa, ha operato un riferimento al caso più ricorrente di revisione (la revisione della condanna penale), senza alcun ulteriore riferimento alla questione oggi in discussione, ma limitandosi ad individuare le ragioni che giustificano la legittimazione del condannato a presentare ricorso straordinario per errore di fatto contro la sentenza con la quale la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile, o rigettato, il suo ricorso contro la decisione che gli abbia negato la revisione. A tal fine sono state richiamate le “esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori“, ritenute prioritarie rispetto alla regola dell’intangibilità del giudicato, ed in particolare: – l’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità”, già valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 28 del 1969 cit.), e soddisfatta dall’istituto della revisione; – l’esigenza di assicurare la “effettività del giudizio di legittimità“, che la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 395 del 2000) aveva già indicato come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione. Tali ultimi riferimenti, a ben vedere, confermano per la Corte sul piano sistematico, più che contrastare, la correttezza della soluzione accolta. Privi di decisivo rilievo, in senso contrario alla soluzione accolta, appaiono, infine, gli ulteriori elementi talora valorizzati a sostegno dell’orientamento maggioritario. L’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente condannato agli effetti civili, non potrebbe ricorrere all’istituto della revocazione civile, impraticabile – proprio in ossequio al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione – in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile, fuori dai casi previsti dall’art. 622 c.p.p.. Unicamente nell’ipotesi di annullamento, ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, della sentenza penale contenente condanna generica al risarcimento del danno, si determina, infatti, una piena translatio del giudizio sulla domanda civile al giudice civile competente per valore in grado di appello (Cass. civ., Sez. 3, n. 15182 del 20/06/2017): ne consegue che il giudizio di rinvio avanti al giudice civile designato, che abbia luogo a seguito di sentenza resa dalla Corte di cassazione in sede penale, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., è da considerarsi come un giudizio civile di rinvio del tutto riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio quale espressa dagli artt. 392 e ss. cod. proc. civ. (Cass. civ., Sez. 3, n. 17457 del 09/08/2007, e n. 9358 del 12/04/2017). Come già evidenziato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, cit., dai diversi e più ristretti limiti, che caratterizzano il suddetto istituto, non può ricavarsi “argomento fondato sulla disparità di trattamento riservata al danneggiato a seconda che l’azione risarcitoria venga esercitata nella sede propria o in quella penale. Infatti, innovando profondamente la disciplina previgente, il codice del 1988 ha attribuito a quest’ultimo il monopolio sulla scelta della sede in cui vedere accertate le proprie pretese. Scelta che implica l’accettazione delle regole proprie del rito opzionato“. D’altro canto, anche a prescindere dall’inscindibilità delle statuizioni emesse dal giudice penale agli effetti penali e civili, desumibile dalla disciplina di cui all’art. 578 c.p.p., il sopravvenire – rispetto al corso del procedimento culminato nel giudicato – di una prova non dedotta o non deducibile che legittimi l’esperimento della revocazione agli effetti civili, porrebbe pur sempre il problema dell’eventuale successivo contrasto di giudicati tra la pronuncia in ipotesi liberatoria ai soli effetti civili (emessa in accoglimento della richiesta di revocazione) e quella dichiarativa della mera estinzione del reato, in precedenza pronunziata agli effetti penali. Infine, la talora richiamata facoltà di rinunziare alla prescrizione: – da un lato, non fa venire meno lo status di “condannato“, sia pure ai soli effetti civili, del soggetto instante; – dall’altro, rimette alla insindacabile valutazione del soggetto interessato una opzione discrezionalmente esercitabile, dalla quale, in difetto di una contraria previsione normativa ed in ossequio al principio di non contraddizione (che non consente, ad uno stesso tempo, di accordare – ad un fine – una facoltà esercitabile discrezionalmente, e di far conseguire – a diversi fini – al suo mancato esercizio effetti pregiudizievoli), non possono derivare pregiudizi. La questione controversa non può porsi con riferimento ad altre cause di estinzione del reato, diverse dall’amnistia e dalla prescrizione (le uniche considerata dall’art. 578 c.p.p.). La disciplina dettata dall’art. 578, che contempla la possibilità del giudice penale di decidere sulla pretesa civilistica fatta valere nel processo penale, mira ad evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento del danno ed alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna di primo grado, ed è, pertanto, tassativamente limitata soltanto all’estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, non potendo quindi essere dilatata in via estensiva od analogica ad altra causa estintiva, avendo carattere speciale (cfr., in generale, sul punto, tra le altre, Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, Zelli, e Sez. 3, n. 3593 del 25/11/2008, dep. 2009, Orrù). Ne consegue che, in caso di dichiarazione di estinzione del reato per altra causa, la statuizioni civili vanno revocate (cfr. Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, Zelli, e Sez. 3, n. 5870 del 02/12/2011, dep. 2012, F., in fattispecie riguardanti l’estinzione del reato per morte del reo; Sez. 2, n. 51800 del 24/09/2013, Palazzolo, e Sez. 5, n. 41316 del 16/04/2013, Tucci, in fattispecie riguardanti l’estinzione del reato per remissione di querela; Sez. 3, n. 3593 del 25/11/2008, dep. 2009, Orrù, che, in applicazione del principio, nel dichiarare l’estinzione di un reato urbanistico per sanatoria, ha revocato le statuizioni civili disposte nei confronti degli imputati). Ne consegue ulteriormente, in tali casi, il venir meno dello status di “condannato” – sia pure ai soli effetti civili – valorizzato ai fini della risoluzione dell’odierna questione controversa. Si è anticipato – prosegue la Corte – che un problema potrebbe in astratto porsi in riferimento all’impossibilità di esperire la revisione nei confronti di sentenze che abbiano dichiarato l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione senza contestualmente condannare l’imputato agli effetti civili: anche dal proscioglimento, in ipotesi conseguente ad un’amnistia oppure all’applicazione del perdono giudiziale, ovvero all’accertamento del difetto di imputabilità, e che pertanto postuli un quanto meno implicito accertamento di responsabilità, potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (ad esempio, l’applicazione di misure di sicurezza). Va, a questo proposito, ricordato che il D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 1, in attuazione della delega conferita al Governo dalla L. n. 103 del 2017, art. 1, comma 85, lett. q), ha introdotto nel codice penale l’art. 3 bis che afferma il principio della “riserva di codice“, in virtù del quale “nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia“, nonché numerose disposizioni in precedenza collocate nella legislazione speciale, riguardanti diverse materie, ed in particolare, tra le misure di sicurezza patrimoniali, in tema di confisca, l’art. 240 bis, rubricato “Confisca in casi particolari“, che ripropone quanto già previsto dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, convertito in L. n. 356 del 1992, in tema di confisca obbligatoria (cosiddetta confisca “allargata” o per sproporzione). Dal punto di vista processuale, il “nuovo” art. 578 bis c.p.p., (inserito dal medesimo D.Lgs. n. 21 del 2018) ha previsto che, quando sia stata disposta la confisca prevista dall’art. 240 bis c.p., comma 1, o da altre disposizioni di legge (il riferimento evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali), il giudice dell’impugnazione (corte di appello o corte di cassazione), nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, deve operare un accertamento incidentale di responsabilità, valido “ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato“, onde verificare se essa debba essere disposta/confermata o meno. La Relazione al D.Lgs. n. 21 del 2018, chiarisce che, in tal modo, è stata estesa alle indicate statuizioni di confisca la disciplina già stabilita dall’art. 578 c.p.p., in relazione alle statuizioni sugli interessi civili nei medesimi casi. Analoga essendo la disciplina prevista dall’art. 578 bis, rispetto a quella prevista dall’art. 578, e potendo, quindi, ritenersi che anche nei casi previsti dal citato art. 578 bis all’interessato vada, sia pur incidentalmente, riconosciuto lo status soggettivo di “condannato” (sia pur limitatamente alle statuizioni di confisca che conseguano all’incidentale accertamento di responsabilità richiesto dalla norma), dovrà ritenersi esperibile la revisione anche in tale caso. La presenza o meno, contestualmente alla declaratoria di estinzione del reato, dell’affermazione di responsabilità agli effetti civili, ovvero dell’accertamento incidentale di responsabilità ai fini della confisca ex art. 578 bis c.p.p., legittima l’accoglimento di una soluzione diversa quanto all’esperibilità della revisione contro le sentenze di proscioglimento non accompagnate dalle predette statuizioni ulteriori. La soluzione prescelta non pone, quindi, sotto questo profilo, problemi di costituzionalità in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.. Va, pertanto, enunciato, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3, il seguente principio di diritto: “È ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c), della sentenza del giudice dell’appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 c.p.p., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile“. Sotto altro profilo, la Corte si assume (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano) ormai ferma nel ritenere che, in tema di revisione, per “prove nuove“, rilevanti a norma dell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c), ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi: – sia le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna; – sia quelle scoperte successivamente ad essa; – sia quelle non acquisite nel precedente giudizio; – sia quelle acquisite nel precedente giudizio, ma non valutate neppure implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudicante); non assume all’uopo rilievo la circostanza che l’omessa conoscenza della “prova nuova” da parte del giudicante sia imputabile a comportamento processuale negligente, od addirittura doloso, del condannato, poiché tali ultime circostanze potrebbero al più essere prese in considerazione ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, cit.; conf. Sez. 3, n. 13037 del 18/12/2013, dep. 2014, Segreto, per la quale, nel giudizio di revisione, la richiesta è ammissibile anche se fondata su prove preesistenti o addirittura colpevolmente non indicate nel giudizio di cognizione di cui si invoca la rilettura, purché le stesse non siano state oggetto, nemmeno implicitamente, di pregressa valutazione).
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Il 25 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 12916 onde il giudice dell’esecuzione, adito per l’applicazione in sede esecutiva della sent. Corte cost. n. 52 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42 del 2004, il cui delitto sia stato ritenuto con la sentenza di condanna divenuta definitiva, deve dichiarare, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 30, quarto comma, legge n. 87 del 1953, l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna che debba essere riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma incriminatrice citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e gli effetti della condanna non siano ancora esauriti; negli stessi casi, laddove il reato non sia prescritto, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in relazione alla diversa cornice edittale prevista per la fattispecie contravvenzionale.
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Il 12 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 16026 che, facendo applicazione dei principi espressi da diversi precedenti delle Sezioni Unite e dalle pronunce rese dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia nel caso Taricco, afferma che, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole concernente la disciplina della prescrizione e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la disciplina sulla prescrizione vigente al momento della cessazione della condotta
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Il 23 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 17437 che, con riferimento al reato di truffa a consumazione prolungata, fissa il momento di consumazione del reato (da cui far decorrere la prescrizione) in quello in cui cessa la situazione di illegittimità.
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Il 15 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 20808 che affronta la questione dell’ammissibilità di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche. Quindi sulla rilevanza che legittimamente può assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell’imputato, è elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.
Ricorda la Corte come con la novella del 1974 la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie; tuttavia la giurisprudenza di legittimità elaborò posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza.
Secondo l’orientamento prevalente, la nuova disciplina dava facoltà al giudice non di escludere la recidiva, bensì di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire. Ragion per cui, si osservava, «il primo problema che il giudice deve porsi non è, quindi, di esclusione o meno della recidiva, bensì – ferma questa restando – di scelta circa l’opportunità o meno di aumentare la pena. Egli, infatti, non è più vincolato all’opinione preventiva ed astratta della maggiore capacità a delinquere e pericolosità del reo espresse dalla ricaduta nel reato, ma è tenuto a stabilire volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione d’insensibilità etica e di pericolosità e giustifichi, perciò, la maggiore punizione del reo; o se invece, per l’occasionalità della ricaduta, per i motivi che la determinarono, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato ed il nuovo, per la diversità di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella insensibilità e quella pericolosità non siano riscontrabili».
Corollario di un simile orientamento era che una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena.
Se ne può dedurre che un consistente filone giurisprudenziale ha per lungo tempo inteso la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l’ha ritenuta obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell’effetto diretto (ma non in quelli indiretti).
Si tratta, tuttavia, rileva la Corte, di un orientamento ormai abbandonato, poiché la riforma della recidiva recata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha oggettivamente fatto da volano ad un’evoluzione della disciplina verso tutt’altra direzione. Evoluzione che prende le mosse dalla sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale (che dichiarò inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), tra le cui righe può leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l’art. 99, quarto comma, cod. pen., e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali. La Corte costituzionale sollecitò quindi i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all’indomani della riforma, la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen., ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.
Con un successivo intervento il massimo organo di nomofilachia descrisse definitivamente la totalità dello spazio coperto dall’onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell’ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa. Per Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Marcianò, Rv. 251690, «sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene sia quando esclude la rilevanza della recidiva», risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.
Sicché, il superamento di ogni dubbio interpretativo circa il carattere e gli esatti termini della facoltatività della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtù dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consente di affermare che nel vigente quadro normativo la recidiva è sempre facoltativa, che tale facoltatività investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati. Correlativamente, il giudice di merito, proprio perché investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una “maggiore pericolosità del reo” e di una “più accentuata colpevolezza per il fatto”; e, come già accennato, egli è chiamato a rendere motivazione in ordine non già all’an dell’effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla sua entità, ovvero alla misura dell’aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.
Afferma quindi la Corte che la contestazione della recidiva, onere dell’organo dell’accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunché, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice. La facoltatività della recidiva – ma l’utilizzo di una locuzione ‘tradizionale’ non deve far credere che si compia un giudizio ontologicamente differente da quello che attiene alle altre circostanze del reato – si traduce in un obbligo motivazionale che ove inadempiuto apre all’ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione. Di certo l’avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante.
È utile ai fini che qui occupano rimarcare quale sia la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltatività della recidiva. Essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalità rieducativa, che implica un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra.
Un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minaccia la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata; per questo la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto, in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso, attraverso l’evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell’accertamento.
La giurisprudenza di legittimità e la dottrina non dubitano, in generale, della legittimità del ricorso alla motivazione implicita, che si configura non già come idealtipo strutturalmente diverso e ‘scalare’, fronteggiante quello della motivazione ‘esplicita’, ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda. Come è stato acutamente osservato, nella motivazione implicita manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo. Sicché, per definizione, ove ricorre una motivazione implicita non può mai parlarsi di omessa motivazione; semmai può emergere un vizio di motivazione. Solo ove manchi il menzionato nesso di conseguenzialità logica e giuridica si determina una violazione di legge per l’inesistenza della motivazione.
Il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trova riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è fondata.
In caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell’ambito di una valutazione generalmente negativa.
Con precipuo riguardo alla recidiva, si afferma che il giudice può adempiere all’onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’art. 99 cod. pen; che l’esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l’insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore.
L’esame della giurisprudenza di legittimità rende quindi evidente che non è in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita; e che un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva. Ma va rimarcato che anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.
Occorre allora verificare se il menzionato nesso di consequenzialità ricorre tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.
Il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità chiarisce che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen.; fermo restando che non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento.
Si tratta di una interpretazione che, attraverso l’argomento a contrario, ha un preciso ancoraggio nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. Poiché la disposizione esclude che nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall’art. 133, primo comma, n. 3 e secondo comma (ma, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, può tenersi conto della condotta del reo susseguente al reato), fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
Ciò non di meno, la prevalente giurisprudenza della Cassazione (consonante con parte della dottrina), ritiene che le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena. Esse, quindi, presuppongono l’esistenza di elementi ‘positivi’, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen. Come è stato precisato, la ragion d’essere della previsione normativa recata dall’art. 62 -bis cod. pen. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile. Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda.
La conciliazione tra affermazioni apparentemente così diverse si coglie sul piano applicativo, il quale conferma quel carattere pressoché onnicomprensivo dell’art. 133 cod. pen. da sempre segnalato dalla dottrina. Nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell’art. 133 cod. pen.; ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l’ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.
Orbene, i precedenti penali dei quali fa menzione l’art. 133 cod. pen. non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. A solo titolo esemplificativo si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva; quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002 ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all’ammissione all’oblazione di cui all’art. 162-bis cod. pen.; le condanne per le quali si è prodotta l’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva.
Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell’apprezzamento del comportamento pregresso dell’imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione.
E’ poi da rammentare che l’art. 133, secondo comma, n. 2, cod. pen. considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.
Quel che ulteriormente rileva in questa sede è che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo.
Si vede bene, quindi, che allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena prevista dall’art. 62 -bis cod. pen., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi. Quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l’assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.
Del tutto diverso il giudizio in materia di recidiva.
In primo luogo ben più limitato è il senso della locuzione ‘precedenti penali’ valevole per essa. Costituiscono precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero.
In concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi – quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva – non abbiano una base fattuale coincidente. In caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla già rammentata operazione retorica, l’uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.
La dottrina è incline a cogliere una diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l’art. 133 e l’art. 99 cod. pen.. Mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l’accertamento della consapevolezza del disvalore dell’azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso. Ha rilievo, quindi, la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilità per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen..
Risulta poi evidente che il giudizio che riconosce la recidiva considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato.
La irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali è tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all’entrata in vigore della legge n. 251/2005; essa importa la necessità che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.
Si tratta di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano di essere ribadite, per la pratica difficoltà di farne corretta applicazione.
Ed invero, la complessità del giudizio è stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite Calibè hanno rimarcato l’obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come status formale del soggetto le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, hanno nuovamente rimarcato che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della “più accentuata colpevolezza”, per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all’ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della “maggior pericolosità”, intesa come indice della sua inclinazione a delinquere; sicché la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo “status” e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale.
La complessità del giudizio è ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva. Se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosità sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi, derivanti dalla contrarietà ai principi costituzionali di un’accezione che la faccia coincidere con una mera qualità della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione. Pur così delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosità può essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacità a delinquere), oppure intesa come sinonimo di minore sensibilità al processo di rieducazione. In effetti, gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosità sociale.
Il fattore di crisi è rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravità del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special-preventiva.
Secondo le SU, le soluzioni non sono nella disponibilità della giurisdizione ordinaria. Tuttavia a questa compete di tener presente, perché tal è il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in ciò una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato.
Per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello status – specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale – non sono ammissibili motivazioni di puro stile, che non espongano i dati fattuali presi in considerazione, i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare.
Né può essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. La consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell’accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio.
Nell’accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva il giudice deve essere consapevole della necessità di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualità della persona del reo. L’ormai consueto richiamo all’accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosità sociale del reo non può banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto.
La parziale diversità della nozione di ‘precedente penale’; l’insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva.
Alla luce di quanto sopra, ritengono le SU che non sia fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena. Deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisca indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non sia stata riconosciuta.
Occorre poi soffermarsi brevemente su quest’ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente, che investe il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i suoi effetti.
Le Sezioni Unite hanno statuito che all’esito dell’accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva il giudice può negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione. Mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi. Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.
Nel fissare tale insegnamento le Sezioni Unite Calibè precisarono che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante. Inoltre, abbandonò definitivamente la tesi della “facoltatività bifasica” della recidiva, per la quale è consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.
Con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, le Sezioni unite hanno esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice. Richiamando quanto già messo in evidenza da altra e più risalente pronuncia delle stesse Sezioni Unite, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. Ad avviso delle Sezioni Unite, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena. Le ragioni fondanti la conclusione raggiunta vengono altresì individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, là dove si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Così proprio in tema di prescrizione, dove si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente. Si parla in simili casi di sostanziale “applicazione” della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplichi il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.
Si tratta quindi di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti). Pertanto la recidiva risulta oggetto di un giudizio di riconoscimento, che mette radici nell’accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra “precedente” e nuovo reato; a tale giudizio consegue ex se l’esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l’ordinamento, senza necessità di concettualizzare un particolare momento applicativo, così come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex art. 61 cod. pen.), questa produca i suoi effetti senza necessità di menzionarne l’applicazione come di una particolare operazione.
E’ pur vero che nella trama del codice penale si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (art. 81, quarto comma, e 603-ter); ma si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.
Per stretta attinenza, merita di essere esplicitato che risulta corretta l’interpretazione che prevalentemente si dà dell’art. 444, co. 1 -bis cod. proc. pen., ove menziona coloro che sono stati ‘dichiarati’ recidivi; si tratta di una locuzione che risente dell’accostamento nella disposizione dei recidivi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, per i quali effettivamente è disciplinata la dichiarazione dello stato, e che non può essere intesa come dimostrazione della necessità di una ‘dichiarazione di recidiva’, altra rispetto al riconoscimento della circostanza.
Ciò precisato, viene ritenuta erronea l’affermazione secondo la quale la recidiva risulta ‘applicata’ «tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche». Risulta palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l’effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, non può ipotizzarsi una sua applicazione che in ciò consista.
L’assenza di una qualche relazione tra i due giudizi emerge anche dalla giurisprudenza che esclude vi sia contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l’una e quello che escluda anche le altre; o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell’imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva.
Il discorso sin qui condotto conduce a richiamare Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, secondo cui «una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica – pur se indiretta – esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’art. 69 c.p. – un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset».
Questa decisione ha lasciato irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all’art. 69 cod. pen., sia valutata subvalente.
Nella giurisprudenza più recente emerge un’oggettiva incertezza, giacché all’interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi “applicata” la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti, si oppone un diverso orientamento, per il quale la recidiva contestata all’imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato.
Ad avviso del Collegio, la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l’abbia vista subvalente; l’art. 157, terzo comma cod. pen. esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione. E poiché l’art. 161 cod. pen. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall’art. 157 cod. pen., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.
Ma la questione ha portata più generale; è emersa anche in tema di reato continuato, giacché si è affermato che il limite minimo per l’aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti, in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha però di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena. Essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggia mento allargato, ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti, risolto sostenendo che ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, è sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen., sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti.
Si è già ritenuto che la soluzione adottata sia imposta dal principio del favor rei, stante la prospettabilità di plausibili interpretazioni tra loro discordanti.
Alle Sezioni Unite appare prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all’origine delle regole poste dall’art. 69 cod. pen. Come puntualizzato dalla stessa sentenza Filosofi, «…all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva si è già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario». Ciò vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l’attenuante, risultando subvalente all’esito del giudizio di comparazione. L’art. 69 cod. pen., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente – che in quanto fatto compiuto non può più essere negato – ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena.
Tuttavia, come si è già considerato, la recidiva si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell’escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Nell’attuale quadro normativo la recidiva costituisce circostanza del reato; ma permane una sua specificità funzionale, per il fatto che è produttiva dei cosiddetti effetti indiretti. Se ne censiscono alcuni ancora sul piano della commisurazione della pena; si allude alla previsione del limite minimo dell’aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell’art. 81, quarto comma cod. pen. Altri investono le sorti della punibilità; si è già rammentato l’aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l’incidenza sul termine massimo. Come si è già fatta menzione dell’incidenza sul tempo che determina l’estinzione della pena (art. 172, settimo comma, cod. pen.) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179, secondo comma, cod. pen.). Vanno ancora rammentate le preclusioni in tema di amnistia (art. 151, quinto comma cod. pen.), di indulto (art. 174, terzo comma, cod. pen.).
Anche nella fase esecutiva si registrano previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvengono nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento. Si rammentano qui: l’entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall’art. 30-ter ord. pen., elevata per i recidivi ex art. 99, quarto comma cod. pen.; la non concedibilità oltre una volta dell’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, della detenzione domiciliare e della semilibertà al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma cod. pen., ex art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte cost. sent. n. 291/2010).
In modo del tutto peculiare, quindi, quando è in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell’avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva.
Orbene, il concreto farsi della risposta punitiva non può essere tenuto in non cale, per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l’obiettivo della rieducazione del reo. Ancorché la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l’evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non può ignorare che la sua statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo più rilevante nella fase dell’esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.
Decisivo è allora considerare che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.
Ne consegue che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, come non si produce l’effetto diretto sulla pena così non si producono gli effetti indiretti della recidiva.
Su simile caposaldo si è attesta la pertinente giurisprudenza di legittimità, limitando il significato di ‘applicazione’ della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l’attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti.
Va qui ribadito che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen. si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.. Peraltro, proprio previsioni di tal fatta pongono in luce i diversi effetti derivanti da un giudizio che riconosce la recidiva ma la valuta subvalente e una statuizione che nega la ricorrenza della recidiva.
Risulta sufficientemente evidente, all’esito dell’itinerario sinora tracciato, come sia fondato su premesse non condivisibili l’orientamento secondo il quale la valorizzazione dei “precedenti penali” che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche è indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva.
Esso non coglie la profonda diversità che caratterizza l’uno e l’altro istituto, con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono. Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali”, che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo. Qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena, facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge. Apre ad effetti in malam partem sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.
In conclusione, viene quindi formulato il seguente principio di diritto: “La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”.
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Il 19 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 27316 onde La violazione del principio della soccombenza, in ordine al regolamento delle spese da parte del giudice di merito, deve ravvisarsi soltanto nella ipotesi in cui l’imputato sia totalmente vittorioso, nel senso che lo stesso sia stato assolto con formula preclusiva dell’azione civile.
L’intervenuta prescrizione dei reati in appello, invero, non esclude, di per sé, che l’imputato possa egualmente essere condannato al pagamento delle spese processuali, atteso che una tale declaratoria non costituisce indice di soccombenza.
Ed infatti, nell’ipotesi di estinzione del reato per prescrizione l’imputato ben può essere ugualmente condannato al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile, poiché, come detto, l’unico limite che il giudice incontra è costituito dalla soccombenza della parte civile: solo nel caso in cui la domanda della parte civile sia ritenuta nel merito infondata, il giudice non può condannare l’imputato al pagamento delle spese processuali in suo favore.
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Il 3 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 28911 che riconosce l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile di una sentenza che dichiari la prescrizione del reato.
Ritiene infatti la Corte che il fatto che proprio per effetto della previsione di cui all’art. 622 cod. proc. pen., il giudizio civile non debba ricominciare dal primo grado, come previsto in caso di sentenza penale non impugnata dalla parte civile e passata in giudicato, ma da quello di appello, in tal modo consentendosi alla parte civile di godere di tempi più celeri, non può non rappresentare comunque in concreto un vantaggio la cui presenza dà corpo al requisito dell’interesse alla base della proposizione del ricorso.
E ciò, va aggiunto, specie ove la sentenza di prescrizione non si sia semplicemente arrestata a constatare la mancanza di elementi tale da imporre l’assoluzione nel merito ex art. 129 cod. proc. pen. ma abbia accertato, sia pure solo incidentalmente, la responsabilità dell’imputato, con la conseguente possibilità di valorizzare gli elementi di prova già emersi in sede penale, pur nell’assenza di ogni efficacia di giudicato della sentenza.
Non è indifferente rammentare che, come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, «ancorché privo di effetti vincolanti», è idoneo a pesare comunque «in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto» ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione.
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Il 22 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 36341 onde il principio generale dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato risulta recessivo rispetto alle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo e la conseguente acquisizione delle prove in funzione di quell’accertamento strumentale all’emanazione del provvedimento finale. Nella sentenza Martino, la Corte di Cassazione ha affermato che, in presenza di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca urbanistica, il giudice del dibattimento, qualora maturi una causa di estinzione del reato non ha l’obbligo di immediata declaratoria della causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p., potendo disporre la confisca urbanistica, anche in assenza di una sentenza di condanna, purché il fatto-reato sia stato previamente accertato nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio.
A tal fine, quindi, il giudice, pur in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato avrebbe dovuto proseguire nell’istruttoria dibattimentale, differendo la declaratoria di estinzione del reato all’esito del giudizio e disponendo la confisca urbanistica qualora fosse risultata provata l’avvenuta lottizzazione abusiva e la stessa possa essere ascritta all’imputato almeno a titolo di colpa.
In linea con tale orientamento è intervenuto il legislatore italiano il quale, con il D.Igs. n. 21/2018, ha introdotto l’art. 578-bis c.p.p., in forza del quale “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato“. Il riferimento ad “altre disposizioni di legge”, come osservato in dottrina, rende applicabile la disposizione processuale anche alla confisca disposta ai sensi dell’art. 44 D.P.R. 380/01.
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Il 25 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 39320 che si allinea all’orientamento secondo cui la circostanza che il reato di lottizzazione abusiva non sia stato punito in quanto lo stesso si è estinto per prescrizione prima della definitiva affermazione della penale responsabilità di chi lo aveva commesso, non è fattore di per sé ostativo all’applicazione della sanzione della confisca ai sensi dell’art. 44, comma 2, del dPR n. 380 del 2001.
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Il 2 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 40437 onde ai sensi della vigente disciplina del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato, la concessione delle attenuanti generiche, anche in regime di equivalenza alle contestate aggravanti, incide unicamente sulla determinazione in concreto del trattamento sanzionatorio, ma non ha alcun rilievo ai fini della prescrizione.
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Il 10 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 41591 che, allineandosi a quanto statuito dalla Sezioni Unite, riconosce l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile della sentenza che dichiara la prescrizione, solo nei limiti in cui vi possano essere benefici nel successivo giudizio civile.
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Il 25 ottobre esce la sentenza della II sezione civile della Cassazione n. 27407 onde l’equa riparazione per irragionevole durata del processo penale non può essere esclusa per il solo fatto che il ritardo nella definizione del giudizio abbia prodotto l’estinzione del reato per prescrizione, occorrendo invece apprezzare se l’effetto estintivo sia intervenuto per l’utilizzazione, da parte dell’imputato, di tecniche dilatorie o strategie sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa ovvero dipenda, in tutto o in parte, dal comportamento delle autorità procedenti senza che, in quest’ultima ipotesi, la mancata rinuncia alla prescrizione ad opera dell’imputato medesimo venga a elidere, di per sé, il danno derivante dall’irragionevole durata.
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Il 21 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 47241 onde, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per una circostanza aggravante ad effetto speciale è valutabile anche se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato non aggravato, purché la contestazione abbia preceduto la pronuncia della sentenza.
2020
Il 1° gennaio entra in vigore la riforma della prescrizione c.d. “Bonafede” che prevede che con la sentenza di primo grado (sia essa di condanna o di assoluzione) o con il decreto di condanna il reato divenga nella sostanza imprescrittibile
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Il 15 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 1432 che richiama il consolidato orientamento secondo cui, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’ente, in quanto atto di contestazione dell’illecito, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
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Il 23 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2695 onde, in tema di reati edilizi-urbanistici, la permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado. Pertanto, il momento consumativo del reato di abuso edilizio si realizza con l’ultimazione dei lavori, coincidente con la realizzazione delle finiture esterne ed interne.
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Il 18 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 6380 che si allinea all’orientamento ormai consolidato secondo cui in tema di usura, la riscossione che ai sensi dell’art. 644 ter cod. pen. costituisce il momento ultimo dal quale decorre la prescrizione del reato deve essere intesa riferita al momento del pagamento da parte del debitore di tutto o parte del capitale o degli interessi usurari, ovvero della rinnovazione dei titoli o della realizzazione del credito in sede esecutiva o il ricorso a procedure esecutive che determinano un vincolo, anche parziale, sul patrimonio del debitore.
In particolare, si ha “riscossione” ai sensi dell’art. 644 ter cod.pen. quante volte la percezione di somme o altre utilità, da parte dell’autore del reato, in dipendenza del rapporto usurario, sia comunque la conseguenza di opportunità volontariamente offertegli dalla vittima, anche quando, in concreto, nel momento finale della realizzazione dell’interesse dell’usuraio, manchi la collaborazione dell’usurato. Tanto avviene quando il credito usurario sia realizzato in tutto o in parte in sede esecutiva mediante strumenti legali assicurati dal debitore, essendo, in particolare originariamente immanente nella costituzione di un rapporto cartolare di assegni rinnovati, la prospettiva di un adempimento coattivo agevolato dalla natura del titolo, in luogo dell’adempimento volontario del debitore.
La tesi della rilevanza ai fini della individuazione del momento consumativo ultimo del reato e della decorrenza del termine di prescrizione dell’ultimo dei pagamenti degli interessi usurari o del capitale, è stata altresì validata da questa corte in altre e differenti pronunce anche recenti, con la precisazione che costituiscono ipotesi di riscossione anche le attività di rinnovazione dei titoli portanti il credito usurario, l’esecuzione forzata, la monetizzazione delle cambiali rilasciate dalla vittima. Conseguentemente, per riscossione ai sensi dell’art.644 ter cod.pen. va inteso o il momento del pagamento da parte del debitore di parte o tutto del capitale o degli interessi usurari, o la rinnovazione dei titoli, ovvero la realizzazione del credito in sede esecutiva ma non anche la semplice proposizione di richieste informali o meno all’indirizzo del debitore.
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Il 5 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 17169 che richiama il consolidato orientamento secondo cui, ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato, occorre tenere conto della recidiva di cui all’art. 99, comma quarto cod. pen., in quanto circostanza aggravante ad effetto speciale, anche se la stessa è stata considerata sub valente nel giudizio di comparazione, ai sensi dell’art. 69, comma secondo cod. pen., non rilevando il fatto che il giudice abbia determinato la pena in misura inferiore a quella prevista.
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Il 27 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 22506 che, incidentalmente, si confronta con la normativa speciale dettata per fronteggiare l’emergenza epidemiologica. Ritiene la Corte che per i processi pendenti in Cassazione durante il periodo COVID-19, che in senso lato va dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, la fissazione “diretta” oltre il periodo emergenziale non esclude l’applicabilità della sospensione dei termini di prescrizione che deve intendersi operante per tutti i procedimenti pendenti nel periodo interessato dall’emergenza sanitaria anche se non sono stati preventivamente fissati nel periodo di congelamento dei termini.
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Il 17 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 26215 che, analizzando tutta la normativa emergenziale, ricostruisce il seguente quadro:
– a causa del periodo di emergenza pandemica, il legislatore, come aveva già fatto per altre calamità (es. gli eventi sismici), ha disposto, al comma 2, la sospensione di tutti i termini processuali, mutuando caratteri e modalità espressive dalla disciplina che regola la sospensione dei termini nel periodo feriale, prevedendone l’estensione anche ai provvedimenti giudiziari e al deposito della loro motivazione (vale a dire a termini di regola esclusi dalla sospensione);
– nel concetto di sospensione dei termini sono ricomprese, pacificamente, anche le udienze; il legislatore, al comma 1, si è fatto carico di regolamentare la sorte delle udienze fissate nella “prima fase” dell’emergenza, stabilendo il rinvio di ufficio a data successiva al 11 maggio 2020 (salve le eccezioni di cui al comma 3 che qui non interessano);
– per i procedimenti penali, in relazione al medesimo periodo di sospensione dei termini processuali (9 marzo – 11 maggio 2020), il legislatore ha previsto la sospensione del corso del termine di prescrizione.
In sintesi, attraverso il rinvio di tutte le udienze fissate nel periodo 9 marzo – 11 maggio 2020 e la sospensione “assoluta” di tutti i termini processuali (compresi quelli generalmente estranei ad altre tipologie di sospensione), il legislatore ha perseguito l’intento di congelare tout court il procedimento penale, per il tempo ritenuto strettamente indispensabile a superare l’emergenza sanitaria predeterminato per legge nella misura fissa e inderogabile di sessantaquattro giorni: dal 9 marzo (compreso) al 11 maggio 2020.
Il «dato teleologico» è reso manifesto dalla relazione illustrativa al d.l. n. 18 del 2020: «Si è dovuto constatare, infatti, in relazione alla previsione originaria di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, il fiorire di dubbi interpretativi e prassi applicative sostanzialmente elusive del contenuto della previsione o comunque non adeguatamente sensibili rispetto all’evidente dato teleologico della norma, costituito dalla duplice esigenza di sospendere tutte le attività processuali allo scopo di ridurre al minimo quelle forme di contatto personale che favoriscono il propagarsi dell’epidemia, da un lato, e di neutralizzare ogni effetto negativo che il massimo differimento delle attività processuali disposto dal comma 1 avrebbe potuto dispiegare sulla tutela dei diritti per effetto del potenziale decorso dei termini processuali, dall’altro».
Ne consegue che, nel calcolo del tempo necessario a prescrivere, occorre tenere conto di 64 giorni di sospensione, dal 9 marzo 2020 (compreso) al 11 maggio 2020.
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Il 23 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 278, in merito alla sospensione dei termini di prescrizione a seguito dell’emergenza COVID-19.
Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dai Tribunali rimettenti con le richiamate ordinanze, sono sostanzialmente analoghe sul piano giuridico e si rende, quindi, opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi.
Preliminarmente, precisa la Corte, deve essere dichiarata l’inammissibilità degli interventi di N. S., G. T., C. S. ed E. S., spiegati in relazione ai giudizi di legittimità costituzionale originati dalle ordinanze del Tribunale di Siena (n. 112 e n. 113 del 2020), fissati in camera di consiglio.
Ai sensi dell’art. 4, comma 7, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, come sostituito dall’art. 1 della delibera di questa Corte in sede non giurisdizionale dell’8 gennaio 2020, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, serie generale, del 22 gennaio 2020, «[n]ei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio».
Tale disposizione ha recepito la costante giurisprudenza di questa Corte in ordine all’ammissibilità dell’intervento spiegato nei giudizi in via incidentale da soggetti diversi dalle parti del giudizio principale, secondo cui i soggetti che non sono parti del giudizio a quo possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale solo ove siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, e non di un interesse semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, sentenze n. 158 del 2020 con allegata ordinanza letta all’udienza del 10 giugno 2020, n. 119 del 2020, n. 30 del 2020 con allegata ordinanza letta all’udienza del 15 gennaio 2020, n. 159 e n. 98 del 2019, n. 217, n. 180 e n. 77 del 2018, n. 70 e n. 33 del 2015).
Pertanto, in linea con questo orientamento, i soggetti del cui intervento trattasi, imputati in altri procedimenti penali, non sono parti dei giudizi principali innanzi al Tribunale di Siena, né sono titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in quel giudizio, ma sono portatori di un interesse semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme oggetto di censura, cioè l’interesse di tutti coloro che rivestono la qualità di imputati in giudizi penali pendenti, a non subire l’incidenza di tali norme sul decorso del termine prescrizionale.
Invece, con decreto del Presidente della Corte costituzionale del 12 ottobre 2020, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative, introdotto dall’art. 2 della delibera della Corte in sede non giurisdizionale dell’8 gennaio 2020, sono state ammesse le opinioni scritte dall’Associazione “Italiastatodidiritto” e dall’Associazione forense “Unione camere penali italiane” (UCPI), in qualità di amici curiae, per la loro idoneità ad offrire elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto a questa Corte, anche in ragione della sua complessità.
Le ordinanze di rimessione sono state pronunciate nell’ambito di procedimenti penali – aventi ad oggetto imputazioni per reati edilizi (r. o. n. 112 e n.113 del 2020), per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’art. 341-bis cod. pen. (r. o. n. 117 del 2020) e per il delitto di calunnia di cui all’art. 368 cod. pen. (r. o. n. 132 del 2020) – pendenti nella fase del dibattimento, nei quali, qualora le disposizioni censurate fossero dichiarate incostituzionali, i giudici rimettenti dovrebbero dichiarare l’estinzione dei reati per essere decorso il termine massimo di prescrizione; laddove, invece, applicando la sospensione di tale termine come previsto dalle disposizioni censurate, non sarebbe maturata la prescrizione dei reati.
Sussiste, quindi, all’evidenza, la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, anche se non può non notarsi la eccessiva durata di giudizi che già solo in primo grado, ancora in corso, hanno quasi esaurito il tempo massimo di prescrizione dei reati (che, nel massimo, al netto delle sospensioni, è di cinque anni per le contravvenzioni edilizie e di sette anni e mezzo per i delitti di oltraggio a pubblico ufficiale e di calunnia), sì da far dipendere la risposta di giustizia nel merito delle accuse da una sospensione della prescrizione di soli sessantaquattro giorni (dal 9 marzo all’11 maggio 2020), quale quella oggetto delle censure di legittimità costituzionale.
Tutte le ordinanze di rimessione sono sorrette da ampia motivazione in ordine alla ritenuta non manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale, sicché le sollevate questioni sono certamente ammissibili.
Appare necessario richiamare brevemente il contesto normativo connesso all’emergenza epidemiologica da COVID-19 in tema di svolgimento dell’attività giudiziaria, nel cui ambito si collocano le disposizioni censurate.
Il primo intervento emergenziale concernente l’attività giurisdizionale posto in essere dal Governo per rispondere alle esigenze scaturite dall’epidemia esplosa sul territorio nazionale si è avuto con il decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9 (Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), il quale, all’art. 10, ha interessato esclusivamente i procedimenti civili e penali pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei tribunali cui appartenevano i Comuni indicati all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19).
Con tale provvedimento, con efficacia limitata ai territori ivi indicati, non solo si era prevista la sospensione dei termini e il rinvio delle udienze, ma si era altresì stabilito che, a partire dal 3 marzo 2020, il corso della prescrizione fosse sospeso per il tempo in cui il processo fosse rinviato o i termini procedurali fossero sospesi e comunque fino al 31 marzo 2020 (art. 10, comma 10, del citato decreto-legge). Tale iniziale ipotesi di sospensione del decorso della prescrizione non è investita da alcuna delle ordinanze di rimessione.
A distanza di pochi giorni, il Governo è intervenuto nuovamente d’urgenza con il decreto-legge 8 marzo del 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria), per disciplinare il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini nei procedimenti civili, penali, tributari e militari, questa volta con efficacia generalizzata sull’intero territorio nazionale.
In particolare, all’art. 1, comma 1, si prevedeva che a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto medesimo (9 marzo 2020) e sino al 22 marzo 2020, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari fossero rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020. Erano fatti salvi alcuni procedimenti, di particolare delicatezza e urgenza, indicati all’art. 2, comma 2, lettera g), del medesimo decreto-legge.
Contestualmente, al comma 2 dello stesso art. 1, si stabiliva anche la sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei detti procedimenti, fatti salvi quelli già richiamati. Era previsto, altresì, che ove il decorso avesse avuto inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso sarebbe stato differito alla fine di detto periodo di sospensione.
Per il periodo successivo (23 marzo-31 maggio), ai capi degli uffici giudiziari era stato attribuito il potere di autorizzare provvedimenti di dilazione degli adempimenti processuali in base alle esigenze del territorio e in considerazione della situazione epidemica. Non si trattava, però, di una discrezionalità illimitata, in quanto il comma 4 dell’art. 2 del d.l. n. 11 del 2020 stabiliva che una serie di termini processuali, tra cui anche quelli di durata della custodia cautelare, e comunque, il termine di prescrizione restassero sospesi anche per questi giudizi, fatte sempre salve le eccezioni già indicate, ma solo fino al 31 maggio 2020, sempreché ne fosse stato disposto il rinvio.
A distanza di nove giorni, il Governo è nuovamente intervenuto con il d.l. n. 18 del 2020 e, prima ancora che maturassero i termini di decadenza dei dd.ll. n. 9 e n. 11 del 2020 per mancata conversione, detti provvedimenti sono stati abrogati, con salvezza degli effetti, dall’art. 1, comma 2, della legge 24 aprile 2020, n. 27 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi).
L’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 ha dettato una più mirata ed articolata disciplina volta a provocare la stasi delle attività processuali nell’ambito della giurisdizione ordinaria, compresa quella penale. Con tale norma, per quanto attiene ai processi penali, si è disposto in via generale e obbligatoria, salvo le eccezioni concernenti alcune tipologie urgenti di procedimento, il rinvio di ufficio delle udienze a data successiva al 15 aprile 2020 e la sospensione dei «termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali» dal 9 marzo al 15 aprile 2020, senza possibilità di intervento da parte dei capi degli uffici giudiziari (art. 83, commi 1 e 2).
In relazione a tali fattispecie si è anche disposta la sospensione dei termini di prescrizione, oltre che dei termini di durata massima delle misure cautelari personali. Ciò è stato previsto dalla disposizione di cui all’art. 83, comma 4, del d.l. citato, norma su cui si appuntano le censure dei rimettenti.
Si è, poi, sostanzialmente confermato il potere dei capi degli uffici giudiziari – già previsto dal d.l. n. 11 del 2020 – di adottare non solo misure organizzative volte a contenere l’afflusso del pubblico, ma anche provvedimenti di carattere generale, tra i quali, ai fini che qui interessano, assumono rilievo quelli volti a prevedere la possibilità di disporre il rinvio delle udienze penali a data successiva al 30 giugno, salvo che per i procedimenti segnati da particolare urgenza espressamente indicati al comma 3 della disposizione in questione (art. 83, comma 7, lettera g).
Anche con riferimento a tali discrezionali casi di rinvio delle udienze penali, si è prevista la sospensione dei termini di prescrizione del reato e di durata delle misure cautelari, ma fino al 30 giugno, e ciò indipendentemente dal differimento dell’udienza ad una data successiva (art. 83, comma 9).
Infine, è intervenuto l’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020, con il quale il Governo ha stabilito che il termine del 15 aprile 2020, previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 83 del d. l. n. 18 del 2020, era prorogato all’11 maggio 2020, così modificando la portata del comma 4 della stessa disposizione.
Pertanto, per effetto della proroga disposta dall’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020 (disposizione censurata dalle ordinanze n. 117 e n. 132 del 2020), la sospensione dei termini prescrizionali, allo stato, opera dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020.
È in questa disciplina emergenziale che si colloca la norma censurata (art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020), recante un’ipotesi speciale di sospensione del termine di prescrizione dei reati; norma la quale prevede che «[n]ei procedimenti penali in cui opera la sospensione dei termini ai sensi del comma 2 sono altresì sospesi, per lo stesso periodo, il corso della prescrizione e i termini di cui agli articoli 303 e 308 del codice di procedura penale».
Giova, poi, premettere che in generale la concreta determinazione della durata del tempo di prescrizione dei reati appartiene alla discrezionalità del legislatore censurabile solo in caso di manifesta irragionevolezza o sproporzione rispetto alla gravità del reato (sentenza di questa Corte n. 143 del 2014).
Nell’esercizio di tale discrezionalità il legislatore opera un bilanciamento tra valori di rango costituzionale.
Da una parte, c’è l’esigenza che – mediante l’esercizio obbligatorio dell’azione penale ad opera del pubblico ministero (art. 112 Cost.) – i comportamenti in violazione della legge penale siano perseguiti perché il rispetto di quest’ultima appartiene ai fondamentali del comune vivere civile, mentre la sua violazione crea, in misura direttamente proporzionale alla gravità del fatto, allarme sociale e mina la fiducia dei cittadini. Nello stesso verso, inoltre, rileva la tutela delle vittime dei reati: la persona offesa ha anch’essa diritto, quando costituita parte civile, all’accertamento del reato per ottenere il risarcimento del danno per la lesione subita.
A fronte di queste esigenze vi è, dall’altra parte, l’interesse dell’imputato ad andare esente da responsabilità penale per effetto del decorso del tempo; interesse che il legislatore ordinario riconosce e tutela con la disciplina della prescrizione e che si traduce nel diritto dell’imputato ad ottenere dal giudice penale – una volta decorso il termine di prescrizione del reato – il riconoscimento, con sentenza di proscioglimento, dell’estinzione del reato (art. 157, primo comma, cod. pen.), sempre che dagli atti del procedimento o del processo non risulti evidente che non ha commesso il fatto addebitatogli ovvero che questo non costituisca reato o non sia previsto dalla legge come reato (art. 129 del codice di procedura penale) e sempre che egli non rinunci alla prescrizione chiedendo un accertamento di non colpevolezza (art. 157, settimo comma, cod. pen.). Analogamente e alle stesse condizioni sarà possibile, all’esito del procedimento penale, il decreto di archiviazione per estinzione del reato ascritto all’indagato.
La ratio della rilevanza di questa garanzia per l’indagato o l’imputato si collega preminentemente all’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme della coscienza comune» (sentenza n. 393 del 2006; in precedenza, sentenza n. 202 del 1971; ordinanza n. 337 del 1999). Si è fatto anche riferimento, talora, al “diritto all’oblio” (sentenze n. 115 del 2018, n. 24 del 2017, n. 45 del 2015, n.143 del 2014 e n. 23 del 2013).
Vi è, in sostanza, un «affievolimento progressivo dell’interesse della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito, valutato, quanto ai tempi necessari, dal legislatore, secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati» (sentenza n. 23 del 2013), sebbene il decorso del tempo non valga di per sé a stendere un velo di piena immunità sul fatto-reato.
Anche dopo la sentenza di proscioglimento per essere il reato estinto per prescrizione, il giudice civile potrà accertare, stante il diverso regime della prescrizione in materia civile, che un reato è stato commesso da chi è chiamato a risarcire i danni non patrimoniali (art. 2059 del codice civile in riferimento all’art. 185 cod. pen.). Come anche lo stesso giudice penale, che abbia dichiarato il proscioglimento in ragione dell’estinzione del reato per prescrizione, può non di meno doversi pronunciare sulla sussistenza, o no, del reato ai fini (non della punibilità dell’imputato, ma) solo risarcitori in favore della persona offesa, costituita parte civile, allorché l’estinzione del reato sia dichiarata dal giudice d’appello o dalla Corte di cassazione quando nei confronti dell’imputato è stata già pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato (art. 578 cod. proc. pen.). Inoltre, l’estinzione del reato per prescrizione non esclude che il giudice debba applicare una misura di sicurezza come la confisca, quale in particolare quella prevista dagli artt. 240-bis e 322-ter cod. pen. in riferimento all’art. 578-bis cod. proc. pen.
Ciò premesso, le questioni sollevate in riferimento al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., non sono fondate.
Occorre procedere innanzi tutto a richiamare e circoscrivere la portata di tale principio con riguardo all’istituto della prescrizione dei reati.
Deve ribadirsi a tal proposito – come questa Corte ha più volte affermato – che la determinazione della durata del tempo, il cui decorso estingue il reato per prescrizione (art. 157, primo comma, cod. pen.), ricade nell’area di applicazione del principio di legalità posto dall’art. 25, secondo comma, Cost., a mente del quale «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
È la legge del tempus commissi delicti che non solo definisce la condotta penalmente rilevante e ad essa riconduce la pena, quale quella detentiva o pecuniaria (art. 17 cod. pen.), ma anche fissa il tempo oltre il quale la sanzione non potrà essere applicata per essere il reato estinto per prescrizione (art. 157 cod. pen.), tempo che può essere anche illimitato allorché per delitti gravissimi (puniti con la pena dell’ergastolo) sia la legge stessa a prevedere che la prescrizione non estingue i reati (art. 157, ultimo comma, cod. pen.).
Questa proiezione diacronica della punibilità integra la fattispecie penale nel senso che non solo l’autore del fatto deve essere posto in grado di conoscere ex ante qual è la condotta penalmente sanzionata (ossia la fattispecie di reato) e quali saranno le conseguenze della sua azione in termini di sanzioni applicabili (ossia la pena), ma deve egli avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale (ossia la durata del tempo di prescrizione del reato), anche se ciò non comporta la precisa predeterminazione del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione.
Il principio di legalità richiede che la persona accusata di un reato abbia, al momento della commissione del fatto, contezza della linea di orizzonte temporale – tracciata dalla durata, per così dire “tabellare”, prevista in generale dall’art. 157 cod. pen., ma talora fissata con norme speciali in riferimento a particolari reati (ad esempio, in caso di delitti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto) – entro la quale sussisterà, in ogni caso, la punibilità della condotta contestata. Le norme che definiscono tale dimensione temporale devono essere vigenti al momento in cui la condotta, penalmente rilevante come reato, è posta in essere.
Anche se per reati gravissimi (quelli puniti con l’ergastolo) il legislatore – come già ricordato – prevede la loro punibilità senza limiti di tempo, il principio di legalità è parimenti rispettato nella misura in cui tale imprescrittibilità risulta posta da una disposizione di legge in vigore al momento della commissione del fatto, vuoi in modo espresso (come nel vigente art. 157, ultimo comma, cod. pen.), vuoi in termini impliciti, come era nell’art. 157 cod. pen. nella sua originaria formulazione, per il fatto di prendere in considerazione solo le pene temporanee e tale non era l’ergastolo (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 settembre 2015-12 maggio 2016, n. 19756).
Anche recentemente si è affermato che la prescrizione, nel nostro ordinamento giuridico, costituisce un istituto di natura sostanziale «che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena», sicché «rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza» (sentenza n. 115 del 2018 e, negli stessi termini, sentenze n. 324 del 2008, n. 393 del 2006 e ordinanza n. 24 del 2017).
In definitiva, la prescrizione, pur determinando, sul versante processuale, l’arresto della procedibilità dell’azione penale, si configura come causa di estinzione del reato sul piano più specificamente sostanziale.
La dimensione diacronica della punibilità, quindi, concerne innanzi tutto la definizione “tabellare” del tempo di prescrizione dei reati, che coglie il profilo strettamente sostanziale. Ma non l’esaurisce perché essa, poi, si colloca nel processo e può risentire indirettamente delle vicende e di singoli atti di quest’ultimo nella misura in cui – sotto il profilo processuale, appunto – sono previste e disciplinate, in particolare, l’interruzione e la sospensione del decorso del tempo di prescrizione dei reati alle condizioni e nei limiti di legge (artt. 159 e 160 cod. pen.); sicché non è mai prevedibile ex ante l’esatto termine finale in cui si compie e opera la prescrizione, termine che può essere raggiunto in un arco temporale variabile e dipendente da fattori plurimi e in concreto non predeterminabili.
Al riguardo, questa Corte ha osservato che la prescrizione costituisce, nel vigente ordinamento, un istituto di natura sostanziale «pur potendo assumere una valenza anche processuale» (sentenza n. 265 del 2017) e «[s]ebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale – concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.)» (sentenza n. 143 del 2014).
La garanzia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) nel suo complesso (tale perciò da coprire anche le implicazioni sostanziali delle norme processuali) dà corpo e contenuto a un diritto fondamentale della persona accusata di aver commesso un reato, diritto che – avendo come contenuto il rispetto del principio di legalità – da una parte, non è comprimibile non entrando in bilanciamento con altri diritti in ipotesi antagonisti; si tratta, infatti, di una garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore, la quale rappresenta un «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali» (sentenze n. 32 del 2020, n. 236 del 2011 e n. 394 del 2006).
Dall’altra parte, tale garanzia, espressa dal principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., appartiene al nucleo essenziale dei diritti di libertà che concorrono a definire la identità costituzionale dell’ordinamento giuridico nazionale, quale riconosciuta dall’ordinamento dell’Unione europea, segnatamente nella clausola generale di cui all’art. 4, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione Europea (TUE), così come firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 (ordinanza n. 24 del 2017). Nello statuto delle garanzie di difesa dell’imputato, il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., esteso fino a comprendere anche la determinazione della durata del tempo di prescrizione dei reati, ha un ruolo centrale, affiancandosi al principio di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.) e a quello della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.). Da ultimo, esso si proietta finanche sull’esecuzione della pena quanto al regime delle misure alternative della detenzione (sentenza n. 32 del 2020).
Il rispetto del principio di legalità comporta innanzi tutto che – come la condotta penalmente sanzionata deve essere definita dalla legge con sufficiente precisione e determinatezza, talché sarebbe costituzionalmente illegittima la previsione di un reato in termini sostanzialmente indefiniti e generici (come, da ultimo, la fattispecie oggetto della sentenza n. 25 del 2019) – parimenti la fissazione della durata del tempo di prescrizione deve essere sufficientemente determinata. Tale non è – sul versante sostanziale della garanzia – la cosiddetta «regola Taricco» di derivazione dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale – ampliando la misura “tabellare” del tempo di prescrizione di alcuni reati fiscali in materia di tributi armonizzati – non ha ingresso nel nostro ordinamento, neppure ex nunc, stante il difetto di determinatezza del presupposto che condiziona la maggiore estensione temporale della prescrizione (sentenza n. 115 del 2018).
Inoltre il rispetto del principio di legalità implica la non retroattività della norma di legge che, fissando la durata del tempo di prescrizione dei reati, ne allunghi il decorso ampliando in peius la perseguibilità del fatto commesso. Il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, infatti, «si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbìtri del legislatore, espressivo dell’esigenza della “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 394 del 2006).
Simmetricamente la norma che invece riduca la durata del tempo di prescrizione costituisce disposizione penale più favorevole ai sensi dell’art. 2 cod. pen., applicabile in melius anche ai fatti già commessi in precedenza (quindi retroattivamente) nei limiti di operatività della lex mitior, quali riconosciuti dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 393 del 2006). Il principio di retroattività della norma penale più favorevole rinviene il proprio fondamento non già nell’art. 25 Cost., ma nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), essendo quindi «suscettibile di limitazioni e deroghe» che, tuttavia, «devono giustificarsi in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo» (ex plurimis, sentenze n. 215 del 2008 e n. 394 del 2006; da ultimo, sentenza n. 63 del 2019) e possono trovare fondamento e limite anche nel condizionamento ad attività processuali (sentenza n. 238 del 2020).
Il rispetto del principio di legalità coinvolge anche la disciplina della decorrenza, della sospensione e dell’interruzione della prescrizione stessa perché essa, nelle sue varie articolazioni, concorre – come già rilevato – a determinare la durata del tempo il cui decorso estingue il reato per prescrizione.
Si tratta di vicende processuali che incidono sulla complessiva durata del tempo di prescrizione dei reati.
L’interruzione del termine prescrizionale – che dipende dall’adozione di determinati provvedimenti, tassativamente indicati – ne comporta l’azzeramento del computo con la ripresa ex novo del relativo corso (art. 160 cod. pen.). Sicché è impossibile, per l’imputato, prevedere ex ante quante volte il termine sarà azzerato, ma c’è la garanzia del limite di durata massima della prescrizione, pur interrotta nel suo decorso, anche se per reati di particolare allarme sociale (quali quelli di criminalità organizzata), ove anche soggetti a prescrizione, il regime dell’interruzione del decorso di quest’ultima non ha un limite di durata massima (art. 161, secondo comma, cod. pen.).
Parimenti non sarà prevedibile ex ante per l’imputato quante volte il decorso del termine di prescrizione sarà sospeso (art. 159 cod. pen.), senza peraltro che sussista alcun limite massimo di durata del termine prescrizionale, fatta salva l’ipotesi della sospensione del processo per assenza dell’imputato (art. 159, primo comma, numero 3-bis, cod. pen., in relazione all’art. 420-quater cod. proc. pen.).
Anche le regole del processo possono avere un’incidenza sulla disciplina della prescrizione.
Basti ricordare che – ancora sul versante processuale – è comunemente accettata e da tempo applicata, la regola di derivazione giurisprudenziale (a partire da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 novembre-21 dicembre 2000, n. 32; in seguito, in termini anche più ampi, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2015-25 marzo 2016, n. 12602), che ferma il decorso della prescrizione al momento della sentenza di merito, pur non ancora definitiva, ove impugnata con ricorso per cassazione dichiarato inammissibile. Si ritiene infatti che il ricorso inammissibile sia inidoneo ad aprire una utile fase processuale ai fini del perfezionarsi della causa estintiva.
In questo contesto l’art. 159, primo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), ha una funzione di cerniera perché contiene, da una parte, una causa generale di sospensione – secondo cui «[i]l corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale […] è imposta da una particolare disposizione di legge» – e dall’altra, una catalogazione di altri “casi” particolari.
Anche prima della novella del 2005, questa dicotomia era già nell’originaria formulazione della disposizione nel codice del 1930 che parimenti affiancava una previsione generale, negli stessi termini, ai casi particolari, all’epoca limitati all’ipotesi dell’autorizzazione a procedere e alla questione deferita ad altro giudizio.
Tale previsione – connotata da piena continuità normativa tra la formulazione del 1930 e quella del 2005 – rispetta il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., avendo un contenuto sufficientemente preciso e determinato, aperto all’integrazione di altre più specifiche disposizioni di legge, le quali devono comunque rispettare – come si dirà infra al punto 14 – il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) e quello di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.).
Essa afferma che la stasi ex lege del procedimento o del processo penale determina anche, in simmetria e di norma, una parentesi nel decorso del tempo di prescrizione dei reati. Pur non potendo escludersi che vi siano, in particolare, cause di sospensione del processo che non comportano la sospensione anche del termine prescrizionale, si ha in generale che, se il processo ha una stasi, le conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, così anche, per preservare l’equilibrio della tutela dei valori in gioco, è sospeso il termine di prescrizione del reato per l’indagato o l’imputato.
Ciò è coerente con il richiamato bilanciamento (sopra al punto 7), che è al fondo della fissazione del termine di durata del tempo di prescrizione dei reati; bilanciamento che rischierebbe di essere alterato se «una particolare disposizione di legge», che preveda la sospensione del procedimento o del processo penale, in ipotesi, per la ragione imperiosa di una sopravvenuta calamità (quale, nell’attualità, la pandemia da COVID-19, ma similmente in precedenza eventi tellurici, disastri idrogeologici e altri), debba sempre – come ritengono i giudici rimettenti a fondamento delle loro censure di illegittimità costituzionale – lasciar scorrere il tempo di prescrizione dei reati già commessi prima della disposizione censurata e invece arrestarne il decorso solo per i reati commessi dopo, così decurtandone soltanto per questi ultimi la durata, incongruamente quanto inutilmente per essere la prescrizione appena iniziata a decorrere.
Si ha, invece, che al momento della commissione del fatto il suo autore sa ex ante che, se il procedimento o il processo saranno sospesi in ragione dell’applicazione di una disposizione di legge che ciò preveda, lo sarà anche il decorso del termine di prescrizione (art. 25, secondo comma, Cost.). Rimangono in ogni caso, da una parte, la garanzia della riserva alla legge della previsione delle ipotesi di sospensione del procedimento o del processo (ex art. 111, primo comma, Cost.), dall’altra parte, quanto alla ricaduta sul decorso del tempo di prescrizione dei reati, la garanzia della loro applicabilità per l’avvenire a partire dall’entrata in vigore della norma che tale sospensione preveda (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale); ossia una nuova causa di sospensione – riconducibile alla causa generale di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen. e quindi applicabile anche a condotte pregresse – non può decorrere da una data antecedente alla legge che la prevede. Ciò, naturalmente, in aggiunta alla garanzia della predeterminazione della durata “tabellare” della prescrizione (art. 157 cod. pen.), di cui si è detto sopra al punto 9.
Comunque, queste ipotesi di sospensione del processo – come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (sentenza n. 24 del 2014) – «automaticamente coinvolgono […] la disciplina di diritto sostanziale della prescrizione del reato». La consapevolezza di tale automatismo nell’autore della condotta penalmente rilevante è sufficiente ad assicurare il rispetto del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), integrato, nella fattispecie, dal principio secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale) e dalla garanzia che, in applicazione stretta di questo principio, non è possibile che l’incidenza indiretta sul tempo di prescrizione abbia una proiezione retroattiva.
Nè può temersi che, nella sostanza, al di là del rispetto formale del principio di legalità, pur così integrato, il rinvio aperto a ogni «particolare disposizione di legge», che preveda la sospensione del procedimento o del processo penale, possa costituire una falla, nel senso di una possibile illimitata dilatazione del tempo complessivo di prescrizione del reato in ragione dell’applicazione di ogni disposizione che preveda la sospensione del procedimento o del processo penale. Infatti, il rispetto del principio di legalità – nella misura in cui è predeterminata la regola che vuole che alla sospensione del procedimento o del processo penale in forza di una «particolare disposizione di legge» si associ anche la sospensione del decorso del tempo di prescrizione del reato – non esclude, ma anzi si coniuga – come già rilevato – alla possibile verifica di conformità sia al canone della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), sia al principio di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.), a confronto dei quali sarà sempre possibile il sindacato di legittimità costituzionale della stessa sospensione dei procedimenti e dei processi penali, nonché, più specificamente, della conseguente sospensione del termine di prescrizione.
Nella fattispecie in esame, del resto, non vengono sollevati dubbi di legittimità costituzionale da parte dei giudici rimettenti sotto questo profilo, ma non può non osservarsi, da una parte, che la breve durata della sospensione del decorso della prescrizione è pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo e, dall’altra parte, che, sul piano della ragionevolezza e proporzionalità, la misura è giustificata dalla finalità di tutela del bene della salute collettiva (art. 32, primo comma, Cost.) per contenere il rischio di contagio da COVID-19 in un eccezionale momento di emergenza sanitaria.
Con ciò si deve anche escludere il rischio di abuso del potere legislativo.
Il necessario collegamento con la sospensione del processo fa sì che, ove esso manchi, diversa risulta essere la fattispecie di sospensione del decorso della prescrizione, la quale non sarebbe riconducibile alla causa generale dell’art. 159, primo comma, cod. pen. Tale è quella prevista dall’art. 1, comma 15, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), applicabile pertanto solo ai reati commessi a partire dalla data di entrata in vigore della norma stessa.
Rimane, infine, nella discrezionalità del legislatore prevedere eventualmente, in riferimento a specifiche fattispecie, l’ulteriore garanzia di un limite massimo di durata dell’arresto temporaneo del decorso della prescrizione, come nell’ipotesi di sospensione del processo per assenza dell’imputato (art. 159, ultimo comma, cod. pen.).
Una volta precisata la portata del principio di legalità (nel suo duplice aspetto sostanziale e processuale) e la causa generale di sospensione del corso della prescrizione, di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen., occorre ora passare a verificare, sul piano interpretativo, se il censurato comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, letto complessivamente nel contesto degli altri commi, preveda, o no, una sospensione dei procedimenti penali riconducibile a tale causa generale.
In tal senso è già la giurisprudenza di legittimità che ha ripetutamente ricondotto la sospensione della prescrizione, prevista dalla disposizione censurata, alla fattispecie generale di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen., ritenendo di conseguenza manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale qui in esame (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 luglio-7 settembre 2020, n. 25222; sezione terza penale, sentenza 23 luglio-9 settembre 2020, n. 25433; sezione quinta penale, sentenza 13 luglio-2 novembre 2020, n. 30434; sentenza 13 luglio-2 novembre 2020, n. 30437; anche sezione terza penale, sentenza 2 luglio-17 luglio 2020, n. 21367, che è pervenuta ad analoga conclusione seppur sulla base di un diverso percorso argomentativo).
Questa giurisprudenza – che va assumendo la forma del diritto vivente – ha collegato la sospensione dei termini stabiliti dal comma 2 dell’art. 83 citato per il periodo 9 marzo-11 maggio 2020 (cosiddetta “prima fase” delle misure stabilite per fronteggiare l’emergenza epidemiologica) – sospensione, quest’ultima, che riguarda la generalità dei termini per compimento di qualsiasi atto, sicché sono sospesi «i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali» – al rinvio d’ufficio, per il medesimo arco temporale, delle udienze dei procedimenti penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari stabilito dal comma 1 del medesimo art. 83 e ne ha tratto una considerazione unitaria delle due discipline: sospensione dei termini e rinvio del processo sono, di regola, inscindibilmente collegati.
Si è affermato che «l’esame dell’effetto combinato delle discipline dettate dai commi 1 e 2 dell’art. 83 cit. mette in luce come esse diano corpo a un caso di sospensione del procedimento o del processo: il rinvio d’ufficio di tutte le udienze e la sospensione di tutti i termini (con le eccezioni stabilite dal comma 3) convergono nell’attribuire alla situazione processuale determinata dalle previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 cit. i connotati della sospensione del procedimento o del processo a norma del primo comma dell’art. 159 cod. pen.» (Cass., n. 25222 del 2020).
In sostanza – come del resto si ritiene anche nelle ordinanze di rimessione del Tribunale di Siena – il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 83 contempla l’integrale sospensione dell’attività giurisdizionale nel periodo emergenziale, prevedendo non solo il rinvio delle udienze (comma 1), ma anche la sospensione dei termini processuali di qualsiasi natura (comma 2).
Peraltro questa interpretazione della giurisprudenza di legittimità, che riconduce tale sospensione alla previsione generale dell’art. 159, primo comma, cod. pen., è in linea di continuità con altri casi di sospensione dei processi – rilevanti anche ai fini della sospensione del corso della prescrizione – collegati a situazioni di emergenza derivate, ad esempio, da eventi sismici. Si tratta di ipotesi che presentano – come già detto – una ratio affine a quella della disciplina censurata, chiamata a fronteggiare la pandemia da COVID-19. È il caso, ad esempio, del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito, con modificazioni, in legge 24 giugno 2009, n. 77, il cui art. 5 prevedeva una sospensione dei processi penali, nonché, espressamente, la sospensione, per la stessa durata, del corso della prescrizione: la giurisprudenza di legittimità ne ha più volte fatto applicazione con riferimento a condotte, penalmente rilevanti, poste in essere prima del d.l. n. 39 del 2009 (ex multis, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 13 dicembre 2012-7 febbraio 2013, n. 5982).
Parimenti è stato ritenuto – senza che insorgesse alcun dubbio in ordine al rispetto del principio di legalità – che la sospensione della prescrizione come conseguenza della sospensione dei processi riguardasse i reati già commessi in precedenza in ulteriori fattispecie, quali quelle in materia di condono edilizio e di condono fiscale e in occasione della riforma del cosiddetto patteggiamento allargato.
Con riferimento ad un’ipotesi di condono edilizio, la giurisprudenza, prendendo in esame la sospensione della prescrizione, conseguente alla sospensione del processo, intervenuta successivamente alla commissione del fatto, l’ha ritenuta pienamente operante senza rilevare possibili aspetti di incostituzionalità, proprio perché espressiva del principio generale di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen., per cui la prescrizione non decorre fin tanto che non viene meno l’impedimento all’esercizio dell’azione penale (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 3 dicembre 1996-13 febbraio 1997, n. 1283).
Occorre comunque che sia una «particolare disposizione di legge» a stabilire i presupposti della fattispecie, sicché «nella individuazione dei casi in cui la sospensione del procedimento è rilevante ai fini della prescrizione, rimane tuttora valida l’esigenza che le valutazioni del giudice siano vincolate a criteri predeterminati» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 novembre 2001-11 gennaio 2002, n. 1021).
E si è precisato che non basta la previsione ex lege della sospensione del decorso della prescrizione, perché «[è] richiesto, piuttosto, che il legislatore abbia previsto, unitamente a quella, la sospensione del procedimento o del processo» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 giugno-7 settembre 2018, n. 40150).
In altri termini la sospensione del processo, cui va ricollegata quella della prescrizione, è prevista da una norma che imponga una “stasi” del giudizio basata su elementi certi ed oggettivi.
La riconducibilità della fattispecie in esame alla disciplina di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen., esclude, quindi, che si sia in presenza di un intervento legislativo, recato dalla norma censurata, in contrasto con il principio di irretroattività della norma penale sostanziale sfavorevole sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Né argomento contrario può desumersi dall’espressa previsione, contenuta nella disposizione censurata, della sospensione del decorso del termine di prescrizione dei reati, la quale, nella ricostruzione fatta dalla giurisprudenza di legittimità, potrebbe apparire ridondante in quanto la sospensione stessa discenderebbe direttamente dalla norma generale contenuta nell’art. 159, primo comma, cod. pen. In realtà la previsione del comma 4 del censurato art. 83, secondo cui è sospeso anche il corso della prescrizione in ragione della sospensione del procedimento o del processo penale, non è inutile perché fissa, in modo espresso e quindi in termini maggiormente chiari, compatibili con il rispetto del principio di eguaglianza, la collocazione della disposizione nell’alveo della causa generale di sospensione contenuta nell’art. 159, primo comma, cod. pen., secondo una tecnica legislativa non nuova. Una fattispecie analoga si rinviene, con riferimento ad altra situazione emergenziale che ha imposto la stasi dei processi penali, nell’art. 49, commi 6 e 9, del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dal sisma del 24 agosto 2016), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2016, n. 229.
Sotto questo profilo, il principio di legalità è rispettato perché la sospensione del corso della prescrizione di cui alla disposizione censurata, essendo riconducibile alla fattispecie della «particolare disposizione di legge» di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen., può dirsi essere anteriore alle condotte contestate agli imputati nei giudizi a quibus. La regola, secondo cui quando il procedimento o il processo penale è sospeso in applicazione di una particolare disposizione di legge lo è anche il corso della prescrizione, è certamente anteriore alle condotte penalmente rilevanti proprio perché contenuta nel codice penale del 1930 e ribadita dalla richiamata novella del 2005.
La regola “tempus regit actum” diventa di stretta applicazione allorché concerne la prescrizione, nel senso che gli atti e le vicende processuali non potrebbero aver mai una proiezione retroattiva quanto all’incidenza indiretta sul tempo di prescrizione dei reati; profilo questo che viene in rilievo anche nel presente giudizio quanto al periodo iniziale della sospensione dei processi penali dal 9 marzo al 17 marzo 2020.
È vero che l’art. 83, commi 1 e 2, del d.l. n. 18 del 2020, entrato in vigore il 17 marzo 2020, ha previsto la sospensione dei processi e dei procedimenti penali fin dal 9 marzo e quindi (apparentemente) in modo retroattivo quanto al periodo dal 9 al 17 marzo; retroattività che non potrebbe parimenti riflettersi sulla sospensione del termine di prescrizione dei reati, in generale prevista dal censurato comma 4 della medesima disposizione.
In realtà, però, così non è perché il rinvio ex lege (e quindi la sospensione temporanea) dei procedimenti e dei processi penali nel (breve) periodo precedente il 17 marzo 2020 e la simmetrica sospensione del termine di prescrizione trovano il loro fondamento normativo nell’art. 1 del d.l. n. 11 del 2020, entrato in vigore il 9 marzo 2020, il quale sì non è stato convertito in legge, e anzi prima ancora è stato abrogato dall’art. 1 della legge n. 27 del 2020, ma la stessa disposizione ne ha fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo, unitamente a quelli oggetto del precedente d.l. n. 9 del 2020. Vi è pertanto continuità normativa tra la disposizione (fin quando vigente) del d.l. n. 11 del 2020, che all’art. 1, comma 3, richiama l’art. 10 del d.l. n. 9 del 2020 (e quindi anche il suo comma 13 sulla sospensione del corso della prescrizione), e quella di salvezza della legge n. 27 del 2020, sicché il periodo di rinvio (id est sospensione) di procedimenti e processi penali dal 9 al 17 marzo trova il suo fondamento in una norma vigente già alla data iniziale di questo intervallo temporale.
Non c’è stata pertanto alcuna sospensione retroattiva del corso della prescrizione come conseguenza della sospensione di procedimenti e processi penali, bensì ha trovato piena applicazione il principio secondo cui la legge (nella specie, di contenuto processuale) dispone per l’avvenire (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale) e pertanto legittima è la ricaduta sulla prescrizione in termini di sospensione della sua durata, prevista dall’art. 1 del d.l. n. 11 del 2020, in combinato disposto con l’art. 10, comma 13, del d.l. n. 9 del 2020, in piena sintonia con l’art. 159, primo comma, cod. pen.
In conclusione, le questioni, poste con riferimento al parametro interno dell’art. 25, secondo comma, Cost., sono tutte non fondate.
Invece, le questioni poste in riferimento ai parametri europei sono inammissibili.
Il Tribunale di Spoleto ha evocato – come parametro interposto in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 7 CEDU che al comma 1 prevede che «[n]essuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale.
Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
In proposito, questa Corte (sentenza n. 230 del 2012) ha ricordato che «l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] – secondo l’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – da un lato, sancisce implicitamente anche il principio di retroattività dei trattamenti penali più favorevoli e, dall’altro, ingloba nel concetto di “legalità” in materia penale non solo il diritto di produzione legislativa, ma anche quello di derivazione giurisprudenziale».
Si ha però che il Tribunale rimettente – pur ricordando la tesi della natura processuale dell’istituto della prescrizione fatta propria dalla Corte di Strasburgo (sentenza 22 giugno 2000, Coëme e altri contro Belgio; sentenza 20 settembre 2011, Neftyanaya Kompaniya Yukos contro Russia) e quindi un orientamento giurisprudenziale che predica una garanzia di portata meno estesa di quella ritenuta da questa Corte, la quale, come si è visto, ha invece affermato la natura sostanziale dell’istituto – non indica benché minimamente in che termini il parametro convenzionale offrirebbe, comunque, una protezione del principio di legalità maggiore di quella dell’art. 25, secondo comma, Cost.
Anzi la predicata natura processuale della prescrizione riduce il perimetro della non retroattività della norma penale rispetto alla ricostruzione dell’istituto, quale presente nella giurisprudenza di questa Corte, che – come già sopra ricordato – ne afferma invece la natura sostanziale.
Con riferimento proprio al principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.) questa Corte ha affermato che «gli stessi principi o analoghe previsioni si rinveng[o]no nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia» (sentenza n. 25 del 2019). Quindi in questa ipotesi di “concorrenza di tutele” si ha che l’invocato parametro convenzionale (art. 7 CEDU) ben può offrire talora, in riferimento a determinate fattispecie, una tutela più ampia del parametro nazionale (art. 25, secondo comma, Cost.). Ed è quanto accaduto allorché la questione, ritenuta inizialmente non fondata in riferimento a quest’ultimo (sentenza n. 282 del 2010), è poi risultata invece fondata in riferimento al parametro interposto (sentenza n. 25 del 2019).
Ma il Tribunale di Spoleto nulla argomenta in proposito e anzi mostra di essere consapevole che, con riferimento all’istituto della prescrizione, è il parametro nazionale ad avere un ambito di applicazione più ampio di quello convenzionale.
Analoga e ulteriore ragione di inammissibilità sussiste con riferimento all’ordinanza del Tribunale di Roma, che invoca come parametro interposto non solo l’art. 7 CEDU, ma anche l’art. 49, comma 1, CDFUE, che sancisce una garanzia ricalcata sul principio di legalità. Prevede infatti che «[n]essuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».
Alla stessa carenza motivazionale in ordine al parametro convenzionale, riscontrabile nell’ordinanza di rimessione, si aggiunge anche l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla riferibilità a una materia rientrante nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione europea. La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale, soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo (ex plurimis, da ultimo, sentenza n. 254 del 2020). Il Tribunale – pur richiamando la sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia (Grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M. A. S. e M. B.), che riguarda appunto la materia europea nella misura in cui concerne il reato di omesso versamento di tributi armonizzati – nulla argomenta in proposito, risultando invece che esso è chiamato a pronunciarsi in ordine al contestato reato di calunnia; il quale, all’evidenza, non ricade nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione europea.
2021
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penalen. 52, circa i rapporti tra prescrizione e confisca.
In particolare, ad avviso della Corte, la dichiarazione di estinzione del reato non consente di disporre la confisca diretta in tutti i casi in cui l’adozione del provvedimento ablativo è condizionata, da una norma di legge, alla pronuncia di un giudicato formale di condanna, ad eccezione dei casi in cui il Legislatore preveda che alla confisca dei beni economici dell’autore di un fatto costituente reato, la cui responsabilità formi comunque oggetto di un esaustivo accertamento giudiziale, si debba (in caso di confisca obbligatoria) o si possa (in caso di confisca facoltativa) procedere in assenza di una sentenza di condanna (definitiva).
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Il 18 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione Penale n. 1876, secondo cui, in tema di calcolo della prescrizione, in caso di sospensione del procedimento nei confronti dell’imputato assente ex art. 420 quater c.p.p., l’aumento della durata della sospensione della prescrizione del reato ai sensi del combinato disposto degli artt. 159, comma 7, e 161, comma 2, c.p. non può superare un quarto del termine ordinario di prescrizione di cui all’art. 157, comma 1, c.p., aumento che può essere sommato agli ulteriori aumenti del tempo di prescrizione, derivanti da eventuali fatti interruttivi, nonché agli eventuali periodi di sospensione della prescrizione.
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Il 10 febbraio esce la sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 5292, alla stregua della quale la sospensione della prescrizione di cui all’art. 83, comma 3 bis, d.l. n. 18 del 2020, convertito nella l. n. 27 del 2020, opera esclusivamente con riferimento ai procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e che siano pervenuti alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020.
Peraltro, osserva la Corte, il momento in cui il corso della prescrizione rimane sospeso dipende da quello in cui è entrata in vigore la I. n. 27 del 2020, poiché una causa di sospensione non può decorrere da una data antecedente alla legge che la prevede. Conseguentemente l’effetto sospensivo si produce a partire dal 30 aprile 2020 con riferimento ai procedimenti pervenuti prima di questa data, mentre per gli altri si verifica dal momento in cui sono giunti alla cancelleria della Corte e cioè da quello in cui effettivamente vengono ad identificarsi con il tipo di procedimento individuato dalla norma. A maggior ragione, naturalmente, va escluso che la sospensione di cui si tratta trovi applicazione quando il termine di prescrizione risulti essersi già definitivamente compiuto al momento in cui procedimento perviene al giudice di legittimità.
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Il 6 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 140, in materia di Emergenza Covid-19 e sospensione della prescrizione.
Ad avviso della Corte, va in primo luogo rilevato che le disposizioni censurate – sia il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, sia il successivo comma 9 – appartengono all’articolata disciplina introdotta per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 con riguardo al settore della giustizia; disposizioni che, con particolare riferimento al procedimento penale, hanno entrambe previsto – ma sulla base di significativi differenti presupposti e secondo la scansione temporale di seguito indicata – una stasi dell’attività giudiziaria, salvo le eccezioni di cui si dirà più innanzi, stabilendo, altresì, la sospensione del corso della prescrizione dei reati, senza distinzione tra procedimenti aventi ad oggetto condotte consumate prima o dopo l’introduzione di tali norme.
Il censurato art. 83 è già stato scrutinato da questa Corte, limitatamente al suo comma 4, con la sentenza n. 278 del 2020, alla quale si farà ripetuto riferimento.
Le doglianze rivolte al successivo comma 9 della stessa disposizione presentano, invece, significativi elementi di novità.
Vanno innanzi tutto esaminate le questioni di legittimità costituzionale che investono il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, sollevate da tutte le ordinanze di rimessione; questioni che – come si è appena rilevato – recano censure analoghe a quelle già esaminate da questa Corte nella pronuncia sopra richiamata.
Le questioni sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sono manifestamente infondate.
Questa Corte ha già dichiarato non fondate le medesime questioni di costituzionalità, sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della violazione del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole (sentenza n. 278 del 2020).
In tale pronuncia ha posto in evidenza come la disciplina emergenziale, di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, abbia dato luogo – come puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità – ad un caso di sospensione del procedimento e del processo penale, in ragione dell’integrale sospensione dell’attività giurisdizionale nel periodo emergenziale, conseguente alla previsione sia del rinvio delle udienze, sia della sospensione dei termini processuali di qualsiasi atto del procedimento.
La Corte, quindi, ha ritenuto non fondata la denunciata violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., rilevando che la sospensione del processo, da cui consegue la sospensione della prescrizione, ai sensi dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, è prevista «da una norma che impon[e] una “stasi” del giudizio basata su elementi certi ed oggettivi». Sicché la «riconducibilità della fattispecie in esame alla disciplina di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen. esclude […] che si sia in presenza di un intervento legislativo» in contrasto con il principio di irretroattività della norma penale sostanziale sfavorevole, sancito dall’evocato parametro.
Questa Corte ha, dunque, affermato che il principio di legalità è rispettato perché la sospensione del corso della prescrizione, di cui alla disposizione censurata, essendo riconducibile alla fattispecie della «particolare disposizione di legge» di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen., può dirsi essere anteriore alle condotte contestate agli imputati nei giudizi a quibus.
La regola di cui all’art. 159 cod. pen. – secondo cui, quando il procedimento o il processo penale è sospeso in applicazione di una particolare disposizione di legge, lo è anche il corso della prescrizione – è, infatti, certamente anteriore alle condotte penalmente rilevanti proprio perché contenuta nel codice penale del 1930 e ribadita dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), che ha modificato, sostituendolo, il citato art. 159 cod. pen.
La riconducibilità della sospensione della prescrizione, di cui alla disposizione censurata, alla regola generale stabilita dall’art. 159 cod. pen. assicura, dunque, che al momento della commissione del fatto il suo autore ha potuto avere consapevolezza ex ante che, in caso di sospensione del procedimento o del processo in applicazione di una particolare disposizione di legge, anche il decorso del termine di prescrizione sarebbe stato sospeso.
Tutte le ordinanze di rimessione non prospettano profili di censura che non siano già stati esaminati nella richiamata pronuncia n. 278 del 2020, sicché, in mancanza di argomentazioni nuove e diverse, le questioni sollevate in riferimento alla violazione del principio di retroattività (art. 25, secondo comma, Cost.) devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Anche le questioni prospettate nei confronti del medesimo comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, in riferimento alla violazione dell’art. 7 CEDU per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., sono analoghe a quelle già scrutinate – e ritenute inammissibili – da questa Corte nella richiamata pronuncia.
Esse sono, quindi, manifestamente inammissibili.
Tutti i rimettenti, ad eccezione del Tribunale di Roma (r.o. n. 159 del 2020), hanno evocato – come parametro interposto in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 7 CEDU, che prevede che nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale; né può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
I rimettenti richiamano la tesi della natura processuale dell’istituto della prescrizione accolta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che implica una garanzia di portata meno estesa di quella affermata dal costante orientamento di questa Corte.
Deve al riguardo ribadirsi, in relazione al principio di legalità, che «gli stessi principi o analoghe previsioni si rinveng[o]no nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia» (sentenza n. 25 del 2019). Quindi in questa ipotesi di «concorrenza di tutele» si ha che l’invocato parametro convenzionale (art. 7 CEDU) ben può offrire talora, in riferimento a determinate fattispecie, una tutela più ampia del parametro nazionale (art. 25, secondo comma, Cost.). Ed è quanto accaduto allorché la questione, ritenuta inizialmente non fondata in riferimento a quest’ultimo (sentenza n. 282 del 2010), è poi risultata invece fondata in riferimento al parametro interposto (ancora sentenza n. 25 del 2019).
Ma, sotto tale specifico profilo, i rimettenti, pur consapevoli della natura sostanziale che l’istituto della prescrizione riveste nell’ordinamento italiano, hanno omesso di chiarire in quali termini il parametro convenzionale offrirebbe una protezione del principio di legalità maggiore di quella dell’art. 25, secondo comma, Cost., laddove invece la «predicata natura processuale della prescrizione riduce il perimetro della non retroattività della norma penale rispetto alla ricostruzione dell’istituto, quale presente nella giurisprudenza di questa Corte, che […] ne afferma invece la natura sostanziale» (sentenza n. 278 del 2020).
Anzi, le ordinanze di rimessione evidenziano «l’impossibilità di individuare un parametro costituzionale di riferimento per l’orientamento della “processualizzazione” della sospensione dei termini di prescrizione» (r.o. n. 133 e r.o. n. 165 del 2020) e rimarcano che, con riferimento all’istituto della prescrizione, è il parametro nazionale ad avere un ambito di applicazione più ampio di quello convenzionale (r.o. n. 152 del 2020).
Va pertanto dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate nei confronti dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.
Si può ora passare all’esame delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti del comma 9 dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020; disposizione questa che invece non è stata oggetto della sentenza n. 278 del 2020.
Giova innanzi tutto richiamare brevemente il quadro normativo in cui si colloca la norma censurata, distinguendo una prima e una seconda fase di contrasto dell’emergenza epidemiologica.
Il primo intervento legislativo concernente l’attività giurisdizionale posto in essere per rispondere all’emergenza determinata dall’epidemia da Covid-19 si è avuto con il decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9 (Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), il quale, all’art. 10, ha riguardato esclusivamente i procedimenti penali (e civili) pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei tribunali cui appartenevano i Comuni indicati all’Allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19).
Tale provvedimento aveva previsto – limitatamente ai territori indicati – la sospensione dei termini processuali e il rinvio delle udienze, ma si era altresì stabilito che, a partire dal 3 marzo 2020, il corso della prescrizione fosse sospeso per il tempo in cui il processo fosse rinviato o i termini procedurali fossero sospesi e comunque fino al 31 marzo 2020 (art. 10, comma 10, del citato decreto-legge).
È seguito il decreto-legge 8 marzo del 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria), per disciplinare, sull’intero territorio nazionale, il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini per tutti i procedimenti (civili, penali, tributari e militari).
In particolare, all’art. 1, comma 1, si è previsto che a decorrere dal giorno successivo al 9 marzo 2020, data di entrata in vigore del decreto medesimo, e sino al 22 marzo 2020, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari (fatti salvi alcuni procedimenti di particolare urgenza) fossero rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020.
Contestualmente, al comma 2 dello stesso art. 1, si è prevista anche la sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei detti procedimenti, fatti salvi quelli già richiamati.
È poi intervenuto il decreto-legge n. 18 del 2020, cui appartengono le norme censurate, e, prima che maturassero i termini di decadenza dei decreti-legge n. 9 e n. 11 del 2020 per mancata conversione, detti provvedimenti sono stati abrogati, con salvezza degli effetti, dall’art. 1, comma 2, della legge 24 aprile 2020, n. 27 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi).
Come già sopra rilevato, l’art. 83, ai commi 1 e 2, del d.l. n. 18 del 2020, per quanto attiene ai processi penali, ha disposto in via generale e obbligatoria, salvo alcune eccezioni, il rinvio di ufficio delle udienze a data successiva al 15 aprile 2020 e la sospensione dei «termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali» dal 9 marzo al 15 aprile 2020.
Su tali disposizioni è, poi, intervenuto l’art. 36 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali), convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2020, n. 40, che ha stabilito che il termine del 15 aprile 2020, previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, fosse prorogato all’11 maggio 2020.
In relazione a tali fattispecie, la prima delle disposizioni oggetto di censura (il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020) ha disposto la sospensione dei termini di prescrizione, oltre che dei termini di durata massima delle misure cautelari personali.
Per effetto, dunque, della proroga disposta dall’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020, la sospensione dei termini prescrizionali, di cui al comma 4 dell’art. 83, ha operato dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020.
Quanto alla seconda fase di contrasto dell’emergenza epidemiologica, deve rilevarsi che il d.l. n. 18 del 2020 ha confermato il potere dei capi degli uffici giudiziari – già previsto dal d.l. n. 11 del 2020 – di adottare misure organizzative connesse alle esigenze sanitarie, derivanti dall’epidemia in atto.
Si è con ciò consentita una graduale ripresa delle udienze penali (e anche civili), rimessa alla valutazione dei capi degli uffici giudiziari, funzionale al controllo della diffusione del contagio.
In particolare, l’art. 83, comma 6, del d.l. n. 18 del 2020 – dando inizio a tale seconda fase successiva all’11 maggio 2020 e ferma la necessità di contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria – ha previsto, per il periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020 che «i capi degli uffici giudiziari, sentiti l’autorità sanitaria regionale, per il tramite del Presidente della Giunta della Regione, e il Consiglio dell’ordine degli avvocati, adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone. Per gli uffici diversi dalla Corte suprema di cassazione e dalla Procura generale presso la Corte di cassazione, le misure sono adottate d’intesa con il Presidente della Corte d’appello e con il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello dei rispettivi distretti».
Tale disposizione, rimasta invariata nel suo contenuto sostanziale, è stata più volte modificata in relazione all’ambito temporale di esplicazione del potere da essa conferita ai capi degli uffici giudiziari.
La formulazione originaria prevedeva, infatti, che i capi degli uffici potessero adottare tali misure organizzative nel periodo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno 2020; tale periodo veniva sostituito, per effetto dell’art. 3, comma 1, lettere b) e i), del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, con quello compreso tra il 12 maggio ed il 31 luglio; l’art. 3, comma 1, lettera i) del d.l. n. 28 del 2020 disponeva, poi, che la data del 31 luglio sostituisse quella del 30 giugno, ovunque questa si trovasse indicata nell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020; successivamente, di seguito alla conversione del d.l. n. 28 del 2020, la lettera i) veniva soppressa e, con l’introduzione della lettera b-bis), il termine del 30 giugno veniva espressamente ripristinato.
Di seguito a tali modifiche normative il potere dei capi degli uffici giudiziari di adottare misure organizzative, di cui al comma 6 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, è rimasto riferito al periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020.
Proprio per consentire la ripartenza dell’attività giudiziaria, nel rispetto della finalità di cui al comma 6 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, si è stabilito che i capi degli uffici giudiziari potessero adottare misure organizzative, come la limitazione dell’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, restrizioni dell’orario di apertura al pubblico degli uffici, prevedendo anche la chiusura degli stessi (salvo che per servizi urgenti) e più in generale, la regolamentazione dell’accesso ai servizi, tramite una previa prenotazione, da effettuarsi anche con mezzi di comunicazione telefonica o telematica, in ogni caso predisponendo misure volte ad evitare forme di assembramento (art. 83, comma 7, lettere a, b e c, del d.l. n. 18 del 2020).
Ma accanto a tali misure generali, di carattere strettamente organizzativo-amministrativo, è stato conferito ai capi degli uffici giudiziari il potere di adottare provvedimenti riguardanti l’attività giudiziaria in senso stretto.
Si è, infatti, prevista l’adozione da parte loro di linee guida con carattere vincolante per la fissazione e la trattazione delle udienze.
Segnatamente ai capi degli uffici giudiziari è stato conferito il potere di prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, peraltro con alcune eccezioni. Sono stati esclusi i casi contemplati dal comma 3 dell’art. 83 citato, ossia quegli stessi procedimenti in relazione ai quali anche la sospensione ex lege di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 non trovava applicazione; quali, tra gli altri, i procedimenti a carico di persone detenute, quelli in cui erano applicate misure cautelari o di sicurezza o di prevenzione, nonché i procedimenti che presentavano carattere di urgenza per la necessità di assumere prove indifferibili.
Al di fuori di tali procedimenti, per assicurare l’attuazione delle misure dirette alla prevenzione del contagio, i capi degli uffici giudiziari – come accaduto in relazione ai procedimenti a quibus – alla luce delle specifiche esigenze sanitarie e organizzative dell’ufficio, valutate ai sensi del precedente comma 6 – hanno potuto prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020.
In tale evenienza, qualora il magistrato non avesse ritenuto di trattare il processo nel periodo 12 maggio-30 giugno 2020, la disposizione censurata ha stabilito che per il tempo in cui il procedimento è stato rinviato, e in ogni caso non oltre il 30 giugno 2020, è sospeso il decorso del termine di prescrizione. Tale è infatti il contenuto precettivo della disposizione censurata (art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020): nei procedimenti penali il corso della prescrizione rimane sospeso per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
Ciò premesso, deve, in primo luogo, essere dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale ordinario di Paola (r.o. n. 133 del 2020), in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.
Il rimettente, a sostegno della sua censura di lesione del parametro convenzionale, ha replicato argomentazioni identiche a quelle svolte nei confronti del comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 e, pertanto, non chiarendo, anche in questo caso, in quali termini tale parametro interposto offrirebbe una protezione del principio di legalità più estesa di quella dell’art. 25, secondo comma, Cost., vanno ribadite – anche con riferimento al comma 9 dello stesso art. 83 – le medesime ragioni di inammissibilità manifesta (vedi supra, punti 7. e seguenti).
Nuova è invece la questione sollevata dal Tribunale di Roma (r.o. n. 159 del 2020), in riferimento al principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), sotto il profilo della denunciata sua violazione per insufficiente determinatezza della fattispecie legale dalla quale consegue la sospensione della durata del termine di prescrizione dei reati nel periodo dal 12 maggio al 30 giugno 2020.
La questione è fondata.
Va ribadito che la concreta determinazione della durata del tempo di prescrizione dei reati appartiene alla discrezionalità del legislatore, censurabile solo in caso di manifesto difetto di ragionevolezza o proporzionalità.
È il legislatore che – secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati – valuta l’affievolimento progressivo dell’interesse della collettività alla punizione del comportamento penalmente illecito e determina quando il decorso del tempo, in riferimento ad ogni fattispecie di reato, ne comporti l’estinzione. Ossia stabilisce la «durata, per così dire “tabellare”, prevista in generale dall’art. 157 cod. pen., ma talora fissata con norme speciali in riferimento a particolari reati (ad esempio, in caso di delitti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto) – entro la quale sussisterà, in ogni caso, la punibilità della condotta contestata» (sentenza n. 278 del 2020).
È questa l’intrinseca natura sostanziale della prescrizione che chiama in causa la garanzia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.); principio questo che costituisce caposaldo del complessivo sistema punitivo – il cosiddetto “diritto sanzionatorio” – trovando esso applicazione alle fattispecie di reato (sentenza n. 25 del 2019) e alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente punitivo (sentenza n. 5 del 2021).
Una persona accusata di un reato deve poter conoscere ex ante (ossia al momento della commissione del fatto), sia la fattispecie di reato, sia l’entità della pena con proiezione, entro certi limiti, anche alle modalità della sua espiazione in regime carcerario (sentenza n. 32 del 2020), sia la durata della prescrizione (art. 157 cod. pen.).
Ma la garanzia della natura sostanziale della prescrizione si estende anche alle possibili ricadute che sulla sua durata possono avere norme processuali.
Se da una parte per queste ultime trova, invece, applicazione di per sé, in quanto regola del processo, il diverso canone del tempus regit actum, dall’altra le conseguenze in termini di possibile allungamento della durata del termine di prescrizione sono attratte alla dimensione sostanziale, che connota tale istituto, e quindi al rispetto del principio di legalità: anch’esse devono essere previste dalla legge del tempus commissi delicti. Rileva, sotto questo profilo, soprattutto la disciplina della sospensione e dell’interruzione della prescrizione (artt. 159 e 160 cod. pen.).
Coniugando l’uno e l’altro aspetto, si ha che la garanzia del principio di legalità richiede che la persona incolpata di un reato deve poter avere previa consapevolezza della disciplina della prescrizione concernente sia la definizione della fattispecie legale, sia la sua «dimensione temporale»; quest’ultima risultante dalla (ben precisa) durata tabellare della prescrizione (art. 157 cod. pen.) e dalla (possibile) incidenza su di essa di regole processuali, quali quelle dell’interruzione e della sospensione (amplius, sentenza n. 278 del 2020). Ciò comporta – come già rilevato – non già l’esatta prevedibilità ex ante del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione e il reato sarà estinto, stante l’applicazione solo eventuale di siffatte regole processuali con ricadute sostanziali sulla durata del termine di prescrizione, ma la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale.
Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia «sufficientemente determinata» (sentenza n. 278 del 2020), e, ove tale, sia anche non retroattiva (e pertanto applicabile solo a reati commessi successivamente alla data della sua entrata in vigore).
Con riferimento alla cosiddetta “regola Taricco” di derivazione europea, che significava il prolungamento, in alcuni casi, della durata del termine di prescrizione di reati tributari, dapprima la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M. A. S. e M. B.) ha affermato che l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna in materia di prescrizione, sulla base di tale regola, viene meno quando ciò comporta una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile oppure dell’applicazione retroattiva di una normativa che preveda un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.
Successivamente questa Corte (sentenza n. 115 del 2018), proprio richiamando tale pronuncia, ha ritenuto assorbente il «deficit di determinatezza» che caratterizzava la “regola Taricco” «a causa della genericità dei concetti di “grave frode” e di “numero considerevole di casi”», intorno ai quali essa ruotava; e quindi ha concluso affermando, in via interpretativa, che «la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento», e non già, soltanto, che essa non poteva avere efficacia retroattiva.
Parimenti si è affermato che «il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate» (ordinanza n. 24 del 2017).
Più recentemente, questa Corte, esaminando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, ha ribadito innanzi tutto che la fissazione della durata del tempo di prescrizione deve essere – come già ricordato – «sufficientemente determinata» (sentenza n. 278 del 2020). E tale è stata ritenuta la disposizione allora censurata che ha previsto la sospensione del termine di prescrizione in riferimento all’applicazione della regola processuale contenuta nella congiunta applicazione dei commi 1 e 2 dello stesso art. 83; i quali hanno disposto il rinvio d’ufficio di tutti i procedimenti penali (oltre che civili) a data successiva all’11 maggio 2020 e la sospensione del decorso di tutti i termini per il compimento di qualsiasi atto.
Tale generalizzata stasi processuale identifica, secondo la giurisprudenza di legittimità, una fattispecie legale – nella specie, integralmente legale – di sospensione del procedimento o del processo imposta da una particolare disposizione di legge.
Sicché, in quel caso, la Corte è passata ad esaminare la denunciata violazione del principio di non retroattività, parimenti contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost., ritenendola, nella specie, non sussistente – come già sopra ricordato – perché la sospensione del procedimento o del processo, recata dai primi due commi del censurato art. 83, poteva dirsi rientrare nella fattispecie di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen., costituendo così esplicitazione di una regola già contenuta in quest’ultima norma codicistica, come «causa generale di sospensione».
Al contrario, con riguardo alla questione in esame – quella che investe il comma 9 dell’art. 83 – la valutazione del rispetto del principio di legalità sotto il profilo della sufficiente determinazione della fattispecie legale conduce ad una diversa conclusione, dovendo ritenersi che esso sia violato per le ragioni che si vengono ora ad esporre; conclusione questa che è assorbente sì da non richiedere che si debba procedere anche alla verifica del rispetto del canone di non retroattività della legge che in ipotesi prolunghi la durata del termine di prescrizione.
La norma censurata (art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020) prescrive che nei procedimenti penali il corso della prescrizione rimanga sospeso per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
La formulazione testuale della norma è apparentemente simile a quella del comma 4 dello stesso art. 83, già scrutinato da questa Corte, ma in realtà vi è una radicale differenza.
Il comma 4 àncora la sospensione del termine di prescrizione a presupposti compiutamente definiti nei precedenti commi 1 e 2, talché – come si è già sottolineato – la fattispecie è sufficientemente determinata per legge.
Invece il comma 9 fa riferimento al precedente comma 7, lettera g), che contiene un rinvio alle «misure organizzative» che i capi degli uffici giudiziari – in ragione della generale previsione del comma 6 del medesimo art. 83 – sono facoltizzati ad adottare per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria; misure che – secondo la catalogazione contenuta nel comma 7 – possono consistere in una serie di prescrizioni riguardanti non solo l’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, ma anche «l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze» (lettera d) e «la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3» (lettera g).
Quindi, in particolare, la previsione del rinvio delle udienze, cui si ricollega la sospensione del decorso della prescrizione, costituisce il contenuto possibile di una misura organizzativa che il capo dell’ufficio giudiziario può adottare ai sensi del comma 6 del medesimo art. 83; facoltà questa che solo genericamente è delimitata dalla legge quanto ai suoi presupposti e alle finalità da perseguire.
È sufficiente che il capo dell’ufficio giudiziario abbia di mira il contrasto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria e il contenuto delle misure organizzative può riguardare anche la trattazione degli affari giudiziari, se ciò è ritenuto necessario per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare contatti ravvicinati tra persone all’interno dell’ufficio giudiziario.
Il rinvio delle udienze – con il limite dei procedimenti indifferibili tassativamente elencati al comma 3 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 – è disposto sulla base di «linee guida vincolanti» che il capo dell’ufficio giudiziario è facoltizzato ad adottare per la fissazione e per la trattazione delle udienze.
In tale quadro, questa normativa speciale e temporanea introduce sì una fattispecie di rilievo processuale, in quanto essa può comportare il rinvio delle udienze penali per alcuni processi e non per altri, secondo quanto prescritto nelle linee guida del capo dell’ufficio; ma da essa conseguono significativi effetti di natura sostanziale nella misura in cui il comma 9 dell’art. 83 dispone la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui il processo è rinviato, non oltre comunque il 30 giugno 2020.
All’eventuale provvedimento generale del capo dell’ufficio, che risponde a esigenze organizzative legate all’andamento della pandemia, la norma censurata riconnette l’effetto in malam partem recato dalla previsione della sospensione del decorso del termine di prescrizione nel caso di rinvio del processo, determinando così un allungamento complessivo del termine entro il quale la fattispecie estintiva della punibilità si realizza.
Per la sua valenza sostanziale, pur mediata dalla regola processuale, tale previsione normativa ricade comunque nell’area di applicazione del principio di legalità, il quale richiede – come si è detto sopra – che essa, incidendo sulla punibilità del reato, sia determinata nei suoi elementi costitutivi sì da assicurare un sufficiente grado di conoscenza o di conoscibilità.
Invece, la misura organizzativa del dirigente dell’ufficio, cui consegue il censurato effetto in malam partem (per l’imputato) in caso di rinvio del processo, non trova nelle disposizioni di cui all’art. 83, commi 6, 7 e 9, del d.l. n. 18 del 2020 adeguata specificazione circa le condizioni e i limiti legittimanti l’adozione del provvedimento di rinvio, cui appunto consegue tale effetto sfavorevole sul piano della punibilità del reato in ragione dell’allungamento del termine di prescrizione.
Il presupposto, il contenuto e le finalità di tali misure organizzative, consistenti in linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, sono solo genericamente fissate dalla legge (art. 83, commi 6 e 7, del d.l. n. 18 del 2020). Inoltre, tale vincolo per il giudice del processo, chiamato poi a disporne, caso per caso, il rinvio sulla base di siffatte linee guida (e non già a richiesta della difesa dell’imputato), non è neppure assoluto, perché è sempre possibile che egli ritenga invece che il processo abbia carattere d’urgenza per la necessità di assumere prove indifferibili (art. 83, comma 3, lettera c), con l’effetto di rendere non operante la regola posta nelle linee guida del capo dell’ufficio.
In sostanza, è solo al momento dell’adozione del provvedimento di rinvio del processo che si completa e si integra, caso per caso, la fattispecie legittimante il rinvio stesso: in tal modo la regola speciale finisce per avere un’imprevedibile variabilità in sostanza non dissimile da quella che avrebbe avuto il contenuto della “regola Taricco”; contenuto «deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale» (ordinanza n. 24 del 2017).
La fattispecie del rinvio del processo, prevista dalla disposizione censurata, è integrata completamente con il richiamo di provvedimenti privi di natura normativa, quali appunto sono le misure organizzative del capo dell’ufficio giudiziario e le sue linee guida per la fissazione e la trattazione delle udienze. Ciò non inficia certo la legittimità della previsione di tale richiamo come regola processuale, ma non soddisfa il canone della sufficiente determinatezza per legge della fattispecie da cui consegue l’effetto sostanziale dell’allungamento della durata del termine di prescrizione.
Né l’integrazione eteronoma della regola processuale che reca la sospensione del processo, prevista dalla norma censurata, può ricondursi al mero completamento della fattispecie legale, come in altre ipotesi previste dall’art. 159 cod. pen. Tali sono quelle per cui la sospensione della prescrizione opera rispettivamente nei casi di autorizzazione a procedere; di deferimento della questione ad altro giudizio; di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori o su richiesta dell’imputato o del suo difensore; di sospensione del procedimento penale per assenza dell’imputato; o, infine, di rogatorie all’estero.
In tutte queste ipotesi il principio di legalità, sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie, è rispettato perché la disciplina della sospensione del processo – e conseguentemente anche del corso della prescrizione – trova una descrizione chiara e precisa nella medesima disposizione che la prevede (art. 159 cod. pen.), oppure, ferma restando la riconducibilità alla disposizione codicistica, essa è integrata dal richiamo a una «particolare disposizione di legge».
Invece la norma attualmente censurata, nel prevedere una fattispecie di sospensione del termine di prescrizione, rinvia a una regola processuale, recante la sospensione del processo, il cui contenuto è definito integralmente dalle misure organizzative del capo dell’ufficio giudiziario, così esibendo un radicale deficit di determinatezza, per legge, della fattispecie, con conseguente lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione.
Pertanto – assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento, sia all’art. 3 Cost., sia allo stesso art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della irretroattività della legge penale sfavorevole – deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 9, del d.l. n.18 del 2020, nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
Questioni intriganti
In cosa consiste la prescrizione del reato e quale fondamento ha?
- occorre muovere dal decorso di un certo tempo fissato dalla legge penale;
- durante tale decorso non interviene, in relazione ad un determinato fatto storico, alcuna sentenza di condanna irrevocabile;
- l’effetto finale è che, quand’anche tale fatto storico compendi un inadempimento reato, il decorso del termine di legge senza che intervenga sentenza di condanna irrevocabile implica che il ridetto reato sia ormai estinto;
- si tratta dunque di una delle cause di “estinzione” del reato, onde un determinato fatto-inadempimento-reato non rileva più in quanto tale, e dunque a fini di relativa punizione del pertinente colpevole;
- per la dottrina, il fatto che un considerevole lasso di tempo sia decorso da quando un determinato fatto inadempimento reato è stato commesso, lasso di tempo la cui consistenza viene fissata dal legislatore in relazione alla gravità del singolo reato, implica affievolimento dell’interesse dello Stato all’attuazione della pretesa punitiva;
- non manca poi chi giustifica la prescrizione sul crinale della c.d. prevenzione: f.1) prevenzione generale: più tempo si impiega ad accertare se un fatto storico costituisce reato, ad individuarne il colpevole e a punirlo, meno efficace è appunto la prevenzione avvinta, in generale, alla (alle conseguenze della) commissione di reati, nel senso onde si è meno trattenuti dal commetterli; f.2) prevenzione speciale: più tempo si impiega a punire il colpevole di un fatto inadempimento reato, più è possibile che ne sia cessata la pericolosità sociale, con conseguente inutilità (anche a livello di percezione soggettiva) della pertinente punizione;
In che senso la prescrizione del reato ha ad un tempo un risvolto sostanziale ed uno processuale?
- dal punto di vista sostanziale, la prescrizione del reato corrisponde allo spirare del termine oltre il quale deve assumersi ormai venuto meno l’interesse dello Stato Comunità (e della vittima che ne è parte) ad acclarare se un determinato fatto storico costituisca inadempimento-reato, ad individuare chi lo ha commesso e a condannarlo ad una pena;
- dal punto di vista processuale, la prescrizione del reato indica il tempo al di là del quale lo Stato Apparato va assunto ormai definitivamente inadempiente all’obbligo che su di esso grava – nell’interesse dello Stato Comunità – di acclarare se un determinato fatto storico costituisca inadempimento-reato, di individuare chi lo ha commesso e di condannarlo ad una pena; un inadempimento che tuttavia non ha di regola conseguenze rilevanti perché coincide temporalmente con la coeva perdita, da parte dello Stato Comunità, del proprio omogeneo interesse creditorio (di cui sub a); può averne solo allorché, in virtù di obblighi internazionali, ne risulti leso anche l’interesse di soggetti diversi, come nel caso dell’Unione europea ovvero della vittima del reato prescritto, quale titolare di diritti umani presidiati dalla CEDU.
Quali sono i due atteggiamenti che possono qualificare il maturare della prescrizione del reato?
- prescrizione c.d. eso-procedimentale: si tratta di una prescrizione che matura al di fuori del procedimento e dunque prima ancora che possa palesarsi l’interesse che sottende la pretesa punitiva dello Stato Comunità (e, con esso, della vittima); sono le fattispecie in cui il reato si prescrive – con termine ancorato alla relativa gravità – prima ancora che intervenga uno degli atti interruttivi previsti in via tassativa dall’art.160 c.p. e posti in essere su iniziativa dello Stato Apparato, in termini di servizio pubblico giustizia;
- prescrizione endo-procedimentale: si tratta di una prescrizione che matura (ormai) all’interno del processo e dunque quando l’interesse che sottende la pretesa punitiva dello Stato Comunità (e della vittima) si è già manifestato attraverso l’attivazione di un processo orientato ad accertare se un fatto storico è reato inadempimento, ad acclarare chi lo ha commesso e a punirlo, giusta emanazione di uno degli atti interruttivi tassativamente indicati dall’art.160 c.p.; è questa la fattispecie più frequente e, come indica la dottrina, maggiormente dis-funzionale in quanto, col maturare della prescrizione del reato, viene in simili fattispecie travolta tutta l’attività processuale già (ormai, inanemente) svolta su iniziativa ed impulso dello Stato Apparato.
Quali critiche hanno accompagnato l’entrata in vigore della legge c.d. ex Cirielli, ed il nuovo modo di determinare il termine necessario a prescrivere ivi previsto?
- la legge ex Cirielli del 2005 calcola il tempo necessario a prescrivere muovendo non già da classi di reati sulla base della tipologia ed entità di pena prevista dal legislatore, quanto piuttosto – più rigidamente – da ciascun singolo reato, muovendo dal massimo di pena per esso previsto dal legislatore medesimo;
- si tratta di una novità che, per la dottrina, va calata nel sistema penale nel quale essa è destinata ad operare, caratterizzato dal sedimentarsi e dal progressivo stratificarsi di fattispecie penali affastellatesi durante gli anni;
- nel corso della storia giuridico-penale degli ultimi lustri, si sono succedute, in modo disomogeneo, scelte di politica criminale anche radicalmente diverse tra loro;
- questa a-sistematicità si traduce spesso in una disomogeneità dei tempi necessari a prescrivere in rapporto alle singole figure di reato, anche in relazione all’effettivo disvalore di ciascun fatto inadempimento reato di volta in volta considerato, onde può accadere che per un fatto di minor disvalore penale sia previsto un termine di prescrizione troppo lungo mentre, all’opposto, per un fatto di maggior disvalore penale il tempo necessario a prescrivere risulti, in proporzione, troppo breve;
- va tenuto conto che, al fine di determinare il tempo necessario a prescrivere, sono irrilevanti le circostanze (e dunque il fatto inadempimento reato concretamente considerato), con il risultato di una (tendenzialmente) ancor maggiore irrazionalità del sistema complessivamente inteso;
- in sostanza, sono dunque le scelte – astrattamente intese – del legislatore penale di parte speciale (allorché forgia le singole fattispecie di reato e le relative punizioni nel massimo edittale) quelle dalle quali dipende il termine necessario a prescrivere; quando tali scelte non hanno ascendenze sistematiche, rivelandosi piuttosto estemporanee se non rapidamente mutevoli, a rimetterci è l’organicità e la coerenza del sistema penale complessivamente inteso (con effetto, peraltro, di disincentivo al ritocco dei massimi di pena “al ribasso”, scaturendone una collegata diminuzione del termine di prescrizione del reato considerato).
In cosa consistono rispettivamente la sospensione e l’interruzione della prescrizione?
- sono entrambi istituti che producono effetti in malam partem nei confronti del reo;
- la sospensione ha effetti parentetici, in quanto il termine prescrizionale – che, decorrendo, favorirebbe il reo – resta sospeso fino ad un dato momento al di là del quale ricomincia a decorrere fino al relativo spirare, limitatamente alla parte residua e dunque non già decorsa anteriormente all’intervento della causa di sospensione, che si va ad aggiungere a quella già decorsa prima della ridetta causa;
- l’interruzione implica che inizia a decorrere, da quando interviene la pertinente causa, un nuovo termine prescrizionale, onde la causa di interruzione della prescrizione opera contra reum in quanto impedisce che la prescrizione si perfezioni, interrompendola e facendo partire un nuovo periodo, integralmente assunto, per l’appunto di prescrizione del reato (onde il tempo di prescrizione precedentemente trascorso resta privo di effetti a fini di estinzione del pertinente reato).
Quali sono le prese di posizione della dottrina dinanzi alle nuove, incisive previsioni di sospensione della prescrizione di cui alla riforma Orlando in caso di sentenza di condanna dell’imputato?
- si tratta delle nuove previsioni di cui all’art.159, comma 2 e seguenti, c.p., siccome introdotte dalla c.d. Riforma Orlando, ovvero dalla legge n.103.17, che prevedono una consistente sospensione della prescrizione in caso di condanna dell’imputato in primo o in secondo grado;
- secondo la dottrina favorevole, il legislatore ha inteso fornire per via sistematica e con strumento ad ampio spettro un prezioso ausilio alla celebrazione del processo penale (nel grado successivo a quello di cui alla intervenuta condanna), laddove in passato il meccanismo di sospensione della prescrizione si limitava semplicemente a superare taluni ostacoli al normale corso del procedimento;
- secondo l’opzione dottrinale contraria (o comunque critica), taluni effetti di non poco momento vanno annessi alla circostanza onde il meccanismo sospensivo concerne la sola sentenza di condanna: in caso – opposto – di assoluzione dell’imputato in primo grado, il rischio è quello da un lato di innescare una accelerazione innaturale del processo, al fine di giungere ad ogni costo ad una assoluzione definitiva (anche se l’imputato è in realtà colpevole) e, dall’altro, di incappare nella prescrizione del reato (qui, in potenza, più rapida) laddove l’imputato, assolto appunto in primo grado (ed innocente), pretenderebbe di esserlo anche in via definitiva e nel merito pur a seguito di appello del PM, ed invece incorre appunto in un provvedimento di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato (prescritto); ancora, si osserva come se in caso di procedimenti agili il prolungarsi della prescrizione può rivelarsi, in concreto, sproporzionato, all’opposto in caso di procedimenti particolarmente complessi il pur cospicuo allungamento complessivo del termine prescrizionale potrebbe non essere sufficiente a scongiurare una declaratoria di estinzione (per prescrizione appunto) del pertinente reato;
- sono considerazioni, favorevoli o sfavorevoli, destinate ad amplificarsi in forza della legge n.3 del 2019, che sospende i termini di prescrizione (addirittura) fino alla sentenza definitiva (ma che entra in vigore solo a partire dal 2020).
Cosa occorre rammentare sui rapporti tra la prescrizione del reato e la successione di leggi penali nel tempo di cui all’art.2 c.p.?
- l’art.2 c.p. fissa taluni principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, con particolare riguardo al canone della irretroattività della norma penale sopravvenuta più sfavorevole;
- su questo crinale, una fattispecie peculiare è quella dell’allungamento per legge dei termini di prescrizione del reato rispetto ai termini previgenti, che si palesa come tale “in malam partem”;
- va sgomberato subito il campo dall’ipotesi peculiare in cui il termine prescrizionale precedentemente previsto per il reato X sia già decorso, laddove un eventuale novella non è comunque idonea ad allungare retroattivamente un termine di prescrizione che sia per l’appunto già spirato al momento in cui tale novella entra in vigore;
- laddove la legge successiva intervenga quando il termine di prescrizione del reato X è ancora in corso, se essa allunga il ridetto termine prescrizionale si pone appunto il problema della compatibilità di tale disciplina con il principio di irretroattività penale in malam partem siccome scolpito dall’art.25, comma 2, Cost. e dall’art.2, comma 1, c.p.;
- una prima tesi assume come tale rapporto sia di incompatibilità, con declinazioni interpretative diverse: e.1) la prescrizione è istituto di diritto penale sostanziale “punitivo”, al quale non può che applicarsi il divieto di irretroattività della norma penale siccome sancito da Costituzione e codice penale, compendiando esso la rinuncia dello Stato a punire il responsabile del reato di che trattasi; e.2) non occorre ricondurre la prescrizione del reato al diritto penale sostanziale, giacché il divieto di retroattività in malam partem riguarda piuttosto tutta l’area del penalmente “punitivo”, sia esso sostanziale o processuale, onde quando l’effetto dello ius superveniens e per l’appunto “punitivo”, non può che intervenire appunto il divieto di retroattività in malam partem, circostanza che si verifica proprio quando si introduce con legge un allungamento del termine di prescrizione non ancora spirato;
- una seconda tesi, opposta, assume invece che il rapporto tra l’allungamento del termine prescrizionale non ancora decorso sia di piena compatibilità con gli articoli 25, comma 2, Cost. e 2, comma 1, c.p.; ciò atteso come – se laddove il termine prescrizionale sia ormai già spirato il soggetto attivo del reato vanta un vero e proprio diritto soggettivo a vederne riconosciuta la intervenuta prescrizione – diversamente accade quando il termine ridetto non sia ancora decorso, configurandosi in tali ipotesi una mera aspettativa in capo al soggetto attivo del reato, cui è collegata la astratta speranza che la prescrizione si produca, ma non anche la certezza che essa concretamente maturi, potendo appunto essere legittimamente impedita da uno ius superveniens che ne estenda la diacronia maturativa, non essendo presente quella copertura costituzionale che invece presidia le ipotesi di termine prescrizionale ormai spirato;
- altro discorso concerne invece il canone, scolpito all’art.2, comma 2, c.p., della retroattività della legge penale più favorevole, con riguardo al caso in cui lo ius superveniens accorci il termine prescrizionale, che dunque viene a scadere prima di quanto previsto dalla disciplina precedente; occorre qui distinguere: g.1) l’ipotesi in cui il legislatore della novella non preveda alcuna espressa disciplina transitoria, fronteggiandosi due opzioni ermeneutiche contrapposte: g.1.1) chi assume la prescrizione del reato un istituto di diritto sostanziale (tesi maggioritaria), ritiene per conseguenza operante la retroattività dello ius superveniens più favorevole perché idoneo a ridurre il termine prescrizionale, dacché la punibilità del reato in considerazione subisce una riduzione del relativo torno temporale di operatività; g.1.2) chi invece assume la prescrizione del reato un istituto di diritto processuale (tesi minoritaria), ritiene per conseguenza che debba valere il principio “tempus regit actum”, onde il processo celebrato con riguardo ad un dato reato non può che essere regolato dalla disciplina precedente all’eventuale ius superveniens, ancorché più sfavorevole al soggetto attivo del reato; g.2) quando poi il legislatore prevede una espressa disciplina transitoria o intertemporale, con particolare riguardo ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella, possono porsi problemi di legittimità costituzionale delle pertinenti norme, massime laddove esse distinguano gli effetti di retroazione dello ius superveniens sulla scorta della fase processuale in cui il fatto di che trattasi si trova ad essere scandagliato dal giudice penale (ad esempio, il trovarsi prima o dopo l’apertura del dibattimento di primo grado).